Ale&Vale in California!

San Francisco- Yosemite National Park- Sequoia e Kings Canyon National Park- Death Valley- Las Vegas- San Diego- Los Angeles- Monterey- San Francisco
Scritto da: ale1979
ale&vale in california!
Partenza il: 22/07/2010
Ritorno il: 07/08/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
San Francisco- Yosemite National Park- Sequoia e Kings Canyon National Park- Death Valley- Las Vegas- San Diego- Los Angeles- Monterey- San Francisco.

Questo l’itinerario di un viaggio unico, 4200 km di metropoli e boschi tentacolari, deserti lunari e oceani sconfinati.

Partiamo il 22 luglio da Roma con il volo delle 11:05. Biglietti prenotati su internet da febbraio, 800 euro a/r Roma/Charlotte/San Francisco con la US Airways.

L’aereo è puntuale, ma il viaggio fino a Charlotte, in North Carolina, si rivelerà lunghissimo, ben 10 ore. Guardo un film, poi un altro e un altro ancora. Comincio, finisco o lascio a metà non so più quanti cruciverba. Mangiamo del pollo abbastanza accettabile, ma non riesco a chiudere occhio.

Finalmente Charlotte! Al banco di accettazione per immigrati senza visto ci aspetta l’agente L. Un tipetto anonimo, scorbutico, dai grandi baffi e con un’improbabile aquila su sfondo a stelle e strisce tatuata sul braccio. A Valerio restituisce il suo passaporto quasi immediatamente, a me no. Farfuglia che al computer non piacciono le mie impronte digitali o forse la foto, non so, fatto sta che mi mandano con molta poca cortesia in un ufficio dislocato con tutti i bagagli ad aspettare che controllino a dovere il mio documento. Mi siedo in questa stanza asettica, dove non posso usare neanche il cellulare e soprattutto senza sapere perché sono stata trattenuta o se riuscirò a prendere la coincidenza per San Francisco. Arriva un’altra ragazza, congolese, tutta vestita di arancio, parla poco l’inglese, ma se la cava con il francese e l’italiano. Anche lei è incavolata marcia e ha paura di perdere il volo per Baltimora.

Vengo raggiunta da un agente albino, dagli occhi azzurri e un cognome probabilmente di origine polacca. Mi chiede se parlo inglese. Non faccio in tempo a rispondere che subito mi bombarda di domande. È la tua prima volta in America? Dove sei diretta? Perché proprio a San Francisco? Quest’ultima domanda mi sembra talmente assurda che quasi sbotto a ridere… La verità è che non so cosa rispondergli. Perché… boh, avevo curiosità… il fratello del mio ragazzo ci vive da circa 4 mesi e ce ne racconta meraviglie ogni sera su skype… ma è troppo personale… me la sbrigo con un banale “Because it’s a beautiful city… I hope so…” Lui capisce il mio imbarazzo, e quasi si scusa, spiegandomi che è costretto a fare queste domande, per quanto possano sembrare stupide. Nel frattempo mi ha messo a soqquadro la valigia, quella che ero riuscita tanto faticosamente a chiudere. Mi chiede quanto staremo e quando glielo dico lui si fa una risata, dicendo che ho portato davvero troppi vestiti per sole due settimane. Poi mi ordina di aprire l’altra valigia. È tua? No, del mio ragazzo. Ok, ma se ci sono armi o esplosivi sarai tu a passare un guaio. Ma per favore! Voglio solo andarmene da qui! Ovviamente non trova nulla di anomalo, tranne un cappellino dei Red Sox, souvenir da Boston, che lascia un po’ perplesso l’agente sulla reale cittadinanza del mio ragazzo.. E’ davvero italiano? E se sì perché questo berretto? Mi sento più esausta che mai.

Fuori, un po’ preoccupato, mi aspetta Valerio. Gli racconto l’accaduto, tanto ci aspetta una fila kilometrica per l’ennesimo controllo passaporti, ho tempo. Caspita quanta gente! Non credevo che questo aeroporto fosse uno snodo così importante! A bordo abbiamo i posti proprio di fronte alla toilette, un continuo viavai di persone ( e certi effluvi…) che non ci faranno riposare nemmeno per un attimo. Sono altre quasi 4 ore di volo, ma stavolta sarà più dura perché non ci sono televisori per l’intrattenimento e si paga tutto, sia da bere, a parte l’acqua, che da mangiare come fosse un volo low cost, quando in realtà non è low cost manco per niente!

Arriviamo a San Francisco che sono le 20:45, ora locale, 9 ore di fuso con l’Italia. L’aeroporto me lo aspettavo più moderno. In realtà sembra uscito da un film anni ’80 tipo “Kramer contro Kramer”: moquette azzurra e colonne rivestite di legno. Recuperiamo i bagagli poi andiamo a prendere il BART, un treno che in 40 minuti ci porta in centro. Fa un freddo micidiale! Alla stazione Powell ci aspetta Adriano. Che bello rivederlo dopo tutto questo tempo! Ci chiede come è andato il viaggio, come vanno le cose in Italia. Ci accompagna all’hotel Monaco in Geary Street con il taxi, poi scappa al cinema con la sua ragazza, Melissa, californiana di Tahoe, ma studentessa al college qui in città.

Questo albergo è stato un vero colpo di fortuna visto che siamo riusciti a prenotare a giugno inoltrato pagando circa 60 dollari a notte (ne resteremo 3) grazie a uno sconto del 10% ottenuto sul sito di TripAdvisor. L’albergo è uno schianto! La camera non è grandissima e neanche particolarmente illuminata, ma è molto di stile, con un baldacchino sopra il letto, uno specchio tondo gigantesco, armadi e cuscini orientaleggianti e carta da parati a righe, come un elegante ufficio anni ’30. Vorremmo andare a mangiare qualcosa, ma siamo esausti. Preferiamo fare una doccia e infilarci sotto le coperte.

