Ai confini del mondo 2
Milano Jan 22, 2010
È il nome in lingua maori di una collina di scarsa rilevanza, alta circa 305 metri, vicina a Porangahau, a sud di Waipukurau nella Hawkes Bay meridionale, in Nuova Zelanda. Il nome è per semplicità abbreviato in Taumata dagli abitanti del luogo. Si traduce approssimativamente: La cima della collina, dove Tamatea, l’uomo con le grandi ginocchia, conosciuto come il mangiatore di terre, suonò con il proprio flauto per la sua amata.
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Questa descrizione mi ricorda molto il viaggio che sto per fare. A leggere quel nome sembra di trovarsi di fronte ad un insieme lunghissimo e caotico di suoni, che apparentemente sembrano il collage di qualcuno che sta sbattendo la testa sulla tastiera, mentre, al contrario, celano un significato reale e, a ben vedere, anche un po’ romantico. Spero che il mio viaggio sia proprio così, o almeno l’inizio lo è: un insieme lunghissimo e caotico di informazioni che apparentemente non hanno nulla di sensato. Un biglietto d’aereo, una macchina che mi aspetta ad Auckland, un amico da incontrare a Wellington: Rocco, calzini in uno zaino enorme e un diario da scrivere. Chissà poi se alla fine tutto questo non porti realmente a qualcosa di interessante.
Statemi dietro, lo vedremo.
L’arrivo Auckland Feb 15, 2010
Prima di partire per questo viaggio ho commesso un grave errore. Ma da cui ho tratto un buon insegnamento. La prossima volta che dovrò partire per un viaggio aereo superiore alle 20 ore, non organizzerò mai più una festicciola il giorno prima. O meglio non organizzerò più una festicciola invitando una banda di scalmanati che poi ho dovuto cacciare a pedate da casa mia alle 6 del mattino, andando così a mangiare le poche, ma preziose, ore di sonno molto utili, col senno di poi! Infatti il sabato della partenza sono arrivato a Melpensa in condizioni più simili a quelle di un morto vivente che a quelle di un viaggiatore! Mi sono avvicinato al check-in per forza d’inerzia, barcollando e senza la benché minima sensazione di stare per partire con destinazione l’altra parte del mondo. Quando è arrivato il mio turno, tuttavia, la sottile voce della hostess mi ha improvvisamente svegliato:
“lei va in Nuova Zelanda vero?”
Come se un sonoro schiaffone mi avesse riportato nel mondo dei vivi, mi sono spaventato, ma sono allo stesso tempo rinvenuto e una forza impensata mi ha dato le forze per rispondere e capire. Finalmente si parte! Il viaggio per Dubai è lungo, ma tranquillo. Qualche oretta di sonno credo anche di essere riuscito a farla. Il mio compagno di viaggio è un ragazzo di colore sulla trentina, coperto fino all’inverosimile di indumenti, come se nella valigia non entrassero tutti. Io non ho la men che minima voglia di mettermi a chiacchierare in una lingua che non sia la mia di argomenti che probabilmente non avranno nulla di utile. Per fortuna lui non è da meno: ci ignoriamo per tutte le 6 ore del viaggio.
Arrivato a Dubai, comincio a sentire i primi segni di cedimento. Sono stanco. Decisamente stanco.
È notte, l’aereo sorvola una distesa di luci impressionanti delimitate dal buio profondo del deserto tutto intorno. Le strade sotto i nostri occhi, sono illuminate, in mezzo al nulla, da una sterminata fila di lampioni. Sono righe talmente precise e rettilinee che sembrano state tirate con riga e squadra dal geometra comunale di Locate Triulzi. L’aeroporto di Dubai è arrogante, lussuoso e straordinariamente immenso, ma non ho le forze per girarlo e svengo sulla prima chaise-longue libera che trovo. Riesco a riposarmi per qualche ora, ma non riesco a prendere sonno. Mi imbarco in queste condizioni verso Sidney, con una notte brava alle spalle, poche ore di sonno e 16 ore di volo davanti. Non fa male!
Come tutti sapranno la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo. La dea bendata, infatti, mi ha fatto capitare nei più bei posti di un AirBus A380-800, i posti in prima fila, quelli con davanti il muro divisorio tra le classi, quelli con tanto spazio per le gambe e per le borse,quelli in cui posso distendere le gambe e finalmente dormire. Ho vinto! Penso. I miei compagni di viaggio sono una coppia di Tedeschi che andranno a fare un giro di 9 settimane in Nuova Zelanda. Sono anche simpatici. Lui è un tipo sui 35 anni, alto e snello ma con una bellissima pancetta da birra; i suoi lineamenti li definirei normali, senza particolari degni di nota, non fanno di certo pensare a un tedesco, la sola cosa che tradisce la nazionalità germanica, sono gli immancabili sandali e i capelli non troppo corti ma leggermente più lunghi sulla nuca. Lei e una donna sui 30-35 anni. Non molto magra, ma con un viso pallido, emaciato e consunto, tanto da far sembrare le ossa e i muscoli del viso ricoperti di un sottile foglio di carta anziché di pelle.
Ma dicevo che la sfiga ci vede benissimo: i due Tedeschi stanno per farsi un viaggio di 9 settimane in Nuova Zelanda perché stanno sfruttando entrambi le ferie per maternità. Ad accompagnare la giovane coppia c’è un adorabile pargoletto di 11 mesi, che blatera lallazioni e sgambetta tra i sedili. Ora cosa pensate che faccia un bambino di 11 mesi dopo 10 ore passate dentro un maledetto aereo? Fa esattamente quello che farei io se la poca dignità che mi è rimasta non me lo impedisse: piange, dolorosamente, piange. Raggiungendo frequenze vicine all’ultrasuono. Non sempre, ad intervalli regolari, proprio pochi istanti prima che io riesca a prendere sonno. Il viaggio per Sidney è estremamente lungo ed estremamente noioso. Ma Arrivo. Giusto il tempo di passare la trafila, e un po’ di terrorismo, per le severissime precauzioni sulla quarantena degli Australiani. Mi imbarco nuovamente verso Auckland. Il viaggio di 3 ore mi sembra uno scherzo e lo affronto con ottimismo. Guardo un film, in inglese di cui non riuscirò a vedere la fine (Il cavaliere oscuro).
A pochi minuti dall’arrivo a destinazione, provo a buttare uno sguardo fuori dal finestrino. Un immenso strato di nuvole copre tutto, sembra un enorme lago di panna, così denso che sembra non voler lasciar passare l’aero. Ma il nostro aeromobile lo buca e uno spiraglio di sole squarcia il velo bianco, lasciando finalmente scoperta La Nuova Zelanda: un’isola dalle forme sinuose, docili colline sono velate da alberi e erba accarezzati dal vento. Terra, colline, pecore, nuvole, vacche, nuvole tutto amalgamato con un pizzico di tranquillità che colpisce anche da 4000 metri di altezza. L’aereo traballa, scricchiola, barcolla, ma osservare quella natura così accogliente toglie tutti i timori, sono certo che non ci si può far male se si cade su questa terra.
Infine Auckland. Arrivo finalmente. Lascio la descrizione della città a domani che la vedrò con calma, adesso vado a farmi una meritata doccia e cercherò qualcosa da mangiare per la cena, se non svengo prima. Tutto questo mi piace da morire!
Auckland Feb 16, 2010
Sapete perché in Inghilterra mescolano il caffè in senso orario, in Germania in senso antiorario e i cinesi con dei movimenti orizzontali? Beh perché ognuno mescola il caffè come gli pare. Una cosa tra tante mi attanagliava prima di partire per la Nuova Zelanda: ma sarà vero che l’acqua nell’emisfero australe scorre in senso opposto rispetto all’emisfero boreale? Già dai racconti del mio amico Rocco in un suo precedente viaggio in questa terra, mi sono convinto che non è vero. Ma volevo le prove! Non appena accomodato nell’ostello della mia prima tappa, ho eseguito il seguente esperimento in tutti e tre i bagni della struttura ricettiva che mi ospita: ho riempito il lavandino, ho aspettato qualche secondo che l’acqua si stabilizzasse, ho aperto lo scarico. Il risultato: in due lavandini l’acqua scorreva in senso antiorario ed in uno in senso orario. Questo dimostra che l’acqua fa un po’ quel cazzo che gli pare…un po’ come chi mescola il caffè!
Ma veniamo alle cose interessanti. Ieri sono finalmente arrivato ad Auckland, ho preso un ostello nella zona di Ponsonby, quartiere molto bello e pieno di vita, consigliatomi da due cari amici Milanesi. L’ostello è bello, pulito e gode di un’ottima vista. Per 15 euri mi sono preso un letto in una stanza in condivisione con un Inglese, che vive ad una decina di chilometri da Newbury, a ovest di Londra. Robert, questo è il nome del mio co-inquilino-di-stanza, torna domani in Inghilterra dopo essersi fatto il giro della Nuova Zelanda per due mesi. Percorrendo più di tremila chilometri. In bicicletta! Robert è un signore sui 45 anni, piccolo di statura ma con un fisico asciutto e tonico da far paura, o invidia. La testa pelata ed abbronzata è colorata da pochi e cortissimi capelli bianchi. Mi consiglia dove andare e che percorso seguire in macchina, mostrandomi, per aiutarmi, una dettagliata cartina stradale, di cui, mi accorgo ora, sono sprovvisto. Mi sta simpatico. Lo saluto dopo la lunga chiacchierata, per andare a mangiare qualcosa. Per trovare cibo da mettere nello stomaco girovago tra i tanti locali di Ponsonby, ristoranti indiani, italiani, messicani e altri di ogni parte del mondo invadono il quartiere. Alla fine scelgo il Wisconsin Burger, anche questo consigliato dai coniugi Marsico: i miei amici milanesi. Divoro il mio primo pasto Neozelandese, un hamburger con patatine: che inizio!
Alle 21 non resisto e vado a dormire, non senza scattare qualche foto dalla veranda dell’ostello che guarda verso la Sky City, dove si trova la Sky Tower, simbolo della città. Da qui si vede anche buona parte dello Skyline di Auckland e devo ammettere che lo trovo molto suggestivo, anche perché si mescola benissimo con la natura rigogliosa che lo circonda, quasi non sembra troppo invasivo. Badate ho detto non sembra! Dopo una bella e meritata dormita, oggi sono andato a fare un giro per la città, scegliendo come mezzo di trasporto una bicicletta, che per 8 euro al giorno viene affittata dall’ostello. Quando prendo il mezzo scelto, devo passare un po’ di minuti a togliere le ragnatele. Sintomo questo che le bici ad Auckland non vanno di certo a ruba. Faccio un lungo giro della città. Perdendomi tra le vie, faticando sulle numerose salite che caratterizzano una città nata e sviluppata su un territorio interamente vulcanico. Mi fermo al porto, dove decido di imbarcarmi per andare a visitare la vicina isola di Rangitoto. L’isola non è altro che un vecchio vulcano a forma di uovo all’occhio di bue. Il suo profilo dolce si può scorgere tra la foschia dal porto. Dicono si tratti di un vulcano attivo, ma una volta salito in cima al cratere di attività vulcanica non se ne vede neanche l’ombra. La salita fino in cima tuttavia è molto divertente, un’oretta di ascesa facile. Tuttavia viste le mie condizioni fisiche, mi mette a dura prova. Non contento delle mie precarie articolazioni, mi aggrego a due ragazzi inglesi, dello IOKSCII (che io ho interpretato come Yorkshire, ma non ne sono sicuro), venendo attratto dal loro passo sicuro e spedito. Troppo spedito! Corrono come camosci lungo il sentiero ricavato sopra vecchie colate laviche. Per coprire i quattro chilometri circa di salita la lonely planet diceva ci volesse un’ora, noi l’abbiamo fatto in 40 minuti! I due ragazzini in scioltezza e senza fiatone. Io sembravo una locomotiva a carbone che viaggia nel cuore di un monsone: tanto ansimavo e tanto ero sudato. In cima al cratere si domina la vista sulla metropoli neozelandese e i suoi dintorni, ma niente lava, niente lapilli e niente fumo.
La discesa invece è stata facile e ho vinto io! Tornato al molo ho ripreso la mia bicicletta. Avendo ancora tutto il pomeriggio ho pensato di andare a vedere il Museo di Auckland. Il palazzo si trova sulla cima di una collinetta che domina Auckland, e che rappresenta uno dei tanti parchi della città. Dal porto alla cima della collina bisogna fare una lunga e ripida salita che sembra il mortirolo. La mia bici, non è proprio un mountainbike, anzi, è una citybike, con solo tre rapporti: duro, durissimo e duro smodato. Quando arrivo in cima alla collinetta, ho bisogno di una buona mezz’ora per riprendermi. Sono sudato all’inverosimile e puzzo da far schifo. Ma sono qui e io entro, al massimo mi cacceranno, tanto ci sono abituato. Non mi cacciano, ma la gentile ragazza della biglietteria, con un sorriso di scherno, mi indica i bagni: entro!
Le esposizioni sono stranamente interessanti. Il palazzo nasce come museo dedicato ai cimeli della guerra dopo la fine della prima guerra mondiale, che ha visto la Nuova Zelanda tra i partecipanti. Il centro è divenuto col tempo museo di storia nazionale, con esposizioni sulla cultura Maori, sulla storia geologica della nazione, con una bella sezione dedicata ai vulcani, sulla storia della Terra, con fossili ricostruiti di dinosauri. Insomma mi sono proprio divertito a girarlo, ci sono rimasto due ore. Prima di entrare delle nuvole stavano coprendo il cielo azzurro, all’uscita ho scoperto che aveva cominciato a piovere. Per fortuna! Pensando che dovevo tornare in ostello in bici e sudare di nuovo, almeno potevo dare la colpa alla pioggia per essere tutto bagnato. Tornato in ostello, ho scoperto che io e Robert abbiamo un nuovo ospite, non so ancora chi sia, nell’attesa di scoprirlo mi sono fatto una lunga doccia.
