Ad Accra e dintorni

Il Ghana, terra d'Africa sconosciuta
Scritto da: lauramaghy
ad accra e dintorni
Partenza il: 04/03/2010
Ritorno il: 20/03/2010
Viaggiatori: 17
Spesa: 2000 €
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Per secoli è stato dominato dal colonialismo europeo che ha derubato le sue ricchezze minerarie e costretto la sua gente alla schiavitù. Un paese ancora fuori dalle rotte del turismo di massa in cui lo sviluppo economico stenta a decollare, il sentimento religioso è insito in ogni aspetto della realtà,la tradizione artigiana è tangibile, la gente cordiale, calorosa e priva di malizia.

La mia scelta di partire alla scoperta del Ghana ha radici lontane quando, poco più che adolescente, rimasi affascinata da una lezione di danza ballata al ritmo ipnotico delle percussioni e da allora crebbe in me il desiderio di attraversare quella terra d’Africa conosciuta a noi occidentali solo per il lungo periodo coloniale che aveva defraudato le sue ricchezze minerarie e ridotto in schiavitù la sua gente. Ma di questo Ghana, oltre alle solite informazioni enciclopediche sulla nazione, non c’era nessun racconto di viaggio da cui attingere notizie. Bisognava scoprire il paese di persona e sperare che non deludesse le mie aspettative. L’incontro all’aeroporto di Fiumicino con gli altri 16 partecipanti è un classico di tutti i viaggi di Avventure nel Mondo. Finalmente i nomi conosciuti e immaginati attraverso lo scambio di e-mail che precedono la partenza prendono corpo e, dopo il primo rapido sguardo e le prime veloci impressioni, mi sembra di essere finita, con la mia tuta da ginnastica azzurra, sulla tavolozza di un pittore un po’ bizzarro che a caso ha spremuto tanti tubetti di colore uno accanto all’altro confidando solo nel suo estro creativo per la riuscita di un bel dipinto armonioso. Paola spicca per il nero della sua chioma arruffata, dei suoi occhiali, del suo giaccone e del sacco di plastica con cui avvolge la sua valigia e mi chiedo se mai riuscirà a fondersi con il maglione zebrato bianco e blu di Giovanni. E i pantaloni color cachi di Sergio non gridano vendetta accanto al rosa shocking del completino di Lina? Ma è arrivata l’ora di salire sull’aereo e di riporre la fantasia nel mio zaino. E allora via, ha inizio il viaggio! Volo buono fino a Tripoli dove l’imponente immagine del Colonnello Gheddafi, dipinta sulla parete nella sala di attesa, ci fa compagnia fino al successivo decollo per Accra, la capitale del Ghana, dove atterriamo alle 22 circa. Il disbrigo delle formalità doganali è rapido così come la consegna dei bagagli. Ad attenderci e ad accompagnarci al nostro hotel troviamo, alla guida di due pulmini, Godwin, il nostro timido corrispondente locale e il secondo autista Koffi. Accra e i suoi abitanti Sarà colpa del caldo torrido e inaspettato che mi investe appena fuori l’aeroporto, sarà la fame, sarà che le bottigliette d’acqua e le scatolette di carne portate di scorta in previsione di allarmanti attacchi di fame e di sete hanno fatto lievitare il peso della mia valigia, sarà che anche l’aria è totalmente immobile che neanche il più piccolo granello di polvere riesce ad sollevarsi da terra, ma al terzo piano dell’hotel – chiaramente senza ascensore – arrivo con la lingua penzoloni e gli occhi fuori dalle orbite. La notte ricarica le energie perdute e al mattino, dopo una bella colazione fatta all’ombra di due alberi dal fogliame generoso, comincio a guardarmi intorno e mi accorgo che siamo gli unici bianchi lungo tutto il mio raggio visivo, per il resto “tra edifici sgangherati e ineguali della strada principale, brulica una moltitudine vestita dalle stoffe dai colori più smaglianti e dai disegni più arditi che si possano immaginare”(Alberto Moravia). Bellissimi uomini dai corpi