La mattina dopo ci svegliamo molto presto e questo ci permette di fare tutto con più calma. Per via del fuso orario non ho mai fatto una dormita come si deve in 12 giorni, svegliandomi sempre intorno alle 4 praticamente tutte le notti. Il cielo è nuvoloso, c’è nebbia e fa molto freddo. Questo tempaccio pare sia una costante a San Francisco, almeno la mattina fino a mezzogiorno, quando la nebbia poco a poco comincia a diradarsi. Facciamo colazione allo Starbuck’s più vicino e a piedi arriviamo a Union Square, forse il punto nevralgico della città, ad appena due isolati. Un angelo si erge su una colonna al centro della piazza e ai quattro angoli dei cuori- scultura molto originali e dalle fantasie double-face. Ci sono Macy’s con i suoi immensi otto piani, grattacieli di media altezza, forse uffici, qualche galleria d’arte. Cominciamo a prendere confidenza con le ripide salite che caratterizzano la città e all’angolo con Bush Street prendiamo il cable car (5$ a corsa) per arrivare in zona porto. E’ stato davvero un viaggio stravagante che ci ha regalato degli scorci mozzafiato, su e giù per le colline di Frisco aggrappati a quei macinini che non sembrano per nulla affidabili, ma che aiutano a preservare quel sapore vagamente hippie tipico della città della Summer of Love. Scendiamo al capolinea che è ancora molto presto, la maggior parte dei negozi a Ghirardelli Square deve ancora aprire i battenti. Gironzoliamo per la baia, da dove in lontananza si erge uno degli altri simboli di San Francisco, il Golden Gate Bridge, avvolto nella foschia. C’è molto silenzio, qualche gabbiano becchetta sul bagnasciuga e qualche nuotatore impavido affronta le gelide acque dell’oceano con la muta addosso. Passeggiamo per il Fisherman’s Wharf, un tempo cuore commerciale dei pescatori che sbarcavano con il loro carico di pesce, oggi zona molto vivace, piena di negozi di souvenir e ristoranti a buon mercato. C’è musica nell’aria e dalle cucine proviene quell’odore di cibo che sempre accompagna le nostre camminate all’estero. Dal Pier 39 si gode un’ottima vista sull’isola di Alcatraz, che non immaginavo così vicina, e sui simpaticissimi leoni marini, belli spaparanzati sulle loro piattaforme in mezzo all’acqua, l’uno abbarbicato sull’altro. Qui è stato completamente ricostruito un villaggio in stile marinaro, piccole botteghe in legno, molto caratteristiche, che vendono giocattoli, dolci, frutta gigantesca, ricordi. Al centro una giostra tutta illuminata mette allegria, se mai ce ne fosse bisogno: l’atmosfera è elettrizzante, qui è davvero impossibile annoiarsi! Attraversiamo la strada per andare alla ricerca di Lombard Street, la strada più ripida del mondo cita la guida, con i suoi 27 gradi di pendenza. C’è anche una bella foto che mostra delle macchine in fila circondate da aiuole colorate di ortensie. Ma di questo scorcio neanche l’ombra. Ci spiegano che Lombard è un’arteria principale della città, sarà difficile trovare proprio quel punto a piedi. Intanto lo stomaco brontola così ci fermiamo in un supermercato per uno spuntino a base di frutta, poi torniamo alla zona dei Pier. Tornati sui moli facciamo i biglietti per una crociera di 60 minuti, la Blu and Golden Fleet (43 $ a testa) che partirà proprio dal Pier 39 e che ci permetterà di vivere l’ebbrezza del mastodontico ponte arancione e del penitenziario più famoso del mondo, senza però visitarne gli interni: non ci interessavano più di tanto. La nave salpa per le 15:15, abbiamo tempo di pranzare con uno degli immensi shrimp sandwich al Wharf. Pensiamo di godercelo all’aperto, su una delle panchine affacciate sul mare, ma i gabbiani sono davvero molto aggressivi, e uno mi plana addosso con le sue pesanti zampe per assicurarsi almeno un boccone di gustosi gamberetti. Dopo la crociera siamo davvero molto provati. Torniamo verso Ghirardelli Square e ci stendiamo un po’ sul prato dirimpetto alla famosa ex fabbrica di cioccolato per goderci questo magnifico sole che si è fatto davvero attendere troppo. San Francisco ha tutta un’altra fisionomia sotto la luce del sole, ma forse questo vale un po’ per tutti i luoghi nel mondo. Un cantante di strada lì vicino ci allieta con le canzoni di Bob Dylan. Restiamo un po’ a godercelo, poi entriamo al Ghirardelli Shop, dove ci danno un assaggio di un delizioso cioccolatino ripieno di caramello. Impossibile non comprare niente: il cable car in miniatura carico di barrette di cioccolato deve essere mio! Certo, non so come sopravvivrà agli spostamenti dei prossimi giorni, ma a questo ci penserò solo qualche tempo dopo, in mezzo ai folli 49 gradi della Death Valley! Cerchiamo un taxi o un cable car che non trabocchi di passeggeri per arrivare a Lombard Street, ormai ce la siamo messa in testa, ma non siamo fortunati. Ci tocca farcela a piedi e tutta in salita (San Francisco non si può certo definire ideale per lunghe passeggiate) finché un capannello di turisti ci avvisa che siamo arrivati e con il fiato corto ci mettiamo in fila a fare le foto di rito. E’ impressionante, mai vista salita più impervia in una metropoli! E farla a piedi lo è ancora di più! Ma il colpo d’occhio sulla baia è a dir poco grandioso e poi è tutto colorato, tutto fiorito di bucanville e ortensie… la foto sulla guida diceva il vero, eccome! Per tornare in hotel aspettiamo il solito cable car o taxi, ma niente, entrambi i mezzi arrivano sempre troppo carichi. Scendiamo a piedi finché finalmente non troviamo un taxi libero che per soli 8 $ ci riporta in centro. In albergo dormiamo un po’, ci facciamo una bella doccia, comunichiamo con il resto del mondo grazie alla connessione wi-fi compresa nel prezzo e il computer che ci siamo portati da Roma. Adriano ci chiama per sapere come è andata la prima visita della città e ci propone di andare a cena fuori stasera insieme a Melissa al Cheese-Cake Factory, all’ultimo piano di Macy’s. Cibo ottimo e splendido panorama di Frisco by night.

Il 24 luglio ci svegliamo sotto il solito freddo cielo plumbeo. Ci scaldiamo da Starbuck’s, poi entriamo a ChinaTown per esplorarla più da vicino. Nessun altro “ghetto” è tanto caratteristico come questo a Frisco. A New York, per esempio, in quella che viene convenzionalmente definita ChinaTown non c’è niente di particolarmente folkloristico, se non una puzza micidiale e liquami biancastri ai bordi delle strade. Qui sembra che la popolazione abbia voluto ritagliarsi un angolo di Cina vero con tanto di porta colorata a delimitarne i confini, leonesse di pietra a presidiarne l’ingresso, lanterne rosse appese per la strada, lampioni ornati di draghi d’oro, insegne con le loro incomprensibili scritte. Ci sono negozi che vendono spezie, abiti simil seta, candele profumate, paccottiglia kitch, pugnali ornamentali, oggetti di giada o quasi. C’è il tempio dal quale proviene una monotona litania e di fronte una chiesa austera in mattoni con una grossa e severa citazione biblica scritta in caratteri dorati sotto l’orologio. Qui non si parla inglese.