Addio Auckland Karekare Feb 17, 2010
Auckland è una città attraente ma molto occidentale. La sua architettura si addice al paesaggio e affascina. La scelta di ricoprire e di costruire la maggior parte dei palazzi con acciai e vetro, rende tutta la città splendente anche in giornate uggiose come quelle che sono capitate a me. La natura che la circonda la abbraccia e non viene soffocata dalla metropoli. Insomma Auckland mi piace, ma la Nuova Zelanda non è solo Auckland. Per fortuna! Stamattina ho salutato Campbel (che lui pronuncia Campo): l’oste. Ho fatto armi e bagagli è mi sono apprestato a lasciare la città e prendere una macchina a noleggio. In ogni caso la prima attività della giornata è stata la conseguenza di un grave errore da principiante che continuo a commettere. Una delle cose fondamentali in un viaggio come questo, che prevede lunghe camminate, è quella di avere delle buone scarpe. Visto che quelle che mi hanno accompagnato in Peru’ le ha preferite mio papà, io me ne sono comprato un altro paio, peccato che le nuove maledette scarpe mi hanno provocato delle vesciche ad entrambi i mignolini dei piedi, dolorosissime vesciche. Quindi la prima cosa che ho fatto stamattina è stato comperare un altro paio di scarpe, morbide, comodo ma costosissime. Ora va meglio! Arrivo alla stazione di noleggio delle macchine che si trova vicino alla stazione centrale di Auckland. Mi danno una Nissan Sunny, un modello di berlina che a me ricorda la Duna: adatta a lunghi viaggi in discesa. Mi accomodo per partire. È la mia prima esperienza con la guida a sinistra, il fatto che la stazione di ritiro sia vicino alla stazione centrale in una strada a doppio senso di marcia molto trafficata, mi mette una certa agitazione. Oggi ho deciso di andare a vedere Devonport, un quartiere di Auckland a detta di molti caratteristico e poi mi sarei diretto verso Raglan, una cittadina che si affaccia sul mare di Tasman più a sud. Mi faccio spiegare dalla ragazza del noleggio la strada per arrivarci: right, traffic light, turn around, left, right, keep left and then turn to the right, left. Aooooooo mortacci sua! Non c’ho capito niente.
Sarà per il fatto che non c’ho capito una fava, sarà per il fatto che sono concetratissimo alla guida a sinistra, ma fatto sta che mi ritrovo sull’autostrada in direzione Nord. O porca trota, adesso che faccio, non vedo piazzole di sosta, non riesco a prendere la mappa, tanto sono concentrato alla guida, dove vado? Vedo all’improvviso un’indicazione stradale: “West coast beaches”. Vabbè andiamo al mare! Prendo la direzione indicata e mi ritrovo sulla Grand North road.
Accendo la radio: passano i Beatles. Non ho la più pallida idea di dove sto andando. Ma ci sto andando! Un largo sorriso mi riempie la faccia. Riesco finalmente a fermarmi e cerco di capirci qualcosa. Sono sulla grand north road, guardo sulla mappa e la direzione porta a Phia. Cerco sulla Lonely Planet e scopro che proprio in quella direzione c’è la spiaggia di Karekare. Se avessi deciso di andarci da solo non ci sarei mai arrivato. La strada per arrivarci è magnifica. Una mulattiera asfaltata che taglia una vegetazione rigogliosa ed in esplosione. Sembra quasi che le piante si aprano al mio passaggio dopo ogni curva e si richiudano subito dopo. Non riesco a togliere quel sorriso dalla faccia. Alla radio canta Janis Joplin. Arrivo finalmente a Karekare. La spiaggia è una selvaggia lingua di terra scavata nei secoli da un torrentello che si sposa con il mare di Tansman. È delimitata a Nord e a Sud da due promontori imponenti ed uno scoglio verso sud, a largo ma poco distante dalla riva, completa la vista. La sabbia è nera e finissima, a conferma del territorio di origine vulcanica. Il cielo di oggi è grigio e carico di umidità che per mia fortuna non riesce a diventare pioggia. Le onde alte che provengono dal mare la rendono una spiaggia per surfisti. Sono loro gli incontrastati padroni del luogo. Per il resto non c’è niente. Né un bar, né un cesso, né vuccumpra’. Magnifica. La sua “spiritualità” si respira. In questo posto hanno anche girato le scene del film “lezioni di piano”. Trascorso un po’ di tempo in meditazione mi incammino verso delle cascate segnate sulla guida, sono a pochi passi e ci arrivo comodamente nonostante le vesciche.
Altro posto da favola! Le cascate sono un muro d’acqua alto circa una quindicina di metri che scivola lungo la parete rocciosa ricoperta da muschi, formando un laghetto ai suoi piedi. Il tutto è ricoperto da una ricca e caotica vegetazione. L’acqua è di un colore verdastro e le tante alghe la rendono melmosa, ma la voglia di tuffarsi c’è lo stesso. La giornata continua ad essere uggiosa per cui desisto. Comincio ad avere fame e non ho niente da mangiare con me, il primo centro vitale si trova a qualche decina di chilometri da lì. Meglio che parta. Dopo mezz’ora di strada immersa nel verde, mangio!
Via verso Raglan. La strada per la cittadina dei surfisti è di circa 190 chilometri. Anche questa molto suggestiva ma ci metto 4 ore per coprirla, con tanto di macchina fotografica alla mano scattando qualche foto lungo il cammino, eseguendo manovre al limite del codice della strada italiano, figuriamoci per quello neozelandese. Arrivo finalmente a Raglan. Il cielo minaccia pioggia ed il mare ha un colore grigio plumbeo. La cittadina sonnecchia come un ragazzino svogliato durante un piovoso pomeriggio autunnale. Nonostante tutto questo a Raglan non c’è neanche un letto libero. O meglio non per la cifra a cui sono disposto a pagarlo. Faccio un giro per la piccola cittadina e mi fermo in un internet café da dove scrivo il diario quotidiano. Sono le sette di sera. Puzzo (come al solito diranno le malelingue) e non ho un letto. La mia organizzazione fai da te comincia ad avere i sui difetti. Ma ce la farò state tranquilli.
La lunga nuvola bianca
Raglan Feb 18, 2010 Maledetti Australiani. La causa del fatto che a Raglan sono esauriti tutti i posti letto, o almeno quelli per cui sono disposto a pagare, è che una tribù di Aussi ha invaso la ridente cittadina. Per cui dopo aver scritto le mie avventure ho chiesto al gestore dell’internet point se sapesse dove potevo andare a dormire quella notte. Il gentile e simpatico vecchietto si è fatto in quattro per trovarmi una sistemazione, ha cominciato a chiamare le varie strutture ricettive, trovando alla fine un letto in dormitorio in un ostello a 6 chilometri da Raglan, sulla Manu Bay. Va bene accetto! Arrivo al mio asilo verso le 20, mi accoglie una signora sui 45 anni. Magra, magrissima, ai piedi indossa un paio di sandali allacciati alla caviglia, una larga e lunga gonna asimmetrica le fascia l’esile vita, chiusa con una corda simile al saio dei frati. Una magliettina, aderente per la maggior parte delle donne, ma non per lei, le avvolge il resto del corpo. Ha due occhi verdi cerchiati da profonde occhiaie ed un sorriso stanco ma accogliente. Mi mette a mio agio. Io do le mie generalità e dico che mi manda il tipo dell’internet point di Raglan. Lei sbadatamente mi indica il mio dormitorio e mi spiega dove sono le varie attrezzature dell’ostello. Il Solscape Hostell è una specie di campeggio, i bungalow sono piccole casette di legno che ricordano le stazioni ferroviarie, il mio dormitorio è un vecchio vagone di un treno nel quale sono stati montati 4 letti a castello. Dietro al dormitorio, per chi vuole provare una vacanza ecologia, ci sono dei veri e propri Tipi indiani, illuminati con torce ad energia solare, con tanto di doccia sempre alimentata dal sole. Che razza di posto. Gli ospiti dell’ostello sono tutti ragazzi di età media 24/26 anni, abbronzatissimi, hippy e patiti di surf. C’è una ragazza che gioca con l’Hula-Hop, un tizio che si esercita con tre palline da giocoliere (no, non sono io!) e un americano dal fisco apollineo che gioca a Jenga con una ragazza argentina visibilmente sotto effetto di droghe leggere. Insomma ricorda molto una comune, non c’è ovviamente né servizio ristorante né niente da mangiare se non di proprio possesso. Le uniche cose che ho sono dei biscotti avanzati dalla colazione della mattina, saranno anche il mio pasto serale. Dopo la parca cena, mi ritiro in un angolino per leggere un po’, ma vengo subito attorniato dagli abitanti del luogo; di leggere non se ne parla, mi tocca far conversazione. Così conosco una coppia austriaca di Salisburgo che viaggia per tre settimane in Nuova Zelanda e poi torneranno in patria: sfigati! Mi ritrovo anche a chiacchierare col ragazzo americano dal fisico apollineo che sta a Raglan da metà Gennaio e vive facendo il maestro di surf, quindi con la ragazza argentina che è in Nuova Zelanda da più di un anno, parla inglese molto bene e vive facendo quello che gli capita, ieri faceva la baby-sitter. Infine è il turno di una ragazza inglese che non capisco quando parla. La conversazione non è molto divertente e la serata non decolla. Vado a nanna! Proprio sopra il mio letto, sta riposando un ragazzo scozzese che avevo incrociato quando sono arrivato. È visibilmente ubriaco, ha le labbra livide e parla sbiascicando.
“Dlksljk fuck kjlshk fucking nmnkdjfh” “Eh?” “Dlkfl;jkio fuck ;k;k ;klipeoirpwie fucking” “Io non ti capisco” “But I speack in English” “Si…a soreta! I don’t understand you” “lk;k;k;klk k fuck ;ks;klas”
Vabbè buona notte. Il tipo sarebbe anche simpatico se riuscissi a capire cosa dice, il problema è che durante la notte emette dei suoni che non sembrano umani e ogni orifizio del suo corpo scarica aria, spesso maleodorante. Ma riesco a dormire lo stesso. Non mi freghi. L’indomani sveglia presto. Il tempo continua ad essere brutto. Da quando sono atterrato in questa nazione, non ho visto mai il sole, solo una lunga nuvola bianca. Decido quindi di non fermarmi a Raglan un’altra notte ma di andare subito a Waitomo Caves. Non prima di farmi un giro in Kayak per il Raglan Harbour. Molto bello. Avrei voluto fare un giro con una guida, ma quei dannati Australiani avevo esaurito anche quello, allora, senza scoraggiarmi, mi sono preso un kayak da solo e sono andato in giro per un paio d’ore nell’insenatura che avvolge Raglan. L’inizio non è facile, devo prendere mano. Acquisita confidenza mi avvicino alle coste rocciose e esploro ogni anfratto, è davvero bello girare con il kayak per queste coste, è incantevole e si vedono scorci che dalla spiaggia o dalla terra non avrei mai potuto vedere. Rocce che emergono dal mare e ci si ributtano subito dopo, guglie, calette, piccole grotte e varchi tra le rocce accarezzate dal mare, peccato che sia nuvoloso e a tratti cade la pioggia. Finito il mio giro in barca ho ancora un po’ di tempo per visitare le vicine cascate. Carico tutto in macchina e mi dirigo verso le Bridel Viel Falls.
Il sentiero per raggiungere il posto a piedi si snoda attraverso un tratto di foresta che sembra sub-tropicale, la vegetazione è molto eterogenea e le piante dal busto basso lasciano entrare un po’ di luce che rigenera anche il sottobosco, è un’esplosione di verde. Arrivo alle cascate. Il piccolo torrente che le forma è un insignificante rigagnolo di un paio di metri di alveo che scorre sopra un gigantesco strato di Basalto lavico, alla fine di questo strato l’acqua compie un salto di 55 metri che la fa cadere ne più basso e antico strato di roccia calcarea. Il quadro che trovo è meraviglioso. Un getto d’acqua di 55 metri che cade in mezzo ad una vegetazione rigogliosa. Sono stupito e affascinato, se non altro per la sorpresa di vedere quel piccolo torrente privo di interesse disegnare all’improvviso un quadro impressionante. Scatto le mie belle foto, contemplo lo spettacolo della natura per un’oretta e poi riparto alla volta delle Waitomo Caves. Nel momento in cui scrivo queste righe sono in un ostello in mezzo al niente, divido la stanza con altre 4 persone e mi sono comprato qualcosa da cucinare. Vedremo se mi toccherà conversare anche stasera.
Waitomo Caves Feb 19, 2010
La bellezza della Nuova Zelanda è quella di avere a disposizione una natura spettacolare ovunque e facilmente accessibile. Le strade che si percorrono sono strepitose, il solo guidare da un posto ad un altro merita tutte le ore di volo. In questa bellezza travolgente fa ancora più piacere notare che le strutture ricettive sono spesso in posti incredibili e maestosi ad un prezzo più che abbordabile. L’ostello in cui sono capitato infatti è un piccolo cottage di legno, ben curato, appoggiato a mezza costa sul versante di una collina, qualche decina di metri sopra il livello della strada. La vista intorno è stupenda e solitaria. Il prezzo delle camere ridicolo: 13 euri a notte. Le persone che lo popolano sono tutti ragazzi dai 25 ai 35 anni, con poche eccezioni. Quando ieri sono arrivato la ragazza della reception che mi ha accolto è arrivata scalza, le lunghe gambe abbronzate terminavano con dei pantaloncini cortissimi e un’aderente maglietta a righe orizzontali fasciava una terza dignitosa. Il sorriso era invadente ma freddo. Seria, troppo seria. Una volta cucinata la mia orribile cena, sono sicuro che potrei fare di meglio, mi metto un po’ a leggere, ma anche stavolta due chiacchiere le faccio lo stesso. Parlo con una delle poche eccezioni. Una signora sulla cinquantina, inglese, sta girando da sola per l’isola del Nord perché è venuta a trovare sua figlia che vive a Taupo. Dal momento che la figlioletta è impegnata ad allenarsi, lei ne approfitta per farsi un giro per la Nazione. Mi ha un po’ raccontato della figlia che si allena per fare l’insegnante di Triatlon. Non ho capito bene cosa si insegni al triatleta: corri, pedala, nuota? Lei si sta allenando da due anni. Mah!!!! Poi basta, non ho voglia di conversare, leggo!
Dormo! Mi sveglio!
La giornata di oggi la dedicherò a due cose: Waitomo caves e girare in macchina…
Veniamo alle prime. Le grotte in questione sono delle caverne calcaree sotterranee scavate da diversi fiumiciattoli che scorrono nel sottosuolo, niente se paragonate a Frasassi o Postumia dal punto di vista geologico, le concrezioni sono più recenti e meno spettacolari. Ma il giro che si può fare all’interno è a dir poco straordinario. I percorsi che si possono fare sono di diversi tipi: a piedi, rafting sotto terra, discesa in cordata lungo i pozzi artesiani o quello che ho fatto io. Ho prenotato presso “The Leggendary Black Water Rafting Company” un giro per le grotte con la muta e un galleggiante per esplorare le gallerie dall’interno. La mia unica preoccupazione era se avessero una muta della mia taglia. C’era e non era neanche la più grande. Che Paese, sono già innamorato!
L’attesa prima di cominciare il tour l’ho trascorsa con due inglesi che avrebbero fatto lo stesso giro con me. I due teneri astanti sono una coppia del sud di Londra. Lui: un tipo di 65, si muove con dei gesti lenti e a scatti sintomo di un’artrosi incipiente, capelli completamente bianchi ma molto folti a dispetto dell’età’ e una dentatura costata probabilmente un occhio della testa. Lei: sui 60, di statura minuta e paffutella, nelle guance sembra avere ancora scorte di cibo dalla colazione, non è di sicuro stata dallo stesso dentista del marito. Beh se ce la fanno loro! Penso. Ma non glielo dico. Intanto i due coniugi si stanno facendo il giro del mondo, in Nuova Zelanda si fermano 6 o 7 settimane e poi andranno in Giappone. In Nuova Zelanda hanno già fatto: Rafting, Sandboard (discesa da una duna di sabbia su una tavola) e whalewatching. Alla faccia!
