Angkor Wat e Siem Reap
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Quello che tiene in vita l’intero sistema economico é la vicinanza con Angkor Wat, di cui parleró nella prossima entry.
Le strade della cittá e il sito stesso, sono letteralmente affollati da ragazzi o bambini che cercano di vendervi qualsiasi cosa: dalle statuine all’acqua in bottiglia, dai quadri alle tarantole arrosto :). Inoltre non fai un passo senza che qualcuno ti chieda “tuk-tuk, sir?”, cioé che ti invita a salire sui moderni risció trainati dal motorino per arrivare dove vuoi a solo un dollaro a persona. Cosa che va assolutamente provata 🙂
La cosa che piú mi ha colpita é che la sera la cittá cambia totalmente. I locali si accendono, i ristoranti per strada si affollano, é tutto un movimento di gente che ride, musica, motorini, suonatori agli angoli e il mercato notturno di bancarelle sembra una giostra di luci e colori.
Nonostante tutto, la gente di qui é sempre – e dico sempre – sorridente, allegra e scherzosa. Oltre ad essere tutti estremamente gentili con i turisti… Anche con quelli piú sgarbati (purtroppo ne abbiamo visti parecchi qui).
I Cambogiani sono persone splendide, non c’é che dire.
Questo é probabilmente quello che resterá uno dei viaggi piú belli della mia vita. Quei viaggi che ti fanno pensare, che ti fanno crescere e ti fanno assaporare esperienze magnifiche o terribili. Come il villaggio galleggiante… Ma questa é un’altra storia.
ANGKOR WAT
Non so nemmeno da dove cominciare. Ok… Angkor Watè la cosa più speciale, bella, magica e affascinante che io abbia mai visto. E con ogni probabilità non c’è nulla di più assurdo e perfetto al mondo. No, nemmeno le piramidi, Stonehenge o le linee di Nazca.
Arriviamo con il taxi fino ai primi scalini del sito. Sono le 7 del mattino e qui è già pieno di gente. Già da lontano avevo visto spuntare le 5 cupole e avevo sentito il cuore fare un grosso salto nel petto. Ma non era nulla in confronto a quello che avrei provato poco più tardi… Agkor Wat significa “Città Tempio” ed è facile capire perché: l’enormità della costruzione è spropositata e una volta entrati si impiegano alcune ore per visitarla tutta.
Salgo i primi scalini rendengo grazie a chiunque dimori fra quelle pietre millenarie e mi avvio per attraversare il lungo ponte che sovrasta l’enorme fossato d’acqua.
Una cosa importante da dire è che ogni cosa qui, anche quella più piccola, ha un preciso significato. Ad esempio il tempio è rivolto ad ovest come i siti funerari, al contrario dei normali templi indù che hanno l’entrata ad est, poiché entrare dentro Angkor Wat simboleggia il percorso spirituale che dopo la morte porta agli Dèi. Perciò attraversare il ponte è il primo passo per l’aldilà. Ai lati del ponte si trovano lunghissime statue del Serpente Naga, il serpente dalle 7 teste che rapprensenta i colori dell’arcobaleno, dei chakra e quindi di tutto ciò che è potere positivo. Il ponte è – spiritualmente parlando – il Ponte Arcobaleno che collega la Terra alla dimora celeste e il fossato rappresenta l’intero Cosmo. In tutto Angkor sono presenti elementi decorativi ripetuti 7 volte: 7 colonne ogni finestrone; 7 gradoni ai lati delle porte; e così via…
Inoltre la mattina del 21 marzo, durante l’equinozio di primavera, il sole sorge esattamente alle spalle della cupola centrale. Questo perché Angkor è un sito astronomico, esattamente come la totalità dei templi antichi. Un’altra cosa interessante da sapere è che i 72 templi che costituiscono la zona di Angkor sono la rappresentazione in terra della costellazione del Drago… Così come appariva in cielo 12.000 anni fa. Cosa strana, visto che la storia parla della sua costruzione a partire dall’802 d.C. In realtà il suo costruttore, il Re Suryavarman II, lo concepì in base a ad un progetto di 300 anni più vecchio, misteriosamente studiato sulle carte astronomiche di 10.000 prima (e misteriosamente arrivato in quell’epoca).
