Arcobaleno balcanico

Ennesimo viaggio nei Balcani tra passato e futuro, riflessioni e speranze, godendosi il presente e tutto quanto questi paesi hanno da offrire
Scritto da: Bushwag
arcobaleno balcanico
Partenza il: 19/04/2013
Ritorno il: 01/05/2013
Viaggiatori: uno
Spesa: 1000 €
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Da ormai un anno ho iniziato a viaggiare nei Balcani e chi è interessato può trovare i diari che ho dedicato alle precedenti tappe (Sofia e Macedonia; Albania, Montenegro e Kosovo).

Mancherebbe quello su Belgrado e Novi Sad che conto di scrivere prima che i ricordi svaniscano.

Ora però è il momento di raccontare un nuovo tour che ha toccato più Stati: Serbia, Croazia e Bosnia, alla quale ho dedicato la maggior parte di questo viaggio.

In passato con un’ardita metafora gastronomica paragonai i Balcani ad un panino al lampredotto.

Proseguendo lo stesso gioco in ambito alcolico, la definizione sarebbe quella di un cocktail arcobaleno, quelle deliziose miscele multistrato e multicolore, magari con i colori della bandiera jugoslava, da servire con ghiaccio in un tumbler guarnito con olivetta (la Slovenia ?).

Gli ingredienti del “Balkan rainbow” sono ottimi ma, come nei summenzionati drinks, dopo i tristi eventi degli anni novanta, non si mescolano più come in passato. Anzi da quanto ho visto e sentito in questi viaggi, ho l’impressione che si vogliano sottolineare le differenze, e si è arrivati anche alla creazione di neologismi per incrementare differenze linguistiche su quella che era una base comune.

Tanto per rimanere in tema etilico, il consumo di pivo (birra) è piuttosto elevato nei Balcani, ed ogni Stato ha le sue marche di cui è orgoglioso. Ordinare per esempio una birra Jelen (serba) in Croazia non vi creerà grosse simpatie. E’ una cosa a cui potremmo non prestare attenzione, per noi è normale bere del Nero d’Avola al Nord o del Barbera d’Asti al Sud, ma là il nazionalismo emerge anche in queste piccole cose, soprattutto in Bosnia ed in città come Sarajevo e Mostar dove la frammentazione etnica è massima ed ancora piuttosto marcata.

Il cocktail arcobaleno più famoso è il B52, nome che evoca ricordi ben più tristi di una sbornia.

In questi miei viaggi, oltre all’interesse turistico, c’era l’intenzione di vedere la voglia di dimenticare, rinascere e di divertirsi di una generazione cresciuta sotto le bombe, e senza dubbio sotto questo punto di vista le mie attese non sono andate deluse. Allo stesso tempo però è inevitabile soffermarsi sui segni, facilmente riscontrabili, del recente passato che ha ferito, smembrato ma non cancellato la bellezza di uno stato se vogliamo utopico ma funzionante, dove per cinquant’anni le differenze etniche, culturali e religiose non hanno mai costituito un problema insormontabile.

Poi qualcuno, ben supportato da televisioni ed organi di stampa, ha alimentato il populismo ed il nazionalismo fino alle estreme conseguenze che tutti noi purtroppo conosciamo.

Cocktail arcobaleno però fa anche pensare al vessillo della pace e chissà che un giorno, anche se divise, queste nazioni riescano a superare rivalità ed inimicizie per tornare a vivere in fratellanza, nella tolleranza e nel rispetto delle diversità etniche, culturali e religiose.

Questo però è un sito di turismo, per turisti. Dopo queste note introduttive, constatazioni e speranze, è venuto il momento di mettersi in viaggio e di visitare questo splendido angolo di Europa.

Per la prima volta sperimento il troppo poco utilizzato servizio Malpensa Express che puntuale mi deposita al livello sotterraneo del Terminal 1 dove si trova anche il luogo più economico per acquistare cibi e bevande in aeroporto, un piccolo supermarket un po’ nascosto, credo volutamente.

Una navetta in pochi minuti mi catapulta al Terminal 2 dove realizzo che non è una bella giornata per volare: uno sciopero del personale SEA lascia a terra, non solo moralmente, molte persone.

Con il fiato sospeso scorro l’elenco dei voli e miracolosamente il mio è uno dei pochi confermati.

Il viaggio, con Easyjet (75€ A/R), non è il massimo della comodità ma il volo dura poco.

Atterrati a Belgrado rimango sorpreso dal fatto che ci siano i pompieri a bagnarci con gli idranti.

Immagino per via di qualche guasto o principio di incendio, ma la presenza di televisioni, bandiere, hostess, autorità ed un ricco buffet a queste riservato, svelano il mistero: sono sul volo inaugurale di Easyjet sulla tratta Milano-Belgrado e forse questo fatto ha inciso sulla regolarità del medesimo.

Dribblati i soliti taxisti più o meno regolari, mi dirigo verso la fermata del bus 72, il metodo più economico per raggiungere il centro città.

All’atto di pagare il biglietto la macchina erogatrice si guasta ed a sorpresa il guidatore mi ridà indietro i soldi del ticket pur lasciandomi usufruire del servizio.

Una volta in centro mi dirigo alla stazione per comprare il biglietto del pullman che, viaggiando durante la notte, mi porterà a Sarajevo (2510 dinari; 1€=110 dinari).

E’ una giornata piuttosto calda e ne approfitto per camminare senza meta nella zona delle ambasciate, per poi chiacchierare di fronte ad un rinfrescante aperitivo con la mia amica Vanesa, conosciuta durante un precedente soggiorno nella capitale serba.

Prima di imbarcarmi sul bus mangio una sostanziosa plijeskavica accompagnata da una coca-cola (320din) e compro acqua e snacks (120din) per il viaggio, che inizia alle 22,30 e durerà tutta la notte su un mezzo quasi completamente pieno, dove non sarà facile dormicchiare anche per i controlli di frontiera.

Alle 2,30 entro in Bosnia e dopo una sosta a Pale, una città simbolo per i Serbi di Bosnia, alle 6,30 di mattina arriviamo alla stazione Istochno, meglio conosciuta come Lukavica, che si trova nella zona serba di Sarajevo. Ancora oggi infatti la capitale e la Bosnia Erzegovina tutta presentano zone etnicamente distinte, con differenze piuttosto marcate.

Ritirati i marchi (1km=0,5€) dal bancomat di un vicino centro commerciale, mi dirigo verso il capolinea dei filobus, dove salgo sul 103 (1,60km) dal quale scenderò a Skenderija.

E’ infatti troppo presto per fare check-in all’ostello, così ne approfitto per iniziare la visita della città, dedicandomi alla zona più lontana da quella in cui soggiornerò.

Il centro culturale e sportivo di Skenderija fu edificato nel 1969 in stile socialista ed ancor oggi, sebbene malandato, è luogo di aggregazione ed interessante polo culturale, ospitando il museo di arte contemporanea e, proprio in quei giorni, anche il salone del libro.

Mentre attraverso il ponte omonimo, che si dice sia stato costruito con il medesimo ferro utilizzato per la torre Eiffel, il sole del mattino, perpendicolare al corso rettilineo del fiume, trasforma la superficie del medesimo in uno specchio argentato attraversato, come graffiato, da numerosi ponti.

Mi sovvengono le parole di Ivo Andric: “I ponti indicano il posto in cui l’uomo ha trovato un ostacolo e non si è fermato, lo ha superato e scavalcato come meglio ha potuto… I ponti di Sarajevo, sul fiume Miljacka, il cui letto è una sorta di spina dorsale, rappresentano vertebre di pietra”.

Sebbene finora i ponti in Bosnia siano più stati fonte di divisione (basti pensare a Mostar) mi piace pensare a loro come ad un simbolo di unione per superare distanze ed ostacoli socioculturali ed ancora una volta ritorna l’immagine dell’arcobaleno, il ponte più poetico che si possa immaginare.

Dopo pochi minuti raggiungo la moschea di Ali Pasina (1560) che da molti è considerata forse la più bella ed armoniosa della città sebbene abbia perso gran parte dei suoi ornamenti estetici e sia oggi priva di ornamenti all’interno.

Scorgo poi una sagoma squadrata dagli insoliti colori giallo-marrone…si tratta dell’inconfondibile hotel Holiday-Inn. Costruito in occasione delle Olimpiadi invernali del 1984, fu l’unico albergo rimasto aperto durante gli anni dell’assedio per ospitare i corrispondenti di giornali e televisioni provenienti da tutti i paesi del mondo.

Nei pressi si trovano altri due simboli di quel triste conflitto: le cosiddette twin-towers, allora facile bersaglio, oggi tornate all’antico splendore, ma sovrastate in altezza dalla nuovissima Avaz tower.