Girato l’angolo siamo nel quartiere di Nob Hill, un po’ bohemien e si dice ancora frequentato da giovani o aspiranti artisti come ai tempi della generazione beat di Jack Keruoac che qui aveva il suo covo, al Cafè Vesuvio, ancora in attività. Pochi passi ed entriamo nel Financial District, caratterizzato dagli altissimi grattacieli tra i quali spicca l’originale Pyramid, onnipresente in ogni skyline. Adriano ci ha consigliato di proseguire a piedi fino all’Embarcadero, altra zona del porto che si sviluppa in prossimità del lunghissimo Bay Bridge, meno famoso del Golden Gate, ma comunque di grande impatto visivo. E’ tutto così entusiasmante qui! Complice forse il bel tempo, è splendido mescolarsi tra la gente, curiosare tra i mercatini che vendono fiori, magliette colorate, porta fortuna, quadri, fotografie, frutta, verdura, palloncini. Alle spalle una strana fontana di tubi cavi a sezione quadrata aggrovigliati su se stessi, dai quali sgorga tanta di quell’acqua da restarne affascinati e poi un grande centro commerciale, ordinato e pulitissimo. Dal Pier 14 si estende un vasto lungomare preso d’assalto da gente a spasso col proprio cane, che corre o và in rollerblade. Una singolare scultura raffigurante un arco che scocca un’enorme freccia nel terreno ci incuriosisce, così ci avviciniamo il più possibile, fino a ritrovarci seduti sul prato all’ombra dell’opera stessa. Riprendiamo fiato, poi prendiamo il Bart che ci conduce dritti in zona Civic Centre, altro quartiere consigliato da Adriano dove però non capisco cosa ci sia di così interessante da vedere, se non una grande e bizzarra scultura in bilico sul ciglio della strada raffigurante uno strano idolo a tre teste e con tante di quelle braccia da sembrare dei tentacoli, una rosa per ogni mano. Alle sue spalle il maestoso municipio, dalla cupola dorata, e dietro ancora l’Opera. Questa è zona pedonale, c’è un grande giardino abbastanza curato dove si sta tenendo un comizio di neri a suon di musica rap a palla per difendere il ghetto e le proprie radici. La facce però, bianche o nere che siano, non sembrano molto raccomandabili, così preferiamo aspettare un taxi che finalmente ci porta a pranzo. Torniamo a China Town, in una delle sue vie più affollate, Stockton, piena di negozi brulicanti di persone e di odori: carne affumicata, pesce sotto sale, radici di zenzero, oche arrostite appese per il collo, strani vegetali rossi bitorzoluti, sudore, smog. Qui c’è lo Yuot Lee, ristorante straconsigliato dalla guida. L’igiene è carente, ma ragazzi, mai mangiato cibo cinese migliore! Le porzioni sono enormi e i noodles con carne di maiale affumicata e glassata erano superbi! Il problema ora è tornare in hotel con questo caldo e questa laboriosa digestione in corso! Nel pomeriggio ne approfittiamo per riposare. Non mi va di preparare i bagagli ora. Non vorrei rischiare di svegliare Valerio che dorme come un angioletto. Prendo il computer e resto fino a tardi a cercare qualcuno con cui chattare. Ma l’Italia non risponde.

Il mattino seguente, salutati i ragazzi siamo definitivamente pronti a lasciare San Francisco. A piedi arriviamo alla stazione BART più vicina. Un gruppetto cencioso con le chitarre è seduto per terra a intonare Mrs Robinson. Uno di loro mi si avvicina chiedendo di comprargli il suo bel fiore di foglie di papiro fatto a mano. Valerio nel frattempo viene avvicinato da un omone di colore che per il suo fare esperto nell’aiutarci a fare i biglietti con la macchinetta credevo facesse parte dello staff delle ferrovie. Invece è un barbone, e quando Valerio gli ha allungato un dollaro per ringraziarlo per la collaborazione lui ne ha chiesti altri due in più. Per tornare a casa, ha detto. Chiedono la mancia non solo al ristorante, dove molto poco elegantemente lasciano scritto sulla ricevuta fiscale “a suggestion of tip” (e anche se non ci fosse scritto andrebbe comunque lasciato dal 18% al 20% sul prezzo totale, tasse escluse) , ma a quanto pare anche i senzatetto!

Il mio biglietto non dà problemi ai tornelli, quello di Vale sì e gli tocca pure cercare di convincere le due acide donne in guardina che sembrano non credere che il biglietto sia nuovo.

Frastornati arriviamo in aeroporto all’ufficio della Hertz dove dobbiamo ritirare la nostra macchina già prenotata e pagata su internet per 320 euro in totale. Dopo un po’ di fila sbrighiamo le ultime formalità e ci consegnano le chiavi della nostra Kia Rio. Mamma mia! Va beh che avevamo chiesto una macchina economica, ma non ci aspettavamo COSI’ economica! Non c’è la chiusura centralizzata, niente alza cristalli elettrici, parabrezza scheggiato. Forse perché siamo abituati agli standard europei, dove ogni volta che abbiamo noleggiato un’utilitaria ci hanno sempre dato modelli superiori alle aspettative. In America evidentemente funziona pressa poco così: micraniosa = economica. E in giro infatti si vedono solo mega suv, jeep assurde che sembrano servire più a colonizzare il Kwait che per fare la spesa al supermercato, pick up con sospensioni talmente rialzate da chiedermi se per salire o scendere si aiuteranno con una scala e tutti rigorosamente made in USA. Non c’è niente da fare, sono nazionalisti anche nello scegliere le macchine! Per fortuna avevamo con noi il navigatore satellitare completo di mappe della California e del Nevada acquistate sul sito della Garmin per 50 dollari, altrimenti non so come avremmo fatto a lasciare San Francisco o, tra qualche giorno, ad orientarci per le caotiche vie di Los Angeles!

Fuori città si comincia a denotare la vita di provincia. Passiamo lungo strade costeggiate da sconfinate coltivazioni di frutta e verdura, fast food ad ogni angolo, bandiere a stelle e strisce appese un po’ ovunque o dipinte direttamente su vecchi caseggiati, e chiese di qualsiasi ordine religioso per ricordare che IN GOD WE TRUST. A Manteca ci fermiamo per uno spuntino messicano da Taco Bell. Due ragazzi giochicchiano con un taglierino, hanno scritto NOIA DELLA DOMENICA a caratteri cubitali in faccia. Ci rimettiamo in macchina e finalmente arriviamo ad uno degli ingressi per lo Yosemite National Park. Ogni auto paga 20 dollari e il pass è valido per 7 giorni. Proseguiamo su viali alberati e pendii di alberi bruciacchiati, facciamo benzina in uno dei pochi distributori presenti all’interno del parco e raggiungiamo il nostro campeggio, il Mother Curry Camp, in piena Yosemite Valley. La cabin tent, ovvero una tenda rialzata da terra e con una branda e qualche altro scarso mobilio all’interno, è stato uno degli alloggi che abbiamo dovuto prenotare e pagare con maggior anticipo (circa 50$ a notte), visto che i posti disponibili sono pochi e vanno letteralmente a ruba. Anche una volta arrivati e vista la fiumana di persone ospiti all’interno del nostro complesso mi sembrava impossibile che fossimo riusciti ad accaparrarcene uno. Con la registrazione ci danno la chiave della nostra tenda, la 648, una mappa dettagliata del parco e una lista di oggetti da non tenere assolutamente a portata di orso. Questa storia degli orsi mi sembra un po’ una montatura, per quanto, tra i diari di viaggio che mi sono letta prima di partire, in molti raccontavano di averne visto almeno uno: in fondo ci spero un po’. Parcheggiamo la macchina ed è uno spasso vedere Valerio alla prese con la vita da campeggiatore. Io di volata capisco subito che non è il caso di portare tutto il trolley visto il terreno di polvere e ghiaia, quindi lesta mi preparo una piccola busta con i cambi per questi due giorni e qualcosa per il bagno. Valerio non ci pensa proprio ad abbandonare le sue comodità e testardo come un mulo porta con sé il borsone trasportandolo a fatica su quel terreno sterrato attirando la curiosità dei vicini. La tenda mi sembra una meraviglia, sotto un bosco di altissimi pini, praticamente l’ombra è assicurata. E poi è pieno di scoiattoli in giro e c’è un buon odore di resina. Bisogna pensare a nascondere le provviste e la roba da toilette: pare che gli orsi siano molto attirati anche da saponi e dentifrici, così nascondiamo tutto negli appositi food storage a disposizione all’esterno di ogni tenda. Mi accorgo di aver scordato in macchina il phon, Valerio si offre per andarmelo a prendere quando ecco che lo vedo tornare tutto trafelato urlando di seguirlo: sull’albero sotto il quale abbiamo parcheggiato la macchina c’è un orso. Non si è fatto attendere l’amico! Lo seguo correndo ed emozionatissima scarico la macchina fotografica per immortalare questo ciccione che fruga tra i rami in cerca di qualche frutto. I ranger invitano ad allontanarci e svelti circondano l’albero, ma l’animale tira fuori una insospettata agilità e rapido scende per poi risalire di corsa su uno degli alberi vicini, resta un po’ a curiosare finché stufo si allontana spontaneamente nella foresta. Incredibile! Solo questo incontro ravvicinato vale tutto il viaggio!