Si parte. Indossiamo le nostre mute, ognuno porta un casco protettivo con una luce da minatore montata sulla fronte. Prendiamo ciascuno una camera d’aria che ci farà da galleggiante per tutto il percorso.
Dopo una quindicina di minuti di camminata attraverso un bosco di latifoglie, arriviamo presso l’ingresso delle cave: un pertugio nel sottosuolo di circa sessanta centimetri di larghezza un metro e qualcosa di altezza. Una volta dentro ci troviamo all’interno di una grotta sotterranea abbastanza grande da raccogliere tutti i partecipanti alla gita.
Entriamo nella pancia della terra.
L’acqua è gelida. Ma la muta aiuta a non sentire troppo freddo. La prima entrata in acqua è un piccolo salto fatto dando le spalle al vuoto e incastrando il proprio fondo schiena dentro la ciambella di gomma. In questa posizione fecale ci si butta all’indietro dentro l’acqua e si comincia la lenta discesa. Al buio. Si viene trasportati dalla corrente del fiumiciattolo sotterraneo dentro la pancia della terra. Poi ad un tratto alzando la testa si osserva lo spettacolo vero e proprio della grotta. Ci dicono di spegnere tutte le luci, rimaniamo completamente al buio, ma il soffitto delle grotte è costellato di luci blu. Un’immensa via lattea azzurrognola illumina il nostro percorso. È magnifica! Quelle luminescenze sono date dalla caratteristica del posto: i glow-worm. I Glow-worm sono dei vermi iridescenti che emettono quella luce azzurra per attirare gli insetti del sottosuolo, loro unica fonte di sostentamento. Sono le larve della zanzara dell’acqua che le depone in luoghi bui, molto umidi e con temperature costanti durante l’anno: delle grotte sotterranee attraversate da un torrente, appunto. Percorrere queste grotte, al buio, con solo le larve della zanzara dell’acqua a far da tetto stellato e veramente un’esperienza da provare. Il percorso durerà circa un’ora, tra un lento galleggiare nella corrente del torrente e qualche passaggio a piedi tra i molti pertugi che bucano la montagna. Alla fine del tour, ritorniamo a veder le stelle e le altre sfere. Rientriamo al bus che ci ha accompagnati all’andata e torniamo al punto di partenza. Veniamo anche invitati a mangiare delle beagel con una zuppa di pomodoro, meritato pasto dopo il bel percorso. I due inglesi ce l’hanno fatta e anche comodamente. Godono di tutta la mia stima! Asciugato e pulito dopo la fantastica esperienza via verso Rotorua.
La strada per arrivarci è, neanche a dirlo, magnifica! Dei paesaggi commoventi e illuminati finalmente dal sole. Ci metto più di tre ore per raggiungere il posto, ma solo il tragitto per arrivarci commuove. Il cielo inoltre utilizza le nuvole per disegnare figure oniriche che distraggono ad ogni rettilineo. Se Bubola fosse stato in Nuova Zelanda prima di concepire la canzone “il cielo d’Irlanda” sarebbe nato un capolavoro! Ora sono a Rotorua, la giornata è soleggiata, domani molto probabilmente cercherò di fare Zorbing.
Adesso mi rilasso!
Rotorua Feb 20, 2010
Rotorua. Una cittadina sui bordi di un bel lago. Turistica prettamente turistica. Una sola boccata dell’aria ricca di zolfo mi fa capire di trovarmi in una delle zone geotermiche più attive della Nuova Zelanda, grazie alla presenza di geyser che zampillano dal sottosuolo, di sorgenti termali gorgoglianti e di pozze di fango in continua ebollizione.
La giornata di ieri l’ho terminata girovagando un po’ per la città. Dopo aver scritto le mie righe quotidiane. Ho passeggiato per il centro. Mi sono perso per le stradine perfettamente ortogonali tra di loro ed infine sono arrivato lentamente al lago di Rotorua. Osservando il bellissimo contorno dei monti che fanno da sfondo al piatto e azzurro lago, ho trovato dei cigni. Tutti sappiamo che i cigni sono bianchi; fin da bambini ci hanno raccontato la favola del brutto anatroccolo, un piccolo palmipede tutto nero che poi da grande esplode nella pura bellezza di un cigno bianchissimo e regale. No! Qui a Rotorua i cigni sono neri, o almeno scuri. Mi chiedo cosa raccontino ai bambini?
Dopo il lungo giro, decido di trattarmi bene e scelgo di andare a mangiare in un ristorante. Carne! Sogno la grigliata mista del Conad di via del Giambellino! Tanta carne! Così sarà. Zigzago tra i tanti ristorantini della zona, per la maggior parte asiatici, infine mi siedo nell’unico che sembra a appropriato per la serata, “Stonegrill”. Mi siedo. Ordino. Ascolto. Al tavolo a fianco al mio sono sedute due ragazze, stanno parlando tra di loro, per caso ascolto e sono italiane. Ascolto meglio l’accento è vagamente lombardo. A questo punto osservo anche. Mmmm. Quel volto l’ho già visto da qualche parte. Mi alzo. Mi avvicino al tavolo. Un po’ con imbarazzo rompo la loro conversazione:
“Scusate se vi interrompo” Poi rivolto a une delle due: “ma non ce la facevo più, dovevo chiedertelo: ma tu per caso lavori dalle parti di Milano?” “Sì” fa lei “Lavoro in TeleZynth” “Mi sembrava! Anche io” Ma tu guarda, non avevo incontrato italiani fino ad ora e adesso le prime che incontro lavorano a Milano e una delle due lavora per lo stesso datore per il quale lavoro io. Qualcuno potrebbe dire: come è piccolo il mondo! Dopo aver scambiato due battute, mi fermo con Ester e Susanna fino alla fine della cena. Facciamo amabili chiacchiere e poi ci alziamo per fare due passi. Siamo gli ultimi clienti del locale, anzi no, di tutta la via! Continuiamo la nostra serata in un pub irlandese, ci confortiamo a vicenda sul fatto di non riuscire a capire una parola, quando i Neo Zelandesi parlano e ci descriviamo i rispettivi itinerari. Anche loro come me stanno tre settimane, anche loro come me, sono partite il 13 dall’Italia e anche loro come me ripartiranno da Auckland il 5 Marzo. I due percorsi però sono differenti, vuoi perché Ester e Susanna hanno scelto di viaggiare con i mezzi, vuoi perché abbiamo tutti vincoli differenti, io devo trovare Rocco a Wellington, loro devono trovare dei loro amici nell’isola del sud.
Dopo esserci promessi di rivederci ad Auckland prima della partenza ci salutiamo. Il giorno seguente, oggi, dopo aver fatto colazione sono finalmente andato a fare Zorbing! Lo Zorbing, per chi non l’avesse mai sentito, consiste nel farsi buttare giù da una collina dentro una palla di gomma con dell’acqua all’interno. So che sembra una stupidaggine, ma in realtà è stata una bella esperienza . Il tutto dura circa un minuto o forse due. La discesa è uno zigzag lungo un percorso delimitato da berme di terra, che evitano alla palla di finire sulle macchine sottostanti. Si entra nella palla attraverso un buco che viene bagnato per facilitare l’entrata, io trattengo un po’ il fiato e ci entro con comodità. Poi una volta dentro la palla ci si butta giù per la collina. All’inizio cerco di stare in piedi e correre assieme alla palla, poi cado e tutto cambia. Sembra di essere dentro una lavatrice. Terra, cielo, terra, acqua, di nuovo il cielo. Capriole. Voli. Nuovamente terra. Essere sbatacchiati all’interno di questa palla fa quasi perdere la coscienza della gravità e di sicuro fa perdere l’orientamento. Bello e divertente. Finito con lo Zorbing, sono andato a vedere i vicini Geyser nella zona di Te Whakarewarewatanga, per gli amici Whaka. È una riserva termale con pozzi di fango bollente, paludi di acque alla temperatura di 60 gradi, geyser che spruzzano acqua all’altezza di 30 metri. Peccato che ho dimenticato di caricare la macchina fotografica, anche volendo del giro di oggi non ho neanche una foto. Nel tragitto tuttavia ho conosciuto una ragazza inglese, Belthen, credo. Invece di prendere una guida abbiamo fatto il percorso assieme. Simpatica e la capisco anche quando parla. Belthen è in giro da giugno dello scorso anno, è partita dal Nepal, è scesa giù per la Tahilandia, Laos, Cambogia, Australia e adesso Nuova Zelanda, dalla quale partirà per raggiungere le Hawai, poi sud america e tornerà in patria ad Agosto. Poveretta. Facciamo tutto il giro del parco parlando del più e del meno e confidandoci entrambi il lavoro dei nostri sogni. Usciti dal parco la riaccompagno in macchina al suo ostello e io vado al mio, ci promettiamo di ritrovarci alle terme di Rotorua: non succederà. Ora dopo la solita cronaca quotidiana vado a rilassarmi nelle vicine terme polinesiane. Me lo merito.
Deliziosa forza distruttrice Taupo Feb 21, 2010
I Vulcani spesso sono associati ad eventi tremendi. Distruzione, morte, devastazione, queste sono le immagini che vengono in mente se si pensa alle attività delle montagne fumanti. Io comincio a pensarla diversamente. La Nuova Zelanda e molte delle isole e degli atolli dell’Oceania sono nati da esplosioni magmatiche. Sono un puro spettacolo della natura. Io comincio a pensare ai vulcani come la sapiente mano del creatore, capace di modellare la terra a suo piacimento rendendola meravigliosa. È infatti grazie alle attività come queste che nascono gli atolli, le magnifiche coste Neo Zelandesi, i laghi e le acque termali. Proprio in queste ultime ho trascorso la mia ultima serata a Rotorua. Dopo aver tradotto in lettere le mie vicende, mi sono subito diretto verso le Spa Polinesiane di Rotorua. Un complesso di piscine termali naturali con acqua dai 36 ai 42 gradi centigradi. Dire rilassanti sarebbe denigrarle. Non sono immense, basti pensare che si tratta solamente di 4 piscine all’aperto, ma lo sfondo del lago e il loro calore avvolgente le rende magnifiche. Non appena ci si immerge nella prima vasca quella di 36 gradi, come un brivido attraversa il corpo, parte dalle caviglie e sale verso la schiena. Non un brivido di freddo ma una sensazione di sicurezza fa pensare che in quel momento niente e nessuno ci possa creare ansia, anzi la combatte. Poi si passa ai 38 gradi. Ah! La pelle si distende e le membra ringraziano. 40. Ne voglio ancora. 42…. Un caldo matriarcale, ci si immerge in una sorta di placenta primordiale nella quale sembra di tornare feto…poi ancora più indietro fino all’orgasmo che ci ha generati. Sublime. Non vorrei più uscire, ma la pelle si sta squagliando e forse è il momento di rinascere.
Torno verso rotorua passeggiando per le sue vie maledettamente ortogonali. Mi fermo a mangiare un rapido boccone. Poi torno a girovagare per le strade. Attirato da musica dal vivo entro un pub della via principale. Ordino una birra ed entro nella sala da dove proviene la musica. Mi sistemo su uno sgabello al centro della parete sullo sfondo del locale, una posizione da cui posso osservare tutti i movimenti. Alla mia sinistra ci sono due tizi sui 40/45 anni. Non si conoscono. Il primo, quello più lontano ha decisamente congelato il proprio guardaroba alla fine degli anni 90. Indossa una camicia di Jeans lisa, aperta fino a metà dello sterno, lasciando all’aria la foresta villosa del petto. Sotto la camicia, dei jeans chiari, un po’ troppo corti, lasciano libere le caviglie senza calze ed un paio di scarpe di tela chiare. La testa è rotonda, i capelli corti e neri e il naso appuntito. Guarda con lussuria le giovani clienti del locale. L’altro è scuro di carnagione, indossa una camicia nera, abbottonata con cura. Dei pantaloni blu scuro di stoffa leggera finiscono sopra due scarpe nere da passeggio. Ha il volto da pugile: il naso schiacciato e lo sguardo spento. Sorride e muove la testa in maniera scomposta e asincrona, cercando sguardi complici tra la folla. Non ne trova. Tracanna una birra con lento piacere.
Alla mia destra due coppie di signori sui 50 anni cercano di trascorrere un sabato sera danzante. Gli uomini sono seduti al tavolo bevendo whisky e acqua, le donne si mischiano nella pista da ballo. Davanti a me si svolge la serata. Un gruppo formato da tre elementi suona con dignità musica funky molto divertente. Sotto il palco 20 o 30 ragazzi ventenni si scatenano nelle danze. La scenografia dei balli vede due gruppi di ragazze che ballano in cerchio con le borse al centro, sbevazzano soft drink alcolici e hanno solamente due tipi di abbigliamento: quelle magre e carine indossano vestitini corti o pantaloncini e calzano scarpe col tacco più lungo del loro polpaccio, quelle un po’ più in carne portano lunghe gonne avvolgenti e scarpe molto basse, ma mettono in mostra con malizia seni voluminosi. Il tipo di ballo invece è lo stesso per tutte: lento, scomposto e vorrebbe essere femminile ma devono ancora lavorarci qualche anno. Gli uomini invece formano come un muro divisorio tra i due cerchi di ragazze e il bancone del bar. Bevono come se non bevessero da anni e scherzano tra di loro ignorando le ragazze. Hanno un unico codice di abbigliamento, camicia a maniche corte, jeans scuri e capelli più o meno corti, spettinati e sparati in aria col gel. Poi ci sono io. 32 anni. Con il mio zainetto grigio e la mia t-shirt nera non mi mimetizzo affatto. La cosa che un po’ mi mette tristezza è che molto probabilmente ho più cose in comune con i due tizi alla mia sinistra che con il resto del locale. Ma resto ad ascoltare la buona musica e a gustare la mia Kilkenny.
Mosso da curiosità scambio due parole con il tipo dalla camicia nera. È sorpreso quando gli dico di essere italiano, dice che sono il primo che conosce, ha un accento difficile da comprendere e dopo poco, visto che mi deve ripetere le cose due volte prima che io le capisca, la breve conversazione muore senza risorgere. Direi che è venuto il momento di andare a dormire. Mso-ansi-language: La giornata di oggi e’ una tappa di transizione. Mi sono spostato da Rotorua a Taupo. Farò una lavatrice e un giro per la città. Domani comincerò le vere attività escursionistiche Neo Zelandesi. Per il momento ozio.
