Alaska: IL DESERTO BIANCO
Una nazione vivace nella quale le persone che vi abitano portano un grande rispetto alla natura, agli animali, amano lo sport e lo praticano in tutte le sue forme e, da buoni americani, esagerano.
Qui nasce l’IDITAROD, una corsa per cani con slitta che, dal 1925, a causa di una epidemia collegò la capitale Anchorage a Nome nel profondo Nord e tracciò così il primo percorso.
Da pochi anni per quella follia ed esasperazione che contraddistingue gli americani è nata una gara che contemporaneamente e sullo stesso tragitto vede gareggiare concorrenti in MBT, a piedi e con gli sci.
C’è una prima competizione di 200 km fino a Finger Lake, si continua con l’Idita-Extreme di 550 km fino a McGrath e, dato che i partecipanti continuavano a crescere, è nata L’IDITA-IMPOSSIBLE di 1800 km fino a Nome in tappa unica.
Quest’ultima è la più estenuante, impegnativa e difficile gara in MTB al mondo. Sono moltissimi gli aspetti unici di questa gara estrema e i corridori si devono aspettare l’imprevisto e prestare molta attenzione, perché si viaggia in un’area molto remota e una situazione di assoluto pericolo potrebbe presentarsi in qualsiasi momento, mentre i soccorsi non sono sempre garantiti.
Il motto della gara la dice lunga: “i codardi non si presenteranno ed i deboli moriranno”.
Il giorno della partenza è stato illuminato da uno splendido sole ed alla linea del via erano presenti oltre 70 atleti per la 200 km, 34 per la 550 km e 17 per la 1800 km .
Quest’ultimi arrivavano da varie nazioni: Giappone, Francia, Inghilterra, Canada, America ed al via oltre al sottoscritto era presente anche il mio amico Eris Zama molto conosciuto nell’ambiente delle gare di endurance.
I primi 44 km sulla neve in un continuo saliscendi in mezzo alla foresta ci portano al checkpoint di FlhathonLake.
Questa è una tappa prologo con sosta e obbligo di pernottamento all’esterno con il proprio materiale. Lo scopo è di stilare una classifica che determinerà l’ordine di partenza scaglionato in base agli arrivi del giorno precedente.
Qualcuno ha acceso dei fuochi, io ed altri partecipanti alla “gara” ci siamo ritrovati attorno scambiandoci notizie ed impressioni.
Primo problema, ma che mi sarà utile anche per il futuro. L’organizzazione non ha permesso il pernottamento vicino alle poche baracche esistenti al bordo del lago, per cui mi sono dovuto costruire un piccolo igloo scavando un buco nella neve.
Domani mattina inizierà la vera avventura ed ognuno si ritroverà solo con la propria bici e milleottocento chilometri in mezzo a foreste, tundre, laghi ghiacciati, neve, bufere, vento implacabile, freddo, e gelo. Pedalando tra i lupi, le alci, i bufali e caribù, da soli con se stessi e la natura, l’ultimo baluardo che l’uomo mai potrà vincere.
Purtroppo già dal giorno seguente alla partenza il tempo era decisamente cambiato; il cielo era grigio e nevicava fitto.
Già nel 1999 Eris ed io avevamo preso parte all’Idita-Extreme e da quella esperienza ne siamo usciti malconci, vivendo episodi drammatici e sconvolgenti: abbiamo realmente visto il pericolo così da vicino da temere per la nostra stessa sopravvivenza.
Fino a quel momento non conoscevamo il grande freddo con tutte le sue regole; regole così precise che non concedono possibilità di sbagliare in una gara in cui non esiste alcuna organizzazione di supporto ed in cui tutto è affidato unicamente alle tue capacità di soffrire e di saper risolvere i problemi, cercando di arrivare al traguardo con meno danni possibili.