Siamo davvero elettrizzati, non ce la facciamo ad andare a cenare ora. Forse se facciamo una passeggiata qui intorno possiamo vedere altri animali. Non ci allontaniamo troppo dal campeggio, restiamo nei pressi di un fiume limpidissimo frutto della furia della vicina Brideveil Fall, dove alcuni turisti stanno facendo il bagno. Che pace, che luogo pazzesco! Lo Yosemite è indiscutibilmente il posto più bello visto in tutta la nostra grandiosa vacanza! Per cena ci fermiamo al Pizza Patio all’interno del campeggio, uno dei posti in cui si può mangiare oltre il ristorante, il bar e lo spaccio che vende panini, schifezze varie e souvenir. C’è anche un negozio per attrezzature di montagna. Mangiamo all’aperto a mo di picnic in mezzo a tanti sconosciuti, poi ci facciamo la doccia e andiamo a dormire. E’ fresco, è piacevole, mi ricorda i campeggi in Puglia e in Sardegna quand’ero piccola. Mi addormento cullata dal rumore della cascata. Il “velo di sposa” è implacabile anche stanotte.

La mattina seguente alle 5 siamo già in piedi anche se è una meraviglia restare ancora un po’ accoccolati tra le coperte a godersi il risveglio della natura con l’infinito sottofondo della cascata. In realtà abbiamo anche timore di dover far la fila per le docce, davvero troppo poche, solo 12, per servire un complesso così grande. Alle 6 siamo pronti per la nostra prima escursione a piedi, si va al Mirror Lake, una passeggiata di circa 10 km andata e ritorno che non scorderò mai. Eravamo completamente soli, circondati da alberi altissimi, il rombo del ruscello che scorreva lì vicino e l’Half Dome che si stagliava all’orizzonte. Quando arriviamo al lago la luce conferisce una strana colorazione blu ai massi che ingombrano l’alveo ed è solo silenzio, interrotto soltanto dal becchettare di qualche picchio, qualche scoiattolo, qualche uccello dalle piume meravigliosamente azzurre. Tornando indietro all’imbocco con il sentiero per il campeggio prendiamo al volo una delle tante navette gratuite all’interno del parco e ci fermiamo a far colazione al bar del Gran Pavillon con una buona cioccolata calda e un brownie. Compriamo dei panini e dell’acqua allo spaccio per il picnic di oggi, quindi ci mettiamo in macchina e partiamo alla volta del Glacier Point. Poco prima di una galleria sulla Big Oak Drive si gode un ottimo punto di vista sulla sottostante valle dal Tunnel View, poi degli interminabili lavori stradali hanno un po’ frenato i nostri entusiasmi. Stanno rifacendo il manto stradale e per evitare incidenti scortano le auto alternando una corsia all’altra addirittura con una safety car.

Dal Glacier Point si vede il ghiacciaio che ha contribuito, insieme ai vari smottamenti del terreno nel corso dei secoli, a rendere possibile questo paradiso, poi, cartina in pugno, partiamo per l’angolo più remoto del parco, dove pochi si spingono perché oltre non c’è nulla, fine della strada, la così detta wilderness: andiamo a Tuolumne. La distanza percorsa sarà pressappoco come tra Roma e Napoli, non facile su stradine ripide di montagna. Nonostante la voglia di arrivare però non abbiamo potuto fare a meno di fermarci spesso lungo la Tioga Drive per immortalare prati, campi fioriti, laghi incantevoli come il May Lake o l’immenso e super blu Tenaya Lake e l’Olstead Point, che invece sembra uno scorcio di deserto di pietra. Le Tuolumne Meadows sembrano un immenso e verdissimo prato, in realtà sono terreni paludosi dove non possono crescere alberi. In compenso ci sono tante altre piante e molti animaletti deliziosi, tra i quali una tenera talpa. Quando torniamo all’accampamento sono già le 18 passate. Tramortita mi butto svenuta sul letto e quando mi sveglierò sarà già buio. Stasera fa molto freddo. Quattro coperte e una felpa con cappuccio non basteranno a tenerci caldi.

La mattina seguente ci svegliamo di nuovo all’alba per andare a fare le docce e rimetterci in cammino. Mi dispiace da matti dover lasciare questo posto incantato, ma c’è il Sequoia National Park ad attenderci. Uscendo dal campeggio ci attraversa allo stop una cerva seguita dai suoi due piccoli. Sono elegantissimi, dal passo felpato e non hanno fretta: abbiamo tutto il tempo di goderceli finché non spariscono in mezzo alla foresta. Io e Valerio ci siamo guardati attoniti, come se fosse stata un’immagine onirica, qualcosa di soltanto immaginato. E nello stesso tempo ho capito che eravamo noi gli intrusi..mi sono sentita quasi un’ospite di troppo. Saranno state le 7 quando, di fronte a un immenso pianoro, vediamo accostare una macchina targata Washington. A bordo due giovani gemelli, scrutano l’orizzonte in silenzio. Valerio domanda se hanno visto qualcosa e loro, con fare esperto, ci dicono che là in mezzo si muovono dei rami, c’è sicuramente qualche orso. Ci mettiamo sul ciglio della strada ad osservare quasi in apnea quell’immensa radura apparentemente immobile. Poi lo vediamo anche noi, un orsacchiotto dalla pelliccia marrone, si sta grattando il dorso lungo una corteccia e ora và a ripararsi in una tana nascosta da una tronco caduto. Ai ragazzi basta così. Ci augurano una buona giornata e se ne vanno, noi restiamo soli ad aspettare che l’animale riemerga. Prendo un bastone e comincio a batterlo sulla staccionata poi lo getto tra l’erba e tutto quello che sembro ottenere è solo lo svolazzare infastidito di una papera. Poi eccolo, l’orso esce dalla sua tana e lento si allontana attraversando la strada a neanche 20 metri da noi. Siamo stupefatti! A Yosemite ho lasciato il cuore e devo dire che le levatacce all’alba sono state stancanti sì, ma assolutamente necessarie se si vogliono vedere più animali possibili.

Prendiamo la Wawona Drive per raggiungere il Mariposa Grove, piccolo angolo di Yosemite dove si può avere un assaggio di quelle che saranno le sequoie del successivo parco. Dopo circa tre ore di viaggio in mezzo al nulla arriviamo all’ingresso del Sequoia National Park. Il ranger all’ingresso, una volta pagato, ci dà la consueta cartina e quando gli chiediamo quanto dista il nostro alloggio, il Cedar Grove Village, si fa una mezza risata, dicendo che ne abbiamo di strada da fare: da qui sono più di 80 miglia, dobbiamo arrivare al confine del Kings Canyon National Park, oltre il quale c’è solo la wilderness. La cosa ci scoraggia non poco, visto che siamo già piuttosto stanchi. Ci fermiamo per fotografare la Tunnel Rock, costeggiata da un bosco e da un ruscello che scorre impetuoso sotto di noi, poi ci rimettiamo in marcia. Ancora lavori stradali: una ranger passa tra le auto immobili sotto il sole per scusarsi dell’inconveniente, ma si prospettano 30 minuti di stop.