Taupo Feb 22, 2010
Taupo. Ancora qui. La giornata di transizione di ieri non è poi stata del tutto infruttuosa. Il pomeriggio sono andato a fare una bella passeggiata costeggiando il fiume Waikato. Il fiume è un emissario del lago Taupo, nasce già con la potenza per diventare un grande fiume, difatti sfocia poco a sud di Auckland ed è il più grande fiume della Nuova Zelanda. Le sue acque sono azzurre, di un azzurro quasi innaturale: celestiale. Le sponde sono dei faraglioni scavati nella roccia lavica che rappresentano il prodotto di un lavoro millenario. Camminando lungo il fiume si arriva ad una piccolissima sorgente, un particolare ponte di legno la attraversa. Dalla sorgente sgorga acqua alla temperatura di 60 gradi centigradi, l’acqua si mescola a quella gelida portata dal fiume e si forma una pozza proprio sotto il piccolo ponte dove l’acqua raggiunge un piacevolissimo tepore. Non resisto. Mi immergo. Meraviglioso.
Il fiume alle spalle scorre sornione. La mescolanza di acqua fredda e calda è sorprendente e piacevole allo stesso tempo. Un flusso di gelo ti toglie il respiro, ma immediatamente, il secondo dopo, un rivolo di acqua calda ti ridona la calma. Resto in acqua un’ora. Chiacchiero con un ragazzo libanese che vive da 5 anni a Taupo. Mi chiede di insegnargli le parole della canzone di Toto Cutugno: “sono un italiano”. In un’acqua calda e cristallina, immerso nel fiume più lungo della Nuova Zelanda mi ritrovo a cantare “sono un Italiano” con una ragazzo libanese appena conosciuto. Adoro viaggiare! Torno verso l’ostello. Doccia. Cena veloce a base di carne e un bicchiere di vino rosso. Poi vagabondo per la piccola cittadina. Per ammazzare un po’ di tempo mi fermo in un pub per bermi una birra. Qui conosco due ragazzi Scozzesi, Richard lui e lei ha un nome impronunciabile che comincia per K, io non lo capisco, le chiedo se la posso chiamare Kris. Accetta. Parlando del più e del meno scopro che anche loro fanno una gran bella vita. Hanno lavorato ad Auckland per 5 mesi, hanno messo qualche soldo da parte e adesso sono in giro per la Nuova Zelanda, gireranno anche l’isola del sud e poi si fermeranno a Christchurch per lavorare ancora. Messi altri soldi da parte andranno in Australia. Ma andate affanculo. Penso, poi ci salutiamo, dopo aver finito la nostra birra. Continuo ancora a passeggiare e infine vado a dormire.
Stamattina sveglia presto. Faccio una colazione nutriente a base di Muesli e Yogurt. Prenoto una gita in Kayak per il pomeriggio. Dovendo aspettare 3 ore, decido di andare a vedere il vicino Craters of the Moon. Il nome è altisonante. Il posto non da meno. Il luogo è una depressione circolare di circa 2 o 3 chilometri di diametro, di origine vulcanica. Come apparenza morfologia simile alle nostre formazioni carsiche del Friuli o dell’Umbria. In realtà questa zona è caratterizzata dal sottosuolo fluido. È un immenso strato di terra che galleggia su un più profondo strato di acqua e più in profondità ancora si trovano strati di magma incandescente. Tutto ciò fa si che l’acqua nello strato mediano si scalda fino a quasi l’ebollizione, genera il vapore che per la pressione buca lo strato di terra e fuoriesce in superficie formando un mare di fiumare di vapore incandescente. Quello che vedo una volta arrivato, non è altro che un mare di vapore che sovrasta una valle di forma circolare. Uno spettacolo che ha poco di terrestre. Ecco perché “Craters of the Moon”. Molto suggestivo. Il giro dura circa un’ora. Una volta finito vado al vicino maneggio per prenotare un percorso a cavallo per l’indomani. Il tipo che mi dà le informazioni è un signore sui quarant’anni, calvo, alto e dinoccolato. Mi si avvicina e mi chiede:
“Cheerssh Mansh Cansh Ish Helpsh yoush”.
Oddio parla come gatto Silvestro. Io gli chiedo delle informazioni, lui solerte mi risponde, ma io cerco di concentrarmi su altro…mi scappa da ridere. Più parla più mi scappa da ridere.
…and didsh yoush ridesi beforesh”
oddio non ce la faccio, scoppio a ridere. Davvero è impossibile rimanere seri. Gatto Silvestro. Uguale! Prenoto. Scappo. In macchina continuo a ridere come un matto. Arrivo, come deciso in mattinata, ai Kayak, mi si presentano Dan e Antony, i miei due accompagnatori, poi arrivano gli altri due partecipanti alla gita: Richard e Kris! Non è possibile parlo con due tizi la sera prima e me li ritrovo in una gita sul Lago. La casualità a volte ha un gran senso dell’umorismo.
Partiamo. La gita durerà 4 ore. Pagaiamo lungo le sponde del lago Taupo fino a raggiungere delle sculture Maori, scolpite sulle rocce a picco sul mare. L’acqua cristallina e blu come la notte lascia vedere il fondo e le rocce. È qualcosa che non avevo mai visto prima, è davvero bello. Non si vedono pesci ma i colori dell’acqua sono deliziosi. Blu, azzurro, verde, a tratti la superficie blu diventa gialla sotto il riverbero del sole. Arriviamo poi alle sculture. Sono dei primitivi disegni delle divinità Maori scolpite nella roccia. Dan ci chiede di provare a indovinare a che età risalgono. Io sparo un 300 anni fa, Kris 400 e Richard non si espone. Sono del 1960…Eh? “Could you repeat?” sono del 1960! Hanno cinquanta anni. Forse questa è la cosa che più mi ha stupito della gita.
Durante il tragitto del ritorno ci fermiamo in una caletta a fare dei tuffi dalle rocce. La giornata è magnifica, l’acqua di più e i tuffi sono una goduria. E che torno a fare! Ritorniamo alla partenza. Sono provato, la giornata è stata lunga, accuso la stanchezza e il sole. Vado a fare una bella doccia e mi preparo alla cavalcata di domani. Ridendo ancora al pensiero di ritrovare Gatto Silvestro.
Armature del medioevo e sidecar
Taupo Feb 23, 2010
Sì ancora a Taupo. Questa piccola cittadina, pur se tranquilla, mi piace. Ci sono un sacco di cose da fare e la presenza del lago dona una piacevole sensazione di tranquillità. Ieri sera sono andato a fare una passeggiata per la via principale. Niente di particolare. Mi sono fermato a mangiare in un ristorante locale. “The True NZ Cuisine” diceva il cartello. Proviamo. Ordino una bistecca con salsa bernese. Mi portano circa mezzo chilo di carne al sangue. Devo dire ottimo e abbondante, ma dopo il lungo giro in Kayak ci voleva tutto. Distrutto dalla lunga giornata a remare e messo a dura prova dalla cena vado a dormire presto. Del resto la ridente cittadina non brilla certo per divertimenti notturni. Anzi è buio pesto!
Stamattina mi sveglio presto, mi lavo e mi vesto con tutta calma. Colazione a base di pancake e sciroppo d’acero. Spendo un po’ di tempo nel leggere la lonely planet. Non sia mai mi stia perdendo qualcosa. Dopodiché via verso la passeggiata di oggi. Ricorderete che avevo prenotato una passeggiata a cavallo da gatto Sivestro, ormai idolo indiscusso della mia tappa a Taupo. Mi presento in orario, anzi un filo in anticipo, al maneggio di Silvestro. Mi chiedono il peso e l’altezza.
“Whatsh I sh don’tsh believesh”
Non credono alle loro orecchie. MI danno un elmetto da cavallerizzo abbastanza ridicolo e mi dicono di aspettare. Con me questa mattina sarebbero usciti una famigliola composta da mamma, papà e figlioletta di 7 o 8 anni e due ragazze di Bristol sui 17/18 anni. Direi non proprio la compagnia dell’anello! Arriva il mo cavallo. È un bel cavallo bianco, le grosse caviglie fanno pensare ad un cavallo da tiro. La stazza è coerente col cavaliere del giorno: me. Ci accompagneranno due guide. La più esperta è una signora sui 40/45 anni, bionda, minuta e con un viso segnato da una vita bucolica immersa nella natura e tra i cavalli. Indossa degli stivali di pelle marrone usurati, dei jeans che hanno dimenticato il loro colore originale e una camicia di cotone a scacchi rossi e grigi. La seconda è un’amazzone di un metro e ottanta di altezza, possente e mascolina nei modi. Ha dei capelli corti e corvini, un viso duro e serio. Indossa degli stivaletti neri alti fino alla caviglia, dei pantaloni neri di una stoffa difficile da intuire e una maglietta di cotone grigia a maniche lunghe. Si parte.
Il giro prevede una cavalcata dentro la foresta attorno a Taupo e una passeggiata panoramica sui “Craters of the Moon”. I primi 40 minuti sono un lento passeggio tra gli alberi e una scorsa veloce ai crateri di cui sopra. Noioso. Bella la foresta. Ma il mio cavallo si ferma ogni due minuti e non da retta alle crudeli tallonate che gli rifilo sulla pancia. Ci trasciniamo così verso la seconda parte del tragitto. Ad una sosta, una delle due guide, la più esperta, ci dice di trovarci di fronte ad un bivio. Chi voleva finire il tragitto in velocità doveva far girare il proprio cavallo a destra chi voleva tornare al maneggio con calma, a sinistra. Tutti coraggiosi, anche la bambina. Tutti a destra. Comincia la cavalcata, adesso diventa divertente, si passa al trotto e al galoppo in mezzo agli alberi. Il mio cavallo continua ad andar lento. Per spronarlo la guida dalla camicia a scacchi mi dice di prendere la cinghia della sella che penzola vicino alle staffe e di farla roteare con la mano sinistra in modo che arrivi davanti agli occhi del cavallo. Senza colpirlo, devo solo fargli vedere la cinghia. Devo fargli vedere chi comanda. Così con la mano sinistra lascio le redini, afferro la cinghia e comincio a farla roteare. Come trafitto da un soffio di energia “Bear” comincia a galoppare, continuo a far roteare la cinghia gridando “Yeppa”, mi sento un cow-boy, ma anche un po’ scemo. “Bear” inizia a darmi retta. Finalmente si corre. È un po’ difficile tenersi in sella con una mano sola col cavallo lanciato a galoppo, ma resisto. Camicia-a-scacchi mi grida qualcosa che non capisco. Galoppo divertito. L’ultima parte del tracciato è stata proprio divertente. Peccato sia stata breve. Salutato gatto Silvestro, camicia a scacchi e l’amazzone, decido di andare a vedere altri geyser. In questa dannata nazione ovunque ci si giri si scorge acqua vaporizzata fuoriuscire dal sottosuolo. Vado a vedere Waitekei Terraces. Il posto altro non è che una ricostruzione, ben fatta ma un po’ posticcia delle vecchie terrazze di calcare che caratterizzavano la zona vulcanica di Taupo. Tralascio la descrizione della piccola gita perché nulla di nuovo, anche se trovo sempre meravigliosi i vulcani. Tuttavia sulla strada per arrivare a queste terrazze di origine antropica, vedo un’insegna che indica un bar. La strada che parte dall’insegna mi incuriosisce: è sterrata. È ora di un caffè. Dopo uno o due chilometri di curve e buche, arrivo alla fine della strada, dove trovo una manciata di case, delle tende da campeggio, uno scuolabus adibito a dormitorio e degli animali che scorazzano liberi: galline, tacchini e una specie di pecora, anzi sembra quasi un alpaca. Il bar, in effetti, c’è. È un cottage di legno che fa da sfondo al piccolo villaggio. Entro. Il locale è coperto da un tetto di legno rivestito di lamiera, senza soffitto. Ci sono due ambienti, separati soltanto da una balaustra, tre gradini e un meraviglioso contrasto. Non appena entrati si viene accolti a destra: da un bancone dal quale escono ottimi caffè e da una vetrinetta con dei dolci e dei panini di dubbia freschezza; a sinistra: da un angolo con esposti souvenir turistici di gusto discutibile.
Dallo stereo esce musica dei Creedence Clearwater Revival. Il secondo ambiente, quello dove mi siedo per gustarmi un cappuccino, è il più bello. Ai piedi dei tre gradini, dietro la balaustra, un bancone fatto con botti di birra di legno domina la sala. Quattro lunghi tavoli fatti legno massiccio riempiono il resto del locale. Tavoli intagliati con l’ascia in una notte di tempesta. La cosa che più mi affascina, oltre al netto contrasto con l’ingresso, sono le varie decorazioni che lo abbelliscono. Sui lunghi tavoli trovano posto delle lampade costruite con pistoni in disuso di motori a scoppio. Al soffitto sono appesi fucili e pistole del 1800. Vecchie lampade a olio. Teiere di latta. Pentolame di rame. Cestini di vimini. Una vecchia armatura in metallo da combattimento del medioevo è appoggiata alla balaustra e un sidecar penzola dal tetto. Tutto questo, che sembra un elenco casuale di oggetti di una cantina di un robivecchi, in realtà rende il locale estremamente affascinante. Mi piace. E resto un bel po’ di tempo ad osservare il caotico o geniale luogo di ristoro. Finisco il mio cappuccino. Vado a fare la solita gita per geyser e torno all’ostello. Non ho voglia di descrivere i geyser. Adesso, vado a fare un altro bagno al fiume con la sorgente termale, scriverò e poi mi dedicherò alla cena.
Napier Feb 24, 2010
La bellezza di girare per ostelli è che si incontrano sempre dei personaggi interessanti. Ieri è stato il caso del mio nuovo compagno di stanza. Mi ero appena fatto la doccia ed ero pronto per uscire a cena. Esco dalla stanza e di fronte alla porta trovo questo ragazzo che sta cercando la stanza numero 31.
“It’s this one” lo aiuto.
Il nuovo arrivato è un ragazzo sui trent’anni. Indossa un abito di velluto nero, non a coste. I pantaloni scendono a campana e nell’ultima parte una stoffa bianca aiuta a rendere ancora più accentuata la scamapanatura. La giacca, sempre di velluto nero, riprende la stessa stoffa bianca lungo le cuciture delle maniche, che terminano con un risvolto nero. Sul davanti la giacca presenta dei ghirigori bianchi, sembrano delle stelle alpine, ma non lo sono. Sotto la giacca una camicia a quadri. Fuori sono 25 gradi. La folta capigliatura bionda è coperta da un invadente cappello nero a falda grossa, simile a quello che indossano i quaccheri. Gli occhi sono spiritati, come se avesse visto un fantasma da poco, o forse il fantasma sono io! Non ha con se uno zaino, ma un fagotto di tela bianca ricoperta di scritte nere raccoglie le sue cose. Per aiutarsi a portare il fagotto di tela, il ragazzo si appoggia ad un bastone di legno, alto circa un metro e mezzo, intagliato amabilmente e molto curato nell’impugnatura. Sembra il bastone di Gandalf, il mago buono del signore degli anelli. Io rimango a fissarlo. Sembro ipnotizzato. Lui mi ringrazia e si accomoda nel letto vicino al mio. Non riesco a trovare il modo di farci due chiacchiere. Che sia un quacchero veramente?