Uno dei luoghi più toccanti è il ponte Vrbanja, di scarso valore architettonico ma di grande valore storico. Qui caddero le prime vittime dell’assedio: due ragazze centrate da cecchini serbi il 06/04/92. Un anno dopo venne colpito a morte un pacifista italiano, Gabriele Moreno Locatelli, proprio durante una piccola ed inoffensiva manifestazione volta a ricordare la memoria delle due giovani, con la deposizione di un mazzo di fiori.

Le vittime in guerra appartengono spesso allo schieramento più indifeso, quello di chi la guerra non la vuole e addirittura talvolta osa “provocare” i belligeranti con atteggiamenti di pace e fratellanza.

Attraversare il largo viale Zmaja od Bosne per andare verso la stazione mi fa tornare alla mente le immagini dei civili attraversare queste strade, inermi bersagli mobili, vittime della guerra e del gioco sadico e perverso dei cecchini.

Verificati gli orari dei bus per escursioni che ho in programma nei giorni successivi, è giunto il momento di fare colazione e di immergermi nella cucina bosniaca, così, tanto per stare leggero, mi mangio un enorme piatto di cevapcici serviti con kajmak (una sorta di formaggio cremoso che ammorbidisce carne e pane), cipolle e somun (il tipico pane schiacciato bosniaco) accompagnati da una tazza di the (spendo in tutto 8km).

Approfitto della vicinanza della Avaz tower per godermi una vista mozzafiato ed a 360 gradi della città, dalla terrazza panoramica posta a 150 metri d’altezza.

Ritorno verso il “viale dei cecchini” per visitare il museo di storia (4km) che ancora oggi porta, volutamente, ad imperitura memoria, i segni oltraggiosi di proiettili e granate.

Vi sono custoditi documenti sulla storia bosniaca, dagli albori ai giorni nostri, con particolare spazio ed attenzione al periodo dell’assedio a cui fu sottoposta Sarajevo dal ’92 al ’95.

Va ricordato che si tratta del più lungo assedio della storia moderna, durante il quale persero la vita circa 12.000 persone ed oltre 50.000 vennero ferite gravemente.

Il patrimonio architettonico e culturale della città subì danni irreparabili, basti ricordare l’incendio della biblioteca nazionale in cui andarono perse migliaia di volumi azzerando secoli di testimonianze storiche, culturali e religiose di quella che da sempre è considerata una sorta di Gerusalemme d’occidente per la secolare convivenza pacifica di tutte le religioni monoteiste.

Tutti gli abitanti della città riportarono in qualche modo profonde ferite non solo fisiche ma anche e soprattutto psicologiche, costretti a vivere nella paura e nel disagio per anni, ma un visitatore distratto, ignaro della storia recente, potrebbe benissimo non accorgersene perchè la popolazione ha dimostrato, sia durante che dopo l’assedio, grande forza d’animo e capacità di reagire.

Ricordo di aver letto prima del mio viaggio “Maschere per un massacro” opera di un grande giornalista e scrittore italiano, Paolo Rumiz, in cui l’autore sottolineava le differenze culturali e sociologiche tra assediati ed assedianti, evidenziando come uno dei segreti della resistenza di Sarajevo fosse legato all’autoironia, all’elevato livello culturale medio, ed alla tolleranza religiosa della maggioranza della popolazione.

Dopo aver visitato la città e conosciuto un po’ di persone, credo di aver capito a cosa si riferisse, e trovo questo spirito ben sintetizzato nell’opera fotografica di Sejla Kameric “Bosnian girl”.

In tarda mattinata raggiungo il Travellers’ home hostel, scelto perchè in posizione strategica, a due passi dalla Bascarsija, piccolo, tranquillo, pulitissimo ed anche molto economico (20km per posto letto, colazione inclusa). I ragazzi della reception poi sono l’autentico valore aggiunto dimostrandosi gentili e fonte inesauribile di informazioni, capaci di soddisfare anche la mia morbosa curiosità.

E’ così per esempio che vengo anche a sapere che in serata ci sarà una partita di calcio della locale gloria calcistica, il club Zeljeznicar, alla quale non mancherò di presenziare.

Prima dei divertimenti, do però la precedenza alla conoscenza della città iniziando dalla visita della galleria fotografica “11/07/1995” (10km), data che ricorda il genocidio di Srebrenica.

Qui si trovano testimonianze fotografiche e video di quanto accadde in quei giorni, durante i quali migliaia di persone, convinte di aver trovato rifugio e protezione nella sede dei Caschi Blu, vennero brutalmente eliminate. Consiglio la visita a chi ne vuole sapere di più di quella oscura pagina di storia, ma la sconsiglio alle persone facilmente impressionabili per la crudezza delle immagini.

La galleria si trova proprio accanto alla Cattedrale cattolica, costruita a fine ‘800 in un mix di neogotico e romanico, con due campanili nella facciata e tre navate interne.

All’esterno, su un lato è visibile una delle “rose di Sarajevo”, si tratta di chiazze rossastre in corrispondenza di luoghi in cui le granate portarono morte e distruzione. Molte sono state cancellate alcune, sbiadite, resistono nel tempo, ma uno dei ricordi più incancellabili di quelle stragi lo si trova poco lontano, attraversando mule Mustafe Baseskije (via percorsa dai tram che costituisce uno dei confini dell’antico quartiere ottomano) per giungere al mercato popolare Markale. Qui le granate colpirono tre volte i cittadini inermi uccidendo complessivamente più di cento persone.

Visitando il mercato al pomeriggio, quando c’è poca gente e molti banchi hanno già chiuso, è più facile concedersi un momento di raccoglimento, pregare o semplicemente riflettere sulla vita.

Al contrario, al mattino, travolti da colori, profumi, voci e gente in movimento, potreste quasi non fare caso ad una delle granate, ancora conficcata nell’asfalto, od alla parete che riporta l’elenco delle vittime. Ancora una volta emerge il carattere di Sarajevo: travolta dalla ferocia e dalla tragedia, ma capace di guardare avanti senza comunque scordare il passato.

In piazza Oslobodjenje si trova la scacchiera gigante attorno alla quale si radunano decine di persone per assistere e consigliare i giocatori che si sfidano da mattina a sera.

Intorno ci sono delle belle aiuole, busti di artisti e poeti bosniaci e la statua “l’uomo interculturale salverà il mondo” sul cui sfondo si staglia la sagoma della cattedrale ortodossa (1868) in stile tardo russo barocco con cupole in stile bizantino, la cui iconostasi, in legno massiccio fu donata dallo Zar.

La via pedonale Feradhija luccicante di negozi e bar affollati mi porta alla fiamma eterna che commemora i caduti della seconda guerra mondiale.

Da qui proseguo e mi dirigo verso la collina di Kosevo, in gran parte riconvertita a cimitero, di fronte alla quale si trovano i palazzoni in stile socialista di Ciglane con i loro singolari ascensori simili a dei toboga di luna park. Nel mezzo, in parte riparato sotto un ponte, c’è uno dei mercati più popolari della città e ne approfitto per comprare un po’ di frutta a prezzo irrisorio.

Da Skenderija prendo il tram per raggiungere lo stadio che si trova nel quartiere di Grbavica e che durante la guerra si trovava proprio sulla linea del fuoco. Ciò è testimoniato anche dai numerosi danni strutturali ancora visibili in gran parte dei palazzi che si trovano nei dintorni.

L’atmosfera allo stadio è gioiosa; il calcio anche qui è molto importante e la partecipazione del pubblico sugli spalti è molto calorosa anche nella curva dei tifosi più tranquilli in mezzo ai quali prendo posto (8km per il biglietto d’ingresso).

Il match tra Zeljo e Celik terminerà sul risultato di 1-1, da segnalare una papera clamorosa del portiere locale ed un rigore sbagliato dall’idolo dei tifosi, ma il club dei ferrovieri (questo è il significato della parola Zeljeznicar) rimane in testa alla classifica ed i tifosi sono soddisfatti.

La mattina seguente, attraversata la Miliacka, provo a visitare la grande Sinagoga Ashkenazita, unico tempio ebraico attualmente attivo in Bosnia, che si trova quasi di fronte al mio ostello, ma come capita spesso la trovo chiusa, proseguo quindi su quella sponda del fiume dove la concentrazione di case è inferiore e dove si trova più verde, in mezzo al quale desta la mia attenzione un edificio di legno: il music hall che, come lo stile di alcuni palazzi, testimonia il periodo della dominazione austriaca, durante la quale è giusto ricordare che Sarajevo fu tra le prime città europee dotate di illuminazione pubblica elettrica e di una rete ferroviaria.

Passo davanti al Ponte Latino, luogo dell’attentato ai danni di Francesco Ferdinando d’Austria, erede al trono di Francesco Giuseppe, che fornì il casus belli per lo scoppio della prima guerra mondiale. Scomparso il calco delle scarpe di Gavrilo Princip, l’attentatore, a ricordare quell’avvenimento rimane solo una targa piuttosto anonima sul muro di un palazzo.

Più avanti, passando nei pressi del birrificio Sarajevsko, entro nella chiesa cattolica di S.Antonio.