scultorei e dalla pelle nera lucente e splendide donne dal portamento regale, fasciate dentro abiti multicolori che mettono in evidenza dei sederi così alti e così sodi che nessun chirurgo plastico riuscirà mai ad imitare. Sin da piccole apprendono l’arte di camminare con il busto eretto e sul capo, in equilibrio perfetto, poggiato su un rotolo di stoffa, un cesto o un vassoio contenente la merce che andranno a vendere lungo la strada, o l’acqua raccolta in catini da portare a casa, o fascine di legna. E che dire di tutte quelle mamme con i propri figlioletti avvolti in strette fasce legate intorno al busto che sembrano non provare mai né stanchezza né fatica anche se sottoposte ai lavori manuali più faticosi? Il colore è il primo aspetto che impressiona favorevolmente i miei occhi: i colori degli abiti, come già detto, ma anche il colore della terra rossa che ti sorprende dall’aereo sorvolando l’Africa e ancor più quando si solleva copiosa al passare dell’autovettura su lunghe strade sterrate; ma anche i colori delle baracche di legno o lamiera che avvampano di giallo, di arancio, di azzurro, di verde e la moltitudine di case dipinte di rosso con l’insegna pubblicitaria di una famosa società telefonica internazionale che ti perseguita ovunque, anche di notte nei tuoi sogni. Attraversiamo le strade di Accra invase da persone in un mescolio di caos metropolitano e di flemma africana mentre faticosamente cerchiamo di uscire dalla città. Ovunque volti lo sguardo vedi uomini, donne, giovani e bambini che sotto un sole cocente sperano di vendere la loro mercanzia posta in bella vista sul capo; dai generi di prima necessità quali frutta esotica, acqua contenuta in piccole sacche di plastica, uova, frittelle o cosce di pollo fritte, ai generi secondari tipo asciugamani o batterie. Appena rallentiamo in mezzo al traffico o ci fermiamo ai semafori si accostano ai lati del pulmino in tre, quattro, cinque alla volta appiccicandosi con le mani e i volti ai finestrini; difficilmente sorridono anche perché non hanno la malizia di sorridere per accattivarsi l’acquirente ma se, per disgrazia, capita che qualcuno dei miei compagni di viaggio si azzarda a scattargli una foto, ci inseguono infuriati lanciando insulti incomprensibili e malefici. Giustamente non tollerano di essere fotografati come fossero animali rari in via di estinzione, per questo consiglio di chiedere sempre il loro permesso prima di fotografare. E’ un’intera umanità che non si limita solo a vendere, ma lungo il ciglio delle strade vive, cucina, si rade i capelli, chiacchiera, riposa, trascorre l’intera giornata fino a quando il buio non li costringe a rientrare nelle loro quattro mura piccole e spoglie. E’una folla di persone che pigiata come sardine viaggia per ore sulle strade dentro pulmini sgangherati e arrugginiti senza aria condizionata, ma che dico, senza finestrini, oppure su camion all’aperto e in piedi tipo bestiame da mercato. Ma quando accanto ti passano quei pochi facoltosi ghanesi nelle belle e lussuose macchine, con le dita inanellate d’oro e catene di sproporzionata grandezza al collo, il contrasto è così stridente che avverti un forte dolore allo stomaco come se qualcuno ti avesse sferrato un pugno. Gli Ashanti e le cerimonie funebri Il sabato è il giorno in cui, nella regione Ashanti, la maggior parte delle famiglie di religione cristiana festeggiano i loro defunti. Gli Ashanti considerano la morte un evento normale e credono che l’anima di chi muore continui a vivere entrando a far parte del mondo degli antenati. La figura dell’antenato riveste un ruolo di notevole importanza: ogni anziano autorevole e saggio diventa dopo il decesso un antenato, ovvero una suprema autorità che funge da intermediario tra i vivi e i morti. Nel caso in cui invece una