America, viaggio nel Southwest… ma non solo
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( Angelo e Agostina – 26 Giugno – 14 Luglio 2012 )
Premessa
Quest’estate, dopo alcuni anni di assenza, abbiamo deciso di ritornare nel Parchi del Southwest americano, dando però una connotazione più specifica e culturale al nostro viaggio. Per questo abbiamo scelto un percorso più variegato, che ci ha consentito di vedere ed approfondire, seppure un po’ di corsa, parecchie cose: Chicago, la bella ed affascinante “windy city”; Denver, la “one mile high city”, vivibile e moderna; le Rocky Mountains, stupende ma con un senso, per noi “montanari”, di “déjà vu”; la regione dei “Four corners”, ovvero i luoghi degli Anasazi-Pueblo, gli antenati degli indiani Hopi; la“Navajo Nation”, un paradosso americano che funziona. Come già detto, il poco tempo a disposizione ci ha permesso solo in parte di ammirare quanto avremmo desiderato, approfondire quanto avremmo voluto, godere i momenti e le sensazioni provate, che sono state comunque intense e profonde. Di seguito il diario del viaggio:
Martedì 26 Giugno 2012
Partenza da Milano Linate alle ore 07.50. Scalo a Roma Fiumicino e successivo decollo con Airbus A330 alle ore 10.00 con arrivo a Chicago O’Hare alle ore 13.40 ( ora locale ) con volo Alitalia AZ 628. Viaggio molto lungo (circa 10 ore) ma tranquillo. Metro “Blue line” fino in centro città e sistemazione presso una camera privata dell’Hostelling International di Chicago, situato proprio nel Loop. Visita del centro città, del Millennium park e delle numerose e spettacolari fontane. La prima impressione è di una città verticale, con altissimi grattacieli, pulita e ordinata nonostante la gran quantità di persone presenti nelle strade del centro. Cena al Jordan’s pizza, un locale specializzato nella preparazione della famosa “ Deep dish pizza”, una pizza ripiena che a onor del vero non ci ha entusiasmato.
Mercoledì 27 Giugno
Colazione in Ostello, a buffet, sorprendentemente ricca e gustosa, consumata in un’ampia e ben arredata sala, circondati da una miriade di chiassosi ragazzi provenienti da tutto il mondo: una piacevole sorpresa per noi, abituati a soggiornare in tranquilli alberghi, attorniati da ospiti leziosi e compassati. Giornata interamente dedicata alla visita della metropoli del Midwest: il suggestivo Chicago river, con i numerosi e caratteristici ponti mobili – la passeggiata lungo il fiume (la famosa Riverwalk), il Millennium park con le sue innumerevoli fontane fra le quali spicca la Crown fountain, dove vengono proiettati i visi delle persone e ci si può anche rinfrescare, il Jai Pritzker pavillon, un gigantesco padiglione ultramoderno dove si possono ascoltare concerti tranquillamente seduti nel parco, il sorprendente The bean una specie di monumento in vetro a forma, appunto, di fagiolo, nel quale si riflette lo skyline della città e le proiezioni delle persone, con effetti davvero sorprendenti, il Magnificent mile, la lunga ed elegante strada degli acquisti, la Sears, ora Willis, tower, l’edificio più alto degli Stati Uniti, dalla cui sommità lo Skydeck in vetro offre un entusiasmante e adrenalinico sguardo tra le nuvole, sulla “Windy city” e sul lago Michigan. Diamo un’occhiata alla Union Station, all’interno della quale non possiamo non fotografare la marmorea scalinata dove è stata girata la famosa scena del film “Gli intoccabili” diretto da Brian De Palma, con Kevin Kostner, Andy Garsia, Robert De Niro e Sean Connery. Visitiamo l’interessante Art Institute of Chicago, un museo ricchissimo di quadri e reperti storici: una “chicca” per noi, che possiamo ammirare numerosi dipinti dei più famosi pittori impressionisti. Dopo un frugale pranzo, consumato in pizzeria, ci dirigiamo verso Lincoln park, attraversando eleganti quartieri residenziali, il Navy pier, la caratteristica Old Chicago water tower, ovviamente non più in uso, vecchie e pittoresche chiese ed un lungolago dove miriadi di bagnanti prendono il sole e si tuffano in acqua per vincere l’opprimente e fastidiosa calura. Il parco, pur bello, non è così interessante e curato come il Millennium park. Nel ritorno percorriamo un diverso itinerario, attraversando i quartieri della Old Chicago ed ammirando lunghi viali alberati, dove antiche residenze vittoriane occhieggiano tra le fronde degli alberi. La cena la consumiamo in un locale del centro, dopo di che ritorniamo nel parco, ammirando il piacevole gioco di suoni, luci e getti d’acqua di una grande fontana. Più tardi assistiamo ad uno spettacolo pirotecnico sul lago al termine del quale, ormai stanchi, ci ritiriamo.
Giovedì 28 Giugno
Dopo una corroborante colazione, iniziamo la giornata passeggiando nel cuore del loop, dirigendoci verso il Chicago French market, un mercato coperto dove si possono trovare delizie gastronomiche e simpatici tavolini dove sorseggiare una bibita o gustare un cocktail di gamberetti. Proseguiamo la passeggiata recandoci alla Harold Washington Library center, la biblioteca centrale di Chicago, ospitata in un grandioso edificio simile ad una fortezza, colmo di opere d’arte e strapieno di libri, riviste e giornali provenienti da tutto il mondo anglosassone . Le sue sale ospitano di continuo mostre. Ma la vera chicca è rappresentata dallo Winter garden, all’ultimo piano, dove è bello rilassarsi leggendo un buon libro. Infine un ultimo sguardo al Chicago cultural center, edificio sontuoso, costruito nel 1897 in stile greco-romano come sede della biblioteca centrale (ivi rimasta fino al 1991). I migliori architetti del paese e i più valenti artigiani hanno utilizzato materiali di valore, come rari e preziosi marmi , lucidi ottoni, legni pregiati, mosaici di vetro Favrile, madre-perla e pietre colorate, per creare vetrate e cupole fantastiche. Located on the south side of the building, the world’s largest stained glass Tiffany dome ― 38 feet in diameter with some 30,000 pieces of glass ― was restored to its original splendor in 2008. Sul lato nord dell’edificio si ammira una cupola di 40 metri di diametro, realizzata con circa 50.000 pezzi di vetro in un intricato disegno rinascimentale, progettata da Healy & Millet. Ma la più grande attrattiva è la Tiffany dome, una stupenda cupola di 38 metri di diametro, realizzata con 30.000 pezzi di vetro Tiffany e riportata al suo originario splendore nel 2008. Un vero gioiello! Ora l’edificio è sede dell’Ufficio degli Affari culturali, ospita mostre temporanee e funge da sede di rappresentanza nonché da Visitor center. Dato che è passato mezzogiorno ci rilassiamo e rifocilliamo in un ristorante del centro, dopo di che ritorniamo in albergo per recuperare le valigie: abbiamo comunque il tempo di vedere la partita del Campionato europeo di calcio tra l’Italia e la Germania, vinta meritatamente dalla nostra squadra. Lasciamo quindi il centro di Chicago e, utilizzando la metro “Orange line”, ci trasferiamo in poco tempo al Midway airport dove poco prima delle 18.00 decolliamo per Denver con volo Southwest n.1527. Il percorso dura circa due ore ed è tranquillo. Atterriamo a Denver verso le 19.45 (ora locale) dove non possiamo non apprezzare i vantaggi di un grande e modernissimo aeroporto: velocissima navetta sotterranea, unificazione nell’edificio principale della baggage-claim area, raggruppamento delle funzioni di check-in e di controllo dei passeggeri in un’unica ultramoderna e vastissima sala, elevata funzionalità dei servizi di trasporto interno e di collegamento verso la città. Noi veniamo trasportati dalla navetta della Alamo al deposito auto, dove scegliamo una Hyundai “Santa Fè”, un SUV 4×4 definito dalla Società di noleggio “A high clearance 4WD vehicle”, ovvero abbastanza alto da terra. Ci dirigiamo quindi verso il Best Western plus di Denver, dove abbiamo prenotato una double room. Lasciate in camera le valigie mangiamo qualcosa in un ristorante messicano e poi andiamo a letto.