L’edificio è imponente, ma l’interno è piuttosto spoglio con alcuni recenti e moderni affreschi, ed il giovane officiante somiglia clamorosamente al Gesù dipinto alle sue spalle.

A pochi passi, la moschea dello Zar (1462) è uno dei luoghi di culto più grandi di Sarajevo ed è caratterizzata dalla sovrapposizione di diversi stili. Nell’attiguo cimitero si trovano le tombe più vecchie della città.

Ultimo edificio di pregio di questa passeggiata sul lato sinistro del fiume è la Inat Kuca, o casa della ripicca, il cui proprietario acconsentì a che venisse spostata solo a patto che fosse ricostruita identica. Oggi ospita un ristorante di cucina tradizionale bosniaca e si trova accanto al fiume, quasi di fronte alla Biblioteca Nazionale in stile moresco, che al momento è ancora chiusa ed in rifacimento, ma il cui prezioso contenuto, come detto prima, è andato perso per sempre.

Passando il ponte e tornando sulla sponda destra della Miliacka ci si ritrova in quello che è il cuore pulsante di Sarajevo: la Bascarsija, il quartiere dove si trovano le botteghe artigianali, ristoranti tipici, edifici di culto ed il celebre Sebilj, la fontana nel centro della piazza dei piccioni (facile capire perchè si chiama così) abbeverandosi alla quale si dice che si ritornerà a Sarajevo.

Mi aggiro per i vicoli del bazar studiando i possibili souvenir ed i relativi prezzi che, va detto, qui sono sempre trattabili, anzi la contrattazione è quasi un dovere più che un diritto…

Tra gli articoli di maggior pregio vanno segnalati il rame e l’argento finemente lavorati, ma anche tessuti e tappeti, mentre io per questioni di spazio (viaggio con solo il bagaglio a mano) e di portafoglio devo orientarmi verso qualcosa di più piccole dimensioni ed a buon mercato.

Ammiro la moschea di Bascarsija, dal bel giardino e dal cui minareto i fedeli vengono ancora chiamati alla preghiera dal muezzin in persona e non dagli altoparlanti come invece accade quasi ovunque, poi mi incammino lungo via Saraci.

Dapprima visito il Morica Han, una zona commerciale (bar e negozi) che sfrutta gli spazi ben conservati di un vecchio caravanserraglio, poi mi dedico al complesso del Gazi Husrev vakuf.

La moschea (1530) è l’unico esempio di moschea multispaziale nell’ex-Jugoslavia ed i restauri hanno cercato di replicare fedelmente l’originale. Entrando si trova subito l’ottagonale fontana coperta (sadrvan) per le abluzioni. Nel cortile ci sono due turbe, mausolei funerari, uno dei quali custodirebbe alcuni peli della barba di Maometto.

Di fronte si trovano la madrasa e la tekija Hanikijah che oggi ospita eventi culturali.

Poco oltre la squadrata torre dell’orologio (sahat kula) segna l’ora lunare e nel vicolo accanto si trovano non solo i bagni pubblici Begove hale, funzionanti dal 1529 (fatto salvo il periodo dell’assedio negli anni novanta), ma anche il bezistan, un mercato coperto a forma di basilica che ospita negozi di souvenir purtroppo in gran parte di sospetta provenienza cinese.

Per il pranzo decido di seguire il consiglio dei ragazzi dell’ostello e mi reco da Sac, dove a loro giudizio si mangia il miglior burek di Bosnia. Il piccolo locale prepara il burek nella maniera più tradizionale, cuocendolo nel sac, una pentola ricoperta di brace, ed il risultato è strepitoso.

Spazzolo velocemente un’enorme doppia porzione agli spinaci, servita con abbondante pavlaka, ed accompagnato con yogourt da bere (6km).

Fatto il pieno di energie affronto la ripida salita che porta verso il Bastione giallo e la Fortezza di Vratnik, passando per il Cimitero degli Eroi, dove, tra tante vittime dell’assedio, riposa anche l’ex presidente bosniaco Alija Izetbegovic.

Raggiunto il Bastione, che consente una splendida vista sulla città, trovo il luogo molto affollato.

Lì per lì la cosa mi infastidisce, ma poi realizzo che si tratta di una scuola italiana in gita ed a raccontare loro il periodo dell’assedio è niente meno che Jovan Divjak.

Quest’uomo divenne famoso in quanto pur di origine serba, “tradendo” l’esercito jugoslavo in cui era arruolato, si schierò fin dal principio a difesa della città, alla quale ha dedicato anche un libro (Sarajevo mon amour) ed alla quale continua ad offrire il proprio contributo svolgendo attività presso numerose organizzazioni attive in ambito sociale e culturale.

Inutile dire che i suoi racconti, si rivelano molto interessanti, anche perchè il soggetto in questione è dotato di doti istrioniche che lo rendono un divertente e piacevole interlocutore.

Termino la giornata trasferendomi nella parte opposta di Sarajevo per raggiungere, sulle alture vicino al ponte Vrbanja, il vecchio cimitero ebraico, luogo panoramico ed affascinante ma allo stesso tempo inquietante visto che veniva usato come postazione dai cecchini serbi.

Di ritorno verso l’ostello faccio sosta alla Fiera del libro in corso di svolgimento presso il centro Skenderija. Manca poco alla chiusura ma riesco a rintracciare e comprare (19km) un interessante volumetto in inglese che racconta in modo ironico e brillante la capacità di sopravvivenza della popolazione durante l’assedio: Sarajevo survival guide.

Per cena vado al buregdzinica Bosna che a detta di molti, guida Lonely Planet inclusa, pare prepari i migliori burek di Sarajevo. Pur trovando il loro prodotto molto buono ed economico (5,5km per due porzioni, una al formaggio e una alle patate accompagnate da yogourt), devo dire che io la penso come i ragazzi dell’ostello e che quello di Sac sia migliore, soprattutto più morbido, tanto da sciogliersi in bocca. Come al solito i consigli dei locals raramente sono sbagliati…

I due locali sono a poche decine di metri l’uno dall’altro e se vi va di fare un confronto è semplice oltre che piacevole testare entrambi e trarre le proprie conclusioni.

Preso nella spirale eno-gastronomica mi dirigo verso il birrificio Sarajevsko che ha un pub-ristorante peraltro piuttosto elegante, con interni in legno, foto d’epoca ed oggetti d’antiquariato.

Assaggio la birra scura (4km una media) che si rivela essere eccellente.

Sorseggio un the, sono di fronte alla piattaforma numero 11 e sto attendendo di salire sul bus che puntuale, alle ore 7,10 partirà alla volta di Srebrenica (35km A/R). L’autoscatto che mi faccio mostra un viso teso e pensieroso…sto per visitare un luogo dove pochi anni fa si è vissuto l’inferno in terra. Qui tra l’11 e il 17 luglio 1995 vennero massacrati più di 8000 civili bosniaci che credevano di aver raggiunto la salvezza accampandosi nei pressi della base dei Caschi Blu, i quali trovatisi circondati dalle truppe serbe lasciarono invece via libera agli uomini del generale Mladic.

Il memoriale del genocidio si trova a Potocari, alcuni chilometri prima di Srebrenica, per cui occorre segnalare l’intenzione di visitarlo all’autista che effettuerà una fermata a richiesta.

Appena entrati si è accolti da una moschea in stile modernista, di fronte alla quale una lunga parete marmorea a parabola riporta l’elenco dei caduti e fa un po’ girare la testa creando un senso di nausea che ti inebetisce per poi farti annegare in un oceano bianco di steli funerarie.

Quando si vedono lapidi di ragazzini anche di 14-15 anni il colpo allo stomaco è forte, da KO.

Sono lì da pochi minuti quando vedo arrivare un autobus italiano, mi sento fortunato perchè immagino abbiano prenotato una visita guidata al centro, e così è…peraltro si tratta della stessa scuola incontrata ieri al Bastione giallo, sono di Vimercate, e scambiata qualche parola con i professori ottengo il permesso di potermi aggregare a loro.

Ciò mi consente di assistere alla narrazione dei fatti da parte di un professore locale che lavora per il memoriale del genocidio, di accedere a numerose aree che avrei normalmente trovato chiuse, tra cui alcuni dei capannoni in cui vennero stipati i civili bosniaci prima di separare donne, anziani e bambini sotto i 14 anni da coloro che in poche ore sarebbero andati incontro alla mattanza.

Il tour si chiude con la proiezione di un documentario che avevo già trovato su internet in versione integrale (qui ne passano una versione ridotta di circa 30′).

All’ora di pranzo la scuola con il suo bus muove verso Srebrenica per fare sosta al ristorante.

I professori gentilmente mi chiedono se voglio unirmi a loro, ma preferisco declinare l’invito.

Ho con me una barretta energetica, e poi in quel momento, in quel luogo, proprio non ho fame.