persona non abbia condotto una vita dignitosa la sua anima non è ammessa nel mondo degli antenati ma ha bisogno di reincarnarsi sia sotto forma di umani che di animali per condurre una vita onorevole e completare il suo ciclo vitale nel migliore dei modi. Presso gli Ashanti il giorno della celebrazione del funerale non corrisponde al giorno della sepoltura. Il funerale può essere celebrato giorni, settimane, mesi o addirittura anche anni dopo la sepoltura, cioè solo quando sono stati messi da parte i soldi che occorrono per la realizzazione di una festa che sia la più grandiosa possibile: ogni cerimonia può durare diverse ore ma anche più giorni e attira decine e decine di persone provenienti da più parti. La data del funerale è fatta conoscere da speciali annunciatori che si recano nei vari punti strategici per diffondere la notizia, ma anche attraverso radio, giornali e manifesti. I riti funebri rappresentano non solo un’importante occasione per celebrare le virtù di chi è morto, ma anche una festa per tutti coloro che rimangono e servono a rafforzare il legame con i viventi: attraverso danze e tambureggiamenti la cerimonia si trasforma in un momenti di esaltazione collettiva che ha lo scopo di alleviare il dolore e far divertire e socializzare tutti i partecipanti. Con il nostro gruppo ci troviamo proprio di sabato ad attraversare la regione Ashanti rimanendo sorpresi dal numero di persone che percorrono le strade vestite con preziosi tessuti color rosso o nero. Le stoffe degli uomini sono avvolte intorno al corpo alla maniera delle toghe romane, dalla testa ai piedi, lasciando il collo, una spalla e un braccio scoperti mentre le donne sono fasciate in abiti stretti attorno ai fianchi, con ampie scollature che mettono in risalto le spalle e il decolté e, avvolto intorno al capo, un fazzoletto della stessa stoffa che lascia uscire enormi ciocche tanto da far pensare che portino sulla testa dei vasi di fiori. Proprio mentre attraversiamo un villaggio ci imbattiamo in un corteo funebre che tra canti e preghiere sta portando a spalla una bara verso il luogo della sepoltura: di corsa scendiamo dai pulmini e ci uniamo a loro inoltrandoci nei campi. Non sembra esserci nè commozione né tristezza, ma una grande partecipazione corale. Solo i figli della defunta, riconoscibili dai vestiti color rosso, piangono mentre tutti gli altri pregano al seguito del prete che officia l’estremo saluto. Nel primo pomeriggio siamo invitati a partecipare ad un’altra cerimonia funebre. Veniamo accolti da un familiare del defunto che ci fa accomodare sotto uno dei numerosi tendoni sistemati ai quattro lati di una piazza dove almeno cento persone, prevalentemente vestite di nero (è il colore dei conoscenti, mentre solo il rosso è il colore caratteristico di un rapporto di parentela con il defunto), tra donne, uomini, vecchi e bambini sono già sedute e ci guardano incuriosite. Ma il rito vuole che chiunque arrivi stringa le mani a tutti coloro che li ha preceduti, così ha inizio un’instancabile stretta di mani a decine di mani accompagnata da sorrisi e leggeri inchini. Comincia la festa: dagli altoparlanti si ode una musica dai ritmi africani, alcune donne tra gli invitati cominciano a ballare e ci trascinano con loro in danze sfrenate sotto il sole implacabile delle 14. Anche i bambini, sempre meravigliosi e spontanei in ogni parte del mondo, dapprima solo incuriositi, poi incerti sul da farsi, infine pieni di ardore, si lanciano chiassosi insieme a me in un vortice di balli e girotondi fino a quando, stremata, li lascio ad altri compagni di viaggio per riprendere un po’ di fiato al riparo di un tendone. Siamo al centro dell’attenzione, tutti ci guardano, ridono, si divertono, poi qualcuno ci dice che sarebbe opportuno lasciare un’offerta. Un