Col tempo, a casa, quei difficili momenti sono stati dimenticati ma è rimasto il fascino, lo splendore, la pace di quei territori incontaminati nei quali la natura regna indisturbata e noi, che l’abbiamo attraversata ed ammirata in tutte le sue forme, abbiamo imparato a rispettarla tanto che, quelle immense distese silenziose di neve sono diventate per noi il nuovo “deserto bianco” da amare e contemplare.
Con questo fascino nel cuore ci siamo iscritti all’ IDITA-IMPOSSIBLE 1800 km da percorrere in completa autosufficienza.
Ci siamo sentiti forti e con la mente, ricordando l’esperienza passata, avevamo capito come avvicinarci al grande freddo, ora sapevamo come affrontarlo.
La presentazione pre-gara ad Anchorage da parte degli organizzatori è stata altrettanto cruda e non poteva essere più profetica considerando come poi realmente è andata la competizione: << è salito sul palco l'ideatore della gara, Dan Bull, che ha preso il microfono ed ha esordito dicendo:"ancora non è morto nessuno, ma questa è la corsa più pazza a cui parteciperete. In questa corsa non ci sono certezze, non sapete che tempo meteo incontrerete, non sapete che terreno calpesterete, non sapete quanto tempo impiegherete. E' un periodo della vostra vita di sole incertezze e nessuna certezza. Buona corsa" >>.
Ecco in queste parole è descritta ” la gara ” che sto per affrontare, ma tutto questo non mi spaventa perché mi sono preparato fisicamente e anche la mente è pronta a superare fatiche e privazioni che incontrerò lungo il percorso della gara.
Poi, subito dopo la conferenza, abbiamo consegnato i 13 pacchi contenenti il vestiario e il cibo che l’organizzazione ha distribuito lungo il percorso nei 25 check- point che ogni concorrente ha scelto strategicamente per la riuscita della propria corsa.
A questi pacchi è affidata la nostra sopravvivenza perché l’organizzazione non passa niente.
Molti pensieri sono passati nella mia testa, io sono qui perché è una mia scelta quella di vivere un momento della mia vita in una grandiosa gara IMPOSSIBILE e come tale ho curato moltissimo l’aspetto fisico allenandomi duramente per molte ore, lo sto facendo per assaporare questo grande incontro con la natura e con me stesso smascherandomi completamente e mettendo a nudo debolezze e lacune.
Un programma, con i tempi, i chilometri, le ore di recupero, il cibo che mi serviva, tutto questo l’ho calcolato meticolosamente, non lasciando nulla al caso. Non è uno dei miei viaggi, ma una gara e come tale volevo essere competitivo e l’allenamento che avevo fatto mi aveva portato ad una condizione psicofisica ottimale, per questo avevo stimato di poter completare la gara in circa 20-22 giorni per arrivare a Nome Il percorso che dovevamo seguire era segnato da catarifrangenti e da strisce di fettuccia rossa legate ai rami ed a paletti di legno infilati nella neve.
Ma in queste immense distese di niente era molto facile perdere un segnale e di conseguenza smarrirsi nel nulla perciò tutta la nostra attenzione è sempre stata rivolta a riconoscere le varie tracce lasciate nel terreno dalle slitte.
E’ veramente dura, in certi momenti non sai cosa fare, il freddo ti attanaglia e razionalmente non sai che soluzione prendere perché vedi solo neve e ghiaccio e l’unica cosa che ci rimane è di non pensarci o di pensare che non è cosi freddo e che il peggio arriverà.
Ti abitui mentalmente a sopportare queste condizioni, non sai come pedalare perché se spingi molto, la bici sprofonda, se spingi poco le ruote galleggiano ma non avanzano, km dopo km il terreno cambia di continuo, ora neve molle e farinosa, in altri momenti è più consistente e non sai mai come affrontarla. Quando andiamo piano andiamo a 5 km/h, quando pedaliamo al massimo della fatica e dello sforzo, e questo non può durare a lungo, arriviamo a 9-10 km/h.
Ora non facciamo più questi calcoli, ma sotto la neve abbiamo percorso 25 km in 9 h.