Rimango così all’interno dell’area e indisturbato giro liberamente in zone che immagino siano interdette ai turisti…respiro un’aria di morte, di disperazione, di follia ed il clima improvvisamente asseconda questo mio sentimento: si alza un forte vento e comincia a piovere, il cielo è plumbeo ed il silenzio assoluto è rotto solo dal sinistro clangore di infissi rotti e lamiere piegate mossi dal vento.

Per quasi due ore visito ogni luogo in cui sia possibile entrare senza forzare delle porte chiuse, salgo anche la pericolante scala antincendio fin sul tetto di uno degli edifici, e trovo gran parte dei graffiti opera dei caschi blu olandesi prima del precipitoso abbandono della postazione.

Scritte e soprattutto disegni mostrano un certo talento artistico di quei militari, di certo superiore al valore militare… ad ispirarli sentimenti di indifferenza, noia, rabbia, paura, a seconda del momento vissuto dalle truppe qui di stanza. Non trovo però il famoso “No teeth? a moustache? smells like shit? Bosnian girl!” un insulto gratuito che l’ironia e la cultura di una giovane artista bosniaca, trasformeranno in icona di arte fotografica qualche anno dopo.

Tornato a Sarajevo per ora di cena, una leggera pioggerella mi accompagna fin sulla soglia del ristorante Galatasaray, in Bascarsija. L’atmosfera è strana, ci siamo solo io ed una ragazza russa taciturna, visibilmente triste, mentre il titolare che sembra abbia un po’ esagerato con l’alcool, ha voglia di chiacchierare e di ricordare il suo passato di calciatore professionista.

Per fortuna della cucina si occupa la moglie ed i cevapi (12km) sono all’altezza della reputazione del locale che peraltro è arredato con gusto, in stile tradizionale ottomano, bello da vedere ma un po’ scomodo per le nostre abitudini e posture occidentali.

All’uscita la pioggerella mi ha atteso pazientemente, in giro c’è pochissima gente, così decido di tornare in ostello dopo essermi mangiato un croissant (1km) in un forno aperto tutta la notte che si trova proprio di fronte alla piazza dei piccioni ed alla fontana del Sebilj.

Sono nuovamente alla stazione degli autobus, questa volta la destinazione, raggiungibile in poco meno di due ore, è Travnik (24km A/R), cittadina tra i monti famosa per alcuni edifici di pregio ma soprattutto per essere il luogo di nascita del premio nobel Ivo Andric, il più famoso scrittore jugoslavo del secolo scorso, le cui opere sono utili a comprendere lo spirito e la società bosniaci.

Lungo la via Bosanska, a poche decine di metri dalla stazione dei bus, si trovano le turbe (monumenti funerari) dei visir, una piccola moschea, i giardini pubblici, ma soprattutto la moschea multicolore, caratterizzata da vivaci affreschi e da un porticato che ospita un bazar, fonte di sostentamento economico della moschea stessa.

Attraversando una strada piuttosto trafficata, sia da autoveicoli che da cani randagi, e passando accanto alla sahat kula (torre dell’orologio), si sale verso la fortezza che sorge in posizione dominante e che si raggiunge attraverso un alto ponte di pietra sovrastante un torrente impetuoso.

Il mastio centrale, ben conservato, ospita un piccolo museo storico ed i bastioni offrono una notevole vista sui dintorni. Non si tratta di un luogo particolarmente emozionante ma consiglio comunque la visita visto che l’ingresso al castello (museo incluso) costa solo 2,5 marchi.

Dai bastioni si scorge tra le altre cose il plava voda, un torrente con ponticelli in pietra e numerosi ristoranti specializzati in trote alla griglia che invitano alla sosta ed al pranzo.

Io invece opto per una soluzione diversa.

Siccome Travnik dà anche il nome ad uno dei formaggi più famosi di Bosnia, ed essendo io molto goloso di prodotti caseari, ne approfitto per alcune degustazioni ed alla fine scelgo un paio di versioni (una giovane, ed una più stagionata ed affumicata) che sbocconcellerò accompagnandole a pane di mais, seduto su una panchina del parco mentre osservo il passaggio della popolazione locale. Noto dall’abbigliamento delle donne un maggior radicamento dell’islam rispetto a Sarajevo. Dopo questo gustoso ed economico spuntino (5km per formaggio, pane ed un krapfen) prendo il bus delle 15,40 per Sarajevo, dove arrivo giusto in tempo per concedermi un po’ di shopping prima di andare a cena, ben consigliato in ostello, al ristorante Dzenita.

Mentre il televisore mostra impietoso il crollo del Barcellona nella sfida di semifinale di Champions League contro il Bayern Monaco, sul mio tavolo arrivano una zuppa d’orzo (jecmena supa) ed i famosi sogan dolma (cipolle ripiene) che gusto fino all’ultima briciola di pane utilizzata per fare scarpetta nel piatto. Terminato il cibo e il the d’accompagnamento, è il momento del mio primo vero bosanska kava! Il caffè in Bosnia è quasi una religione e di sicuro è un rito sociale, e finalmente è giunta l’ora di provarlo. In una elegante presentazione vengono serviti una tazzina con zollette di zucchero, un piccolo bric con il caffè e, talvolta, un dolcetto di gelatina (rahat lokum).

Mi è stato detto che nel bric, la crema in superficie deve essere abbondante e persistente, in quanto è una sorta di indice di gradimento dell’ospite. Versato il caffè nella tazzina occorre aspettare qualche istante per lasciar depositare meglio il fondo, poi si immerge un angolo della zolletta, ed imbevuta di caffè la si morde e si sorseggia poi il liquido denso e nero tenendo un pezzo di zucchero in bocca.

Quasi inevitabilmente un po’ di fondo del caffè arriverà al palato, poco male, lo sciacquerete via con acqua e con il sapore dolce del lokum.

Il resto del fondo, capovolto su un tovagliolo, potrebbe anche essere letto per predirvi il futuro.

In fatto di bevande, un altro ruolo di primo piano in tutti i Balcani, Bosnia inclusa, è la rakija.

Il Barhana, bar-ristorante in un vicoletto di Bascarsija, vanta una delle migliori selezioni.

Scelgo la rakija alla pera (3km) che viene servita in un bicchierino ghiacciato dal collo molto stretto. Degustarla lentamente è un piacere anche perchè il locale è carino, la scelta musicale azzeccata e, cosa sempre gradita, ci sono un sacco di belle ragazze.

Quale è il modo migliore per iniziare l’ultima giornata a Sarajevo ?

Ovviamente visitare alcuni mercati: colori, sapori, voci, genti, assaggi in un mix che coinvolge tutti i nostri sensi, quasi fino a stordirli per poi riprendersi con un bel caffè in una caffetteria popolare.

Al mercato coperto Gradska Trznica i banchi espongono latticini e salumi, impossibile non degustare alcuni prodotti offerti dai gentili venditori che addirittura si prestano a scattarmi una foto ricordo dietro al bancone mentre affetto un sujuk, con una singolare inversione dei ruoli.

Ritorno al Markale che ora, di prima mattina, è quasi irriconoscibile rispetto alla mia visita pomeridiana. Qui si trovano soprattutto frutta e verdura ma nelle vie accanto al mercato alcune persone espongono sulla strada anche generi diversi, in particolare articoli per la casa.

Il caffè di fronte al mercato ha prezzi e frequentazioni molto popolari, mi ci trovo a mio agio mentre osservo la gente, dentro e fuori il locale, sorseggiando il mio scuro bosanska kava (1km).

Camminando lungo Mustafe Beseskije passo dietro alla cattedrale cattolica ed accanto all’Hammam che oggi non è più in funzione ma è stato trasformato in spazio espositivo. Poi è il turno della Sinagoga Sefardita (1821) dall’interno in pietra spoglio ma suggestivo, che ospita una copia dell‘Haggadah di Sarajevo, un testo sacro miniato di valore inestimabile e sopravvissuto miracolosamente a guerre, invasioni, saccheggi e distruzioni.

Altri cento metri, altro luogo di culto ed altra religione: l’antica chiesa ortodossa (1539) dalla struttura semplice ed austera, a pianta rettangolare, su due piani. Al primo c’è una splendida iconostasi del 1674, al secondo oltre a balconi in ferro che si affacciano sulla sala centrale, c’è il sarcofago di un bambino che è oggetto di pellegrinaggi da parte di fedeli che stanno per avere o vorrebbero avere un figlio. C’è anche un museo che custodisce non solamente icone, stampe, paramenti sacri ma anche foto e testimonianze della discriminazione subita dai serbi in Kosovo negli ultimi anni.