proverbio ashanti dice “Ognuno dà una mano a portare il peso del funerale” e così anche noi, come tutti gli altri invitati, ci accingiamo ad abbandonare la festa non prima di aver lasciato una quota pro-capite al tesoriere seguita da relativa ricevuta che riporta la foto della defunta, il suo nome e i sinceri ringraziamenti della famiglia. Il periodo coloniale e la schiavitù I primi europei ad arrivare sulle coste del Ghana furono i Portoghesi verso la fine del XV secolo attratti dalla ricerca dell’oro che cominciarono a costruire una serie di fortezze lungo il litorale usate come depositi e punti di imbarco di oro che veniva spedito in Europa.. Ma la vera fonte di guadagno si rivelò essere la tratta degli schiavi e verso la fine del XVI secolo il successo conseguito dai portoghesi con questo genere di merce attirò sul posto anche olandesi, inglesi e danesi. Nel corso dei successivi 250 anni le quattro nazioni si fecero una concorrenza spietata per accaparrarsi il controllo del mercato, erigere forti e conquistare quelli appartenenti agli avversari. La tratta media annuale di schiavi era di 10.000 unità e nel XIX secolo, quando lo schiavismo venne abolito, lungo la costa si contavano 76 forti, in media uno ogni 6 km. Attualmente una quindicina di essi sono visitabili, ma circa la metà è in rovina. I due più importanti sono quello di Cape Coast e quello di Elmina. Il castello di Cape Coast fu costruito dagli Svedesi nel 1653 su una sporgenza rocciosa che si protende sull’oceano. Nel brevissimo giro di pochi anni fu conquistato da danesi, olandesi, una tribù locale ed infine dai britannici che ne fecero il loro quartier generale fino alla fine del XIX secolo. Riconosciuto dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, accoglie ora un interessante museo sulla tratta degli schiavi. E’ anche molto ben tenuto, specie dopo la visita dei coniugi Obama nell’estate del 2009 (sembra che gli antenati di Michelle Obama fossero partiti proprio da qui). Da qui infatti partirono migliaia di prigionieri, rivenduti come schiavi ed utilizzati nelle piantagioni americane. Nel 1482 Cristoforo Colombo e Bartolomeo Diaz arrivarono con una dozzina di caravelle ad Elmina, piccolo villaggio di pescatori, per costruire un castello che divenne il primo insediamento portoghese in Ghana. Anche il St. George Castle, come quello di Cape Coast, passò tra le mani di diverse nazioni europee e nel corso della sua storia venne utilizzato come magazzino d’oro, d’avorio, di legno pregiato ma anche come prigione di schiavi. Anch’esso è considerato oggi Patrimonio dell’Umanità. La visita di questo castello è profondamente triste: all’interno delle celle umide, soffocanti, prive di luce, facilmente riesci ad immaginare anche fino a 300 prigionieri ammassati quasi senza ricevere cibo per debilitarne il fisico ed impedirgli di scappare, tenuti per periodi molto lunghi prima di essere imbarcati come schiavi verso le colonie europee. Chi moriva di stenti, malattie, fame e sete veniva gettato direttamente in mare; chi provava a scappare finiva nella cella della morte. Alle donne fatte schiave veniva riservato un trattamento ancora peggiore: ogni giorno il Governatore, dall’alto di una balconata che si affacciava su un cortile interno dove le donne uscivano per prendere una boccata d’aria, sceglieva una di loro per soddisfare i suoi piaceri sessuali. Le miniere d’oro Ancora oggi, come nel passato, l’oro del Ghana attira una quantità crescente di investitori e speculatori stranieri. Multinazionali sudafricane, australiane, inglesi e statunitensi, in accordo con il governo, sfruttano le enormi risorse minerarie del Paese con un giro d’affari altissimo. L’Ashanti Goldfields Corporation è proprietaria di una delle più grandi miniere al mondo che si estende