L’arrivo a Rainy Pass dopo 260 km è stato faticoso.
Vado subito a recuperare il pacco contenente i viveri ed anche l’abbigliamento. Quanto sono buoni i biscotti secchi e la cioccolata quando si ha fame. Nel pacco ci sono altre cibarie: frutta secca, cereali, panini, miele, carne secca, ma mi sono mangiato subito i più gratificanti.
Nella baracca che ci ospita ci sono altri compagni d’ avventura e le notizie che circolano dicono di 50 ritiri nei primi 2 giorni ed altri 30 pure a Swentna.
La giornata è chiara, ed io guardo verso il passo. E’ un passaggio della gara molto pericoloso, basta sbagliare valle che ci si ritrova chissà dove, oppure un aumento della temperatura aggiunge il rischio di valanghe. La temperatura continua a scendere, siamo a meno 22°C, non aspettiamo la notte per tentare la salita del passo, per poi dirigerci verso il chek point di Rohn.
Dopo la partenza da Rainy Pass il cielo è ridiventato nuvoloso. Si fa notte, ma la luce della luna riesce a passare, e quindi procediamo senza faretto frontale, lo accendiamo ogni tanto per cercare i riferimenti dei catarifrangenti, si alza un forte vento di bufera, la neve comincia a volare come la sabbia del deserto, mi sento una mummia avvolto completamente nella giacca a vento, per proteggermi mi metto la maschera trasparente e con la luce che colpisce i fiocchi nel buio avanziamo a fatica piegati in avanti.
Spingiamo la bici per molte ore sul ghiacciaio contro un vento fortissimo che abbassa la temperatura ancora di più rende la salita verso i 1500 m del passo ancora più dura.
Sono le 4 del mattino, la bufera ha coperto tutto e con le nostre piccole luci facciamo fatica a trovare i riferimenti della pista.
Non vediamo nulla e non riconosciamo l’ambiente, la cima è raggiunta alle prime luci dell’alba. Purtroppo quello che pensavo ed espresso ad Eris era vero; la discesa che poteva essere veloce si è rivelata molto lenta e pericolosa per via della neve che ne fa perdere le tracce.
Noi continuiamo e incontriamo un altro compagno d’avventura barcollante che si sta preparando il bivacco, abbiamo percorso 42 km in 16 ore, siamo stremati, non riusciamo più ad andare avanti ed il vento è misto con neve, prepararci il bivacco non è certo un’allegria ma dopo un po’ decidiamo di fermarci per riposare anche noi qualche ora e riprendere energie.
Sudati ci buttiamo vestiti nel sacco a pelo e nel telo da bivacco.
Io dormo subito ma Eris è agitato e dopo un paio di ore è in preda al panico perché ha tutto il corpo freddo e batte i denti, decidiamo allora di non aspettare altro tempo, quando ci alziamo siamo coperti da una coltre di neve, abbiamo le mani fredde e facciamo fatica ad infilare tutto il materiale ghiacciato nei contenitori, le dita pungono.
Man mano che scendiamo il tempo migliora e le ultime ore di percorso sui laghi e fiumi ghiacciati ci porta velocemente a Rhon.
E’ veramente pazzesco, stiamo faticando come non mai per andare avanti, ho persino perso il conto dei giorni. Con Eris abbiamo superato colline, foreste, fiumi, tundre, luoghi dai paesaggi stupendi. Momenti di grande euforia si sono alternati a momenti di crisi, ieri ci siamo trovati su di un immenso pianoro dove regnava solamente la neve.
Nessun segnale, nessuna traccia, unica cosa un fortissimo vento gelido che spazzava tutto e…nessuno, solo noi due. Sembravamo due naufraghi alla ricerca della terra, poi un elicottero si abbassa e ci fa segno se desideriamo aiuto. Rifiutiamo una volta, non ci crede, si abbassa e rifiutiamo una seconda volta. Il segno con l’indice verso la testa è inequivocabile, ci da dei pazzi e se ne va.