Ancora una volta passo di fronte alla piazza dei piccioni, ancora una volta mi disseto al Sebilj (stando alla tradizione popolare dovrei tornare a Sarajevo decine di volte…) e poi affronto la salita che mi porterà alla Casa Svrzo (3km) un autentico gioiello splendidamente conservato. Si tratta dell’abitazione di un’agiata famiglia islamica che consente di tornare indietro nel tempo di alcuni secoli ed immaginare scene di vita domestica. Deposto il fez, stanco dopo una giornata di contrattazioni al bezistan, ero nella camera da letto, pronto per entrare nella doccia addossata al camino e nascosta da una griglia in legno scuro (ammirevole la ricerca di igiene e pulizia anche in tempi in cui non erano generalmente prioritarie) quando una numerosa comitiva di turisti giapponesi rompe la magia della visione e mi riporta al 2013 in veste di turista.

Oltre alle camere da letto con box doccia ed acqua riscaldata, sono stato colpito dalla sala da pranzo e dal portavivande girevole utilizzato dalle donne per passare cibi e bevande agli uomini in presenza di estranei ospitati nel selamluk, la parte maschile dell’edificio.

Poco lontano si trova la Hadzi Sinanova Tekija, famosa soprattutto per le antiche e preziose calligrafie rinvenute nell’atrio, ma il portone dell’austero edificio in pietra era chiuso e non me la sono sentita di provare a disturbare i dervisci che comunque pare siano normalmente molto disponibili ed ospitali con i turisti.

Al contrario ho visitato la Casa Despic (3km) che ho trovato meno affascinante della Svrzo, ma che essendo un curioso mix di stile asburgico e bizantino, è una bella testimonianza della secolare convivenza ed integrazione di culture e religioni diverse a Sarajevo.

Ancora una volta trovo chiusa la Sinagoga Ashkenazita, ma visto che è ora di pranzo decido di provare l’economico ristorante della Benevolencija, un’associazione ebraica che offre assistenza ai bisognosi. Il locale al pari delle persone, soprattutto anziane, che lo frequentano è sicuramente dignitoso, c’è anche un pianoforte che un ospite strimpellerà per alcuni minuti ed un maxi-televisore che sfortunatamente trasmette in replica la sconfitta del Toro a Firenze.

Il servizio è al tavolo e dopo aver scelto dal menu, il gentile e disponibile cameriere mi porta la zuppa del giorno, e poi petto di pollo impanato con patate al forno ed insalata di cavolo.

Le porzioni sono molto abbondanti e bevendo acqua spendo solo 6 marchi.

Dopo una sosta in ostello durante la quale incontro dei turisti italiani ai quali do informazioni su come raggiungere Srebrenica, inizio a preparare lo zaino visto che l’indomani partirò molto presto.

Per far venire ora di cena scelgo di andare allo stadio Kosevo per assistere alla partita del Sarajevo FK. Assiterò ad uno spettacolo piuttosto deludente, sotto un sole rovente e su spalti semideserti, per cui esco in anticipo e decido di vendicarmi cenando al ristorante Zeljo (dal nome dell’altro, e principale, club della città) i cui cevapi (8,5km per 10 pezzi con kajmak) sono davvero buoni.

Per il dolce invece, su solita indicazione dei ragazzi dell’ostello, vado alla pasticceria Ramis, sempre in zona Bascarsija, dove faccio il pieno di zuccheri con tufahije (mela cotta ripiena di noci e panna) e hurmasice (una sorta di biscotto imbevuto di sciroppo), bevo cappuccio e spendo 9,5km.

Torno in ostello appena in tempo per vedere il ciclone giallonero Lewandowski che come una furia si abbatte, sgretolandolo, sul glorioso Real Madrid dello “Special one” tra le urla di giubilo di alcuni ospiti tedeschi che hanno di certo parecchia birra in corpo.

Il treno per Mostar lascia Sarajevo alle 6,50 dal secondo binario, sebbene il tabellone delle partenze suggerisca di recarsi al primo.

Il convoglio è piuttosto affollato, temendo il tabagismo bosniaco cerco una carrozza non fumatori e ne trovo una di prima classe, ma il controllore mi fa segno che non c’è problema sebbene il mio biglietto (10km sola andata) sia di seconda.

I vagoni sono dono del governo svedese e sebbene siano piuttosto datati, le poltrone sono ampie e comode e l’abbondanza di finiture in legno dà quasi l’impressione di essere su una carrozza d’epoca mentre il treno attraversa splendidi paesaggi, costeggiando spesso il corso della Neretva.

Clamorosamente il treno, famoso per ritardi anche consistenti, arriva a Mostar in leggero anticipo.

Qui ad aspettarmi c’è Majda che gestisce l’omonimo ostello (16km posto letto e colazione).

Mentre attendiamo suo fratello “Bata” che ci guiderà in una lunga escursione nei dintorni, mi offre la colazione che comprende anche una deliziosa frittata appena cucinata. Ne approfitto per fare conoscenza con i compagni di gita: due ragazzi americani ed una coppia neozelandese che da undici mesi è in giro per il mondo e che continuerà per almeno ancora tre mesi.

Prima di partire Bata ci racconta alcune cose sulla storia della Bosnia e soprattutto sul recente conflitto, incluso il modo rocambolesco in cui riuscì a fuggire, nascosto in un’ambulanza, per trasferirsi in Svezia dove ha vissuto alcuni anni facendo il taxista.

Con il suo van effettua un giro di perlustrazione per Mostar in modo da farci vedere un po’ tutto (tranne ovviamente la zona pedonale…) lasciandoci così la possibilità di approfondire poi per nostro conto la conoscenza della città. Io mi annoto tra le cose da rivedere il palazzo dei cecchini ed un enorme monumento titino ai partigiani che sebbene o forse proprio perchè enorme ed in stato di abbandono esercita su di me un fascino particolare, forse quello di un’utopia, di un sogno spezzato.

Facciamo sosta in una buregdzinica e prima di passare alla degustazione (3km), ci consentono di entrare nel retro ed assistere alla preparazione di questa delizia balcanica che in Bosnia raggiunge i suoi massimi livelli espressivi soprattutto quando la cottura, come in questo caso, avviene nel Sac.

Questo pieno di energie ci servirà per affrontare una lunga ed elettrizzante giornata.

Si scrive Medjugorije, si legge Italia… sono l’unico cattolico a bordo, quindi la sosta non è molto lunga e forse è meglio così perchè respiro nell’aria una fastidiosa atmosfera più da gita parrocchiale fuori porta che da pellegrinaggio vero e proprio, solo che qui pensioncine e ristoranti con menu a prezzo fisso sostituiscono il pranzo al sacco con panino ripieno di cotoletta o di frittata.

A farti sentire a casa contribuisce anche l’abbondanza di aziende vitivinicole nei dintorni.

Le facce, le espressioni ed i discorsi (qui l’italiano è la lingua franca, i turisti pagano in euro, insomma come essere alla Madonna della Guardia…) li trovo ben diversi da quelli che vidi ed ascoltai da ragazzino a Lourdes dove, sebbene in mezzo a tanto commercio, la sofferenza e la fede vengono comunque alla luce in modo netto.

Cedendo al febbrile e contagioso consumismo religioso, compro un bel rosario, semplice, fatto con un filo di corda e le bacche di un cespuglio che cresce in zona, ed è già tempo di ripartire per una meta meno esoterica ma più esotica: le cascate di Kravice.

E’ una splendida giornata di sole, e la temperatura è ben al di sopra delle medie del 25 aprile, ma le piogge primaverili hanno gonfiato parecchio il fiume e le tonanti cascate offrono uno spettacolo bellissimo di spruzzi, vapori, schiume e arcobaleni.

Dopo averle mirate, ascoltate, rimirate e sfiorate, decidiamo di assaggiarle.

Dal tetto di un bar ancora chiuso, ci tuffiamo nel lago che raccoglie le acque finalmente placide e stanche dopo il lungo e fragoroso precipitare. Particolarmente brillanti sono i tuffi dei due americani che, non a caso, l’indomani si lanceranno nella ben più gelida Neretva dallo Stari Most di Mostar (sono circa 25 metri di salto…roba da pazzi…).

Festeggiamo le nostre acrobazie con alcuni drink alcolici e poi raggiungiamo Pocitelj.

Si tratta di una splendida roccaforte ottomana, in posizione dominante sulla Neretva.

Negli anni 70 divenne anche sede di una comunità di artisti. Dopo anni di abbandono e saccheggio durante la guerra degli anni novanta, molte case in pietra sono state ristrutturate ed il borgo, tuttora quasi disabitato, è pittoresco, quasi magico quando cala il tramonto.

Prima di ripartire Bata ci porta a fare visita ad un’anziana signora, la prima persona a tornare ad abitare a Pocitelj, la quale ci offre dolciumi, frutta fresca e secca, caffè bosniaco e alcuni sciroppi fatti in casa dei quali dobbiamo indovinare l’ingrediente (salvo l’onore del gruppo individuando il succo di melograno). Ovviamente ricambiamo l’ospitalità raccogliendo una piccola somma che andrà ad integrare la misera pensione percepita da questa simpatica vecchina.