Venerdì 29 Giugno
Giornata interamente dedicata alla visita di Denver. La “One mile high city” giace al termine delle grandi pianure, in prossimità delle Rocky Mountains, che si stagliano all’orizzonte. Si tratta di una città-giardino, molto ordinata, ricca di parchi e laghetti circondati da quartieri composti da miriadi di linde casette unifamiliari. L’altitudine le conferisce un clima estivo caldo ma secco, d’inverno nevica. Si tratta di una città moderna, ricca di strutture ricreative, grandi e larghe strade: la downtown è costellata di grattacieli, solo la “Old town”, la città storica, chiamata Lo-Do, circoscritta tra Larimer Square, Union Station e lo stadio Coors Field, fa rivivere l’atmosfera vittoriana di un tempo, quando era frequentata da Buffalo Bill e da Jack Kerouac ( chi non ricorda il libro “On the road”, epopea di un’epoca romantica e trasgressiva). E’ la città della birra: infatti le sue famose birrerie producono ottima birra, basta pensare alla famosa “Coors brewing”. E’ la città del denaro: a Denver, infatti, ha sede la US Mint, la Zecca degli Stati Uniti d’America, dove vengono coniate tutte le monete circolanti. Visite guidate sono possibili ed interessanti, ma richiedono una prenotazione con largo anticipo. Denver, infine, è anche la città dello sport, con grandi negozi di articoli sportivi, come il Gart’s sports castle, con pista da sci e campo da tennis sul tetto. Noi, approfittando del pulmino gratuito dell’hotel, ci rechiamo sulla 16th Street, la via principale per gli acquisti, percorsa continuamente da apposita navetta anch’essa gratuita: lussuosi negozi, alberi, sculture e palazzi imponenti la fiancheggiano. Poi ci rechiamo al Denver REI, situato nel caratteristico edificio del Tramway 1901, un bellissimo negozio di articoli sportivi, situato in un pittoresco quartiere ad Ovest della Union Station, dove acquistiamo alcune preziose mappe particolareggiate dei parchi dell’Ovest. Facciamo quindi una capatina nella Tattered cover bookstore, un’antica e fornitissima libreria, dove è possibile sdraiarsi per ore su poltrone o lettini a leggere libri, sorseggiando tranquillamente un caffè o un’altra bevanda, elargiti gratuitamente dalla libreria stessa. Dopo pranzo gironzoliamo per la città, ammiriamo il Colorado’s Capitol, con la cupola ricoperta di foglie d’oro e con la scala esterna che al tredicesimo gradino segnala che si è esattamente ad un miglio sopra il livello del mare. Ci soffermiamo quindi a guardare le merci dei negozi soprattutto quelli che vendono articoli da cowboys (stivali, cinture, cappelli, camicie ecc.) dopo di che ci rechiamo ancora a Lo-Do verso il bellissimo stadio Coors Field dove è in programma una partita di baseball con la squadra del San Diego: una fiumana di gente si riversa nelle vie che conducono alla stadio, dove venditori ambulanti e bagarini ( anche in America ci sono!) strillano in continuazione frasi incomprensibili; anche noi ci facciamo coinvolgere e, proprio fuori dallo stadio, un signore distinto ci offre i biglietti d’ingresso per 40 Dollari: siamo tentati, ma purtroppo il tempo a nostra disposizione non ci consente di assistere alla partita ed ai fireworks che tradizionalmente fanno seguito al termine della stessa. Ci indirizziamo quindi verso una birreria dove consumiamo la cena e subito dopo, fatto un ultimo giro in centro, telefoniamo al conducente del pulmino che ci riporta in Hotel.
Sabato 30 Giugno
Lasciamo di buon mattino Denver, dirigendoci verso Estes Park, porta d’ingresso del Rocky Mountain NP. Al casello d’ingresso acquistiamo l’Annual pass “America the beautiful”, che ci permetterà di entrare liberamente per un anno in tutti i parchi e nei monumenti nazionali. Percorriamo quindi la R 34 fermandoci ogni tanto nei punti più panoramici. Proprio in questa zona Stanley Kubric ha ambientato il famoso horror “Shining”. La scena iniziale del film, però, non è stata girata sulla R 34, ma bensì sulla Going-to-the-sun, la lunga e deserta strada che attraversa il cuore del Glacier NP, nel Montana. Comunque Stephen King ha soggiornato a lungo allo Stanley Hotel di Estes Park traendo ispirazione per il libro dal quale è stato tratto il celebre film: pare, comunque, che alcune camere del vecchio e tenebroso hotel, restaurato e tuttora in funzione, siano infestate dai fantasmi. La strada sale senza sosta, regalando panorami stupendi, fino a 3.713 metri di altezza, dopo di che comincia a scendere. L’Alpine Visitor center situato proprio in prossimità del punto più elevato, offre la possibilità di ristorarsi, ammirare il museo del parco, assistere alla proiezione di un interessante documentario sulla geologia della zona e – se si ha tempo – intraprendere alcune camminate o trekking più lunghi. Qualche chilometro più in basso rispetto al Visitor center, sul lato sinistro della strada, si intravede il Poudre lake, dove ha origine il fiume Colorado, la cui sorgente è situata pochissimo ad Ovest (è quasi sullo spartiacque) della Continental Divide. Ciò fa sì che il fiume sfoci nell’Oceano Pacifico, ovvero, esattamente, nel Golfo della California. Scendendo ancora sulla R 34 si incontra il Grand lake e l’omonima piacevolissima cittadina, invasa da turisti e villeggianti. Lì, dove termina il parco, ci fermiamo per pranzare e per riposarci un poco, dopo di che riprendiamo la strada e, percorrendo la R 40 che segue dolcemente il fiume Colorado, arriviamo a Kremmling, un’insignificante cittadina sull’orlo del canyon percorso dal Colorado e dall’Amtrak: noi, non senza qualche timore iniziale, deviamo sulla “Country Road n.1”, una strada non asfaltata della lunghezza di circa 80 Km che, attraverso il canyon, ci fa scendere sino alla località di Colorado River Guides, dove è situato il bivio con la Road 131. Ritornare sull’asfalto, in un luogo turistico pieno di gente che pratica rafting su canoe e gommoni, ci risolleva moltissimo lo spirito. Percorriamo quindi di buona lena la R 131 fino all’ingresso nella I-70. Quest’ultima la seguiamo per parecchi Km verso Ovest. Lungo il percorso notiamo cartelli che segnalano la presenza di incendi: infatti sulle montagne si intravedono colonne di fumo e lungo i bordi delle scarpate l’erba è bruciata. Prendiamo l’uscita di Palisade, un piccolo borgo ove è situato lo “Wine Country Inn”, l’hotel dove abbiamo deciso di passare la notte. Mai scelta fu così azzeccata: la collocazione, innanzi tutto: nel bel mezzo dei vigneti della Colorado green valley, con alle spalle un’alta e suggestiva parete di gialla arenaria , poi l’albergo: bello, ben arredato, con la piscina collocata in posizione amena e, per quello che offre, neanche tanto caro. Sistemati i bagagli ci tuffiamo in piscina con gli ultimi raggi del sole che occhieggiano tra i vigneti e accendono i colori dell’arenaria, poi ci rechiamo in un vicino bistrò dove, tra un allegro e vociante gruppo di ragazze che stanno festeggiando un addio al nubilato, consumiamo la cena. Prima di andare a coricarci facciamo una breve passeggiata verso la stazione ferroviaria: lungo il percorso udiamo lo sferragliare lento e indolente dell’Amtrak che sta transitando, lasciando alle spalle quell’inconfondibile fischio acuto che pare un saluto ed un avvertimento.