Riusciamo a scendere dalla collina, incontriamo una ragazza in gara con la slitta che fa riposare i propri cani e noi ne approfittiamo per farci sciogliere della neve nella sua grossa pentola mentre ci racconta della sua corsa.
Le orme di un lupo lungo il sentiero non impaurivano ma ci facevano compagnia. Questa sintonia con l’ambiente mi è entrata dentro, la sento forte e già adesso faccio fatica a distaccarmene, certamente rimarrà sempre forte il desiderio e l’attrazione verso di essa.
Esiste anche la parte umana visto che in questo viaggio eravamo in due. Eris ed io. Ognuno di noi viveva emozioni, difficoltà e ciascuno cercava di superarle con la propria esperienza, e non è facile sulla carta programmare le reazioni ed emozioni in momenti tanto difficili.
Sono un corridore di lunga distanza abituato a stare da solo a trovare le soluzioni dei problemi dentro di me, ma questo vale anche per Eris e ciò ha permesso di viaggiare senza problemi caratteriali, le soluzioni possibili le abbiamo sempre prese in sintonia perché era la logica del momento che ce le suggeriva.
Alcune volte ognuno di noi aveva delle proprie esigenze, dormire o camminare, ognuno si sentiva libero di agire come voleva , si assumeva le proprie responsabilità e ci si ritrovava dopo ore ed ore solitarie lungo il percorso, tutto questo ha reso questa gara, viaggio, un’avventura positiva.
la Impossible è una gara estrema che ti toglie tutto, un giorno mi sono messo nel sacco a pelo a riposare. Addosso a me, come sempre per evitare che geli, il contenitore con l’acqua da bere. Dopo un po’ mi sento bagnato, scatto fuori dal sacco a pelo e mi accorgo che la cannula per bere si è staccata lasciando perdere tutta l’acqua addosso a me. Fuori meno 30 gradi, ho dovuto svestirmi e cambiarmi con quello che avevo.
Non potevamo permetterci di bivaccare troppe volte per cui abbiamo cercato di avanzare velocemente, anche perché il cibo e pure il vestiario era ridotto alla pura sopravvivenza.
Bivaccare vuol dire fare una buca nella neve e stendersi dentro bagnando il sacco a pelo per poi ritrovarselo al prossimo bivacco tutto ghiacciato ed è veramente un’impresa ardua prendere sonno.
A volte insistiamo sui pedali ma dopo poche centinaia di metri ci accorgiamo immediatamente che è impossibile pedalare ed è faticosissimo spingere. Ore ed ore piegati sui manubri, le gambe che premono e affondano nella neve soffice fino al polpaccio, io spingo e cammino, cammino e spingo, le mani bruciano sul manubrio e i piedi fanno male, pure nello scarpone, che si sta disintegrando e che ho cercato di riparare con del cordino, entra della neve. Non si può paragonare la neve con la sabbia.
Quando ero nel deserto in Libia a correre e mi entrava della sabbia nelle scarpe la toglievo senza problemi, qui invece la neve continua ad entrare e mi ghiaccia tutta la caviglia; a volte quasi non la sento per il fortissimo dolore provocato dal freddo.
Mi fermo spesso e cerco di estrarne più che posso, a volte la neve si trasforma in piccoli blocchi di ghiaccio ed allora devo usare la pinza per spaccare il ghiaccio ed estrarre i pezzi e ogni 5, 6 ore inserisco 2 buste chimiche riscaldanti, mi danno un po’ di sollievo, meglio che niente.
All’alba troviamo un campo di eschimesi Athabascan, cacciatori di bisonti, abbiamo un freddo boia e la temperatura è arrivata a meno 30°C, i nostri visi sono delle maschere di ghiaccio. I fuochi delle stufe ci rigenerano, mangiamo qualche cosa e ci lasciano dormire un paio d’ore sui loro letti di aghi di pino e nei piumoni.