Esco a cena. Mangio. Passeggio. Vado a nanna. Il quacchero dorme già. Non lo disturbo. Non lo vedrò più.
Oggi lascio Taupo. Mi dirigo verso Napier. La giornata è uggiosa. Piccole ma fastidiose gocce di pioggia bagnano il vetro della macchina. Prima di partire la Lonely planet suggerisce di andare a far colazione in un bar a pochi chilometri da Taupo: “L’Arte”! Beh fidiamo ci della lonely. Il caffè si trova lungo la via che da Taupo va verso Acacia Bay, un piccolo villaggio lungo la sponda ovest del lago. Il posto si trova ai bordi di una strada stretta e solitaria. È una vecchia casa, della fine degli anni 50. In legno. Per arrivarci è necessaria una macchina. Non ci sono fermate di autobus o di altri mezzi nelle vicinanze. Parcheggio nel cortile interno. La casa non ha nulla di diverso dalle altre costruzioni Neo Zelandesi: è una casa bassa, in legno, con il tetto spiovente ricoperto da tegole rettangolari di legno grigio. La caratteristica del caffè è la sua galleria d’arte a lato: un giardino con sculture colorate che riprendono lo stile di Gaudi’. Sembra di passeggiare in un angolo del Parc Guell di Barcellona. Certo siamo lontani dal parco spagnolo, ma l’effetto che ne scaturisce è del tutto piacevole. Giro stupito nel piccolo giardino, scatto qualche foto, vorrei anche fare due chiacchiere con il proprietario, ma non c’è nessuno che mi accolga. Entro allora nel caffè. La colazione all’interno è divina! Una volta superato l’uscio, dopo il giro per la galleria d’arte, si viene assaliti da un odore agrodolce, miscuglio delle varie colazioni dolci e salate. La vetrina che contiene i dolci fa venire voglia di prendere tutto. Torte di cioccolata, cannoli alla crema, Cheese-cake. Io scelgo una fetta di Brownie e un flat white coffee. La torta è da svenimento. Si scioglie in bocca e mi lascerà per tutta la mattina un gusto delizioso. Brava lonely. Ha sempre ragione lei!
Parto per altre destinazioni. Sotto consiglio di Rocco vado a vedere una valle termale detta “la valle nascosta” o meglio nota come: Orakei Korato, sulla strada che da Taupo va verso Hamilton. Mi porterà ad allungare la strada verso Napier di circa due o tre ore, ma tanto di tempo ne ho. Un po’ appartato rispetto agli itinerari turistici, l’Orakei Korako Thermal Cave riceve meno visitatori di altre zone termali, ma, dopo la distruzione delle Pink Terrace e white Terrace, è divenuto con ogni probabilità la più bella zona termale di tutta la Nuova Zelanda. Sebbene il parco si trovi attualmente per tre quarti sotto il livello della diga del Lake Ohakuri, infatti, la parte rimasta all’asciutto è molto bella. Come avevo già detto. Il cielo è coperto e minaccia pioggia. Ma parto lo stesso. Lungo la strada la pioggerellina diventa un vero e proprio acquazzone. Certo andare a vedere una valle termale sotto la pioggia è un po’ come andare al cinema con gli occhiali da sole. Una coglionata! Ma sicuro dal fatto che non può piovere per sempre. Proseguo. Avevo ragione io. Smette.
La strada che mi porta fino alla valle nascosta è incantevole. L’aria pulita dalla pioggia accende i colori delle colline verdeggianti. Bellissimo. La strada per la valle termina proprio sul lago che ospita Orakei Korako. Quando con la macchina si svolta l’ultima curva, come se le tende di un sipario si aprissero, ecco che si stende davanti alla vista il lago con la sua bellezza e la colata di sedimento termale che si tuffa nell’acqua. La visita per la valle mi piace. Per molti versi simile a quanto avevo già visto a Rotorua, ma molto più selvaggio e meno turistico. Parcheggio la mia autovettura nel piazzale di sosta. Per arrivare ai piedi del sito termale è necessario imbarcarsi in un piccolo battello che attraversa il lago. Il nocchiere è un signore di origine Maori sui centocinquanta chili di peso, la barca è piegata dalla sua parte, io decido di controbilanciare mettendomi dall’altra. Il gigante Maori manovra il piccolo battello con una maestria costruita negli anni.
Il giro per la valle durerà circa due ore. La giornata e soleggiata e lo spettacolo caldo delle acque bollenti mi lascia sempre stupito. Un sentiero che a tratti si fa piuttosto ripido, si snoda quasi interamente lungo una passerella attorno alle variopinte terrazze di silice, per cui il parco è famoso., consentendo la vista dei geyser e della Ruatapu Cave. Questa straordinaria grotta naturale, alta circa una cinquantina di metri, contiene una piscina color verde giada che pare fosse utilizzata come specchio dalle donne maori che si preparavano per le cerimonie (Orakei Korako significa infatti “luogo dove ci si adorna”) Sembra quasi un’acquasantiera gigantesca ricavata nel fianco di una montagna. L’Emerald Terrace, che scintilla come un gioiello nella luce del primo mattino, è un’altra caratteristica straordinaria di questo luogo. Ringrazio Rocco per il consiglio. Finisco il mio tour riempiendo gli occhi dello spettacolo fumoso dei territori vulcanici. Adesso riparto. Via verso Napier.
La radio della macchina non riesce a sintonizzarsi su nessuna stazione. Prendo il mio lettore mp3 e con un auricolare ascolto la musica che mi sono portato dietro. La strada per Napier è commovente. Canto. “I seem to recognize your face….” (Pearl Jam: elderly Woman behind the counter in a small town)
Ogni curva è un’esplosione di verde e di pecore. Tante pecore.
“Ah che personaggio, mano infilata in tasca…” (Patrizia Laquidara: Personaggio)
L’aria è stata pulita dalla pioggia e mi sembra di guardare tutto come da dietro un’immensa lente d’ingrandimento.
“I’m with everyone and yet not, just wanted to be myself …” (Bush: Swallowed)
Ogni tanto mi fermo per osservare il paesaggio: un bosco, un gregge, una radura, una cascata.
“Non so che viso avesse e neppure come si chiamava…” (Guccini: la locomotiva)
Che bella la Nuova Zelanda.
“Safari dentro la mia testa, ci sono più bestie che nella foresta…” (Jovanotti: Safari)
Arrivo a Napier. La guida diceva ci volevano 2 ore. Ce ne ho messe tre e mezzo. Ma non ne ho sprecato neanche un secondo. Prendo alloggio in un ostello del centro. Passeggio per rendermi conto dove sono.
Scrivo! Anche oggi. Scrivo
Napier Feb 25, 2010
Sono sbronzo. Ecco come inizia il diario di oggi. Sono completamente sbronzo. Ma andiamo con ordine. Ieri serata tranquilla, sono andato a West Quey “patria dei divertimenti di Napier”. Per lo meno così dettava la guida. Beh forse si sono nascosti tutti. Non c’è un’anima. Mi fermo in uno dei tanti locali della zona. Attirato da una frase ordino la cena. La frase era “The true italian pizza”. Il ristorante millantava una pizza superba per di più con cottura a legna. L’ho fatto solo per provare la differenza. Me ne vergogno, lo so. Ma nella vita bisogna provare tutto. La pizza era anche buona, peccato che il pizzaiolo ha pensato di condirla con maionese e avocado. So che tra i lettori di queste righe, ci sono alcuni che amano mettere la maionese sulla pizza, per lo meno una c’è di sicuro. Ma l’avocado no! Ceno. Passeggio. Urlo per vedere se alle volte la gente si fosse nascosta veramente. Nessuno. Torno in ostello. Leggo. Nanna. Oggi, giornata rilassante. Passeggio per le strade. Napier è una città affascinante. Nel 1931 subì la totale distruzione ad opera di un terremoto e di un conseguente incendio. A seguito del disastro i quattro principali architetti della zona si riunirono per definire la ricostruzione. Poiché in quegli anni stava emergendo in america e poi in Europa la scia dell’Art deco’, i quattro consorziati decisero di ridar vita alla città ricostruendola interamente in art deco’. La cosa piacque agli abitanti del luogo e così fu stanziata dal governo una grossa somma di denaro per ricostruire la città come era stato voluto. Passeggiando per Napier quindi sembra di camminare in un set cinematografico degli anni 30. L’art deco’ per intenderci è quell’architettura che prevede strutture basse, di due piani, molto essenziali, e per certi versi simili alle architetture delle missioni spagnole che si trovano in sud america. Il periodo è quello di Rita Hayworth e del Charleston. Le donne hanno la vita magrissima, indossano gonne lunghe e pieghettate e portano dei cappelli che assomigliano a delle cuffie da piscina fasciate con dei nastri colorati e con una piccola tesa morbida che scende verso il basso. Gli uomini invece portano giacche a righe, larghe sulle spalle, pantaloni dritti e chiari anch’essi larghi e scarpe simili a quelle che si noleggiano nei bowling. Questa è Napier. Ma non sono riuscito a trovare le cozze giganti! Dopo aver acquistato qualche souvenir, prenoto la gita del pomeriggio.
Alle 13 mi imbarco per un tour guidato nei vigneti della Hawkes Bay. Questa zona è nota in tutta la Nuova Zelanda per la produzioni di ottimi vini, sia bianchi che rossi. Difatti il clima temperato e la bontà agricola del terreno facilitano la produzione di ottime uve. Come desistere dal fare un giro?
Rob, la nostra guida, è un signore sui 50 anni, con un bel sorriso posticcio e molto simpatico. Indossa la tenuta da lavoro: dei pantaloni neri anonimi e una polo rossa decorata con il simbolo dell’agenzia turistica. Veniamo scarrozzati per 4 aziende vinicole della zona con annesso assaggio dei vari vini prodotti. Con me si imbarcano: una ragazza inglese di Oxford, lei sta girando da 6 mesi per il mondo, starà in Nuova Zelanda ancora due settimane e poi parte per il sud america; una coppia canadese di cinquantenni che si gira la nuova Zelanda per due mesi; una coppia di Sidney che gira l’isola del nord per 3 settimane e una coppia di ragazzi sui 35 anni prossimi al matrimonio, lei inglese trasferitasi in Nuova Zelanda da pochi mesi, lui neozelandese da generazioni.
Si parte.
Prima azienda ci fanno vedere il processo di produzione del vino, come si imbottiglia e vengono conservate le botti. Quindi ci fanno assaggiare 5 tipi di vino differenti: Viogner, Chardonnay, Sirah, Cabernet e Merlot. Io cerco di avvinare il bicchiere tra un sorso e l’altro ma non me ne danno il tempo dicendomi che non serve a niente. Si beve e basta. La qualità è buona. I bianchi sanno un po’ di zolfo, ma tutto sommato sono di una buona caratura. Via altra azienda. Qui non ci fanno vedere un bel niente: si beve e basta. Anche qui: Charonnay, Viogner, Sirah e Merlot. Come prima, niente di eccelso ma dignitoso. Altra azienda si continua a bere. La ragazza inglese insieme al neozelandese è molto simpatica e comincia a ridere come una pazza. Merlot, Sirah, Chardonnay. Rob continua a dirci che sono vini che non si trovano nei supermercati e che se volgiamo comprarli ci fanno un prezzo di favore. Desistiamo. Via altra azienda. Il tizio canadese ad un certo punto mi attacca un panegirico sul fatto che in Canada le tasse sugli alcolici sono molto elevate e i buoni vini sono rari, aggiunge inoltre che i migliori sono quelli dell’Ontario. Mah! La giornata e splendente. Il cielo azzurro e il sole luccicante colorano i vitigni di sfumature pastello. Vivere in questi posti non ha nulla da invidiare alle vallate del chianti. Arriviamo finalmente all’ultima casa. Ci accoglie una matrona di origini europee. Possente ed anche sfacciata. Ha una risata coinvolgente ma forzata. Parla un inglese stretto e veloce. Indossa un vestito ampio e scuro. Il petto e sovrastato da una collana di bigiotteria ingombrante. Inizia a vantarsi con noi della bontà dei suoi vini. Ci dice che i loro prodotti vengono esportati in tutto il mondo.
“Canada?ce l’ho!” si vanta
“Inghilterra? Ce l’ho” gongola ancora
“Australia? Come no!”, continua con un po’ d’arroganza “Italy?…well….Italy…mmm..No! Italy non ce l’ho”
“ah ah” penso io.
Lei comincia a dire che è un problema di mafia, non fanno entrare i prodotti esteri. Io le rispondo che noi di quei vini ce ne abbiamo in abbondanza non ce ne servono altri. Mi guarda in malo modo. Sorrido. Sorride. Nessun incidente diplomatico. Si torna a casa. Sono visibilmente provato. Un pomeriggio passato a bere vino senza un goccio di acqua. Bello, ma esco dal minivan barcollando, così come gli altri partecipanti al tour. Adesso come promesso scrivo. Vado a farmi una doccia rigeneratrice e metterò un boccone sotto i denti.
Come preannunciato sono sbronzo. Completamente sbronzo
Non litigare mai con qualcuno delle Fiji Wellington Feb 26, 2010
Ho lasciato Napier alla volta di Wellington. La strada da percorrere sarà di circa 320 chilometri. Ci metterò 5 ore e mezzo. Il motivo principale di un così lungo viaggio è stato un fatto singolare, causato dalla scelta di viaggiare con un’auto.
Dopo circa un’ora dalla mia partenza, mi trovavo all’altezza di Hastings. Stavo attraversando la città per riprendere la via principale che mi avrebbe portato verso sud. Guidavo con la solita leggerezza, concentrato sempre, ma distratto anche dal paesaggio attorno. Ad un tratto la macchina che mi precedeva ha frenato di colpo, per permettere ad una giovane donna di attraversare la strada. Io attento ho frenato nei giusti tempi, ma con un vigore eccessivo. La macchina dietro di me non è stata così zelante. Un rumoroso colpo al posteriore ha fatto sobbalzare la mia Nissan. Un tizio su un minivan bianco non ha visto i miei stop e mi è venuto addosso. Mi ha tamponato. La botta non è stata violenta, ma il posteriore della mia macchina si è acciaccato come se fosse stato rivestito di domopack anziché di lamiera. Sono uscito di scatto per vedere cosa fosse successo. Il pilota della macchina che mi seguiva ha fatto lo stesso. Quando il guidatore è uscito dal minivan bianco, la vettura si è alzata di circa quindici centimetri. Una montagna di carne, due metri di uomo per almeno 180 chili di peso è fuoriuscito dalla portiera. Mi sono sentito piccolo ed anche sorpreso. Con un po’ di timore gli ho chiesto se avesse un’assicurazione. L’aveva. Abbiamo liberato la strada e mi ha portato a casa sua per sistemare la faccenda in amicizia. Ho preso i suoi connotati e lui ha gentilmente chiamato l’assicurazione. Humar Kumesh è un omone originario delle isole Fiji, scuro di carnagione, dal naso camuso e la testa completamente pelata. La fisionomia facciale dura e la corporatura massiccia lo fanno sembrare un orco crudele e sanguinario. Al contrario è molto gentile, simpatico e disponibile. Mi offre anche una birra. Che paese! Mi sentivo tranquillo. Ho controllato la botta. La macchina era in grado di camminare comunque, ma il mio bagagliaio era accartocciato. Ho provato a aprirlo, ma non riuscivo più a richiuderlo. Humar mi è venuto in soccorso. Ha osservato la situazione. Ha preso le misure. Ha violentemente preso a cazzotti il posteriore della mia macchina. L’ha modellato a mani nude. Tutto a posto il bagagliaio è tornato a chiudersi. Dentro di me ho pensato che se avessi incontrato un tizio come questo in una notte buia e tempestosa sarebbe meglio averlo come amico che come nemico. Sistemata la situazione, vengo rincuorato sul fatto che l’assicurazione penserà a tutto. Con un nome scritto su di un pezzo di carta e un bagagliaio messo a posto a cazzotti riparto alla volta di Wellington. Oggi non avrò paura più di niente.