Cammino lungo il ponte con l’alba che comincia a baciarmi gli occhi. Ai lati ci sono centinaia di ragazze-madre con 3 o 4 bambini al seguito che mendicano. Alcuni ragazzi in divisa si offrono per farci da guida (20 dollari per tre ore, ma contrattando un po’ si riesce a scendere). Il ponte sembra non finire mai e qua e là offre scene di rara mostruosità. Donne in terra che chiedono elemosina, bambini piccoli che cercano di venderti qualcosa… E così via.
Arriviamo alla prima entrata e la supero con il fiato sospeso. La guida ci invita ad andare verso destra dove una piccola saletta ospita la più vecchia statua del sito a cui esso è dedicato: Vishnù. Si tratta di una grossa statua alta circa tre metri di pietra nera che raffigura Vishnù con 8 braccia, il che sta a simboleggiare la protezione divina sull’uomo. La particolarità della statua risiede nei lineamenti del volto: sono evidentemente afroidi. La guida ci spiega che questo fatto indica che quando fu scolpita (oltre 1000 anni fa) gli uomini che giunsero qui dall’India conservavano ancora alcuni lineamenti più simili alle radici africane che non a quelle orientali, che assunsero solo in seguito. A mio modestissimo avviso, 1000 anni fa i lineamenti non potevano essere così marcatamente africani. Ma forse lo erano 12.000 anni fa…
Superata la prima entrata ci troviamo di nuovo in un grande spazio aperto, dobbiamo quindi camminare ancora un po’ per arrivare all’entrata vera e propria. Sfortunatamente ci sono i lavori di restauro, perciò non potremo vedere una delle cose più importanti di tutto il sito: l’Oceano di Latte, ovvero il bassorilievo che rappresenta la creazione del mondo. E’ un vero peccato, ma prendo questo inconveniente come una scusa per tornare qui un giorno… Passiamo a sinistra e raggiungiamo l’entrata a nord. Ai lati due grosse statue del serpente Naga ci danno il benvenuto.
Alla fine riusciamo ad attuare la sospirata entrata nel tempio e devo dire che è emozionante sotto ogni punto di vista.
Per centinaia di anni la gente comune non ha potuto fare questa esperienza poiché l’accesso al sito era consentito esclusivamente ai sacerdoti e alla famiglia reale. Questa è, insomma, una cosa molto preziosa e non va sottovalutata solo perché oggi è affollata di persone provenienti da ogni parte del mondo.
Da qui in poi non so come riuscire a descrivere la straordinaria bellezza e l’incredibile perfezione dei bassorilievi che decorano ogni centimetro quadrato del tempio, dentro e fuori. Un lavoro di precisione durato moltissimi anni e pagato a caro prezzo: durante i lavori di costruzione era facile che gli operai perdessero la vita. Inoltre era prevista la pena di morte immediata per chiunque avesse sbagliato i lavori di scalpello, poiché non era possibile sostituire il pezzo. Eh sì. Una delle tantissime peculiarità di questo posto, è che prima è stato progettato in ogni sua parte, poi è stato costruito e solo alla fine è stato decorato. E’ quindi ovvio che non c’era possibilità di sostituzione per un pezzo venuto male. La maggior parte delle figure che abbelliscono tutto il sito (compreso anche Angkor Thom) sono le Apsarà: bellissime donne raffigurate nell’atto di danzare, esse sono le ninfe celesti nate dall’Oceano di Latte, che con la loro danza sacra purificano il tempio e chi lo abita. Il motivo delle Apsarà è talmente pregnante che in quasi tutti i ristoranti di Siem Reap è possibile assistere alla danza sacra che bellissime ragazze eseguono, vestite con gli abiti tradizionali. Oltre alle danzatrici ci sono le Devata, divinità femminili seminude in pose delicate e sensuali, che poi sono le guardiane del posto, coloro che vegliano e garantiscono la pace. Tra Devata e Apsarà in tutto Angkor ci saranno centinaia di migliaia di raffigurazioni… Ebbene nessuna di esse è uguale all’altra.