fino a 32 livelli sotterranei, l’ultimo è a 1300 metri di profondità. Dalle viscere della terra, che ancora oggi appartiene agli antenati degli Ashanti, escono decine di tonnellate d’oro all’anno che fanno del Ghana il secondo produttore del continente dopo il Sudafrica. Il nostro viaggio prevede la visita di questa miniera d’oro situata nella località di Obuasi. Dopo una spiegazione un po’ lunga e noiosa, prima dell’ingresso ci viene fornito un casco protettivo, un grembiule, stivali di gomma tipo pescatore e una pesante cintura che contiene una batteria che alimenta una pila frontale. Si scende a piedi per 400 metri attraverso tunnel ventilati lungo un percorso guidato dove si vedono anche alcune aule-scuola per la formazione dei minatori, fino a raggiungere un tunnel sulle cui rocce si scorge…….un’unica sottile venatura d’oro! Ma cosa mi aspettavo di trovare, pepite giganti o direttamente lingotti d’oro? Un po’ delusi riprendiamo il cammino: sappiamo che nella zona intorno a Obuasi dovrebbero esserci delle miniere d’oro a cielo aperto. Ed infatti di lì a poco ecco apparire ai nostri occhi uno scenario incredibile: decine di uomini con le gambe immerse nel fango intenti a scavare con le vanghe e a sciacquare sassi auriferi. Ci guardano minacciosi, non sono affatto cordiali, anzi direi alquanto aggressivi, poi piano piano si allenta la tensione e acconsentono a farsi fotografare. Credo si tratti di una miniera illegale, gestita come tante nel Ghana da personaggi senza troppi scrupoli che cercano di acchiappare tutto e subito prima che il governo riesca a trovare una strategia per bloccare il dilagare di tale fenomeno. Il loro boss, dopo avergli fatto capire le nostre buone intenzioni, cerca di farci intendere che si tratta di una concessione mineraria in cui ogni cercatore d’oro ha i suoi metri quadrati di terra da scavare e il ricavato è solo suo. Dubito fortemente che ciò sia vero. Le miniere illegali sono per molti contadini, piccoli commercianti e minatori il principale mezzo di sostentamento. Guadagnano pochissimi cedis al giorno e ciò gli basta. Il problema serio è l’inquinamento provocato da questi scavi. Si tratta di miniere alluvionali: parte del corso del fiume viene deviato per immetterlo dentro a particolari macchine che lavano i sassi contenenti l’oro, si aggiunge poi il mercurio che si mescola all’oro e lo si fa depositare. Parte del mercurio evapora e resta soltanto il metallo prezioso. Le scorie del processo, che non evaporano, rientrano direttamente nel fiume, che è l’unica fonte di acqua potabile degli abitanti della regione, usata anche per irrigare i campi. Aprire una miniera, inoltre, presuppone un grande movimento di terra e il deposito di enormi quantità di scarti. Intere piantagioni di riso, mais e cacao vengono rase al suolo. Non è tutto, molte miniere vengono scavate e poi lasciate in stato di abbandono nel momento in cui non sono più produttive o sono allagate dalle piogge. Si trasformano in enormi pozze, ricettacoli per le larve di zanzara, con gravi conseguenze sulla diffusione della malaria. Le donne. Inferno o paradiso? Mentre procediamo lungo la strada con i nostri due pulmini siamo attirati da una scena infernale. Scendiamo per andare a vedere da vicino. Sembra di essere stati catapultati dentro un girone dantesco: apparentemente sembra una carbonaia, in realtà si tratta della lavorazione del frutto della palma per l’estrazione dell’olio. Cataste di gusci anneriti, pentoloni fumanti posti su fuochi a legna dentro ai quali bolle una polpa densa e scura che sembra cioccolata, un fumo acre e pungente che rende l’aria irrespirabile e fa bruciare gli occhi e la gola. In mezzo a questo inferno donne e solo donne al lavoro, alcune anche con i figli più piccoli legati dietro le spalle, grondanti