Domenica 1 Luglio
Lasciamo a malincuore il nostro delizioso albergo e, poiché è domenica, ci rechiamo presso la vicina Chiesa cattolica per assistere alla Santa Messa celebrata da un giovane e dinamico sacerdote, dopo di che ci dirigiamo verso Grand Junction, una deliziosa cittadina così chiamata perché situata proprio alla congiunzione tra i fiumi Colorado e Gunnison. L’attraversiamo e ci avviamo verso il vicino Colorado National Monument, un bellissimo parco, ricco di canyons, di formazioni di Wingate sandstone scolpite dalla pioggia e dal vento, dai colori ocra, arancio e rosso. Semplicemente meraviglioso! E’ stato il sogno di John Otto, cittadino americano che amava profondamente questo luogo e si è battuto per proteggerlo e renderlo fruibile a tutti. Egli soleva dire: “I’m going to stay….and promote this place, because it should be a national park” ed ancora: “Some folks think I’m crazy but I want to see this scenery opened up to all people”. Finalmente nel 1911 il parco è stato ufficialmente istituito e John Otto nominato primo custode, con uno stipendio (simbolico) di un Dollaro al mese. Una panoramicissima strada, la Scenic rim rock drive attraversa tutta l’area del parco, consentendo la sosta in parecchi view points dai quali è anche possibile intraprendere escursioni lungo alcuni bellissimi trails. Noi percorriamo, per la parte più spettacolare, il Serpent trail, con visioni e panorami veramente affascinanti. Molto scenografico anche l’Overlook Independence Monument view, proprio di fronte ad un monolito di circa 450 piedi d’altezza (circa 160 metri) dove – come era solito fare John Otto – ogni 4 luglio, giorno in cui si festeggia l’Indipendence day, i climbers di Grand Junction salgono in vetta e vi issano la bandiera americana. Terminata la piacevolissima visita del Colorado NM riprendiamo l’I-70 percorrendola fino a Green River, una cittadina dello Utah degna di nota solo perché rappresenta la porta d’ingresso ad una delle zone più desertiche ed inesplorate degli Stati Uniti ed anche perché ha sede il piccolo ma interessante museo dedicato a GW Powell, che proprio da qui iniziò la sua spericolata avventura. Noi abbiamo prenotato una double room presso l’hotel River Terrace, che si è rivelato essere un ottimo albergo. Depositate le valigie nella camera panoramica, che dà direttamente sul greto del fiume, facciamo una nuotata in piscina e poi, dopo una rigenerante doccia, ci incamminiamo presso l’attiguo ristorante dove consumiamo una discreta cenetta. Un breve giro nelle desolate strade della cittadina dopo di che ci soffermiamo ancora un po’ fuori dalla camera, sulle sdraio, a guardare il lento scorrere dell’acqua che più a valle si mescolerà con quella del Colorado, formando due strisce di diverso colore; e con questa visione negli occhi rientriamo in camera e ci addormentiamo.
Lunedì 2 Luglio
La sveglia è alle 05.30 e alle 06.00 stiamo già facendo colazione: il cuoco, gentilissimo, ci prepara croccanti ed appetitosi french toasts e scrambled eggs con bacon: li gustiamo annaffiandoli con gran quantità di caffè ed orange juice, dopo di che lasciamo l’albergo e ci dirigiamo sulla I-70 in direzione Ovest. Il programma prevede la discesa nell’Horseshoe canyon, nel distretto di Maze del Parco Nazionale Canyolands. Abbiamo preparato a lungo questa escursione, che ci porterà nella zona più inaccessibile del parco: le possibilità per arrivare ai bordi del canyon sono due, entrambe non semplici: la prima è la strada sterrata della BLM (Bureau of Land Management) che parte direttamente da Green River, attraversa il deserto di San Rafael e dopo poco più di 80 Km raggiunge il bordo del canyon. L’altra, leggermente migliore, percorre per circa 50 Km in direzione sud la R 24, dopo di che prende a sinistra la sterrata che in poco più di 50 Km conduce al trailhead dell’Horseshoe canyon. Entrambe sono comunque delle piste sterrate, assolutamente impraticabili in caso di cattivo tempo. Una 4×4 è altamente consigliabile. Il ranger al quale abbiamo chiesto suggerimenti ci ha consigliato la seconda alternativa, avvertendoci nel contempo delle difficoltà che si potevano incontrare; a suo avviso – anche a motivo della stagione estiva – il trekking nell’Horseshoe canyon è da considerarsi “very strenuous”. Noi abbiamo avvertito i rangers della Stazione di Hans Flat ed abbiamo lasciato detto all’albergatore la meta della nostra “piccola avventura”. Intanto, mentre percorriamo l’I-70, grossi nuvoloni si stanno addensando ad Ovest, verso la zona di Capitol Reef NP: speriamo che non piova. Imbocchiamo la R 24 e ci addentriamo nel deserto: non c’è in giro anima viva. Dopo circa 50 Km arriviamo al bivio: la sterrata sembrerebbe in buone condizioni e quindi ci inoltriamo. La nostra 4×4 procede bene, anche se scricchiola dappertutto a motivo del fondo stradale martoriato dai Pick up. Ad un certo punto davanti a noi si presenta un grosso mucchio di sabbia: il vento ha spostato la sabbia del deserto che ha invaso la pista. Fermiamo l’auto e scendiamo per ispezionare la zona: il cumulo di sabbia è alto circa un metro e lungo almeno una decina. Decidiamo di passare: prendiamo un po’ di rincorsa e…via; la macchina arranca e tende a sbandare, ma con calma riusciamo a superare l’ostacolo. Incontreremo altre simili situazioni, ma la nostra 4×4, ormai abituata, non molla. Intanto comincia a cadere qualche goccia d’acqua, ma fortunatamente si tratta di una nuvola passeggera. Ad un certo punto incrociamo la Jeep dei rangers, che ci salutano. Dopo circa un’ora arriviamo al bivio per Hans Flat (dove c’è la Stazione dei rangers). Noi procediamo a sinistra per altri 7 Km poi prendiamo sulla destra l’angusta pista per il West Rim trailhead dell’Horseshoe canyon. Sono altri 3 Km in salita, piuttosto brutti e sconnessi, ma ormai siamo arrivati. Il piccolo parcheggio, situato proprio sull’orlo del canyon, è deserto: si vede solo un pick up, parcheggiato più in alto. Indossiamo pantaloncini e maglietta di tipo tecnico, calziamo gli scarponcini, mangiamo della frutta, mettiamo viveri e molta acqua negli zaini ed iniziamo la discesa nel canyon. Non ci preoccupa il trekking: siamo abituati, fra l’altro è ancora presto e non fa poi tanto caldo; oltre tutto si tratta di un caldo secco, che non dà fastidio. Il ranger ci ha raccomandato di stare attenti: nel fondo del canyon si possono incontrare rattlesnakes di una specie molto velenosa e, in certe zone, potrebbero addirittura essere presenti quicksands. Noi, per fortuna, non abbiamo incontrato né serpenti a sonagli, né sabbie mobili. In compenso il fondo del canyon è bellissimo: cascate di fiori selvatici, salici (willows), pioppi neri americani (cottonwoods), ruscelli; il tutto in una cornice di alte e lisce pareti di Navajo sandstone color ocra. La presenza umana nell’Horseshoe canyon risale al 7.000 – 9.000 a.C. da parte di cacciatori Paleo-indiani. Più tardi arrivarono le culture Fremont, Pueblo e i Nativi americani, che pare abbiano abbandonato il canyon intorno al 1.300 d.C. Le prime Gallerie