Purtroppo le bufere di neve ci hanno colpito per moltissimi giorni e a continuare, irriducibili sul percorso, erano rimasti due runners che con le ciaspole ai piedi riuscivano a galleggiare sulla neve andando veloci mentre solo Eris ed io, un inglese ed un atleta dell’Alaska eravamo rimasti gli unici bikers in gara. Gli altri si erano tutti ritirati.
Le tempeste di neve sono state una costante che, sfortunatamente, ha caratterizzato tutta la competizione.
Ma ormai non ci facevamo più caso in quanto noi stessi facevamo parte dell’intero sistema; eravamo parte integrante della natura che ci coinvolgeva e ci trasportava totalmente.
Pure gli incontri di animali che durante la notte sentivamo intorno a noi e che, qualche volta, abbiamo anche visto, non ci davano preoccupazione.
Questa è una gara vera, ma è diventato anche un viaggio e di conseguenza anche un’avventura. Ci siamo trovati ad affrontare le cose più normali del mondo cioè quello che la natura può riservarci, neve, bufere, freddo, montagne con diverse caratteristiche con tanti tipi di terreno, roccia e neve, terra e neve, ciottoli e neve, neve e tanta neve, cose normali, ma che a noi, abituati al nostro mondo moderno e super attrezzato, ci sono lontane. Per 20 giorni abbiamo avuto un’immersione nel profondo della natura e per questo ne sentiamo già le conseguenze, e per quanto irreale da sembrare illogico ci rimane una forte attrazione di questi posti isolati cosi silenziosi e quella paurosa sensazione di essere soli al mondo.
Ci siamo immersi in zone desolate, bellissime. Abbiamo attraversato fiumi e laghi fino ad arrivare a paesi con popolazione che varia dalle 40 alle 200 unità.
Paesi in cui la scuola era un punto di riferimento per la comunità intera; qui si trovava il mondo moderno al quale noi siamo abituati quindi computer in abbondanza, il museo locale, palestre e numerose sale per ritrovarsi.
Le scuole erano sempre aperte ed illuminate così, anche in piena notte, bastava spingere la porta per trovare caldo e conforto dopo giorni di freddo ed intemperie.
In questi luoghi la popolazione vive una vita tranquilla dettata solo dalle leggi della natura. Per vivere cacciano e pescano e lo Stato americano li agevola con sovvenzioni per far sì che essi rimangano a vigilare su questo immenso territorio.
La gente è cordiale e pacifica, tutti ti vogliono aiutare e subito ti senti a casa fra persone amiche.
“Dopo sei ore sullo river Yukon abbiamo percorso solo 12 km e come un miraggio scorgiamo una baracca di cacciatori lungo l’argine del fiume. Saliamo, ci troviamo al coperto e riusciamo ad accendere un fuoco. Siamo molto preoccupati, Eris ed io discutiamo sulla situazione che si sta creando. Decidiamo di ripartire un’ora dopo. Scendiamo nuovamente nel fiume e incominciamo la nostra agonia nello spingere, fa male tutto, dobbiamo aprirci una pista nella neve fresca e a turno ci scambiamo questo ruolo. Passo dopo passo mi rendo conto che sto avanzando molto lentamente. Eris ed io siamo vicini, ma da molti minuti non ci parliamo, solamente qualche volta i nostri sguardi si incrociano e mettono in evidenza i nostri occhi lucidi. Continuiamo a tracciare una pista ma non riusciamo a trovare paletti di riconoscimento, è passata un’ora e il contachilometri non segna ancora i 2 km percorsi, ne dobbiamo da fare oltre 100. Sta scendendo la nebbia e sta facendo buio, la neve è sempre più fitta davanti agli occhi e sta crescendo sotto di noi, dobbiamo percorrere