Arrivati nella parte occidentale della Sierra Nevada ecco comparire le prime immense sequoie, dal massiccio tronco rossiccio, e non è più deserto, ma improvvisamente un fitto bosco rigoglioso che sembra catapultarti in un’altra dimensione, su un altro pianeta, dove tutto è istantaneamente diventato più grande o dove tu, lilliputiano intimorito, sei divenuto piccolo e insignificante. Le sequoie vanno osservate in silenzio, con rispetto. Non semplici alberi, ma testimoni di un antico passato, vetusti saggi di 1500 anni che chissà quante storie potrebbero raccontare se solo avessero una voce. Certe rimangono in piedi ancora rigogliose nonostante l’età, come il Generale Sherman, dal diametro spaventoso, circa 12 metri: in foto il tronco sembra la zampa terrificante di qualche animale preistorico. Altre sono cadute per il loro peso o per qualche subdolo parassita che ne ha minato l’interno, ma continuano a stupire e ad affascinare con le loro prodigiose radici che si stagliano a raggiera.

Il vantaggio di avere l’alloggio al confine con il parco è che ci ha permesso di vederlo tutto in lungo e in largo in un solo giorno. Lo svantaggio è che è stato a dir poco massacrante: quando siamo arrivati al nostro lodge eravamo allo stremo delle forze. Il Cedar Grove Village è un capannone polivalente in mezzo alle montagne, attaccato a un camping e a un fiume che scorre sul fondo del Kings Canyon a circa 3500 metri di profondità. Ci sono poche camere per dormire, il negozio di souvenir all’interno dello spaccio, una tavola calda che serve la colazione, panini e carne per il pranzo e la cena. Non si può fare a meno di pensarlo d’inverno, sepolto sotto fitte coltri di neve e con la strada probabilmente chiusa per il gelo. La stanza è la numero 17, crepi la superstizione, un po’ vecchiotta, forse degli anni ’60, ma talmente grande da trovare spazio addirittura due letti matrimoniali! Facciamo una doccia veloce poi scendiamo per cenare con un hamburger caldo al pollo. Crolliamo dal sonno, in particolare Valerio, che ha guidato a più non posso oggi.

Il mattino seguente ci sentiamo come rigenerati. Dividiamo un pancake per colazione e ci mettiamo su strada ripercorrendola a ritroso. Queste montagne sono splendide, maestose, quasi tutte venate di verde rame, e poi a picco il fiume che avevamo visto anche ieri, solo che oggi possiamo godercelo, ammirarlo in tutta la sua foga e nei suoi gorghi. Non nego che un po’ di vertigini le ho avvertite anch’io a quell’altezza, ma anche questa è stata una sensazione che mi è piaciuta, nuova, quasi adrenalinica. Il paesaggio cambia di nuovo non appena passato il Canyon. Ritornano ampi prati fioriti e poi i boschi di sequoie, anzi, ne andiamo a visitare una molto famosa, il Generale Grant, dichiarata ufficialmente The Nation’s Christmas Tree. Accanto ad essa il Fallen Monarch, un enorme albero cavo nel quale si può camminare per qualche metro. Lasciamo anche questo parco nazionale e ci dirigiamo verso il deserto, la Death Valley ci aspetta. Ma per raggiungerla il nostro navigatore ci fa fare una strada lunghissima, che si inerpica su e giù per la torrida Sierra Nevada, popolata soltanto da corvi, falchi e pochi, pochissimi contadini. Un po’ di gente si comincia a vedere intorno a Lake Isabella, estrema punta sud della Sierra, dove qualche villeggiante se la gode in barca a cercare un po’ di fresco. Si susseguono miglia e miglia di strade perfettamente dritte che si perdono all’orizzonte, in mezzo al nulla. E’ un miracolo riuscire a trovare una pompa di benzina con annesso Subway, dove ci rifocilliamo con un delizioso panino con tacchino e avocado. Fa davvero caldo qui. Sembra ci sia un gigantesco phon fisso su di noi, ma la situazione peggiora quando varchiamo i confini del Death Valley National Park. Ci sono 49 gradi centigradi, e si sentono tutti. La terra da brulla si fa rossa, poi arida, completamente, assetata di acqua che credo non cadrà da millenni in questa zona dimenticata da Dio. Passiamo il primo dei due unici insediamenti umani all’interno della valle, la Stovepipe Wells, dove, secondo la leggenda, un operaio avrebbe trovato l’acqua conficcando nel terreno un pezzo di stufa, poi ci imbattiamo nel deserto vero e proprio, quello classico, fatto di dune di sabbia. Restiamo stupiti di fronte a questo scenario surreale, in costante mutazione non appena cambia il vento. Ci rimettiamo in macchina sudatissimi e proseguiamo verso il nostro lodge, il Furnace Creek Ranch, l’altro insediamento umano, un’oasi rigogliosa in passato. E’ quasi l’ora del tramonto, momento ideale secondo la guida per vedere panorami ineguagliabili come lo Zabrieskie Point o l’Artist’s Drive. Siamo stanchi, è vero, ma pensiamo valga la pena ritardare un po’ le nostre docce, così raggiungiamo prima il famoso punto d’osservazione che ha dato anche il titolo al celebre film di Antonioni, poi all’Artist’s Palette o Drive, montagne che da brulle si accendono di rosso fuoco grazie alla magica luce del tramonto. C’è un silenzio irreale. Ho scoperto che il deserto mi rilassa. E’ il luogo ideale per riflettere su se stessi e forse è anche per questo che i pellirossa erano così profondi e poetici. Arriviamo fino a Bad Water, il punto più basso della Terra, ben 855 metri sotto il livello del mare. In età preistorica qui giaceva uno sconfinato lago salato che poi, a causa di evaporazioni e smottamenti nel corso dei secoli, ha lasciato in superficie queste immense distese di sale. Sembra di stare sulla luna o su qualche altro remoto pianeta, tutto fuorché la Terra. Non si arrivano a immaginare posti così sui generis sul nostro pianeta se prima non si vedono coi propri occhi. Stanchi ma contenti torniamo al ranch, circondato da palme, dove ci danno le chiavi del nostro bungalow. C’è un letto bello alto, il ventilatore a pale e il condizionatore, fondamentali, la tv, il frigo, ma in bagno non si riesce ad avere l’acqua fredda! Ci facciamo una doccia bollente, quindi, poi vorremmo andare a cena. L’unico locale aperto alle 21 nel comprensorio, tutto in stile old west, è un saloon che ha pochi piatti nel menu e tutti carissimi. Prendiamo un antipasto e due insalate, ma le porzioni sono talmente misere (strano, per essere in America) che non riusciamo a saziarci. Optiamo per il dolce quindi, due favolose coppe di fragole con crema di champagne e panna. Ci sentiamo raggirati però. Con la scusa di stare nel deserto e con il primo ristorante valido lontano anni luce da qui se ne sono proprio approfittati. Ce ne andiamo a letto con la musica di Paul Mc Cartney in concerto in tv. E un cielo che così stellato non l’ho mai visto da nessun’altra parte!