di Pittogrammi (Horseshoe gallery e High gallery) le incontriamo quasi subito: si tratta di pitture rupestri realizzate utilizzando pigmenti di minerali in polvere, che riproducono immagini antropomorfiche, animali e scene di caccia. Procedendo un’altra mezz’ora arriviamo all’Alcove gallery, con incisioni simili alle precedenti ma più sbiadite. Poco oltre incontriamo due giovani che stanno facendo un trekking: sono i proprietari del pick up e saranno le uniche persone che incontreremo. Infine, dopo circa 45 minuti, arriviamo alla Great gallery, che è il più grande, conosciuto e meglio conservato sito di arte rupestre degli Stati Uniti. La galleria è il prodotto della cultura arcaica del deserto, realizzata da un gruppo nomade di cacciatori-raccoglitori circa 1.000-2.000 anni fa. Il pannello misura circa 200 piedi (61 m) di lunghezza e 15 piedi (4,6 m) di altezza e contiene circa 20 immagini antropomorfiche a grandezza naturale, la più grande delle quali misura più di 7 piedi (2.1 m) di altezza. Le riproduzioni dei dipinti si possono ammirare al Moma di New York e presso il Museo di storia naturale di Denver. Intanto inizia a fare più caldo, perciò decidiamo di ritornare (andando oltre si incontrerebbe il Blue John canyon, dove nel 2003 il giovane ingegnere di Denver Aron Ralston, essendo stato intrappolato da un masso, fu costretto, dopo 127 ore di permanenza nel canyon, ad amputarsi l’avambraccio). Rifacciamo quindi il sentiero dell’andata, in compagnia di un falco pellegrino che rotea freneticamente sopra le nostre teste, diffondendo nell’aria uno stridulo e potente verso che quasi ci spaventa ( forse sta difendendo il proprio nido) e risaliamo faticosamente il bordo del canyon (circa 250-300 m di dislivello). Ci riposiamo un poco poi riprendiamo l’auto ed iniziamo lentamente a ripercorrere la lunghissima pista sterrata. Su e giù, dentro e fuori: ma il ritorno ci pesa meno, ed anche il deserto e i torrioni di arenaria che contorniamo ci paiono più belli: man mano che procediamo anche la tensione si allenta e l’animo si rasserena. Il termine della pista e l’incrocio con la R24, che è asfaltata, ci paiono un miraggio: è finita! Ritorniamo sulla I-70 e ci dirigiamo verso Moab dove abbiamo prenotato una camera presso il Best Western plus “Canyolands Inn”. Lì veniamo accolti in modo molto caloroso e, stranamente, ci viene consegnata una “room-key” con la dicitura “President”. Apriamo la porta della camera e con sorpresa ci troviamo di fronte ad una lussuosa e spaziosissima suite con tanto di zona cucina, salotto, studio, camera con grande vasca idromassaggio, antibagno e bagno. Credendo si tratti di un errore, aspettiamo a disfare le valigie e scendiamo alla reception dove, con nostra meraviglia, ci confermano che la Direzione – considerato che siamo abituali clienti della nota catena alberghiera – ha deciso di praticarci un “upgrade”, regalandoci il soggiorno nella suite! Torniamo quindi nella nostra accogliente camera e disfiamo senz’altro le valigie. La cena la consumiamo in un ristorante poco distante dall’albergo, abbastanza buono e neanche tanto oneroso, dopo di che, prima di coricarci, facciamo un giro per il centro della bella cittadina che offre grandi possibilità in tema di trekking individuali nei parchi dell’Ovest ma anche di escursioni organizzate: a piedi, a cavallo, in mountain bike, in moto, in jeep, in gommone.
Termina così il giorno più lungo, più temuto, ma anche il più desiderato del nostro viaggio.
Martedì 3 Luglio
La prima tappa della mattinata è Arches NP, uno dei parchi più ammirati e, forse, scenograficamente il più bello del Southwest. Acqua, ghiaccio, temperature estreme ed il movimento salino sotterraneo della Formazione Paradox hanno creato nei secoli queste rocce costituite prevalentemente di Entrada sandstone (color salmone) e Navajo sandstone (color giallo). Dapprima ci fermiamo al Visitor center per guardare il film di orientamento e per ritirare del materiale, dopo di che saliamo lungo la pittoresca strada che, attraverso paesaggi meravigliosi, ci conduce alla zona del Balanced rock, una formazione di arenaria rossa alta circa 40 m e recante alla sommità un grosso masso in perfetto equilibrio. Ovunque si stagliano nel cielo azzurro monoliti e formazioni rocciose dalle più disparate forme. Proseguiamo in auto fino al parcheggio di Wolfe ranch, dove parte il sentiero per quello che viene considerato il simbolo del parco: il Delicate arch. La salita non è eccessivamente dura ma il sole è implacabile: ci vuole circa un’ora per raggiungerlo, ma ne vale assolutamente la pena. La visione è di quelle che non si dimenticano: l’arco svetta magnifico nel cielo terso, con i raggi del sole che irradiano la roccia di un affascinante splendore. Dopo aver scattate numerose foto, scendiamo e ci spostiamo fino al parcheggio dove ha inizio il sentiero del Devil’s garden: la meta è, ovviamente, l’altro famoso arco, ovvero il Landscape arch, uno degli archi più lunghi del mondo, alto 32 m e lungo 93. Lasciato Arches NP con il proponimento di ritornarci, ci dirigiamo sulla R 313 verso Canyolands NP, esattamente nel settore centrale Island in the Sky, così chiamato perché si protende nel cuneo formato dalla confluenza del Colorado con il Green. Dapprima ci rechiamo al Centro visitatori, poi al Green river overlook dove il fiume verde serpeggia all’interno di un’immensa voragine dove la natura si è divertita a creare paesaggi dalle forme surreali. Continuiamo a percorrere la R 313 e visitiamo Mesa Arch, un arco naturale che incornicia un panorama eccezionale, poi arriviamo al Grand View point, considerato il punto dal quale si può godere il più ampio e spettacolare panorama. Difficile esprimere a parole quello che si vede: nonostante una leggera foschia, la vastità del baratro che si presenta davanti agli occhi non può non inquietare: sembra di essere su un aereo che sta attraversando il territorio lunare! Percorrendo poi il Gran view point trail le visioni mutano continuamente ed il baratro assume dimensioni a dir poco mostruose. Lo spettacolo ammirato dai belvedere di Island in the Sky ci è piaciuto, ma le sensazioni provate ad Arches, dobbiamo confessarlo, sono state più gratificanti e piacevoli. Torniamo quindi verso Moab, percorrendo un tratto dello Shafer trail un sentiero sterrato e terribile che scende nel canyon (dove hanno girato la scena finale del film “Thelma & Louise”) e poi ci fermiamo al Dead Horse Point State Park, un parco statale addossato alla parte Nord di Canyolands. L’ingresso è a pagamento, ma il panorama che si può apprezzare dai vari belvedere è superbo: si tratta di un fantastico promontorio su un’ansa del Colorado, dove lo sguardo si estende a perdita d’occhio. Veramente stupendo! Prima di rientrare in albergo ci concediamo un’ultima piccola digressione: percorriamo per un tratto la Scenic Byway 128, la strada che segue il fiume Colorado, ammirando panorami indimenticabili. La sera ceniamo nello stesso ristorante del giorno precedente, dopo di che andiamo a coricarci.