Con la macchina acciaccata sono arrivato a Wellington. Ho parcheggiato vicino al Te-Papa. Una Cbx750F carenata, rossa e grigia, del 1987, cavalcata da un omone con una maglietta rossa a maniche corte e dei jeans chiari mi viene a prendere. È Rocco. Come promesso ci incontriamo nella capitale Neozelandese e staremo insieme qualche giorno. Prima di andare a casa e lasciare i bagagli, ci andiamo a fare un giro per la città e prenderci una birra. Lascio guidare il mio amico, confidando nella sua conoscenza della città e della guida a sinistra.
Qui a Wellington, ma in generale in tutta la Nuova Zelanda, vige una legge per la quale non è possibile stanziare sul suolo pubblico con una bevanda alcolica in mano. Tutti gli alcolici si devono bere in luoghi appropriati. Da qui nasce una delle cose più buffe che ho visto. Un locale al centro della città ha disposto dei tavolini all’aperto, delimitando la zona dei tavolini con dei vasi dentro il cui limite è possibile consumare alcolici, fuori no. Tuttavia il locale ha anche allestito un’isola al centro della piazza sulla quale si affaccia, per raggiungere quest’isola bisogna attraversare 10 metri di suolo pubblico. Ovviamente non potendo stare sul marciapiede con la birra in mano, non si può attraversare con la birra in mano per arrivare all’isola. I geniali proprietari del locale hanno inventato il lavoro che risolve questo problema: il traghettatore di birre. Questo ragazzo è un cameriere che si preoccupa di portare le birre per i clienti che vogliono sedersi nell’isola la centro della piazza, per cui se si prende una birra al bancone dentro il locale e si va verso l’isola si viene fermati dal traghettatore di birre che col vassoio alla mano ci porta la nostra birra e noi al fianco al tavolo desiderato. Mi ha fatto ridere! Consumato il nostro aperitivo andiamo finalmente a casa. Rocco abita in una villetta in stile britannico, in legno bianco, abbarbicata su un promontorio che delimita a sud la baia di Wellington. Divide l’appartamento con la padrona di casa e altri tre coinquilini. Ognuno abita la propria stanza, ma si dividono delle zone comuni: la cucina, il bagno e un piccolo salottino dove dormirò io. Questa sera decidiamo di cenare a casa e di consumare per l’occasione un vino che ho portato come omaggio dalla mia recente gita alle case vinicole della Hawkes Bay. Facciamo anche due chiacchiere con Larissa, una delle coinquiline di Rocco. Larissa è una ragazza Lituana di ventisei anni. Quando Rocco mi disse di abitare con una ragazza lituana di ventisei anni, io immaginavo una valchiria di un metro e ottanta di altezza dalla bellezza algida e femminile, l’immagine che nell’immaginario collettivo si ha delle ragazze dei paesi baltici. Niente di tutto questo. Larissa è mora, dai capelli lunghi e mossi tendenti al riccio, non troppo alta e dal fisico non curato. È padrona di un buon inglese ma parla con una cantilena petulante e monofonica che rende ogni discorso noioso. Rocco non la sopporta ed evita con cura ogni rapporto. Io non la trovo particolarmente simpatica, ma due chiacchiere le faccio lo stesso, per lo meno mi servono per esercitare il mio inglese.
Per vivere nel paese dalla lunga nuvola bianca il mio amico Rocco ha scelto la professione di cuoco. Attualmente lavora in un bar del centro che prepara cibi espressi, una sorta di gavetta prima di vendere la propria abilità culinaria per qualcosa di più interessante. Approfitto allora di questa sua passione per mangiare un’ottima pasta all’amatriciana fatta ad opera d’arte. Dopo la cena e dopo discussioni svariate sulla vita neozelandese e su quella milanese, andiamo a nanna, io stanco dalla lunga e travagliata trasferta, Rocco stanco dalla giornata lavorativa. Domani sarà un lungo giorno.
Nella casa di Gollum Feb 27, 2010
Oggi giornata a spasso per Wellington. La città è bellissima e la giornata è soleggiata. Anche il vento, la peculiarità della città, oggi è calmo e non dà fastidio. Come inizio decidiamo di andare a fare una passeggiata nel parco eolico che si trova poco a nord della città. Ci muoviamo in macchina. Lascio sempre guidare Rocco, io ne approfitto per scattare numerose foto della città e dei suoi dintorni stando sempre comodamente seduto nel posto del passeggero della mia Nissan Sunny. Giriamo quasi tutta la mattina alla ricerca della strada che ci avrebbe portato nel bel mezzo del parco eolico. Non riusciamo a venirne a capo. Vediamo chiaramente le giganti pale eoliche, ma non riusciamo a trovare la strada che ci porti lassù. Confusi, chiediamo informazioni ad un ragazzo ai bordi di una strada deserta, lungo la quale ci siamo chiaramente smarriti. Il ragazzo ci informa che la strada per arrivare alla nostra meta è una strada privata chiusa al traffico. Avremmo dovuto parcheggiare la macchina ai piedi della collina e camminare fino alla cresta per osservare la centrale da vicino. Ma vista la lunga ed erta salita per arrivare in cima, desistiamo. Cambio di programma. Torniamo con le pive nel sacco verso Wellington, pensando lungo il tragitto a qualcos’altro da vedere. Lungo la via del ritorno veniamo incuriositi da un cartello con la dicitura di un cimitero. Prendiamo la strada indicata dal cartello. Dopo due o tre chilometri raggiungiamo il camposanto neozelandese. La cresta di una collina a poca distanza da Wellington è ricoperta di lapidi scure, apparentemente tutte uguali le une dalle altre. Camminando per le strette vie tra le tombe ci perdiamo a leggere qualche nome. Molti nomi di varie nazioni sono sepolti in questo luogo, che ha qualcosa di magico. Quello che notiamo è che ci sono anche molti nomi Italiani, provenienti per buona parte da Massa Lubrense. Scopriamo, infatti, che ci fu una grossa ondata d’immigrazione dalla cittadina campana durante i primi decenni del novecento. Dopo aver passeggiato con enorme rispetto e a bassa voce tra le lapidi ripartiamo per nuove destinazioni.
Rocco, a questo punto, mi porta a visitare il quartier generale della Weta. La Weta è la società di Peter Jackson, regista del Signore degli anelli, ed è la società che si occupa degli effetti speciali di ultima generazione di molti dei nuovi film di Hollywood: il signore degli anelli, Avatar, L’ultimo samurai e altri. Rappresenta la principale azienda di Wellington e la sede occupa un intero quartiere. Ovviamente non possiamo visitare i laboratori o gli uffici della società ma mi accontento di visitare il negozio di oggettistica chiamato: Weta Cave. Il negozio in questione vende le riproduzioni in scala degli originali personaggi o utensili utilizzati nei film All’ingresso si viene accolti da una fedelissima e dettagliatissima replica di Gollum e da un Orco, in scala reale, dell’esercito di Sauron. Il negozio è bello anche se piccolino. Ma la cura dei dettagli e gli oggetti da culto custoditi al suo interno, lo rendono più vicino ad un museo, piuttosto che ad un negozio di souvenir. Ho dovuto combattere con me stesso per non comprarmi la fedele copia del mantello dell’invisibilità usato da Frodo. Il solo fatto che mi ha trattenuto è stato il prezzo: ben mille e duecento euro per portarsi a casa quel cimelio. Fa niente! Lasciamo così il quartiere della Weta e ci dirigiamo verso la nostra prossima destinazione: la red rock walkway. La giornata continua ad essere soleggiata e il poco vento garantisce che la passeggiata sarà una scelta azzeccata. Parcheggiamo la macchina nel piazzale di sosta all’imbocco della via che ci avrebbe permesso di costeggiare l’oceano pacifico. Protetti da alte e verdeggianti falesie cominciamo la nostra passeggiata.
L’oceano oggi è tranquillo e finalmente conferma il suo nome, normalmente smentito, anche in giornate soleggiate come questa. Durante il cammino osservo il piatto mare d’acqua e mentre lo scruto Rocco mi confessa:
”Sei fortunato generalmente il Pacifico non è mai così calmo, anche se c’è il sole, i cavalloni ci sono sempre”
“Beh oggi è fantastico, osservarlo mette calma”
“Hai ragione oggi è bellissimo, ci sono giorni in cui vengo qui solo per osservare l’oceano”
“Anche io adoro osservare il mare, che sia calmo o mosso. Anzi ti dirò che osservare il mare mosso mi piace anche di più. Contemplare il mare d’inverno mi mette a mio agio. Mi appaga.”
“Sì, osservare il mare d’inverno ha un ché di speciale”
“Sono convinto che chi ama viaggiare da solo. Come me e te. Adora il mare d’inverno. Perché chi contempla il mare in una giornata uggiosa non sente il bisogno di condividerlo. E’ solo per se stessi. Lo si sente dentro. Così come viaggiare da soli. Chi lo fa è perché non sente la necessità di condividerlo con qualcun altro. Lo fa per se.”
“Aldo sono pienamente d’accordo. Credo anche che la solitudine sia sottovalutata”
La solitudine è sottovalutata.
Questa frase mi ha colpito profondamente. Una semplice frase, ma in quel momento ha echeggiato nel silenzio. Rocco ha ragione. Continuo a pensare che viaggiare da soli sia un’esperienza unica. Ogni volta. Sono convinto che poter condividere con un compagno di avventure tutte le esperienze di un viaggio, è di certo un ottimo strumento per rafforzare i ricordi e le emozioni vissute. Ma bisogna sempre stabilire dei compromessi. Da soli no! Tutto è decisione propria, tutto è autonomia. Il mare d’inverno è libertà e mancanza di compromessi. Io adoro il mare d’inverno.
Proseguiamo la nostra camminata. Raggiungiamo le Red Rocks, le rocce che danno il nome alla passeggiata. Queste formazioni rocciose sono delle pietre di un colore rossastro che cozzano con il resto del paesaggio. Compaiono all’improvviso dopo due chilometri di cammino, e il loro colore le fa notare subito. Non ce ne sono altre durante il cammino e non ce ne saranno dopo. Sono dei solitari scogli nel mare figli apparentemente di nessuno. Ma ci sono lì. La natura a volte è proprio strana.
Andando ancora avanti lungo il sentiero costiero, arriviamo a vedere una colonia di foche. O meglio troviamo tre foche. Scattiamo qualche foto a quei goffi animali marini e, contenti della visita, decidiamo che è venuto il momento di tornare verso la macchina. Stasera saremo a cena con degli amici di Rocco e poi andremo a vedere un concerto di musica ska in un locale del centro. Il tempo è serrato e di cose da fare ce ne sono tante.
Con calma faremo tutto il possibile. La solitudine è sottovalutata.
Non alzare la testa Feb 28, 2010 Sabato sera, a Wellington, l’ho trascorsa con Rocco e due suoi amici: Paolo ed Elena. Paolo lavora per la Weta, la società di Peter Jackson, mentre Elena è alla ricerca di un’occupazione degna di questo nome. Formano una bella coppia. Lui è un esile ragazzo sulla trentina o poco più. Ha un fisico asciutto ma atletico, una testa dai capelli rasati e degli occhi vivaci e intelligenti. Lei una ragazza alta e mora, coetanea all’incirca di Paolo. Ha un sorriso coinvolgente, quando ride i suoi occhi scuri si rimpiccioliscono per compensare la solarità della risata. Mi sono simpatici e mi fanno sentire a casa. La conversazione quindi risulta interessante. La serata prosegue in un locale con altri amici, anche loro gravitano attorno alla Weta. Siamo in un locale del centro, all’aperto. Un gruppo musicale, dall’aspetto improvvisato, suona una lenta musica Ska. Non molto divertente, ne approfitto per far conversazione con i vari amici al nostro seguito. Annoiati dalla musica del locale, facciamo un giro per la città.
Una delle peculiarità degli abitanti di Wellington è che nel week end amano mascherarsi, anche senza una ricorrenza specifica che lo preveda. Alcuni indossano abiti meravigliosi, altri un po’ stupidi, ma tutti senza dubbio originali. Passeggiando vediamo: una specie di astronauta; una sorta di Chewbecca con una cintura fatta di Compact disk ed infine un ragazzo in mutande con indosso un cubo di Rubik non risolto. Questa è Wellington.
La domenica seguente, con Rocco, abbiamo trascorso un po’ di tempo al Te Papa, il museo nazionale. Una delle attrazioni più interessanti della struttura è uno scheletro di balena ricostruito che pende dal soffitto e un calamaro gigante di 4 metri. Il calamaro è custodito in un’immensa teca, sotto formalina. Lasciato alla mercé dei turisti affamati di fotografie. Tra cui mi ci metto anch’io. Visitiamo quindi la sezione dedicata ai Vulcani. Osserviamo la teca con gli scheletri dei Kiwi. Vagando per le tante sale veniamo attirati da un video nella sezione del museo dedicata alla cultura Maori. Un signore di mezza età sta mostrando la tecnica Maori per la costruzioni di armi da combattimento e monili. Dapprima osserviamo il video senza particolare curiosità, poi leggiamo la didascalia sottostante. Scopriamo così che il protagonista del filmato si chiama: Dante Bonica. Questo è strano: pensare che il depositario delle tecniche Maori sia un Italiano, o per lo meno di chiare origini italiane, ci fa sorridere. Finiamo la visita. Non troverò null’altro degno di nota.
Usciti dal museo, Rocco mi conduce verso una riserva naturale. La zona è un’immensa area recintata dentro la quale trovano rifugio specie endemiche di animali, tipiche della Nuova Zelanda. La zona si trova a pochi minuti di macchina da Wellington ed è un’oasi Naturale protetta molto affascinante. È una radura che sale a scalino tra due dighe artificiali, ricoperta di una vegetazione rigogliosa ed eterogenea, dalle mille sfumature del verde.