Saliamo sul Van al volo (nel vero senso della parola…l’estroso Bata ha sempre sorprese per stupire i suoi clienti, ed i 55km richiesti per il tour “bosnian spirit” sono ben spesi) ed avvolti da luci stroboscopiche e musica turbofolk sparata al massimo volume ci dirigiamo verso una destinazione che al contrario invita al silenzio ed alla meditazione.

Giungiamo a Blagaj quando è ormai buio: la sagoma del monastero derviscio, la parete rocciosa che lo sovrasta e la grotta da cui sgorga l’impetuoso fiume Buna, appena si intuiscono, ma sia io che i neozelandesi cogliamo l’atmosfera del posto, ed i racconti sui dervisci ed i loro riti ci spingeranno a tornare l’indomani per vivere il luogo anche alla luce del sole.

Dopo dodici ore facciamo ritorno a Mostar, stanchi ma affamati, e tutti insieme andiamo a cenare.

Qui si metterà in mostra il kiwi Brayden, dalla barba lunga undici mesi e migliaia di chilometri, il quale divorando in scioltezza cinquanta cevapi (salsiccette grandi come un dito) stabilirà il record degli ospiti dell’ostello polverizzando il precedente limite.

In tarda mattinata, dopo una passeggiata per le vie del centro, prendo il bus numero 10 (2km) che in circa mezz’ora mi porta a Blagaj. Nel piccolo mercato del paese alcune bancarelle vendono formaggi, compreso il famoso “formaggio nel sacco” così chiamato perchè stagionato all’interno di una pelle di pecora. Ciò consente di creare forme di formaggio anche di settanta chilogrammi che nell’aspetto ricordano vagamente una zampogna.

Nei mercati dei Balcani gli assaggi sono un obbligo ed ovviamente non mi tiro indietro.

Avevo già degustato questo prodotto alla rassegna biennale Cheese, ma francamente non ne ricordavo il gusto che si rivela saporito e sapido, una via di mezzo tra grana e pecorino.

Compro un paio di etti di formaggio, una pagnotta e mi incammino lungo la strada che sale alla fortezza sovrastante Blagaj. Il sentiero è ripido ed il sole rovente, ma una volta in cima posso godermi lo spettacolo di una splendida vista che spazia dalle fertili valli della Buna e della Neretva da un lato, agli aspri rilievi carsici quasi completamente privi di vegetazione dall’altro.

Mi godo il panorama e i ruderi della fortezza in beata solitudine, ed ai piaceri della vista e dell’udito (che silenzio…) si uniscono presto quelli della gola che apprezza questo spuntino pastorale…

Cerco invano un punto che consenta una spericolata ma spettacolare vista sul monastero ai piedi della montagna, ma non lo trovo, e torno così al paese per visitare la Tekija.

L’edificio, quantomeno la parte visitabile, è piccolo e non presenta soluzioni architettoniche o pregi artistici particolari, ma l’aura mistica e l’impressionante natura che lo circondano, lo rendono un luogo magico anche agli occhi di chi non è musulmano nè tanto meno derviscio.

Purtroppo la magia del luogo è in parte rovinata da un paio di comitive di turisti turchi più interessati al menù a prezzo fisso (specialità trote alla griglia) che alla riflessione ed alla meditazione. Constato che noi cattolici ed italiani in particolare non abbiamo l’esclusiva del turismo religioso superficiale, ma ben venga la superficialità se serve ad allentare quegli estremismi e radicalismi che nei secoli hanno infiammato cuori ed armato braccia scatenando “guerre sante”.

Se i tavoli del ristorante del monastero sono pieni, per fortuna invece il bar è vuoto e posso godermi in pace un ottimo caffè bosniaco presentato in un ambiente e con un servizio che spostano idealmente il luogo di migliaia di chilometri verso levante.

Tornato a Mostar ho ancora metà pomeriggio a disposizione e ne approfitto per visitare il piccolo centro storico anche se purtroppo trovo alcune attrazioni chiuse: la moschea di Mehmed Pasa (in cui dovrebbe essere possibile salire sul minareto), e la Biscevica Cosak, una casa-museo.

Riesco a vedere quasi tutto, anche se ovviamente in modo poco approfondito, ma non ho la fortuna di assistere ad un tuffo dallo Stari Most. Addentrandomi nell’acciottolato Kujundziluk, la via del bazar, l’italiano torna ad essere la lingua più diffusa, molti infatti sono i turisti che al pellegrinaggio a Medjugorie abbinano una sosta in questa storica città ricca di fascino.

Cerco gli scorci più carini che mi gusterò più tardi, impreziositi dalla luna piena, e ingentiliti dalla sparizione di venditori ed acquirenti che animano ed intasano questa zona.

Nel frattempo mi mescolo alla massa e mi mimetizzo, uniformandomi al resto dei turisti, ed acquisto alcuni souvenir che spero essere prodotti artigianali o quantomeno locali.

Prima che il sole tramonti mi dedico alla scoperta del lato triste di Mostar: le rovine di guerra, più numerose e frequenti che a Sarajevo. La linea del fronte che vedeva opposti Croati cattolici e Bosniaci mussulmani, correva appena oltre il fiume, sulla sponda croata.

Una famosa rovina di guerra è il cosiddetto palazzo dei cecchini, originariamente una banca, che si trova a poche decine di metri dal fronte. Il luogo è aperto e visitabile (ma consiglio prudenza, soprattutto alla notte), non è difficile ancora oggi trovare bossoli (ne ho trovati almeno 5 o 6) e dall’ultimo piano si nota lo stridente contrasto tra edifici sventrati, altri in via di ristrutturazione ed altri ancora ricostruiti di recente che sfoggiano colori fin eccessivamente sgargianti.

Va detto che la ricostruzione è molto più lenta e difficoltosa sul lato bosniaco.

Anche da aspetti come questo si vede che l’etnia oggi dominante a Mostar è quella cristiana e croata, come testimoniato dall’enorme croce issata dopo la guerra sul monte che sovrasta la città, e purtroppo l’integrazione è ben lungi dall’essere stata raggiunta.

Mentre io rilasso le mie stanche membra in ostello, anche le vie del centro storico si riposano dopo una giornata intensa di contrattazioni commerciali, di vociare, di passi, di click e di flash di turisti.

Più tardi, quando ci incontriamo, io e Mostar siamo entrambi rigenerati e ci scambiamo moine da innamorati, sapientemente rischiarati da un soffuso fascio di luce proveniente da una luna piena così magica da spingere una coppia, ospite dell’ostello, a trascorrere tutta la notte fuori, in attesa di un’altrettanto magica alba.

Io, solitario, mi limito a flirtare con le vie, i vicoli, gli edifici, le ombre e le luci, i silenzi della sera alternati alle note di qualche orchestrina poco lontana. A ricordare che quest’angolo di paradiso pochi anni fa era un inferno, compare davanti ai miei occhi la lapide “never forget” vista in mille reportage fotografici e televisivi, a cui fa da sfondo lo Stari Most, costruito da Solimano il Magnifico nel 1566 ed abbattuto dall’artiglieria croata il 9/11/1993.

La mia breve luna di miele con Mostar e la Bosnia tutta sta per terminare, ma spero di tornare un giorno e di dedicare più tempo a questo paese, autentica porta d’ingresso nella cultura e nelle tradizioni medio-orientali.

Mancano poche ore alla partenza del bus per Dubrovnik e vorrei visitare quell’enorme monumento ai partigiani intravisto il primo giorno, ma purtroppo non riesco a ritrovarlo sebbene sia convinto di esserci passato vicino e di non averlo notato perchè nascosto da qualche palazzone.

Mentre torno deluso in ostello per fare colazione, passo di fronte ad una scuola dove gli alunni e le alunne si esibiscono in una specie di saggio di danza e musica. Si tratta dell’unica scuola interetnica di Mostar, ma mi è stato detto che in realtà Croati e Bosniaci ci vanno in orari separati e soprattutto che studiano programmi diversi….difficile rimarginare le ferite su queste basi…e spero, mi illudo, che quanto mi è stato riferito, peraltro da fonte attendibile, non corrisponda a verità.

Alla biglietteria del bus c’è una coda insolita generata da un ragazzo che era in ostello e che finiti i marchi convertibili, deve cercare altre valute nello zaino per pagare il biglietto.

La bigliettaia poi ci mette del suo mostrando una flemma irritante. Riesco a prendere biglietto (28km) e bus al volo, finendo per fare conversazione ed amicizia con il “creatore di code”.

Scopro che è Portoghese, normale che non volesse pagare il biglietto…

Battute a parte la conversazione è piacevole e sebbene Sergio sia molto più giovane di me, condividiamo opinioni simili sulla vita in generale e sul viaggiare in particolare.

Alla frontiera i controlli sono lenti ed arriviamo a Dubrovnik con almeno un’ora di ritardo.

La stazione dei bus è lontana dal centro ma è proprio accanto al porto dove sono ormeggiate un paio di enormi navi da crociera, non a caso definirò Dubrovnik una splendida città a misura di crocierista.