Mercoledì 4 Luglio
Indipendence Day. A Moab ammiriamo la “parade” che, a onor del vero, non ci ha emozionati più di tanto: altri anni abbiamo assistito a sfilate più spettacolari e coinvolgenti. Lasciamo quindi la bella cittadina dello Utah e, percorrendo la R 191 in direzione sud, ci dirigiamo verso The Needles, ultimo distretto di Canyolands rimasto da “esplorare”. La prima tappa – esterna al parco – è Needles overlook: per raggiungere il famoso View point sul bacino di Lockhart occorre percorrere verso sud la R 191 e quindi la R 133 per 35 Km. La vista abbraccia una voragine immensa dove si dice che in tempi passati i cowboys facessero pascolare migliaia di capi di bestiame. Torniamo quindi sulla R 191 e proseguiamo ancora verso sud fino al bivio con la R 211, che occorre percorrere per 53 Km prima di giungere al parco vero e proprio; si tratta, comunque, di 53 Km emozionanti e bellissimi: si attraversano magnifiche praterie, mandrie di animali che pascolano lungo l’Indian creek, sullo sfondo di pinnacoli color ocra e maestose montagne. Lungo la strada non si può non fermarsi ad ammirare la Newspaper rock, che gli Indiani Anasazi chiamavano “Tse’hone” (una roccia che racconta una storia). Si tratta di una lastra di Wingate sandstone annerita dagli anni, sulla quale sono stati incisi centinaia di petroglifi, dal significato tuttora indecifrabile. Giunti al Visitor center i rangers si dimostrano prodighi di informazioni sulle possibilità offerte dal parco. Noi decidiamo di proseguire sulla pista sterrata fino al parcheggio di Elefant hill dove imbocchiamo il Chesler park trail, un sentiero che, tra ginepri e cactus dai fiori gialli, si insinua tra formazioni rocciose e pinnacoli di Cedar mesa sandstone, un’arenaria giallo-ocra di spettacolare bellezza. Sotto un cielo azzurro camminiamo per alcune ore in un ambiente fantastico, dopo di che ci dirigiamo al Big spring canyon overlook, un belvedere a picco su formazioni rocciose a forma di fungo, da cui diparte il sentiero che conduce al Confluence overlook, unico punto dove dall’alto si può osservare la confluenza tra i fiumi Colorado e Green. Il percorso richiede circa 5/6 ore complessive, per cui – data l’ora – non possiamo percorrerlo. Nel ritorno, per accorciare la strada, imbocchiamo la Country Road 136 – Hart Draw Rd – una strada forestale molto tortuosa, che attraversa un passo per poi scendere sulla R 191 a Monticello. Purtroppo un violento temporale ci rende difficoltoso il procedere, ma comunque alla fine ne usciamo sani e salvi. Proseguiamo quindi sulla R 191 South fino a Bluff dove abbiamo prenotato una camera presso l’Hotel Desert Rose Inn, un bell’albergo con la struttura in tronchi d’abete. Bluff è una piccola località sul San Juan River, ai bordi della Navajo Nation, circondata da formazioni rocciose in Bluff sandstone, dalle quali prende il nome. Fondata nel 1880 da un gruppo di pionieri Mormoni provenienti da Ovest attraverso il famoso Hole in the rock, il buco nella roccia praticato per consentire alla carovana il superamento del Glen canyon, non gode di grandi attrattive se si fa eccezione per le Twin rocks, caratteristiche torri in arenaria rosso-ocra, conosciute con il nomignolo di “camini delle fate”, che al tramonto si accendono di fiammanti colori. La cena la consumiamo al Cottonwood steakhouse, un locale stile western, dove nel caratteristico cortile ci gustiamo due ottime bistecche, dopo di che ritorniamo nel nostro confortevole albergo, che emana un dolce profumo di legno.
Giovedì 5 Luglio
La colazione la facciamo in un caratteristico, ma ahimè poco fornito bar, situato di fronte all’albergo. Prendiamo quindi la R 163 West per circa 15 Miglia, fino al bivio con la pista sterrata ( FR 242 ) della Valley of the Gods che si inoltra nel deserto sulla nostra destra; si tratta di un percorso bellissimo ed entusiasmante: difficile descrivere il paesaggio che circonda la pista, la quale si insinua per circa 27 Km tra pinnacoli di rossa arenaria, simili ai “Buttes”della Monument valley, ma – a differenza di quest’ultima – fortunatamente meno frequentata. Se il tempo è buono, la pista può essere percorsa anche da auto normali, purché abbastanza alte da terra. Verso la fine del tragitto guardiamo con nostalgia il B&B – in posizione indimenticabile – sul quale avevamo fatto un pensierino…..Sbuchiamo quindi sulla R 261 e ci dirigiamo verso la Moki Dugway, una sterrata ripidissima e senza protezioni, che si inerpica con stretti tornanti su un muro di roccia. La strada è stata costruita negli anni ’50 da una Compagnia mineraria, per il trasporto a valle del minerale d’uranio. Con un po’ d’attenzione, sperando di non incrociare autocarri, il percorso è comunque fattibile senza problemi. Giunti sull’altipiano prendiamo sulla sinistra la pista sterrata – e molto accidentata – che in circa 8 Km ci conduce al Muley point overlook, un belvedere di eccezionale ampiezza e profondità, con vista sui meandri del San Juan river e sulla Monument valley. Qui incontriamo una coppia di italiani in viaggio di nozze: sia loro che noi, dopo i convenevoli di rito, non possiamo che contemplare la bellezza e maestosità del luogo, forse poco conosciuto ma sicuramente eccezionale. Ripercorriamo quindi la sterrata fino al bivio con la R 261, dopo di che ci fermiamo ad ammirare il panorama che si gode dall’orlo del burrone ove inizia la Moki Dugway che da sopra sembra ancora più spaventosa: con prudenza discendiamo e, percorsi alcuni Km, imbocchiamo sulla destra la R 316, grazie al cielo asfaltata, che ci conduce in circa 7 Km al Gooseneck State Park, eccezionale belvedere sui suggestivi meandri del San Juan River, che da qui si vedono meglio. Incantevole overlook: meno grandioso rispetto a Muley point ma sicuramente più affascinante e fotogenico. Proseguiamo quindi sulla R 163, attraversando i suggestivi paesaggi della Monument valley, che da nord sembrano ancora più spettacolari. A Kayenta ci fermiamo per il pranzo, dopo di che deviamo sulla R 160 West fino al bivio con la R 564 che ci conduce al Navajo NM, un piccolo ma interessantissimo parco, dove nel Betatakin canyon si possono osservare le rovine delle abitazioni dei nativi americani: noi visitiamo il Visitor center e percorriamo il Sandal trail che conduce all’omonimo overlook con vista spettacolare sull’ampio canyon e sui resti del villaggio preistorico, chiaramente visibile con il cannocchiale, disponibile gratuitamente in loco. Ritorniamo sulla R 160 che percorriamo fino al bivio con la R 98 in direzione Page, Arizona, dove abbiamo prenotato una camera al Best Western plus “At Lake Powell”. Però, prima di recarci all’hotel, tentati anche dalla dolce luce del tramonto, decidiamo di fare un salto allo spettacolare Horseshoe Bend. Prendiamo quindi la R 89 in direzione Flagstaff fino al Mile marker 545 dove di devia a destra su una sterrata che conduce ad un parcheggio. Lasciata l’auto occorre percorrere una pista sabbiosa per circa 15 minuti, dopo di che si giunge su un roccione a picco su un meandro del Colorado. La visione è veramente spettacolare: occorre però fare attenzione perché non ci sono parapetti; Il fiume è proprio sotto, di un colore smeraldo che affascina: scorre placido tra rocce color rosso-ocra, nella cornice del tramonto che ravviva i colori e incendia il cielo all’orizzonte. Spettacolo romantico e indimenticabile! Ci rechiamo quindi all’hotel, che brulica di gente: nella reception, nella hall, in piscina….dappertutto. Noi abbiamo appena il tempo di farci una doccia per poi uscire sulle strade della cittadina che, dimenticando le proprie origini popolari (Page è stata fondata nel 1957 come comunità alloggio per le famiglie dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga sul fiume Colorado) è diventata più grande, più ricca, più frenetica e forse anche più simpatica: l’ultima volta che l’abbiamo vista ci sembrava più piccola e disadorna. D’altronde l’altitudine ( è a 1310 m), la presenza del Lago Powell con spettacolari panorami ed affascinanti falesie rosse, le spiagge, le darsene, la Glen dam, il suggestivo e difficilmente raggiungibile Rainbow bridge, gli spazi sterminati (la città è distante molte Miglia da qualsiasi altro centro abitato) le conferiscono un indiscusso “appeal” turistico. La cena la consumiamo in un caratteristico ed affollatissimo ristorante messicano ( Fiesta Mexicana ). Facciamo quindi una passeggiata fino al John Wesley Powell Memorial Museum al cui esterno si può ammirare una copia dell’imbarcazione utilizzata dall’intrepido Maggiore per la sua avventura sul Colorado, dopo di che – stanchi ed appagati – ci ritiriamo in albergo.