Un mare di verde.
galleria.Il percorso è piacevole, anche se purtroppo abbiamo poco tempo per farlo. Circa dopo un quarto d’ora dall’inizio del cammino arriviamo al segnale di deviazione per la visita a delle vecchie miniere d’oro. Raggiungiamo l’imbocco della galleria. L’inserviente all’ingresso ci consegna una torcia a luce rossa, ci spiega brevemente il corto percorso e ci illustra gli ospiti presenti nella Entriamo. L’apertura è un bugigattolo di un metro e sessanta di altezza per ottanta o novanta centimetri di larghezza. Buio. È lungo circa 15 metri e alla fine si arriva ai piedi di un pozzo verticale che lascia filtrare la luce dalla foresta sovrastante. Delle fioche luci rosse segnano il tragitto. Nonostante le luci, le pareti sono completamente allo scuro.
Rocco è teso. Io anche. Non vedendo nulla, appoggio una mano sulla cintura di Rocco. Lui grida e sobbalza.
“Non farlo mai più!!!!!”
E’ decisamente teso. Camminiamo in fila indiana, quasi accovacciati, un po’ per via del corridoio basso, un po’ per cercare di evitare con cura di toccare le pareti della grotta.
“Eccola la vedi” mi fa Rocco.
“Si ne vedo una…va avanti”
Rocco è davanti a me e procede velocemente. Arriviamo alla fine della galleria. Con la torcia illuminiamo le pareti. Niente. Per ora. Si torna indietro. Non riuscendo ad invertirci di posto al ritorno vado avanti io. Cammino un paio di metri. Stiamo per ripassare nel punto dove abbiamo visto la prima ospite. La illumino nuovamente. Poi alzo la torcia e illumino il soffitto della grotta.
“O cazzo Rocco, ma quante sono”
“O porca puttana, vai vai, non alzare la testa!”
Alzando la torcia illumino una colonia di 7 o 8 Weta. Le Weta altro non sono che cavallette originarie della Nuova Zelanda, hanno il corpo di 3 o 4 centimetri e le zampe forse pari al doppio. Sono tra gli insetti più pesanti che esistono. È fanno anche un po’ schifo. Li al buio vediamo illuminate da una luce rossastra questi insetti grandi come un dito della mia mano e con le zampe lunghe e pronte a scattare. Dei brividi poco incoraggianti mi percorrono la spina dorsale. Rocco è rigido e credo che gli stessi brividi stiano passando anche per la sua schiena.
“Vai Vai!”
Non ho il coraggio di scattare delle foto. Ci accucciamo il più che possiamo e passiamo sotto alla colonia di cavallette. Usciamo.
“Did you see the Weta?” ci fa l’inserviente all’uscita.
“Cazzo si che le ho viste!”.
Per alcuni secondi mi gratto il corpo come se avessi insetti ovunque. Poi passa.
Continuiamo il giro. Il percorso continua tra fischi di uccelli che non riusciamo a scorgere e il frinire di cicale a tratti invadenti. Finito il bel giro naturalistico ci andiamo a mangiare un bel pezzo di torta gigante per addolcire il gusto della giornata. La sera ci incontriamo nuovamente con Paolo ed Elena, andiamo a mangiare in un ristorante Mongolo. Si parla del più e del meno. Le chiacchierate sono sempre piacevoli. Paolo verso la fine mi spiega anche il suo lavoro durante la produzione del film “Avatar” al quale ha partecipato. Mi spiega i trucchi utilizzati per rendere verosimili le scene disegnate al computer. Confesso di aver capito poco più della metà di tutte le cose che mi ha detto. Troppo tecniche. Fa veramente un bel lavoro. Penso. Torniamo verso casa per andare a nanna. Rientrati, incrociamo i coinquilini di Rocco. Sono tutti svegli e stanno discutendo del più e del meno. Io visto che domani partirò con tutta calma, approfitto per salutarli tutti in questo momento così l’indomani sarò libero di partire come mi aggrada. Saluto Larissa, saluto David, un ragazzo di Auckland che fa il grafico pubblicitario, saluto Peter, un modellatore di creta americano che per guadagnarsi da vivere fa il muratore e infine saluto la padrona di casa. Come si usa dalla mie parti, nel salutare la signora mi avvicino e le do un bacio sulle guance. La signora diventa rossa e comincia a balbettare. Evidentemente qua non è un usanza comune. Il fatto mi diverte. Saluto anche Rocco, il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare molto presto, prima della mia partenza, per cui non ci saremmo visti.
Con malcelata malinconia sia io che il mio amico ci adagiamo sui nostri giacigli. Domani si riparte, una lenta risalita alla volta di Auckland.
Il cielo di Eraclito
Wanganui Mar 1, 2010
A Wellington le nuvole corrono come l’acqua di un torrente. Guardare il cielo in questa città è come immergersi nel fiume di Eraclito: non è mai lo stesso. Il vento la spazza costantemente, ma i suoi cittadini, al contrario delle nuvole, sembrano spensierati e tranquilli. Lasciando Wellington tuttavia un piccolo senso di nostalgia mi ha preso lo stomaco. Un senso di vuoto, di malinconia. Ci sarei rimasto volentieri ancora un po’. Con Rocco e i suoi amici mi sono davvero sentito a casa. Il dovere mi chiama e poi ci sono così tante altre cose da vedere e da fare. Ma forse la prossima volta… Oggi ho ripreso la macchina e mi sono diretto a Wanganui. Città che sta alla foce del fiume omonimo. La città sonnecchia al mio arrivo. Arrivato in questa sonnolenta cittadina che guarda il mare di Tasman da un’insenatura a Nord di Wellington, mi sento un po’ disorientato. Ci sono arrivato quasi contro voglia. Non avrei voluto lasciare Wellington e qualsiasi altra meta mi sembrava una meta di ripiego. Mi ritrovo dunque in questa località senza sapere esattamente cosa fare né dove andare a dormire. Mi fermo in un bar decentrato dove cerco di raccapezzarci qualcosa davanti ad una spremuta di arancia. Apro la mia guida. Scelgo dove andare a dormire, per star tranquillo mi segno più opzioni. Decido cosa fare il giorno dopo. Visto che il kayak mi piace, scelgo di farmi una bella gita lungo il fiume che dà il nome alla città. Riprendo la mia macchina per andare a prendere un letto nell’ostello segnato sulla lonely. Arrivato a destinazione scopro che non hanno più posti in dormitorio. La sola sistemazione disponibile è un mini-appartamento all’interno del residence. Il prezzo non è elevato, quindi accetto di farmi accompagnare per una perlustrazione. L’appartamento è bellissimo: un largo letto ricoperto di lenzuola di raso, tende colorate alle finestre, una piccola cucina pulitissima e funzionale e un bagno grande come un salotto di una dignitosa villetta dell’hinterland milanese, con una vasca da bagno a forma di cuore. Sembra per molti versi l’ambientazione di un set di film porno. Il tutto per 50 euro. L’appartamento è veramente bello, sarebbe una sistemazione da signori e ad un prezzo conveniente. Ma non sono troppo stanco e sono da solo. Quella sarebbe una sistemazione perfetta se fossi stremato o se fossi in compagnia della mia dolce metà o della dolce metà di una notte. Rifiuto sotto gli occhi sbalorditi dei gestori che mi stavano facendo un’offerta irripetibile. Mi reco dalla seconda opzione segnata sulla guida. Arrivo all’ostello ormai poco prima dell’ora di cena. Qui posti letto ce ne sono. Prendo un letto in una stanza in condivisione con altre due persone. Costo 12 euro. Non avrò le lenzuola di raso, un bagno tutto per me e una vasca da bagno a forma di cuore. Ma a me questo basta e non voglio altro. D’altronde non si dice spesso: chi si accontenta gode?
L’oste che mi accoglie è un signore amichevole ed estremamente disponibile. Il suo nome è Robert, che lui pronuncia velocemente con una “r” arrotata e impercettibile, più simile all’abbaio di un alano che ad un nome. È un tipo tozzo, non grasso, dai capelli corti, ispidi e rasi. Indossa un’anonima camicia grigia a maniche corte e dei pantaloni di stoffa chiara. Mi fornisce la stanza e insieme a questa un insieme dettagliato e preciso di informazioni: cosa fare il giorno dopo, dove andare a fare kayak, a che ora partire e che strada fare. Non potevo chiedere di meglio. Non contento delle sue preziose indicazioni si offre anche di prenotarmi il kayak per il giorno dopo, in modo tale da liberarmi dall’incombenza. Tra me e me, penso che forse mi vuole semplicemente fregare. Ma in fondo mi sta simpatico, se mi sta raggirando lo sta facendo bene.
Scoprirò che non sarà così. Organizzato tutto per il mio domani, vado a fare una passeggiata per la cittadina. Mi fermo a fare spesa per la cena e per il giorno seguente e mi dedico un po’ alla scrittura. Per cena torno in ostello. Mi preparo una frittata con del formaggio. Dopo mangiato vado nella saletta comune per leggere un po’. Qui inizialmente sono solo, dopo poco arrivano anche due ragazzi sui vent’anni che cominciano ad armeggiare con la moderna televisione che c’è nella stanza. I due parlano una lingua che non conosco, dalle facce sembrano europei, ma la loro lingua non ricorda nessun idioma a me familiare. Scoprirò poi trattarsi di due ragazzi Israeliani. Finito di affaccendarsi col televisore noto con piacere che hanno messo nel lettore DVD una copia del “Signore degli anelli”, per fortuna in inglese e non in ebraico. Smetto di leggere il mio libro e comincio a guardare il film.
I due ragazzi sono simili per molte cose: hanno entrambi i capelli corti e scuri, la faccia pulita e slavata, quasi fanciullesca. Indossano tutti e due un abbigliamento casuale: dei jeans e una maglietta. Sia l’uno che l’altro sono di corporatura esile ma scattante. Sono della stessa altezza. L’unica cosa che fa capire che i due non sono di certo parenti è il colore della pelle: uno e chiaro, dalla carnagione occidentale e l’altro è scuro dai tratti nord africani. Non appena comincia il film si guardano compiaciuti della scelta fatta per la serata. Inizialmente siamo in tre a guardare il film, poi a scaglioni arriviamo fino a 15 persone. Tutti ipnotizzate davanti allo schermo, ad osservare le avventure degli Hobbit e di Frodo. Il fatto è che hanno messo su il film nella versione integrale, per intero. Vale a dire i tre episodi tutti insieme senza soluzione di continuità. Resisto più che posso, ma ad un certo punto cedo di schianto e vado a dormire. Saluto tutti gli spettatori e vado a nanna. Domani mi aspetta una lunga gita nel fiume e poi direzione nord, ancora non so dove. Ma domani lo scoprirò. Ne sono certo.
Ci vorrebbe un compagno Taumarunui Mar 2, 2010
Viaggiare da soli è bello. Si è liberi. Si fa quel che si vuole. Ci si ferma. Si riparte. Ma ci sono momenti in cui un compagno di viaggio è di sicuro una spalla sicura su cui appoggiarsi nei momenti di difficoltà. Come oggi sul fiume Wanganui. Stamattina sveglia all’alba. Dal paesino che prende il nome dal fiume dovevo risalire fino ad un centro chiamato Pipiriki. Poco più di un’ottantina di chilometri separano Pipiriki da Wanganui, ma Robert, l’oste che mi ha accolto stanotte, mi dice mi ci vorranno due ore. Poiché devo star lì per le nove e mezzo, parto in orario. La strada costeggia il fiume. Dopo una ventina di chilometri di strada asfaltata, trovo un bivio. Prendo a destra. Un segnale dice che per i prossimi 64 chilometri la strada è dissestata. 64 chilometri. Infatti la strada che arriva a Pipiriki è sterrata. Maledettamente sterrata da qualsiasi parte si vada in quella città sepolta nella pancia del parco nazionale del fiume Wanganui. La macchina sembra galleggiare sulla ghiaia. Sbando a destra e a sinistra. La montagna al fianco e dall’altro il fiume. 50 metri più sotto.
Ci prendo gusto. La strada è deserta, comincio ad accelerare. La mia Nissan Sunny sbanda me tiene. Faccio alcune curve in derapata. Che bello mi diverto come un bambino sugli autoscontri. Una curva sulla destra, cieca, mi prende di sopravvento, sterzo violentemente. Il posteriore scivola verso il fiume, non tocco i freni. Controsterzo. La macchina mi parte da sotto il sedere. Faccio un giro di circa 90 gradi. Secco. Mi ritrovo di traverso. Il posteriore punta il fiume e il muso la montagna. Ma mi fermo. Riparto con il cuore in gola e con il piede più leggero. Altri 30 chilometri di strada sterrata. Sembra un campo di battaglia dopo un bombardamento. Preciso come un orologio svizzero, anche troppo preciso, arrivo a destinazione. Qui trovo Kim, la nostra guida, un tizio sui quaranta anni, rosso di capelli e di barba. Alto e slanciato. Frenetico nei movimenti e nella parlata. È nato e cresciuto nel buco del culo del parco nazionale. Dove per andare a prendere una birra devi chiedere almeno tre giorni di ferie. Poco dopo arrivano gli altri gitanti. Una coppia olandese sui 50 anni in giro da tre mesi per il continente australe. Una coppia americana della California in giro per sole tre settimane e solo in Nuova Zelanda. Infine una coppia di ragazzi inglesi di Londra in giro da Gennaio, anche loro per l’Oceania. Poi ci sono io. Il giro consiste nel raggiungere un ponte in mezzo alla foresta a circa 40 chilometri di fiume da Pipiriki e poi ritorno, chi sempre in barca, chi in Kayak, come me.
Si parte. Il fiume è imponente. Largo una trentina di metri o forse più, calmo ma con alcune rapide che lo vivacizzano un po’. Ai lati è delimitato da alti e minacciosi faraglioni ricoperti di vegetazione, che lo recintano per buona parte del suo percorso. Il wanganui, quando gli invasori europei presero d’assalto quest’isola meravigliosa, fu una sorta di autostrada su acqua che permetteva di portare cibo e materie prime dal mare di Tasman fin nell’entro terra. Infatti, dalla foce fino al lago Taupo, dal quale sgorga, è completamente navigabile. Arriviamo alla prima destinazione dopo più di un ora di navigazione. O meglio attracchiamo per la prima volta. Da qui cominciamo a risalire uno dei tanti faraglioni in mezzo alla foresta. Dopo un tragitto di 50 minuti arriviamo alla prima tappa. Un ponte. Il “Nowhere Bridge”. Che si legge “No where” (da nessuna parte), io invece avevo letto “Now Here” (adesso qui). Mi rendo conto solo adesso che lo scrivo a quanto sono rimbecillito. Il ponte è una costruzione in cemento armato nel bel mezzo della foresta neozelandese. Lo costruirono 4 uomini dal gennaio 1944 al maggio 1945, quando a quanto pare la zona cominciava ad essere colonizzata. Il ponte rappresenta la speranza di quei quattro uomini nel popolare una foresta amica e magnifica. La colonizzazione si interruppe. Vuoi perché si popolarono altre zone più accessibili, vuoi perché chi cazzo ci viene a vivere uno in un posto dimenticato dalla creazione? Il ponte rimane un’opera nel niente a uso e consumo della moltitudine di turisti che raggiunge queste zone.