di sudore per la fatica e per la temperatura resa ancora più incandescente dal calore sprigionato dai fuochi accesi. Un lavoro disumano, malsano e ovviamente con paghe da fame. Come donna mi ritraggo profondamente turbata da questa visione che lascia un’impressione forte dentro di me e ancora oggi, rivedendo con la mente quelle immagini, mi chiedo: “ Ma se questo è l’inferno, ci sarà anche un paradiso per loro, ma dove? A dire il vero non mi è parso di averlo trovato: non l’ho visto nello sguardo mesto di tante giovani adolescenti che portavano nel grembo il loro futuro bambino; non l’ho visto nella veemenza di quelle donne che si avventavano su camion carichi di tuberi di manioca, loro principale fonte di cibo e di guadagno, cercando di appropriarsene più che potevano; non l’ho visto nei seni avvizziti di quelle giovani donne pronte ad allattare sempre e comunque; non l’ho visto nell’inutile gesto di quella donna che spazzava via la terra rossa davanti all’uscio della sua capanna di argilla e sterco mentre il vento sollevava ancor più sabbia. Ricordo solo un momento, durante una messa domenicale in un piccolo villaggio, in cui ho avuto la sensazione di aver trovato un po’ di pace in terra. Era lì, in una piccola chiesa gremita di donne con gli abiti più belli e variopinti che io abbia mai visto, nella coralità di un canto vibrante di gioia e nella debordante religiosità di tutti coloro che in piedi o seduti partecipavano alla funzione. Il sentimento religioso della gente africana è forte ed intenso e si esprime ovunque, nelle collane e nei bracciali che porta, nelle frasi scritte sui camion per il trasporto pubblico o sulle imbarcazione da pesca, nello stile degli abiti che indossa, nelle canzoni che canta. La religione è parte integrante della sua esistenza e la sua vita è un continuo atto di culto. I cristiani africani, che rappresentano la maggioranza della popolazione ghanese, credono nella sacralità del cosmo, credono ciòè che ogni cosa sia la manifestazione della volontà del divino e pertanto ogni aspetto della loro vita, dalla nascita alla morte, dalla fatica fisica alla malattia, dal sole alla pioggia, dalla carestia alla siccità, va rispettata ed accettata. Questa è la sola risposta che a fatica sono riuscita a darmi per tentare di spiegare l’atteggiamento di chi vive e lascia vivere, di chi lascia che le cose vadano così come devono andare in un’accettazione passiva della realtà, atteggiamento alimentato ancor più dalla massiccia azione evangelica svolta da decine di chiese cattoliche, metodiste, valdesi, sparse sull’intero territorio del Ghana. La natura e i suoi molteplici aspetti

Il Ghana non è il paese africano più indicato per fare un safari nonostante il Mole National Park, il più grande parco nazionale, vanti molte specie di animali selvatici fra cui elefanti, bufali, iene, babbuini, facoceri, antilopi, coccodrilli oltre a moltissime specie di uccelli. Con il gruppo abbiamo deciso di fare due uscite nel parco, una a piedi e l’altra con il pulmino, sempre rigorosamente accompagnati da un ranger armato, ma entrambe si sono rivelate piuttosto deludenti. Il consiglio è quello di partire per il walk safari al mattino presto, non oltre le 7: noi invece ci siamo mossi più tardi quando il sole era già alto, per cui abbiamo visto solo un paio di antilopi, qualche scimmia, 4 elefanti a bagno e …….le pupille di un coccodrillo sfiorare l’acqua di un laghetto. Il safari pomeridiano è risultato ancora più scarso di incontri, colpa probabilmente della pioggia in imminente arrivo, ma quante risate in compenso! Attrezzati di tutto punto, macchine fotografiche e videocamere in primis, nonché cannocchiali e potenti occhiali da vista, tutti tesi a cogliere con gridolini di eccitazione ogni minimo movimento