Venerdì 6 Luglio
Dopo una ricca e gustosa colazione lasciamo l’albergo ma, prima di partire, ci concediamo un ultimo giro in centro, dando ancora un’occhiatina al museo JW Powell, ricco di carte, reperti e documenti sulla storia del lago. La restante parte della mattinata la dedichiamo alla visita dell’ Antelope canyon che comprende due distinte sezioni: l’Upper ed il Lower, poco distanti tra di loro. Noi decidiamo di entrare solo nell’Upper, lo Slot canyon più visitato e fotografato del Southwest americano. Ci rechiamo quindi al parcheggio, situato sulla R 98, direzione Kayenta, al Mile marker 299, in vista dell’enorme centrale elettrica alimentata a carbone che fornisce energia all’intera Nazione Navajo. Non è possibile visitare i canyons da soli, ma occorre rivolgersi ad un’Agenzia oppure farsi accompagnare da una guida Navajo. Noi optiamo per la seconda soluzione, prenotando il tour delle 10.30, che ci viene a costare complessivamente 72 Dollari. Si parte su una camionetta che compie un tragitto di circa 3 Km nell’ampio greto sabbioso di un torrente, dopo di che si arriva all’ingresso del canyon. La guida fornisce spiegazioni sulla storia, la geologia e la pericolosità del luogo in caso di improvvisi temporali: nell’Agosto 1997 un gruppo di turisti è stato sorpreso nel Lower canyon da un “Flash flood” che ha provocato 11 vittime, di cui 7 francesi. Noi non dovremmo avere simili problemi, dato che la giornata è splendida: c’è infatti una gran luce ed il cielo è di un azzurro che abbaglia. Il canyon è stato scavato dall’acqua in una collina di arenaria rossa: l’interno è sorprendente. Le alte pareti sembrano onde rocciose, vele agitate dal vento: la luce vi penetra creando sfumature di tonalità arancione che incantano. Il fenomeno, a motivo della perpendicolarità dei raggi solari, è presente tra le 10 e le 13 dopo di che la magia va scomparendo. Noi percorriamo il canyon sia all’andata che al ritorno, ammirando e fotografando ogni sfumatura di luce. Ma, in ogni caso, qualsiasi foto non potrà mai ricreare le emozioni provate durante l’incedere tra le strette pareti del canyon, inondate di luce e di colori. Lasciamo quindi con rammarico Page ed affrontiamo il lungo e desertico viaggio verso Durango, nel Colorado. Ripassiamo da Kayenta, assolata e sonnolenta, e – dopo miglia e miglia di deserto – arriviamo al Four Corners, un punto situato all’intersezione tra il 37° parallelo nord ed il 109° meridiano ovest, dove i territori di Arizona, New Mexico, Utah e Colorado si incontrano. Il monumento “Dei quattro angoli” testimonia simile fatto, unico negli Stati Uniti d’America. Proseguiamo ancora fino alla cittadina di Cortez dove decidiamo di fermarci per la notte. Purtroppo siamo privi di prenotazione e, dato che è venerdì, i migliori hotel non hanno posto. Troviamo una camera libera solo al Motel Super 8, un albergo economico che comunque si è rivelato pulito ed anche abbastanza confortevole. Per compensare la scelta dell’albergo ci deliziamo con una succulenta e romantica cenetta presso un’antica e ottima birreria. Come nostra consuetudine passeggiamo in centro e nei graziosi quartieri residenziali della cittadina, dopo di che andiamo a coricarci.
Sabato 7 Luglio
Dopo una frugale ma sostanziosa colazione ci dirigiamo verso il Parco Nazionale Mesa Verde, meta della nostra giornata. Mesa Verde, in spagnolo “tavola (altipiano) verde”, è ubicato su un alto pianoro boscoso ed offre uno sguardo spettacolare sulla vita e sulle abitudini delle popolazioni Pueblo/Anasazi, che ne hanno fatto la loro dimora per oltre 700 anni – dal 600 al 1.300 d.C. – Oggi il parco, proclamato dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità, protegge quasi 5.000 siti archeologici, tra cui 600 abitazioni rupestri, tra i meglio conservati degli Stati Uniti. La strada d’accesso è piuttosto lunga ma piacevole: una volta giunti al Visitor center è indispensabile prenotare le escursioni (i più importanti siti del parco possono essere visitati solo con visite guidate). Noi prenotiamo il tour delle 10.00 a Balcony house e quello delle 12.00 a Cliff palace. Ci facciamo quindi trovare al parcheggio di Balcony house dove una brava ma un po’ burbera ranger effettua dapprima un’introduzione storica, dopo di che inizia la visita vera e propria, che risulta essere abbastanza impegnativa, anche perché nel frattempo una fastidiosa pioggerellina rende scivoloso il percorso: occorre infatti salire diverse scale a pioli, attraversare piccole cenge ed intrufolarsi carponi attraverso un tunnel roccioso. Il villaggio abbandonato giace sul bordo del canyon, in una specie di alcova, in posizione alta e protetta. Gli indiani Anasazi vi hanno stabilmente abitato per tanti anni, costruendo dimore, stalle, magazzini e luoghi di culto sotterranei e circolari, i cosiddetti “Kiva”, dove venivano celebrate le principali cerimonie religiose della comunità. Lo stato di conservazione, nonostante gli anni trascorsi, è più che discreto, l’impatto visivo splendido ed impressionante. La ranger ci mostra anche i particolari e ci rende edotti delle scoperte e delle supposizioni formulate dagli archeologi riguardo vita ed abitudini degli abitanti del villaggio. Terminata la visita ci riposiamo un poco – nel frattempo la pioggia va gradualmente scemando – per poi recarci al parcheggio di Cliff palace. Anche qui una ranger, più anziana ed anche più disponibile, guida il tour, che fortunatamente dal punto di vista fisico è meno impegnativo del precedente: in compenso la grandiosità del sito, lo stato di conservazione e la ricchezza dei particolari – magistralmente illustrati dalla nostra accompagnatrice – giustificano ampiamente l’appellativo attribuitogli di “Vetrina” di Mesa Verde. Salutata la nostra gentile e competente guida ci rechiamo al Chapin Mesa Museum, l’attraente museo del parco, che visitiamo con vivo interesse. Lasciamo con rammarico il parco di Mesa Verde e ci dirigiamo a Durango, nel Colorado, dove abbiamo prenotato una camera presso il Best Western “Mountain Shadows”. L’albergo non è in pieno centro, ma comunque è bello e confortevole, ed anche la piscina (nel frattempo ha iniziato a piovere) è fortunatamente coperta da una grande cupola di vetro. Una volta sistemati i bagagli e fatta la doccia ci rechiamo in città dove, provvidenzialmente, troviamo una Chiesa cattolica nella quale (sono le 18.00) sta per iniziare il “Sunday service”. Ancora una volta – non l’avremmo mai pensato! – possiamo assistere alla Santa Messa . Al termine ci rechiamo alla stazione dove un fischio prolungato e caratteristico ci avverte che sta sopraggiungendo lo storico treno a vapore proveniente da Silverton, una vecchia cittadina mineraria abbarbicata a circa 3.000 metri di altitudine, distante circa 45 Miglia da Durango. La vecchia vaporiera sbuffa e vomita nugoli di fumo, mentre dalle caratteristiche e panoramiche carrozze escono a frotte i turisti dallo sguardo allucinato ma soddisfatto. Passeggiamo tra le strade del centro, rimirando le vetrine dei caratteristici negozi, vanto della deliziosa cittadina situata ai piedi delle Montagne rocciose, che ha saputo conservare l’atmosfera di un tempo, poi ci rechiamo in una tipica birreria dove consumiamo la cena. Ritorniamo quindi in albergo per riposarci.