Si pranza, con le vettovaglie che ognuno si è portato da casa. Kim ci racconta altre storie sul ponte e sulla popolazione del luogo e poi si riparte. Sempre in barca scendiamo il fiume e poi arriviamo alla sosta per prendere i kayak o le canoe. Qui scopro con meraviglia che sono solo io il pazzo a tornare indietro con le mie braccia. Gli altri tornano tutti indietro in barca. Io ci metterò tre ore. Kim mi spiega che il fiume è calmo e facile da fare in kayak. Ci sono solo tre rapide nelle quali bisogna fare un po’ più di attenzione. Ma lui tranquillo mi spiega “When you’ll stay in the rapids don’t stop paddling. Paddle. Paddle” Che significa: hai voluto il kayak, adesso pagaia!
Poi sono ripartiti, salutandomi calorosamente ed augurandomi buona fortuna. Quando all’inizio di questo post dicevo che in alcuni casi un compagni di viaggio è utile, mi riferivo proprio a questo. Sono solo, in mezzo ad un fiume con dei faraglioni alti 50 metri ai lati che occludono la vista, devo scendere per 10 chilometri il fiume e dovrò affrontare delle rapide. Cosa mai fatta prima d’ora. Paddle. Paddle. Penso. Paddle a soreta! Si comincia. In effetti scendere in kayak è molto bello. Mi limito a controllare la barca lasciandomi trasportare dalla corrente non impetuosa. Osservo i faraglioni. Maestosi palazzi naturali che ospitano una vegetazione dai mille colori del verde.
Silenzio. Il silenzio assoluto è qualcosa di divino, se alzo la pagaia, odo solo i rumori della foresta, l’alfabeto con cui la natura si dimostra in tutte le sue forme. Passo davanti a delle grotte. Mi fermo. Attracco. Mi arrampico su delle rocce e mi avventuro su per un dirupo mosso dal rumore di acqua in caduta libera. La grotta è stata scavata da un ruscello che nel suo cuore ha costruito una piccola cascata che termina in una pozza e poi affluisce al fiume padre. Lo spettacolo che mi si para davanti è meraviglioso. Contemplo la mia scoperta per alcuni minuti. Poi riparto. Il silenzio naturale piano piano viene rotto dal frastuono della corrente che si vivacizza. Le prime rapide. Right, left left. Mi ripeto nella mente. Vale a dire le prime rapide a destra, poi le seconde a sinistra e poi ancora sinistra. Right, left, left. Right. Pagaio verso destra. Mi accorgo che ci sono delle rocce che affiorano a destra. Right, left, left.
Right
Mi incaglio, l’acqua è troppo bassa, di li non si passa. O per lo meno non ci passo io. Con uno sforzo di reni mi disincaglio e pagaio all’indietro. Devo scendere a sinistra.
Pagaio verso sinistra,il kayak entra nel filone di corrente veloce. Paddle. Paddle. Pagaio come un matto per mantenermi lontano dal flusso veloce. Mi incaglio di nuovo. Delle rocce sporgenti mi bloccano la punta. Mi sono incagliato proprio a perpendicolo rispetto alla corrente. Mi trovo fermo con l’acqua che mi sta inondando. Altro sforzo di reni. Mi sblocco. Perdo il controllo, il kayak si gira e mi ritrovo con la punta verso monte, pagaio all’indietro sul lato sinistro. Non so come mi giro. Continuo a pagaiare come un matto, sono fuori! Sono fuori. La corrente torna calma. Bene. Ancora due. Proseguo appagandomi con il silenzio e la vegetazione intorno. È stato un bello sforzo. Anche per i reni.
Silenzio. Ecco di nuovo il rombo maledetto dell’acqua: le seconde. Right, left, left. Sinistra, pagaio per guadagnare il lato sinistro prima di trovarmi troppo vicino. Paddle, paddle. Questa volta la corrente non è poi così forte, scendo con scioltezza. Uno scherzo. E vai.
Silenzio. Verde. Mille differenti verdi. Le terze. Il rombo è più minaccioso.
Right, left, left. Mi sposto ancora sulla sinistra, ma questa volta un risalto ingombrante si è formato proprio prima delle rocce sul lato sinistro. Lo evito, ma sono troppo a sinistra. Pagaio per tornare la centro. La corrente è forte. Mi spinge verso la parete. Pagaio come non l’ho fatto mai. Mi ritrovo con il kayak di traverso. Non riesco a metterlo dritto. Pagaio. Niente. Vengo trascinato dalla corrente di traverso, vedo una piccola spiaggetta creata dal fiume. Cerco di arrivare lì. Pagaio. La corrente vuole la meglio. Sono ancora di traverso. Non ce la faccio. Il risalto ai piedi della rapida mi coglie di sopravvento. Mi capovolgo. Bevo. Con una mano mi aggrappo al kayak. Sono fuori dalle rapide. Sono vicino alla sponda. Riesco a puntare i piedi sulle rocce. Tengo il kayak. Sono salvo. La corrente in quel punto non è più forte. Spingo il kayak verso la piccola spiaggia. Mi fermo. Sono all’asciutto.
Che spavento. Risalgo sul mio kayak e mi dirigo verso la fine della mia gita. Sono arrivato. Mi asciugo. Maledico Kim. Lui crede che lo sto ringraziando. Riprendo fiato e calma. La gita dopo tutto è stata emozionante e divertente. Mi è nata la voglia di riprovare a fare rafting in kayak lungo un fiume.
Mi metto in macchina e parto verso nord. Non so ancora dove. Sono le 17. Sulla strada raccolgo un autostoppista israeliano, Kiv o Liv non ho ben capito il suo nome. Lo accompagno fino ad un paese che si chiama National Park, alle pendici del Tongariro. Il mio momentaneo compagno di viaggio il giorno dopo avrebbe fatto uno dei trekking più belli del mondo: il Tongariro Cross. Quando gli dimostro la mia ammirazione per quel percorso lui mi invita ad andare con lui. Titubo. Sari felice di andare ma devo rientrare verso Auckland. Non senza una sensazione di sconfitta lo lascio al suo ostello. Lui mi saluta con calore e mi ringrazia infinitamente del passaggio. Il viaggio di oggi è stato piacevole e di compagnia. Proseguo ancora per un centinaio di chilometri verso Nord. Quasi come per allontanarmi dalla sconfitta di non aver accettato di partecipare la trekking dell’amico israeliano.
Mi fermerò in questo posto dimenticato da tutta la Nuova Zelanda: Taumarunui. Un buco di paese che non ha nulla da notare. Tralascio quindi la descrizione del piccolo borgo, per non denigrare la solitaria destinazione odierna. Mi prendo una stanza in una bettola e scrivo. Canto e scrivo. Canto perché in fondo sono felice di tutto. Scrivo perché a modo mio cerco di rafforzare tutti i miei ricordi.
Un giorno in macchina Thames Mar 3, 2010
Ho lasciato Taumarunui stamattina non troppo presto. Avevo deciso di tornare lentamente verso Auckland e di passare altre due notti nella metropoli vulcanica. Ma sarei arrivato troppo presto. All’altezza di Hamilton ho fatto una deviazione di qualche chilometro. Saranno 300 alla fine. Mi sono diretto verso la penisola di Coromandel. Ci sono arrivato dopo circa 3 ore e mezzo di macchina. La strada per arrivarci attraversa una landa pianeggiante al centro dell’isola del Nord. Non attraversa la zona vulcanica di Taupo e Rotorua, ma la costeggia a Ovest. Non è particolarmente interessante, ma, come non mi stancherò mai di ripetere, qui in Nuova Zelanda guidare per qualunque strada è un continuo scoprire paesaggi incantevoli. Mi sono fermato a Thames, dove ho preso un letto in un albergo deserto nel centro della città. Un buon compromesso per tornare ad Auckland domani mattina presto. Avendo ancora del tempo a disposizione ho deciso di fare il giro di tutta la penisola. Da Thames quindi ho risalito la penisola dalla parte ovest fino Coromandel Town. Un buco. Una manciata di case in riva all’oceano pacifico. Sulla punta all’estremità’ nord-ovest della lunga lingua di terra. La strada per arrivarci costeggia l’oceano guardando verso la baia di Auckland. Le spiagge da questo lato della penisola sono paludose e poco attraenti. La peculiarità di questo lato sono le vecchie zone minerarie. Una fiorente attività di estrazione di oro e pietre preziose, agata, ametista e quarzo, ha caratterizzato la zona a nord di Thames dalla seconda metà del 1800 fino ai primi decenni del novecento. Lo sfruttamento selvaggio del territorio da parte dei coloni, ha devastato questo lato della zona di Coromandel, lasciando poco di interessante da visitare per la maggior parte dei turisti. Da coromandel Town ho cominciato a guidare poi verso Whitianga. I paesaggi attraversati sono sempre uno spettacolo. La strada lascia la costa per salire ripida verso uno scenografico punto panoramico, per poi ridiscendere altrettanto bruscamente verso il lato est della penisola. A Whitianga mi sono fermato a fare una passeggiata sulla famosa spiaggia bianca di Mercuri Bay. La spiaggia è un oceano sterminato di conchiglie. Un affascinate, bianco e allo stesso tempo multicolore oceano di conchiglie. Trovo gusci di cozze giganti, scheletri di paguri, capesante e altri cocci di mitili, nessuno uguale all’altro. Si dice che un vero eroe del mare, il leggendario esploratore e navigatore polinesiano Kupe, abbia attraccato proprio nelle vicinanze della località; il toponimo “Whitianga” è effettivamente una contrazione di “Te Whitianga a Kupe” (cioè “luogo della traversata di Kupe”).
Finita la passeggiata, dopo essermi bagnato i piedi nell’oceano, riprendo la macchina e torno verso Thames passando da sud. Un giro di circa un centinaio di chilometri. Fatto ammirando il paesaggio e fermandomi di quando in quando a scattare qualche foto. Se qualcuno mi dovesse chiedere cosa ho fatto oggi risponderei: ho guidato. Torno in ostello, domani si torna verso Auckland. Un po’ di shopping. Una passeggiata. Basta. La vacanza è finita. L’ultima sera Thames cerco di fare un giro per la città. Non c’è un’anima. Nessuno. Ne’ un locale per prendere una birra, ne’ un caffè. Niente. Anche per trovare qualcosa da mangiare faccio fatica. L’unico luogo dove sono riuscito a trovare qualcosa da mettere sotto i denti è una rosticceria cinese. Entro. La ragazza alla cassa si sveglia di soprassalto e mi osserva stupita. Ha un viso pallido tendente al giallo. Dei capelli neri raccolti con una treccia deforme, scendono verso la schiena e si fermano poco sotto le spalle. Indossa un camice bianco, macchiato, simile a quello di un’infermiera. Mi sorride gentile. Le chiedo cosa posso mangiare, lei mi consiglia un sandwich di pollo. Contro voglia mi fido. Mi chiede di dove sono. Le rispondo di essere Italiano. Sorride nuovamente, con dolcezza. Ad un tratto un uomo, che presumo essere il padre, esce dalla cucina e le grida qualcosa che non comprendo, in malo modo. Lei gli risponde con lo stesso tono e torna sorridermi con vergogna. Mangio il mio panino. È orribile. Mento alla ragazza dicendo che era molto buono. Bevo una sprite. Annoiato torno in ostello. Approfitto di un computer nella zona comune per scrivere. Risalirò nella mia camera.
Sarò solo. Mi addormenterò
Addio cielo Auckland Mar 4, 2010
Sono tornato ad Auckland. Ho riportato la macchina all’agenzia di noleggio, per fortuna dopo l’incidente avuto ad Hastings non mi hanno fatto molte storie. Al contrario si sono scusati dell’inconveniente e mi hanno chiesto se per caso questo mi aveva rovinato la vacanza. Niente affatto ho risposto. Si sono rincuorati e mi hanno ritirato la macchina col sorriso sulle labbra.
Ho preso una stanza in un ostello in centro e poi sono andato a zonzo per la città, senza meta e con una sottile vena di nostalgia, anche se sono ancora qui, so già di stare per partire.
Qui a Auckland poi mi sono rincontrato con le due ragazze che avevo conosciuto a Rotorua, Susanna ed Ester, con loro passerò il pomeriggio in giro per negozi di souvenir e caffè. Sarò con loro anche a cena e fino al ritorno a Milano: abbiamo lo steso volo, almeno da Dubai, fino a Dubai ancora non sappiamo. Si passeggia senza molta voglia. Scatto le ultime foto. Riesco inoltre a convincere le mie amiche ad andare verso Devonport, località che all’inizio di questo viaggio avrei voluto vedere, ma che per le note avventure con la macchina dei primi giorni, non sono riuscito a visitare. Situata al fondo della North Shore, Devonport può costituire la meta di una piacevole gita in giornata ed è facilmente raggiungibile dalla città con il traghetto. Pittoresca senza essere troppo stucchevole, la località mantiene l’atmosfera tipica del villaggio ed è costellata di innumerevoli caffetterie e eleganti edifici di epoca edoardiana e vittoriana.
Ritornati al molo dopo la piacevole gita, cominciamo a far la conta dei regali che mancano all’appello. Io in realtà ne ho pochi. Qualche acquisto lo faccio lo stesso, mosso dalla vena commerciale delle mie due accompagnatrici.
In questo viaggio non mi ci sono soffermato molto. Ma a dire il vero il principale compagno di viaggio che ho avuto anche qui in Nuova Zelanda è stato il cielo. Quello che ho già scritto per il cielo di Wellington, vale in realtà per tutto il paese dalla lunga nuvola bianca. Sì perché se si cammina con il naso all’insù’ il paesaggio cambia ad ogni passo. Le nuvole, così vicine che sembra di toccarle, corrono e giocato tra di loro in un unico balletto senza fine e senza tempo. Tutto, lassù, sembra nuovo ad ogni sguardo: non stanca mai. Proprio quel cielo ti fa innamorare della Nuova Zelanda, magari non te ne rendi conto, ma è lui che ti rapisce, è lui che odi per il freddo e ami subito dopo per il tepore del sole, lasciato filtrare quasi come per chiedere scusa. O forse si sta solo prendendo gioco di te. Commuove. Fa arrabbiare. Scalda. Ti gela con le sue raffiche di vento. È come un compagno di giochi.
Questo cielo dispiace lasciarlo. Dispiace non per il fatto che non si vedrà mai più, ma perché in ogni luogo del mondo lo si può trovare, in ogni angolo del mondo per un attimo sembrerà di rivederlo, ma mai, da nessuna parte, sarà lo spettacolo di arte varia che è qui in Nuova Zelanda. Questo può provocare nostalgia.
Sono pronto? Non lo so. Una cosa so di sicuro: io ormai questo cielo l’ho visto, e, lo sapete tutti, non si può toccare una fiamma ardente senza scottarsi.