L’indomani partiamo alla volta di Las Vegas. Prepariamo i bagagli, compriamo allo spaccio biscotti e succhi per la colazione (non ci teniamo proprio a farci rapinare nuovamente alla tavola calda), l’ennesima calamita per ricordo e siamo su strada. Prima di lasciare definitivamente la valle però facciamo una capatina alla Dante’s View, altro noto punto panoramico dal quale si gode una vista fantastica della vallata. Siamo a più di 1600 metri d’altezza e il colpo d’occhio sul sottostante bacino di Bad Water ha dell’incredibile. Distese sterminate di sale bianchissimo, come pallidi laghi antichi maculati dalle ombre di nuvole veloci. Fotografiamo un ramarro immobile su un masso a crogiolarsi al sole (non si sa come sia riuscita ad accorgermene passando in macchina), quindi partiamo per il Nevada. A un centinaio di km di distanza dal confine californiano, in pieno deserto, si sviluppa Las Vegas, come un’oasi tentatrice dopo tanta solitudine. Il nostro albergo è al centro della Strip e si chiama Bill’s Gamblin Hall and Saloon. La reception è un angolo all’interno del casino, deliziosamente old fashioned, e al momento della registrazione una bella sorpresa: senza un soldo in più ci hanno dato una suite! Vagamente increduli saliamo alla stanza 430. Valerio apre la porta e un sorriso improvvisamente si dipinge sulle sue labbra. Questa non è una stanza. E’ un appartamento di 90 mq!!! Moquette morbidissima, mobili, arredi e quadri eleganti. Un divano che avrebbe potuto far accomodare 10 persone. L’angolo bar, con tanto di sgabelli in velluto, frigorifero e tutto l’occorrente per eventuali cocktail. Letto a tre piazze, due tv enormi, una celata nell’armadio. Due bagni di cui uno con cabina doccia in marmo enorme e con una jacuzzi per due persone dai rubinetti dorati. Siamo all’ultimo piano, la vista dalle finestre è spettacolare. Abbiamo davanti la Tour Eiffel, la monorotaia di Bally’s, varie insegne pubblicitarie ammiccanti, il Bellagio con il suo orologio e le sue magiche fontane che vanno a tempo di musica . Ragazzi, ci sembra un sogno! Non stiamo più nella pelle! Scegliamo di goderci a pieno “la stanza” prima di buttarci nella bolgia della “sin city”, poi ci cambiamo e usciamo a spasso per la Strip. Come descrivere Las Vegas? Sembra facile … Posso dire che ce la immaginavamo molto più squallida. In realtà è pazzesca, divertente, giovane! Lungo la Strip piccole città a tema, perché non si possono definire banalmente hotel o casino. E allora ecco quella ispirata al mondo dell’antica Roma, come il Caesar’s Palace, o al sofisticato ambiente parigino: dall’altra parte della strada troviamo la Torre Eiffel, circondata dal Louvre, dall’Arco di Trionfo e da una mongolfiera che ricorda le atmosfere burlesque. C’è l’angolo New York New York, con Lady Liberty, lo skyline di grattacieli tra i quali svetta una copia rimpiccolita dell’Empire, il ponte di Brooklyn e addirittura il luna park di Coney Island! Nel casino dell’MGM ci sono due leonesse vere inscatolate in plexiglass con tanto di baobab e liane per riprodurre l’habitat della savana. Ormai hanno perso qualsiasi stimolo da predatore e giochicchiano svogliate a palla, come due micione farebbero con un gomitolo, insieme a uno dei guardiani, mentre fuori svetta dorato il leone simbolo della nota casa di produzione cinematografica. Attraversiamo lungo uno dei tanti passaggi pedonali sopraelevati ed eccoci catapultati nel mondo egizio: c’è il Luxor, delle stesse dimensioni e forma della piramide di Cheope, con la Sfinge e l’obelisco che dominano il parcheggio antistante. All’interno il tempio di Abu Simbel e le camere disposte lungo le ripide pareti della struttura che si affacciano direttamente nell’atrio. Ancora: l’Excalibur è un enorme castello medioevale, nel Mirage c’è il Cirque du Soleil che dà uno spettacolo tutte le sere sul tema dei Beatles, e poi grattacieli dorati, a specchio, tondeggianti che ospitano griffe famose nel mondo o negozi divertenti e colorati come quello sulle M&M’s! Ci fermiamo da Pink’s a mangiare due ottimi hot dog, poi, davvero stanchi, sudati e assetati torniamo in albergo. Quando cala la notte comincia il vero spettacolo. Si accendono le luci e la città si popola. La gente si riversa per le strade trafficate, molti a bordo di lunghissime limousine. Altri si chiudono nei casino a rimbambirsi con il tin tin dei video poker: la corsa all’oro nel deserto non è finita manco per niente! Ballerine “svestite” come le plus belle a spasso per la strada, con i loro costumi di lustrini e boa di piume; altre con giarrettiera in evidenza e lunghe gonne rimboccate a metà, come fossero artiste di can can. Sosia ad ogni angolo, alcuni davvero identici ai vari beniamini del mondo dello spettacolo, come Michael Jackson, Jack Sparrow o i Blues Brothers. Intanto musica a palla da ogni parte, luci, luci e ancora luci, da restarne abbagliati, locali di spogliarelliste e lap dance. E ho capito che la Las Vegas la fanno anche le persone e non solo le grandi e bizzarre costruzioni. Ceniamo da Denny’s, un locale per famiglie decisamente più a buon mercato dei ristoranti degli alberghi, poi ce la facciamo a piedi fino al Venetian Palace, il mio preferito, molto chic, e con le gondole da affittare per fare il giro della laguna. Quando torniamo in camera sono quasi le 2. Domani abbiamo molta strada da fare fino a San Diego, ma non ce la facciamo ad andare subito a letto, così ne approfitto per una video chiacchierata molto emozionante con la mia famiglia su skype: in Italia sono le 10 del mattino. L’unico rammarico è di non essere rimasti una notte in più. Non vedo l’ora di ritornarci!

Il mattino seguente alle 9 siamo già in macchina per raggiungere San Diego, 530 km noiosi su strade a sette corsie molto trafficate. Il nostro hotel si chiama Old Town Inn, vicino al “centro storico”, il classico motel americano che si vede nei film, con le camere che da sopra si affacciano nel parcheggio. Il tempo è grigio (?) così ne approfittiamo per riposare un po’, sperando che il cielo schiarisca. Usciamo nel tardo pomeriggio per esplorare la zona del porto. Di fronte a una delle basi marine militari più importanti d’America c’è una bella zona turistica chiamata Seaport Village: barche a vela ordinatamente attraccate, ristoranti di pesce, botteghe che vendono cibo, souvenir, vestiti, conchiglie, oggetti d’arte, giocattoli. Da qui si gode un’incantevole vista sulla baia, popolata da mimi, allevatori di pappagalli, mangiafuoco. Compriamo numerosi ricordi per le famiglie, poi ceniamo all’aperto, in quello che sembra un villaggio messicano, con dello squisito pesce fritto. La notte non riusciremo a chiudere occhio per colpa di alcuni maleducati vicini di stanza che chiacchieravano e ridevano a voce alta non rendendosi conto che erano appena le tre del mattino!