Domenica 8 Luglio
Lasciamo di buon mattino Durango percorrendo la R 160 fino a Pagosa Springs, un’incantevole cittadina termale, circondata dalla San Juan National Forest ed attraversata dal San Juan river, notissima per le sorgenti calde naturali chiamate “Pagosah”, che nel linguaggio degli Indiani Ute significa acque curative, sfruttate dai numerosi ed attrezzatissimi residence termali, ricchi di fontane, piscine ed immersi in un paesaggio naturale meraviglioso. Il desiderio di un tuffo nelle invitanti piscine è grande ma la necessità di proseguire il viaggio ci fa purtroppo desistere, e quindi riprendiamo la R 84 fino all’Heron lake, un pittoresco lago circondato da pini e ricco di avifauna selvatica. Nei pressi del lago una stradina conduce al Ghost ranch, famoso per i ritrovamenti di numerose ossa di dinosauri del Triassico, e ora sede di un Centro di formazione Presbiteriana. Nelle vicinanze c’è la casa ove la nota pittrice Georgia O’ Keeffe – considerata una delle più influenti artiste del 20° Secolo, che contribuì a ridefinire i parametri dell’arte moderna – soggiornò fino alla morte, avvenuta a 98 anni. La Keeffe, della quale abbiamo avuto modo di ammirare alcune sue opere sia al The Art Institute of Chicago, sia al Moma di New York, poco più che quarantenne si innamorò perdutamente dei paesaggi del New Mexico “Land of enchantment”, dei colori e della luminosità del cielo, tanto che a sessant’anni decise di stabilirvisi definitivamente. Lungo la strada ci fermiamo in una specie di baracca-pizzeria, per gustarci una maxi pizza preparata da un’anziana e solerte vecchietta. Proseguiamo fino ad Espanola e, dato che è ancora presto, decidiamo per una deviazione al Bandelier NM, un parco naturale comprendente numerose rovine risalenti al periodo degli Indiani Pueblo, che vi soggiornarono per lungo tempo. Il Visitor center, ove viene proiettato un interessante documentario, offre una panoramica del parco e delle sue attrattive: noi visitiamo i resti del villaggio Pueblo, le Cliff dwellings e l’Alcova house, la più difficile e pericolosa da raggiungere ( Quattro lunghe, irte ed esposte scale in legno) ma anche la più interessante. Riprendendo la strada per Santa Fe’ approfittiamo ancora per passare dal Pueblo di San Ildefonso, caratteristico villaggio indiano che ha dato i natali a Maria Martinez, famosa creatrice di ricercatissime ceramiche stile “Pueblo”, e che rimane ancora oggi uno dei migliori posti per acquistare belle ed autentiche pottery. Raggiungiamo quindi Santa Fe’ dove abbiamo prenotato una camera al “Rey Inn” un caratteristico e confortevole albergo immerso in un lussureggiante giardino, con piante esotiche, tanti fiori, una bella piscina ed una suggestiva vasca idromassaggio. La cena la consumiamo in un ristorante messicano, dopo di che effettuiamo un giro nel centro della bella e sofisticata cittadina, piena di antichi palazzi, lussuose boutiques e caratteristici negozi dove si può trovare, anche se a prezzi certamente non modici, una gran varietà di pregevoli “Pueblo Pottery”. ……Avendo lasciate le carte di credito e la maggior parte dei Dollari nella cassaforte dell’Albergo, non ci resta che dare un’occhiata alla Romanica Saint Francis Cathedral, tornare e andare a letto.
Lunedì 9 Luglio
Facciamo colazione in una sala arredata con gusto, dopo di che ci dirigiamo sulla R 14 chiamata Turquoise Trail, una strada che collega Santa Fe’ con Albuquerque, che ricalca un vecchio sentiero di minatori e cercatori di turchesi. La prima località che incontriamo è Cerillos, una ghost town ricca di testimonianze storiche tra le quali la cosiddetta Casa grande, un vecchio edificio in legno ora adibito a trading-store, dove si possono acquistare turchesi ad un prezzo ragionevole. Visitiamo anche la bottega di un artista-artigiano di origine francese, che realizza quadri con pezzi di carta di vetro di diverse tonalità e fogge: nonostante il prezzo abbordabile e con la scusa che non avremmo posto in valigia, decliniamo cortesemente la sua offerta. Lo invitiamo comunque a ritornare in Italia, dato che ci ha confessato di avere nostalgia del nostro Paese e soprattutto di Firenze, dove ha studiato. Proseguendo il percorso verso sud ci fermiamo a Madrid ( pr. Med-rid ) un villaggio con parecchie gallerie d’arte, coloratissime case di legno piene di fiori e di strane decorazioni, abitato da artisti e hippies. L’atmosfera è gioiosa, la conversazione con i gestori di gallerie piacevole, ma anche qui non riusciamo a trovare il gioiello di turchese che fa per noi. Decidiamo perciò di tornare a Santa Fe’ dove pranziamo e ci riposiamo un poco in albergo. Il primo pomeriggio lo dedichiamo alla visita del Museum of International Folk Art, un moderno ed interessantissimo museo etnografico, contenente reperti ispanici ed indiani ma anche giocattoli provenienti da tutto il mondo. Proseguendo verso il centro visitiamo la Loretto Chapel, una chiesetta situata in un convento di suore dove è presente una singolare scala in legno, molto ardita e priva di ancoraggi ( la cosiddetta “scala miracolosa”) sulla cui storia si intrecciano realtà e leggende: in ogni caso, anche non dando credito alle voci che vorrebbero che la scala sia stata eseguita da San Giuseppe in persona, si tratta comunque di un’opera straordinaria, una sorta di prodezza architettonica ed artigianale. Visitiamo anche il Palace of the Governors, antica dimora dei Governatori spagnoli ed americani. Al suo interno un’ interessante collezione di reperti sulla storia del New Mexico. Degni d’attenzione anche la Cappella privata dei Governatori ed un dipinto su pelle di bisonte raffigurante una battaglia tra spagnoli, indiani e francesi. Infine, dopo aver visitato il bell’interno della Cattedrale di San Francesco, ci concediamo un giro nei lussuosi negozi della suggestiva piazzetta, dove – manco a dirlo – guardiamo molto ma non acquistiamo nulla. Torniamo quindi verso l’albergo nei cui pressi ceniamo in un discreto ristorante messicano, ci concediamo un rilassante bagno nel caratteristico idromassaggio, passiamo qualche minuto nel giardino davanti alla nostra camera ed andiamo a letto.
Martedì 10 Luglio
Lasciata Santa Fe’ ci dirigiamo verso Los Alamos, situata su un altopiano a 2.200 m di altitudine e circondata da canyons e da magnifiche montagne. La cittadina è famosa per aver ospitato durante la Seconda Guerra mondiale i Laboratori nazionali dove è stata costruita la prima bomba atomica. Ancor oggi numerosi sono i Centri di alta ricerca presenti nella vasta area della città. Noi visitiamo l’interessantissimo Bradbury Science Museum, che ripercorre tutta la storia dello sviluppo e dell’utilizzo delle armi atomiche fino ai nostri giorni, dando ampio spazio alla didattica, all’interattività, ma anche a questioni etiche ed ambientali. Proseguendo il viaggio giungiamo a Taos, dove prendiamo alloggio all’Hotel Hempton Inn, un albergo della catena Hilton, che si è dimostrato essere ottimo e confortevole. Dato che è presto ci rechiamo a visitare l’interessantissimo Taos Pueblo, divenuto Patrimonio dell’Umanità. E’ l’antico villaggio indiano meglio conservato, costruito con mattoni di paglia e fango. La struttura del Pueblo è stata mantenuta intatta nella sua forma, con la chiesa, il ruscello, il grande cortile, il cimitero e le abitazioni in adobe: passeggiando tra le stradine interne par di rivivere l’atmosfera di un tempo ormai remoto, ed anche gli indiani che ancora vi abitano paiono figure provenienti dal passato. Ritorniamo in centro per passeggiare tra i negozi della storica piazza centrale, bella ma meno pretenziosa rispetto a quella di Santa Fe’, poi ci rechiamo nella storica Ledoux Street, impreziosita da gallerie d’arte e botteghe di artigiani e pittori. Lasciamo quindi il centro per ammirare la bellissima ed antica Chiesa di San Francisco De Asis (Assisi), interamente costruita in giallo adobe, con un interno riccamente decorato. Proprio accanto alla Chiesa un antico ristorante ci pare il posto adatto, anche se è presto, per consumare la cena. Ed infatti lo è: antichi ambienti e generose porzioni, unite ad un conto “leggero”, ci inducono a pensare che sia stato un bene l’aver cenato presto. Siccome non è ancora tardi tentiamo di raggiungere la Hacienda de los Martinez, una fattoria storica dove è possibile visitare gli ambienti ed anche acquistare prodotti, ma l’intrico di stradine e stradicciole ci tradisce: ci ritroviamo da tutt’altra parte. Desistiamo e ritorniamo in albergo.