All’interno è un continuo stupore: colonne, pareti, soffitti… Tutto è estremamente bello e perfetto. Ma le parole proprio non bastano! Più rileggo quello che sto scrivendo e più sento che non è abbastanza e che vorrei esistesse una lingua in più che riuscisse a descrivere i sentimenti fino in fondo. Mi giro e mi rigiro a guardare e noto alcune parti più rossicce delle altre. La guida ci spiega che anticamente l’intera costruzione era dipinta con henné rosso, mentre le cupole erano totalmente bianche. Immaginate cosa poteva essere mille anni fa questo luogo al mattino, quando il sole colpiva il bianco e il rosso, i due colori sacri per eccellenza in ogni cultura antica…
Piano piano ci stiamo avvicinando alle 5 cupole che rappresentano il Monte Meru, ovvero il monte sacro in cui dimorano gli Dei. E’ quindi giunto il momento di salire gli stretti scalini che portano alla cupola centrale, quella che contiene il cuore della spiritualità odierna cambogiana. Gli scalini sono talmente stretti che si può farli solo se ben attaccati allo scorrimano messo apposta peri turisti. La guida ci spiega ancora che questi scalini erano destinati agli Dei e agli spiriti celesti, e non agli umani. Saliti in cima davanti a noi si apre una specie di corridoio all’aperto ai cui lati si trovano due ampie piscine in cui anticamente si rinfrescava la famiglia reale. Al centro della cupola maggiore si trova una splendida statua del Buddha. Sì, il Buddha. Perché Angkor nasce come tempio indù costruito dal grande popolo dei Khmer, ma nel 15° secolo venne convertito al Buddhismo Theravada. Questo tempio millenario è ancora in pieno uso: i monaci buddhisti frequentano e celebrano esattamente come in qualsiasi altro tempio. E anche i fedeli sono qui ad accendere incensi difronte al Buddha.
Ora. Io potrei stare qui a parlarvi per ore di Angkor Wat, di Angkor Thom e del suo straordinario Bayon con le gigantesche teste di Buddha, o ancora il bellissimo Ta Prohm, dove le radici degli alberi centenari hanno totalmente agguantato le costruzioni. Ma di questo potete leggere online ovunque, guardare le foto e tanto non basterebbe neanche a darvi una lontanissima idea della straodinaria magniicienza e di ciò che riesce a smuovervi dentro. Angkor Wat va visto punto e basta. L’atmosfera, l’energia e le sensazioni sono amplificati e stravolti tanto da non poter essere descritti a parole.
Dopo tre o quattro ore di visita, anche se io non sarei proprio uscita di lì fino a sera, ce ne andiamo, stanchi ma piacevolmente soddisfatti; arricchiti da qualcosa di impalpabile eppure profondissimo. Riattraversiamo il Ponte Arcobaleno e vediamo alcuni scugnizzi che si tuffano nel fossato, le cui acque marroni non promettono nulla di buono ai nostri anticorpi occidentali. Ma per loro, sorridenti e scatenati, sono come la piscina del Re che mille anni fa dava conforto a dispetto del sole spietato di qui. Dopo Angkor Wat ci aspetta il resto del pomeriggio ad Angkor Thom.
Torno a quei gradini che ho salito stamattina presto. Mi volto un’ultima volta e sussurro “Namasté” e quando scendo l’ultimo mi prende una specie di fitta al cuore e un groppo in gola mi sorprende come un uragano di emozioni. Dentro di me desidero con tutte le mie forze di tornare ancora, prima o poi.
VILLAGGIO GALLEGGIANTE
Partendo da Siem Reap verso il fiume, si attraversa un’estesissima periferia sparsa per la campagna cambogiana costituita per la maggior parte di palafitte e baracche. Se guardate a destra vedrete un paradisiaco campo paludoso puntinato di delicatissimi fiori di loto rosa. Cosa che stride mostruosamente con le fatiscenti catapecchie che costeggiano il canale. Ancora qualche risaia sulla destra e baracche microscopiche sulla sinistra, sporche e misere. La cosa terribile è che certe “case” sono fatte solo di paglia, larghe appena un paio di metri e spesso abitate da 4 o 5 persone. Qui la gente non ha davvero niente di niente. Non ha il letto, non ha vestiti, non ha acqua corrente. Nulla. Penso che gli occidentali non hanno di che lamentarsi. Non possono… Non se hanno i piatti per mangiare, una lampadina o le scarpe. Non se hanno il taglia unghie, i cerotti, il frigorifero e cubetti di ghiaccio.