Cambio un po’ dei marchi bosniaci rimasti ad un tasso svantaggioso e ritiro altre Kune al bancomat.

Prendo acqua, yogourt e una banana (11hrk; 1€=7,5hrk) e vado verso la città vecchia con il bus urbano (12hrk) che fa capolinea a porta Pile, di fronte alle mura del centro storico di Dubrovink.

La calca di turisti nell’abbacinante Stradun (la via principale) è notevole per essere Aprile.

Prendo possesso della mia camera, in un tranquillo vicolo della città vecchia, ad una tariffa ben inferiore alla media (250 hrk per due notti) perchè nell’edificio sono in corso alcuni lavori di ristrutturazione che nel mio breve soggiorno non daranno alcun fastidio se non quello di dover scendere una rampa di scale per andare in bagno.

Quando esco, la città è ancora ostaggio dei crocieristi, così dopo un primo tour senza meta tanto per prendere confidenza con i suoi vicoli e piazzette, decido di salire al monte Srd con la funicolare (94hrk) e di godermi il panorama da lassù, dove visito anche il museo dell’assedio di Dubrovnik (30hrk) che vanta una bella collezione di foto, armi ed oggetti, ma che è ospitato in un locale freddo ed umidissimo, più adatto alla stagionatura di salumi e formaggi che all’esposizione di fotografie…

Quando torno in centro, il buio e la pioggia stanno scendendo sulle pietre e sui coppi rossi che caratterizzano questa città, ma anche sulla mia testa…così evito il ristorante ed opto per una cena proletaria a base di burek e di un dolcetto alla mela (20hrk) che mangio in camera, prima di collassare sul letto per una mezz’oretta.

Quando mi sveglio è ancora abbastanza presto ed ha smesso di piovere, così decido di uscire e scopro il vero volto di Ragusa che finalmente si lascia andare dopo aver cercato di mimetizzare le sue bellezze per nasconderle al sole ed alla curiosità dei turisti mordi e fuggi.

Sotto l’illuminazione artificiale, le strade lastricate di marmo e di pietra, bagnate di pioggia, creano giochi di luce che impreziosiscono ulteriormente una città già di per sé splendida e che a tratti sembra vanitosamente volersi specchiare nelle pozzanghere.

Essendo aprile, alla sera le strade sono quasi deserte e l’intimità accresce la confidenza con la città, con la complicità delle seducenti note musicali provenienti da alcuni pianobar.

Di giorno purtroppo è un’altra cosa, ed anche in bassa stagione bisogna stare più attenti a non scontrare altri turisti che a cercare dettagli e scorci nuovi che alla sera invece compaiono magicamente ad ogni angolo di strada, in ogni vicolo, in ogni piazza.

La mattina seguente, come in una fiaba, Dubrovnik per magia di una strega cattiva, torna ad essere città a misura di crocierista che si concede a tanti, a tutti, ma in modo superficiale.

Fatico a trovare un negozio di alimentari, ma ogni tre metri ce ne è uno di souvenir ed abbondano bar e ristoranti con prezzi decisamente superiori alla media balcanica. L’odore di fritture e grigliate di pesce è una trappola irresistibile per turisti fuori forma che boccheggiano sui saliscendi delle mura (ingresso 90hrk), soffermandosi in modo spesso sbrigativo sulle bellezze architettoniche e paesaggistiche, magari ignorando gli orrori patiti da questa città nei primi anni novanta.

Dopo un lungo tour delle mura, visito il convento francescano (30hrk) del quale sono accessibili ai visitatori solo il bel chiostro, il museo con paramenti ed arredi sacri e soprattutto l’antica farmacia.

Nel chiostro era presente un’interessante mostra fotografica sull’operato di un missionario in Congo.

Acquisto birra Karlovaçko, prsut, del formaggio locale, una pagnotta ed una volta in camera mi preparo una baguette che ha un solo difetto…è troppo grossa…ma essendo deliziosa la sbrano con avidità finendo con il cadere in abbiocco.

Mi risveglio in tempo per imbarcarmi sul battellino (60hrk A/R) in partenza alle 14 per l’isola di Lokrum: un paradisiaco rifugio dal caos di Dubrovnik. E’ una riserva naturale con lussureggiante vegetazione mediterranea e numerosi uccelli, soprattutto pavoni e merli, ma ho avuto la fortuna di scorgere anche una delle rare aquile che nidificano in zona. Lokrum offre poi insolite viste sull’antica Ragusa e sulla costa dalmata. Sull’isola non mancano poi bellezze architettoniche, una fortezza ed un monastero, probabilmente il monastero al mondo più vicino ad una spiaggia nudista.

Per fortuna però il monastero non ospita attualmente una comunità di frati, ma solo un’attività di ristorazione, annullando il rischio di incontri imbarazzanti tra religiosi e bagnanti.

Torno a Dubrovnik al tramonto, in tempo per lasciare svuotare la città e riempire lo zaino, prima di recarmi a cena al ristorante Pescarija, che avevo già adocchiato e che mi sembrava offrire un buon rapporto prezzo-qualità. Le impressioni non vengono smentite: porzioni abbondanti, discrete le cozze alla marinara, strepitose le sardelline fritte ad un prezzo onesto (170hrk con una birra media) anche considerando che il dehors del locale si affaccia sul porticciolo.

A ricordarmi che i prezzi a Dubrovnik sono solitamente più esosi ci pensa un internet cafè dove per un espresso e 25 minuti di connessione spendo 35 kune, quasi 5 euro !!

L’indomani decido di non fare torti all’altro ordine religioso presente in città e dopo una scappata al monastero benedettino dal bellissimo chiostro (4€, pago in euro perchè ho quasi finito le kune ed alcune le voglio tenere come ricordo) torno al porto ed alla stazione dei bus diretti fuori città.

Qui vengo stipato sul pulmino per Trebinje (45hrk) dove arrivo alle 14,30, in leggero ritardo, anche perchè il minibus ha caricato più gente di quanto potrebbe e due ragazze, le ultime ad imbarcarsi, devono scendere prima della dogana e fingere di attraversare a piedi.

Io invece rischio di creare una crisi internazionale per aver scattato fotografie, ma la cosa si risolve velocemente quando mostro alla polizia che le foto non ritraggono né loro né l’insignificante garitta che li ospita, bensì lo splendido scenario che si apre alle loro spalle con vallate aspre e brulle che scendono bruscamente verso la costa dalmata per tuffarsi in un mare turchese.

Al centro turistico di Trebinje i visitatori stranieri devono essere rari e le ragazze sono gentilissime e prodighe di consigli sul come trascorrere le poche ore a disposizione in attesa del bus per Belgrado.

Da vedere non c’è moltissimo, ed il museo dell’Erzegovina è pure chiuso per restauri, ma qualche angolo del centro storico, un paio di ponti, la chiesa ortodossa in centro e quella sulla collina giustificano una sosta di mezza giornata.

Ho scordato di dire che qui si è in Repubblica Serba di Bosnia e le scritte in cirillico aiutano a ricordarlo. Va detto infatti che la Bosnia è in realtà una federazione: Bosnia Erzegovina, Repubblica Serba di Bosnia ed il minuscolo Distretto di Brcko.

Il ponte con le case che si specchiano nel fiume Trebisnica è la classica immagine da cartolina, ma a meritare un approfondimento è l’antico ponte ottomano Arslanagic che si trova in una posizione un po’ defilata. Il luogo in cui si trovava originariamente era stato sommerso dalle acque dopo la costruzione di un bacino artificiale così negli anni settanta venne spostato pietra su pietra dove si trova oggi. La vista è molto suggestiva soprattutto guardando a monte, con la comparsa dietro al ponte del monastero di Hercegovacka Gracanica.

Questo monastero, che si raggiunge con una camminata di circa trenta minuti, è stato eretto recentemente per volere di un ricco emigrato, ospita le spoglie di Ducic (poeta simbolo per i Serbi di Bosnia) e vorrebbe scimmiottare il monastero originale di Gracanica.

Avendo visitato l’originale in Kosovo, in questa imitazione freddina e priva di storia, mi sento come potrebbe sentirsi un capitolino al Caesar’s palace di Las Vegas…tuttavia dallo spiazzo verdeggiante del monastero si ha una splendida vista su Trebinje e dintorni. Il silenzio che regna sovrano mi suggerisce di schiacciare un pisolino all’ombra di un albero: suggerimento accolto…

Tornando verso il centro constato che gli abitanti tengono molto alla cura del verde intorno alle loro case, sono frequenti orti curatissimi, talvolta giardini ed i pergolati con vite sono quasi immancabili.

Altra constatazione una volta in centro all’ora dello struscio: le ragazze qui sono proprio carine…

Visito la chiesa ortodossa Saborna Preobrazenska che come di consueto presenta coloratissimi affreschi, mentre inconsueto è il piccolo parco con laghetti e ponticelli che la circonda, e che riporta alla mente certi templi del Sol Levante.