Mercoledì 11 Luglio
Facciamo colazione allietati dalla dolce melodia del piffero di un suonatore indiano, il quale ci fornisce anche indicazioni su dove acquistare convenienti ed autentiche “Pueblo pottery”. Lasciamo quindi Taos percorrendo la R 64 in direzione Nord. Poco prima del ponte sul Rio Grande ci fermiamo al Millicent Rogers Museum, uno dei migliori musei privati del New Mexico, dedicato alla cultura indiana ed ispanica. Il negozio del museo è ricco di bellissime ceramiche di Maria Martinez, ma – a dispetto di quanto affermato dal “nostro” suonatore indiano – i prezzi, ancorché adeguati all’alta qualità dei prodotti, risultano “too expensive for our budget”, per cui siamo costretti a desistere nuovamente dall’acquisto. Ci consoliamo passeggiando sul Rio Grande gorge bridge, un vertiginoso ponte sul canyon del fiume, che scorre 200 metri più sotto. Più avanti non possiamo non ammirare le famose case stile New Age della Greater World Earthship Community, costruite con materiali bio-riciclabili e seminascoste nel deserto. Proseguendo verso Nord incrociamo la R 285 che seguiamo fino ad Alamosa, importante nodo ferroviario della storica Compagnia Denver and Rio Grande Railway. Infatti, appena giunti e trovando chiuso il passaggio a livello, dobbiamo aspettare che passi un lento e sferragliante convoglio ferroviario con oltre cento vagoni trainati da quattro potenti locomotive diesel, dopo di che riprendiamo la marcia. E la riprendiamo imboccando la R 160 East in direzione Walsenburg. Percorse circa 26 Miglia deviamo a sinistra sulla R 150 che ci porta al Great Sand Dunes NP. Una verde vallata, cosparsa di ruscelli e di un lago fanno corona alla strada, che si inoltra decisa verso le montagne; all’improvviso appaiono le dune: un angolo di Sahara nell’West americano; si dice siano opera dei venti che col tempo hanno accumulato i granelli di sabbia provenienti dallo sgretolamento delle rocce circostanti. Il Visitor center, oltre ad esporre reperti e presentare cortometraggi sulla storia del parco, dispone di una vetrata con una vista spettacolare sulle dune; è però necessario lasciare l’auto all’ultimo parcheggio e camminare una quindicina di minuti per raggiungerle: inoltrarsi tra la sabbia, salire sulle alte colline sabbiose rappresenta un’esperienza faticosa ma affascinante, specie al tramonto quando la bianca sabbia si tinge di uno splendente color giallo. Occorre solo fare attenzione in caso di pioggia o temporali, perché in tal caso il pericolo dei fulmini è altissimo. Lasciamo il parco mentre grossi e neri nuvoloni si stanno minacciosamente approssimando all’orizzonte (siamo stati fortunati!) e raggiungiamo la R 160 che già inizia a piovere. E piove a dirotto mentre ci dirigiamo verso il North La Veta Pass, un passo di 3.360 m che però non presenta difficoltà alcuna. Discendiamo quindi all’incrocio con la I-25 che percorriamo in direzione Nord fino a Colorado Springs, dove prendiamo alloggio al Best Western “Executive Inn”. Colorado Springs è la seconda città del Colorado ed è una delle mete di vacanza più ambite: situata in posizione amena, ai piedi dell’imponente Pikes Peak, con numerose strutture ricettive di lusso tra cui uno dei più esclusivi Resort degli Stati Uniti, il Broadmoor, dove hanno soggiornato star di Hollywood, atleti famosi e molti Presidenti tra i quali anche Obama. La città è anche sede di quattro basi militari, fra le quali la US Air Force Academy, la prestigiosa Accademia aeronautica degli Stati Uniti d’America. Noi ci limitiamo a fare qualche piccolo giro, cenare in un ristorante senza particolari pretese e poi coricarci.
Giovedì 12 Luglio
Lasciata Colorado Springs ci dirigiamo sulla I-25 in direzione di Denver, fermandoci a Castle Rock, una vivace ed ordinata cittadina sormontata da una rupe sulla cui sommità la roccia assomiglia ad un castello (da qui il nome). Castle Rock è anche sede di un famoso Outlet, dove si vendono a prezzi convenienti articoli dei più famosi brands dell’abbigliamento mondiale. Restiamo quindi a Castle Rock tutta la mattinata ed anche buona parte del primo pomeriggio, pranzando in un ristorante del posto, dopo di che ci incamminiamo verso Denver. Giunti in città, poiché è ancora presto, ci rilassiamo qualche ora in un parco-giardino in prossimità del Cherry Creek State Park, un parco poco discosto dalla R 225, impreziosito da un laghetto e da verdi prati. Verso le 18.00 ci incamminiamo in direzione dell’aeroporto, per riconsegnare l’auto. L’operazione non richiede molto tempo: lasciamo con un pizzico di nostalgia il nostro potente SUV, che ci ha accompagnati per oltre 4.000 Km su strade anche molto impervie, dopo di che ci sorbiamo un caffè, gentilmente offertoci dall’Alamo e, con l’apposita navetta, ci rechiamo al Terminal dell’aeroporto. Le operazioni di controllo sono piuttosto lunghe, anche perché nello zaino abbiamo riposto delle bottiglie d’acqua, ma poi l’imbarco sul volo Southwest n. 304 segue spedito ed alle 20.40 decolliamo verso Chicago, dove giungiamo alle 23.30. Conoscendo ormai il Midway airport e già disponendo della Transit Card, prendiamo senza indugi la “Orange line” ed arriviamo in Albergo verso l’una di notte.
Venerdì 13 Luglio
Sveglia molto tardi, colazione, e subito via nel centro della città, nel Millennium park e nel Magnificent mile, per fare gli ultimi frenetici acquisti, ma non c’è molto tempo: pranziamo in un ristorante del centro dopo di che prendiamo la “Blue line” e quindi la monorotaia fino al Terminal 5 dell’aeroporto Chicago O’Hare, dove effettuiamo il check-in al banco dell’Alitalia. Il volo è Delta Airlines DL 8134 ( operato da Alitalia con volo AZ 629 ). La partenza è prevista in ritardo a motivo di un temporale scatenatosi su Chicago e quindi il take off è alle 19.15. La notte passa tranquilla: l’Airbus A 330 è confortevole: c’è tempo per sognare!
Sabato 14 Luglio
Atterriamo all’aeroporto di Roma Fiumicino alle 11.00, in ritardo per prendere il previsto volo per Milano, ma già sull’aereo ci avevano data comunicazione che Alitalia avrebbe disposto l’imbarco su un altro aereo: infatti, non appena atterrati, un addetto Alitalia ci consegna i nuovi Boarding Pass. Il nostro volo per Milano Linate è previsto alle 13.15, per cui abbiamo il tempo di pranzare in aeroporto. Alle 13.20 decolliamo da Roma su un nuovissimo Embraer 175 che in circa un’ora, dopo aver sorvolato l’Argentario, l’isola d’Elba, la Liguria e la Pianura padana, atterra a Milano Linate. Ad aspettarci c’è Francesca, che ci riporta a casa, dove arriviamo verso le 16.00.
Che dire del viaggio: bello, interessante, piacevole e, come ha scritto Agostina nel suo diario, sereno.