ancora 100 km per arrivare al prossimo check point. Siamo smarriti, l’Alaska non è un gioco, la natura dell’Alaska ha le proprie regole e bisogna esserne consapevoli oppure rischiare troppo qui vuol dire anche morire. Eris si ferma mi chiede: Maurizio sei sicuro di andare avanti? Se vuoi io ti seguo! Io non rispondo e continuo e continuo qualche passo, guardo in avanti e mi accorgo che sono scomparsi alla mia vista i paletti segnaletici, la vita è una sola, vale la pena metterla in discussione in queste condizioni? Mi giro sconsolato e decido di ritornare in quella baracca per la notte. A fatica impieghiamo un’altra ora per ritrovare le nostre tracce appena lasciate e gia ricoperte dalla neve. Siamo nuovamente nella baracca buia, non accendiamo neanche le lampade, perché non abbiamo bisogno di vederci, abbiamo bisogno solo di sentirci, di capire le sensazioni le paure i timori, le emozioni di uno e dell’altro, e un grosso momento di incertezza, abbiamo oltre 100 km per tornare indietro e oltre 100 per andare avanti, non c’è nessuno e non passerà nessuno per giorni o forse settimane, i viveri sono contati, non sappiamo cosa fare, se andare avanti o indietro e nella tecnologia del mondo moderno siamo isolati in una baracca di legno senza che nessuno sappia di noi. E’ un momento molto triste e la mia anima singhiozza. Rimandiamo ogni decisione al mattino seguente, la notte è insonne ed ognuno cerca delle risposte dentro di se’. Al mattino alle 4 siamo pronti per partire, scendiamo nel fiume ed entrambi con decisione prendiamo la strada per la prossimo check point. 90 km ci aspettano e siamo decisi ad affrontarli in qualsiasi condizione, nella vita ci vuole coraggio e forza per portare avanti le proprie convinzioni, sappiamo che sarà dura, ma ci siamo preparati mentalmente tutta la notte ai vari pericoli e disagi che incontreremo. La notte e lunga, buia, difficile per entrambi, per molti tratti stiamo zitti, in altri ci lamentiamo come sfogo, guardiamo in continuazione il contachilometri e l’orologio, sembra di essere sempre nello stesso punto, forse perché le sponde del fiume sono larghe, parallele e l’orizzonte una linea bianca infinita. Finalmente arriva il mattino e fortunatamente anche la neve é meno alta e più compatta, si riesce a pedalare. Per tutta la giornata notiamo delle grosse nuvole che scaricano neve intorno a noi, aspettiamo che ci nevichi addosso. Non succede. Arriviamo a Kaltag alle 23:30 di sera.
Abbiamo condotto la gara fino ai 1000 km sempre in testa poi ad un chekpoint, con la nostra sosta prolungata, gli avversari ci avevano superato di qualche ora ma a Kaltalg dopo 1200 km eravamo ancora tutti assieme.
Siamo tutti in gioco, la gara è aperta, parliamo con i nostri amici avversari, hanno le facce tese e come le nostre sfigurate dai gonfiori e barbe lunghe. Si preparano a partire questa notte, vista la situazione meteorologica che si è verificata pensano di poter arrivare a Nome fra 10 forse 20 giorni.” ed è qui che ci siamo ritirati.
“la neve entra nello scarpone e mi ghiaccia la caviglia. Il dolore che sento è fortissimo, mi fermo e cerco di estrarla quando è ormai ghiaccio. Uso la pinza per spaccarlo…Maurizio sei sicuro di voler andare avanti? Eris me lo chiede, ma io non ho neanche la forza di rispondere, cerco di andare avanti. Perdiamo le tracce, le ritroviamo, torniamo ad una baracca che avevamo lasciato un’ora prima. Abbiamo percorso solamente due km, attorno il nulla”.