Il giorno dopo sono uno straccio. Potremmo far colazione in albergo, ma siamo ancora appesantiti dalla cena di ieri sera. Acquistiamo alla reception due biglietti per il celebre Zoo di San Diego risparmiando circa 5 dollari a testa. Siamo stati indecisi fino all’ultimo se andare a visitare questo o il Sea Life, ma poi Melissa ci ha consigliato di andare a visitare il bioparco, e così..Lo zoo si trova sulle colline della città, in pieno Balboa Park, polmone verde dove la gente và a correre o a riposare. Anche oggi il tempo sembra non promettere niente di buono, così, felpa addosso, entriamo allo zoo e subito ne approfittiamo per un bel giro in autobus dove una brava guida ci illustra gli animali da vedere e le loro storie. Rimango colpita dalla storia di un grizzly di Yellowstone, talmente goloso da arrivare a importunare i turisti del parco. Per questo motivo volevano fucilarlo, ma fortunatamente i volontari dello zoo lo hanno adottato. C’è una gabbia molto spaziosa dove trovano posto un ghepardo e un pastore maremmano, allevati in coppia fin da cuccioli e ora inseparabili compagni. Infine i gorilla, salvati dalle barbare abitudini alimentari di alcuni paesi centro africani che prevedono le loro carni come piatto forte nel menu. Ci siamo divertiti come due bambini restando 8 ore ad ammirare elefanti, giraffe, zebre, canguri nani, uccelli dalle piume variopinte o dai becchi insospettatamente minacciosi, rettili, felini. Siamo rimasti affascinati però dai panda, mai visti prima, tenerissimi pigroni dediti solo a mangiare e a dormire, dai koala, che devono essere morbidissimi in quella posizione strana con cui amano riposare, come dei feti incastrati tra i rami di bambù, gli ippopotami, gli orsi polari e i gorilla, intelligenti oltre l’inverosimile! Stanchi ce ne torniamo in albergo dove cerco di recuperare un po’ di sonno. La sera vorremmo cenare in zona old town, composta da tante piccole fazende messicane dalle mura bianchissime che fungono da bar affollati e ristoranti. Niente da fare, oggi è sabato e non si trova un parcheggio libero. Torniamo quindi in zona porto, ma prima passiamo a vedere il Gas Lamp Quarter, un tempo zona malfamata della città, caratterizzata dall’essere ancora illuminata da vecchi lampioni a gas: niente di speciale, per dirla tutta. Al Seaport Village ci imbattiamo in un tramonto magnifico poi, affamati, andiamo a mangiare delle onion rings giganti e dell’ottimo pesce grigliato al Pier Cafè, un ristorante palafitta da dove si gode una bellissima vista sul mare!

Domenica lasciamo San Diego in direzione Los Angeles. Fingiamo di ignorare che ci troviamo ormai al giro di boa della nostra strepitosa vacanza, ma proseguiamo oltre, anche perché le cose da vedere sono ancora tante. Grazie al navigatore raggiungiamo Reseda, un sobborgo anonimo di Los Angeles dove abbiamo prenotato una stanza all’Howard Johnson Hotel per tre notti. La facciata è terribile, con degli orrendi gufi di coccio sul tetto. La stanza è grande, pulita, ma purtroppo attigua alla piscina, e per tre notti non ci sarà verso di dormire: troppo chiasso, nessun controllo della piscina, affollata da adulti e bambini sia di notte che di giorno, troppa gente maleducata. Per pranzo ci fermiamo in un vicino KFC, ma le facce dei messicani all’interno del fast food non mi piacciono per niente, così preferiamo il take away. Dopo mangiato prendiamo la macchina e in 20 minuti arriviamo a Los Angeles, o quello che dovrebbe essere il centro: mai vista città più confusionaria, sembra il frutto di un’esplosione, una boom town solcata da mega stradone che vanno in tutte le direzioni. Passiamo per il Golden Triangle e quindi Rodeo Drive e Beverly Hills, per la Sunset Boulevard, Mitica strada piena di alberghi e locali dove si sono mescolate le tragiche o squallide vicende di personaggi più o meno famosi del mondo dello spettacolo, Hollywood, davvero triste, con la Walk of Fame presieduta da poveracci in cerca di qualche elemosina e dove mette un certo disagio passeggiare, specialmente se come noi si ha scritto “turisti” in fronte. La famosa scritta HOLLYWOOD poi non è vero che si vede da ogni angolo della città! Dobbiamo imboccare la Mulholland Drive per poterla ammirare e per avere una magnifica visione d’insieme di LA ai nostri piedi. Visitiamo per ultimo il distretto finanziario, dove oltre a suggestivi grattacieli di specchi alla luce del tramonto c’è la stranissima Walt Disney Concert Hall, dai profili avveniristici.

L’indomani ci aspetta una giornata di puro sollazzo agli Universal Studios, una pacchia per due appassionati di cinema come noi! Non che si possano definire economici (14 dollari solo il parcheggio), ma se si passa per LA sono un vero must! Lo Studio Tour ci ha permesso di curiosare tra i set di alcuni tra i film più famosi dell’Universal Pictures, dalla New York d’altri tempi, al villaggio Grinch, dalle villette colorate di Wisteria Lane alla mitica casa di Psyco, con tanto di sosia di Anthony Perkins che ci ha inseguiti col coltello in mano! Abbiamo scoperto la magia degli effetti speciali, dalla pioggia alla tempesta, dall’incendio al terremoto, e che lo Squalo nuotava in una semplice piscina o che la nave di King Kong altro non era che un modellino giocattolo ingrandito centinaia di volte al computer! Ci siamo emozionati allo spettacolo Waterworld, dove degli stuntmen hanno dato davvero prova di agilità e bravura; e poi ancora il cinema in 4D sul tema di Shrek e le montagne russe di Jurassic Park, da dove siamo usciti zuppi fino alle ossa! Tutto il parco poi sembra un enorme set cinematografico: c’è il villaggio western, quello italiano, con tanto di attrici in bigodini che dalle finestre cantano ‘O Sole Mio, c’è Marilyn con la Pink Cadillac che distribuisce foto e sorrisi, c’è lo spettacolo dei Blues Brothers, con la mitica blues mobile, ci sono Homer e Marge Simpson e Doc di Ritorno al Futuro! Che figata!! Per cena ci fermiamo alla City Walk, una lunga via luminosa, come una mini Las Vegas, dove è possibile mangiare o acquistare qualche ricordo. Ci fermiamo al caldo delle stufe per gustare dei piatti orientali al Panda Express e poi nanna, domani ci aspettano le spiagge!