A corto di marchi bosniaci posso permettermi solo un pasto frugale con pane e prosciutto (3,5km) che mi gusto sul lungofiume, godendomi il sole che tramonta alle spalle delle montagne, ma in breve vengo assalito da nuvole di moscerini, così torno al ponte Arslanagic per vederlo illuminato.

Una bella, ma a volte un po’ buia passeggiata costeggia la Trebisnica e mi riporta in centro.

Il bus per Belgrado (52km) parte alle 21,45. Per fortuna ci sono pochi passeggeri e riesco a dormire piuttosto bene, sebbene debba abbandonare, causa foratura, il mio glorioso cuscino gonfiabile, ricordo delle ferrovie norvegesi e di un viaggio notturno da Oslo a Myrdal nel 2010.

Arrivo a Belgrado un’ora prima del previsto, sono solo le 7,30 così prima di andare in ostello provo a visitare il BIGZ. Si tratta di un edificio enorme, un tempo sede di un quotidiano, ed oggi importante polo della cultura underground di Belgrado. Nei suoi vari piani e corridoi si trova di tutto, inclusa una sorta di circo per funamboli ed acrobati, ma un signore scortese mi impedisce l’accesso. Sopravvivo ugualmente e siccome la fame comincia a mordere, faccio tappa in una pekara per una pastarella alla fragola e dello yogourt da bere.

Per fortuna in ostello posso prendere possesso del mio letto ben prima dell’orario di check-in.

Prima di concedermi un meritato riposino, faccio conoscenza del mio compagno di stanza, Gianmarco, un ragazzo italiano che si trova in Serbia per motivi di studio sul Kosovo.

Siamo e resteremo gli unici occupanti di una camerata da cinque.

Me ne dispiaccio per il bilancio dell’hostel Dalì (che peraltro avevo già frequentato e che consiglio caldamente: centrale, piccolo, tranquillo, pulito e super-economico, 700 dinari a notte), ma il mio egoismo se ne compiace perchè avremo più spazio, più silenzio e meno concorrenza per l’uso del bagno in comune…

Avrei appuntamento con Vanesa, ma la mia amica è impegnatissima causa lavoro, così trascorro la mia giornata da solo andando a Zemun, antica cittadina a pochi chilometri di distanza che in nel mio precedente viaggio a Belgrado non avevo visitato.

Vi giungerò in circa venticinque minuti con il bus 84, il cui autista inspiegabilmente non mi fa il biglietto anche se mi lascia comunque salire a bordo.

Passato il ponte sulla Sava lambiamo l’enorme centro commerciale di Novi Beograd, poi costeggiamo il Danubio con un lungo rettilineo caratterizzato a sinistra da palazzoni in stile socialista ed a destra da alberi e prati. Quando il verde pubblico lascia spazio ad un enorme edificio decadente e cadente, capisco di essere arrivato nei pressi dell’ex hotel Jugoslavija, proprio dove Bora, il titolare dell’ostello mi aveva consigliato di scendere.

Mi dirigo verso la cittadella a passi spediti lungo un viale pedonale affollato di abitanti del luogo in cerca di refrigerio durante un’insolitamente caldissima giornata di fine aprile (31°c).

E’ ora di pranzo ed ai numerosi chioschetti che vendono soprattutto gelati, preferisco uno dei tanti ristoranti su barconi ormeggiati lungo la sponda del Danubio.

Mi siedo in quello che mi ispira di più (il più affollato) ma dopo aver sfogliato il menù per venti minuti (interessanti piatti di pesce d’acqua dolce) senza essere considerato da nessun cameriere, pongo fine alla mia invisibilità, mi alzo e me ne vado per ripiegare su un forno poco lontano, dove mangio una fetta di pizza, una porzione di burek al formaggio e una pepsi (210 din) con indubbi benefici per il portafogli e per la mia pazienza…

Zemun è un posto carino e tranquillo, l’ideale per una gita fuori porta, un picnic in famiglia, o per trascorrere qualche ora di relax passeggiando nei suoi viali o nelle vecchie strade acciottolate.

Di monumenti memorabili non ce ne sono, a parte forse la torre di Gardos, che però trovo chiusa. Dalla sua base si gode comunque una splendida vista sul Danubio, su Zemun, su Belgrado e sulle pianure circostanti. Non a caso la torre, avamposto più meridionale dell’impero austro-ungarico, fu costruita per celebrare i mille anni dell’Ungheria, ma soprattutto per osservare i movimenti del nemico ottomano al di là del fiume.

Visito un cimitero ed alcune chiese e poi mi riposo nei pressi di un mercato cittadino che sta chiudendo, condividendo il marciapiede con alcuni sbandati locali che approfittano dei saldi finali e degli scarti dei banchi del mercato.

Cerco di dimenticare il gusto sgradevole di una birra locale aromatizzata al limone con un bel ghiacciolo alla frutta mentre il bus numero 15 mi riporta a Zeleni Venac, in pieno centro. Nuovamente il guidatore non mi fa pagare il biglietto. Mi chiedo se sia una sorta di sciopero bianco del personale, poi la mia diffidenza mi fa pensare ad un possibile tentativo di incastrare i turisti “portoghesi” con controlli a sorpresa e relative multe, ma per fortuna non accade niente di tutto ciò ed i soldi risparmiati per il bus vengono reinvestiti in una birra autoctona LAV, questa volta tradizionale, che rinnova la mia passione per la bionda bevanda al luppolo, facendomi scordare le aromatizzate, invenzione del demonio, o solo del marketing…che poi spesso coincidono…

Ceno in una kafana (ristorante tradizionale serbo) dove su consiglio del cameriere ordino teleci ribic u kaimaku, che è una sorta di gustoso spezzatino servito con purè e kajmak, un piatto di insalata e una birra media Jelen spendendo 1060 dinari.

Finalmente alle 22,30 riesco a vedermi con Vanesa per un drink. Lei lavora come truccatrice per il teatro jugoslavo ed oggi avevano la prima di uno spettacolo, per cui è molto provata da un’intensa giornata lavorativa. Mi dice che purtroppo anche il teatro in questione risente della crisi, gli stipendi medi serbi sono bassi (350-400€) rispetto al costo della vita, quindi la gente va a teatro meno che in passato ed i sussidi statali alla cultura sono in diminuzione. Vedo tristi analogie con la situazione che attualmente vivono i cittadini, l’arte e lo spettacolo in Italia.

Dopo i saluti di rito, approfitto dell’apertura notturna di un supermarket, compro qualcosa per la colazione e torno in ostello dove il mio connazionale è già a letto e per fortuna non russa.

Trascorro le ultime ore belgradesi recandomi al parco Kalemegdan per visitare la caratteristica Chiesa Rosa, che in realtà troverete coperta da verde edera, in cui si respira quell’atmosfera di cappa e spada che spesso grava sui monumenti, sulla cultura e sulla storia serba.

La chiesa in questione infatti venne distrutta dai turchi, poi trasformata in Santa Barbara dagli austriaci e riconvertita nuovamente in edificio religioso nel 1925, ma ancora oggi sono visibili vestigia militari ed alcune armi sono state trasformate in arredi sacri e lampadari.

Anche o forse proprio per questa particolarità, questa chiesa è spesso elencata tra le chiese più belle ed originali al mondo.

E’ il primo maggio e mentre tante persone raggiungono il parco della fortezza per godersi in relax la festa dei lavoratori, migliaia di appartenenti a questa categoria affollano le vie del centro e piazza Repubblica, manifestando per rivendicare aumenti salariali e maggiori garanzie sindacali.

Per me invece, comprata la solita maglietta-ricordo (800 dinari), è giunta l’ora di tornare a casa.

Mangio una pita (70 din) al chiosco del mercato di Zeleni Venac e aspetto il bus 72 (170 din) che ha per capolinea l’aeroporto Nikola Tesla.

Al controllo bagagli trattengono un portachiavi acquistato a Sarajevo e ricavato dal bossolo di una pallottola, faccio la scorta di rakija al duty-free ed all’ora di cena sono già a casa.

Per fortuna oltre a tanti bei ricordi ed esperienze, ho portato con me anche il sole che spesso mi ha accompagnato in questo soggiorno balcanico mentre invece a casa pioveva e faceva freddo.

Maggio 2012: Bulgaria e Macedonia

Agosto 2012: Albania, Montenegro e Kosovo

Ottobre 2012: Serbia

Aprile 2013: Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia.

Ho finalmente completato il tour dei Balcani, ma ho la netta impressione che tornerò ancora a visitare tutti questi paesi che sebbene lacerati da guerre, odi e divisioni etniche anche in tempi recenti, hanno sempre saputo offrirmi una calda ospitalità, paesaggi incantevoli, luoghi e persone interessanti da conoscere.

Il sogno rimane quello di concedermi un viaggio lungo e lento in queste terre, magari in bicicletta così da poter raggiungere in autonomia anche le aree più remote.

Chissà che un giorno…

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