Eravamo sul fiume Yukon e ci trovavamo in una situazione di grande pericolo, la bufera impediva di avanzare a più di 2 km/h: la visibilità non permetteva di rintracciare la segnaletica lungo il percorso e così rischiavamo di perderci o finire in qualche spaccatura del ghiaccio. Cosa sarebbe successo se fossimo caduti dentro? Molte sono state le componenti che hanno determinato il ritiro, la paura, il pericolo, la fatica e non ultimo il ritorno alla vita sociale (non siamo dei professionisti e il lavoro è un impegno quotidiano).
Avevo creduto di poter portare a termine la gara di 1800 km in 20 giorni calcolando una media di 4,5 km. Ma dopo 20 giorni di cui 18 di brutto tempo avevamo percorso solamente 1200 km ne mancavano ancora 600 km e non sapevamo quanti giorni ancora potessero servire.
Credevo. Non è stato cosi. Si procede troppo a rilento, si vede che madre natura ha deciso così, non mi ha ripagato delle fatiche e del grande rispetto che ad essa porto e che porterò sempre.
Questa volta è andata così, Ora é solamente una questione di tempo, la si può sfidare, ma oggi mi sono accorto di non essere così pazzo o orgoglioso da volermi battere con essa in una sfida all’ultimo sangue, forse sfidandola ancora potrei farcela, ma va bene così.
Accetto le sue regole.
Nessun limite umano è meglio rappresentato che in questa gara, dove per 20 giorni sono stato in mezzo a bufere di neve, un tempo che da vent’anni neanche i locali vedevano più in questo periodo.
Ho vissuto momenti stupendi, da solo, con il mio amico Eris , o con altri. Ho pianto, ho riso, ho gioito ed insieme sofferto, ma il muro bianco davanti a noi è stato più forte di qualsiasi volontà, cerco prima di tutto il contatto tra il corpo e mente, ma in quell’inferno bianco questa ricerca ti può spingere sino alla morte.
Abbiamo spinto la MTB, per circa 800 km quando la neve raggiungeva i polpacci ed anche le ginocchia e per soli 400 km di pedalata abbiamo goduto…era un sollievo! Per concludere, Eris ed io non abbiamo fatto fatica, abbiamo sofferto.
La fatica ha vari aspetti ed è una sensazione che si può attenuare, ridurre, assecondare mentre la sofferenza è uno stadio superiore della fatica che ti prende in tutte le parti del corpo, ti consuma internamente, ti logora lentamente, ti distrugge con continuità.
E’ una sensazione che solo in questi casi eccezionali riesci a conoscere ed allora sai veramente quanto vali; lo sai tu, solo tu nessuno è testimone ed in quel momento ti senti un “Highlander” che si rigenera di forze nuove e si ricarica di grandi energie e per questo ci sentiamo forti, fortissimi ma sempre e comunque uomini di tutti i giorni.
Questi sono i limiti di noi uomini che ci crediamo liberi, ma liberi del tutto non lo siamo mai, solo i pazzi sono liberi.
Qualcuno aveva scritto che noi siamo come cani solitari che gironzolano, randagi, mezzi spelacchiati e malconci, ogni tanto si incontrano si annusano si rincorrono e un poco scodinzolano e fanno un po’ di strada assieme mordendosi e leccandosi. Ecco io ho incontrato Eris, un incontro molto importante, abbiamo percorso un piccolo cammino assieme, ci siamo conosciuti. Abbiamo parlato, a volte tanto per giorni, a volte poco, a volte niente, ma era un silenzio pieno, abbiamo riso, pianto, senza vergogna, ci siamo scambiati dei sentimenti. Ed è stato bello.
Non ricordo più quella gran fatica mentre si spingeva la bici (e l’abbiamo spinta per 800 km.. Avanti come dei pazzi, con le mani e i polsi sempre più dolenti), non ricordo più il gran vento che si intrufolava in ogni angolo, il gran gelo che si fissava sul sudore, non ricordo più il gran sonno che cercava di prendere il sopravvento, quell’avanzare barcollando….Ricordo questo grande incontro………Grazie Eris VISITA IL SITO DELL’AVVENTURA: WWW.MAURIZIODORO.IT Fine