Stamattina puntiamo verso il mare, si va a Venice Beach, una spiaggia strana, un po’ bohemien, dove puoi trovare di tutto, dal pazzo in mutande in giro sullo skateboard, ai ragazzini già abilissimi sui rollerblade. Il tempo è molto nuvoloso, purtroppo, e più che stare su una tipica spiaggia californiana sembra di stare in Scozia. Non manca niente… ci sono i gabbiani, i surfisti, le onde, le postazioni dei baywatch… manca solo il sole… Ci fanno una multa di 60 dollari che poi pagheremo con la carta di credito. Ma come si fa?!? In America la pulizia dei marciapiedi è a destra un giorno della settimana, a sinistra un altro… ma non sarebbe più pratico pulire entrambi in una volta sola? Un po’ attapirati proseguiamo per il nostro tour di spiagge e arriviamo a Malibu, 27 miglia di panoramica bellezza cita un cartello stradale, peccato che con questa nebbia si veda poco e niente. Ci sono i surfisti, banchi di alghe in mezzo al Pacifico e… i delfini! Ci fermiamo con la macchina per fare un po’ di foto e a pochi metri da riva ecco spuntare tante pinnette… sarà stato un branco di almeno 20 esemplari! Che emozione!! Vorremmo andare anche a Santa Barbara, ma c’è troppa strada da fare. Meglio rimandare a domani. Tornando ci fermiamo sulla spiaggia di Santa Monica, immensa, con la pista ciclabile e il lunapark direttamente sulla sabbia. Nel pomeriggio proviamo a riposare, ma con tutto questo baccano è impossibile chiudere occhio. Non vedo l’ora di lasciare questo postaccio!

Il sole è tornato a splendere! Bene bene, la visita a Santa Barbara e alle restanti spiagge non può cominciare in maniera migliore! Santa Barbara è deliziosa! La cittadina, che sembra più spagnola che americana, ricca di negozi e il pier, con i leoni marini che colonizzano le barche in rimessa. Proseguiamo per paesini sconosciuti e minuscoli, come Lompoc e Guadalupe, passiamo per Pismo Beach, dove ci fermiamo a pranzare da Subway, arriviamo a Morro Bay e San Simeon, dove troviamo nella prima i surfisti con kite surf e sulla seconda… dei giganteschi elefanti marini che bivaccano pigri, tirandosi addosso un po’ di sabbia per avere refrigerio! Sono troppo buffi, con quei loro versi strani e quella stramba proboscide al posto del naso. Al Big Sur la vera sorpresa, perché tutto ci saremmo aspettati tranne che un posto di montagna! E che vista! Da quassù la costa è davvero notevole! Quando arriviamo a Monterey sta cominciando a piovere. Il motel si chiama Surf Inn ed è gestito da indiani. Un penetrante odore di incenso ha invaso la reception, mentre la donna dalla lunga treccia nero corvino ci dà le chiavi della stanza 29, proprio all’angolo, ci dice. La camera è comoda, spaziosa, quasi mi spiace dover stare solo una notte. Su Trip Advisor troviamo un ristorante in zona recensito molto bene, si chiama The Fish House, decidiamo di andare lì per la cena. Quando arriviamo sono le 21 e ci accorgiamo che il locale chiuderà tra mezz’ora. E’ incredibile quanto gli americani amino mangiare presto, specialmente nei piccoli centri! Ordiniamo una clam chowder come antipasto, squisita, poi un piatto unico, un combo, come dicono loro, con del salmone grigliato, dei gamberi in guazzetto, verdure e pasta. Valerio sceglie una crab cake ottima, anch’essa accompagnata da verdure di contorno, e per dessert una mousse di cioccolato e una cheesecake eccezionali. Che mangiata, ci voleva proprio! Quando torniamo in camera fa addirittura freddo. Alziamo la temperatura del condizionatore e crolliamo dal sonno.

Il mattino seguente abbiamo l’umore sotto le scarpe. E’ il nostro ultimo giorno di vacanza, non potrebbe essere altrimenti. La colazione è a dir poco micraniosa, carichiamo i bagagli in macchina e ce ne andiamo a visitare il Pier. Se pensavamo di aver visto tanti leoni marini a San Francisco, beh, ci sbagliavamo: qui a Monterey ce ne sono molti, ma molti di più! Sono ovunque, a sguazzare nell’acqua, a bivaccare sulla spiaggia che ormai è loro presidio, sotto i pontili, sulle barche. Sono stupendi! Peccato non aver più tempo. Mi sarebbe piaciuto partecipare a un whales watching! Lasciamo Monterey e ritorniamo a San Francisco. Passiamo per il Golden Gate Bridge dopo km e km di code: deve essere terribile guidare in questa città, ma attraversare il mitico ponte rosso in macchina è una sensazione incredibile! Arriviamo a Sausalito, dove non c’è un granché in realtà, se non delle strane imbarcazioni che in realtà sono case. Tornando ci fermiamo in zona Presidio a mangiare quello che mi piace definire “il panino più buono del mondo”. Siamo da Mel’s, un diner in stile anni’50, di quelli con juke box al tavolo ancora funzionanti, musica dell’epoca camerieri in divisa e cappellino bianco che girano tra i tavoli con la caraffa di caffè in mano.

Credo ci abbiano girato qualche film famoso, perché alle pareti è pieno di gigantografie in bianco e nero e su una c’è anche un autografo che però non so distinguere. Il panino è follemente buono, con fette di pane fritto, doppio strato di formaggio, hamburger al sangue, avocado e bacon. Oh my God!!!!!!!!!!!!!! La torta di mele calda con cannella e gelato forse è ancora più buona… lasciamo 50 dollari con molta soddisfazione! Andiamo alla Hertz dell’aeroporto per riconsegnare il nostro “bolide” e con fatica riusciamo a trovare la fermata dove la navetta del nostro albergo, il Quality Inn, dovrebbe passare a prenderci. Passano sotto il sole decine di pullman nuovissimi dai quali scendono autisti giovani e aitanti per prendere i bagagli dei clienti. La nostra navetta è un trabiccolo vecchio e rumoroso, sul quale non si riesce a tener ferme le valigie che prendono il via alla prima curva. L’autista è un orientale catarroso e furbo: pretende la mancia quando non ha fatto neanche il gesto di scendere ad aiutarci coi bagagli! L’albergo sembra decente, ma con quella punta di squallore che sempre caratterizza gli alberghi di periferia o vicini all’aeroporto. Ci danno una stanza per invalidi Mi sembra un po’ grottesca come situazione, ma siamo troppo stanchi per protestare. Rifacciamo i bagagli, facciamo una doccia e ci mettiamo a letto: domani la sveglia suonerà alle 4:00, sarà meglio riposare.

Venerdì 6 agosto alle 4:45 siamo già nella hall ad aspettare la navetta che ci porterà in aeroporto. Stavolta c’è un gentile autista arabo ad accompagnarci e ad aiutarci coi bagagli, gli diamo volentieri la mancia. E’ buio, fa freddo, ma passa tutto velocemente, dal checkin al controllo passaporti. Arriviamo a Charlotte intorno alle 15 (ora locale). Il volo per Roma è tra tre ore, abbiamo tutto il tempo di pranzare da Quiznos, una specie di Subway ma più buono. Aspettiamo il nostro aereo cullandoci sulle sedie a dondolo, unica cosa che mi è rimasta in presso dell’aeroporto di Charlotte, sparse qua e là ad arredare l’ambiente, quindi saliamo a bordo. Il viaggio è stato massacrante! Non sono riuscita a chiudere occhio, il televisore per l’intrattenimento non funzionava, il cibo era da ospedale, le hostess molto poco cortesi e più inclini a servire i passeggeri della prima classe. Arriviamo a Fiumicino sabato 7 agosto con un’ora di anticipo rispetto al previsto, desiderosi solo di una doccia e di un bel sonno…e la California per sempre nel cuore!!



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