Arrivati al fiume c’è il molo da cui si può prendere una barca a motore per pochi dollari, che ti porta a visitare questo assurdo villaggio. Mentre scendi il pontile per salire sul battello, un ragazzo ti scatta delle foto. Tu non sai perché, ma alla fine del viaggio lo scoprirai…
Io sono solo un bambino di 8 anni e, come tutti i giorni, me ne sto qui… Nella mia tinozza a galleggiare sul fiume, accanto alla mia casa. La vita qui è semplice. Ci si sveglia al mattino, si mangia, si sta sull’amaca, si fanno le commissioni con la barca, si va alla scuola galleggiante… Ah sì! dimenticavo. Questo è un villaggio galleggiante. Tutto è sull’acqua: le case, i negozi, il bar, la chiesa, il museo e anche la stazione di polizia. In realtà non sono proprio case come le conosci tu… Sono più delle piccole chiatte o barche adattate ad abitazione. Sono piccole, fatte di legno e lamiera quando va bene; sono colorate anche se sporche e scomode. Ma io sono nato qui e non ci faccio caso. Siamo 30.000 persone, tra cambogiani e vietnamiti; siamo tanti e andiamo tutti d’accordo perché non abbiamo nulla per cui litigare. Viviamo su questa parte del fiume fino a che le acque non salgono, poi – quando questo accade – attacchiamo la casa alla barca a motore e la trasciniamo dove il fiume lo consente. Siamo nomadi. Il fiume ci da vita e sostegno. In queste acque marroni passiamo ogni giorno della nostra silenziosa esistenza; ci laviamo i vestiti e i piatti… E non importa se è anche lo stesso posto in cui gettiamo la spazztura e dove andiamo di corpo. Noi siamo nati qui e non ci facciamo caso.
Chi ci fa caso sono i turisti. Vengono qui ogni giorno, più volte al giorno, sono su barche a motore e sono tantissimi. Il ragazzo che fa da guida li avvisa di non toccare l’acqua del fiume per nessun motivo, e se questo accade di lavarsi le mani il prima possibile e comunque di non toccarsi il viso e le mucose. Non capisco perché, io quest’acqua la bevo. A volte alcuni di noi si avvicinano alle barche dei turisti e fanno salire i bambini per vendere le bibite. E quando ci guardi negli occhi, in questi occhi sinceri e innocenti, ti scopri disposto a comprare di tutto.
Oggi ho visto alcuni turisti che salivano sul bar, proprio dove stavo io. C’era una ragazza con i capelli rossi a cui ho chiesto la coca cola e lei me l’ha data! Ero felicissimo! Poi la guida li ha portati in alto per fare le foto del nostro villaggio e gli ha fatto vedere i coccodrilli che vanno a riposarsi all’interno di alcune rimesse di legno.
Alcuni di essi, i turisti intendo, vengono qui e ci guardano come se fossimo scimmie allo zoo, non comprano nulla e sembra che provino schifo a toccare le sedie su cui sono seduti. Altri invece sono diversi… Li vedi dallo sguardo e capisci subito che si sentono quasi in colpa ad infilarsi nella nostra quotidianità, a spiarci mentre schiacciamo un pisolino sull’amaca, a curiosare sbirciando nelle nostre abitazioni mentre passano lenti e ci fotografano nell’intimità del nostro vivere. Tuttavia lo fanno, un po’ per un’insana sindrome da Grande Fratello, e un po’ per condividere e portare testimonianza di un luogo al di fuori del mondo. Oh sì! sono benissimo cos’è il Grande Fratello: lo vedo in tv… Perché saremo anche poveri nomadi su barche, ma la tv ce l’abbiamo e alcuni di noi hanno anche il satellite.
Finito il giro i turisti vengono portati all’altro molo per essere riaccompagnati in hotel. Ma appena mettono piede a terra una piccola folla li “assale” per vendergli acqua, chiancaglieria e addirittura un piatto di ceramica su cui è stampata la foto che gli hanno scattato all’inizio del tour, prima di salire sul battello.
Alla fine, però, chiunque viene qui rimane profondamente colpito dal nostro modo di vivere, dalla nostra dignità, dai nostri sguardi penetranti, da noi. Forse perché è una diversità che non ti aspetti… Qualcosa che non immaginavi esistesse. E invece è lì: vivo, genuino e sorridente. Sì, sorridente! Come i volti di noi gente povera eppure sempre serena e allegra. Ora devo andare da mia sorella che mi sta chiamando. Ma domani tornerò qui, con la mia bagnarola a chiedere bibite o dollari a qualche altra turista.