scuotesse il fitto della vegetazione. Risultato finale, dopo 2 ore di percorso di una vasta area del parco, un unico grosso elefante che lemme lemme ci ha attraversato la strada. Una bella famigliola di fagoceri è stata invece la vera grande protagonista delle nostre foto: mamma e tre figlioletti hanno scorrazzato in lungo e in largo nel piazzale del motel dove abbiamo alloggiato all’interno del parco facendosi riprendere in tutte le pose possibili ed immaginabili. Peccato invece non aver avuto il tempo di fotografare un babbuino che con spirito ardimentoso si è infilato nella camera che condividevo con le mie compagne di viaggio confidando forse in un invito ad un happy hour, ma le grida di Claudia che, all’uscita dal bagno se lo è trovato davanti, non sono state particolarmente accoglienti, così ha fatto un veloce dietro front.. Le camere del motel sono decisamente molto grandi, con letti ampi e comodi, c’è però l’inconveniente dell’acqua nel bagno che è garantita solo un’ora la mattina e una il pomeriggio per cui, se non ci si appresta a riempire alcuni secchi d’acqua di scorta, l’unica alternativa per lavarsi è tuffarsi nella piscina esterna (dove peraltro la doccia esterna è sempre funzionante), da cui si gode una bella vista sul laghetto dove branchi di elefanti vanno a rinfrescarsi di prima mattina o la sera poco prima del tramonto. Interessante è stata sicuramente l’escursione al Kakun National Park, una vasta area a circa 20 Km. Da Cape Coast, costituita per conservare e proteggere una delle ultime foreste pluviali del Ghana: l’aspetto insolito ed emozionante della visita è stata la passeggiata in fila indiana su passerelle di legno, sospese a 40 metri di altezza e collegate fra loro da sette piattaforme di osservazione da cui si può sperimentare una vista unica e spettacolare sulla fitta vegetazione sottostante. Il percorso è assolutamente sicuro per via dell’alta rete laterale fatta di corde e cavi di acciaio, ma il brivido della oscillazione nel vuoto e, per qualcuno, anche un lieve senso di vertigine, sono assicurati.

Anche la visita al Boabeng-Fiema Monkey Sanctuary è particolare. E’ l’unico luogo in cui due diverse specie di scimmie, considerate sacre – la bianca e nera Colobus e la bruna Mona – convivono all’interno del medesimo habitat in pace e in armonia con gli esseri umani. Una leggenda locale racconta che un giorno un cacciatore vide in un bosco cinque scimmie che accudivano amorevolmente un cucciolo e la vista lo paralizzò al punto da non riuscire a sparare. Consultato uno spirito questi gli disse di rispettare le scimmie come parenti e di portare a casa sua il cucciolo. Ubbidì e anche le scimmie lo seguirono a casa. Con il tempo il numero delle scimmie crebbe e anche la condizione materiale del cacciatore migliorò convincendolo che la sua fortuna fosse associata alla loro presenza. In considerazione di questo rapporto simbiotico che si è protratto fino ad oggi qualsiasi scimmia che muore viene sepolta nella foresta proprio come gli esseri umani.

Infatti in questa piccola foresta la cosa che cattura l’occhio è il cimitero dove le scimmie, i sacerdoti e le sacerdotesse sono stati sepolti assieme. Ci sono tombe con la scritta “maschio adulto Mona Monkey, sepolto il 5 dicembre 1987” e “cucciolo maschio Mona, sepolto il 7 marzo 1993” ma ci sono anche nomi di uomini e donne nel cimitero. Ogni volta che una scimmia sta per morire, viene nel villaggio. Esse vivono tra i 30 e i 50 anni. Una legge del Ghana Wild Life Society stabilisce che chiunque uccida una scimmia sia condannato al carcere; in ogni caso, secondo la tradizione religiosa del paese, chi uccide una scimmia subirà tutta una serie di calamità. Nel villaggio di Boabeng, dove noi abbiamo alloggiato nell’unica ghesthouse locale, le scimmie sono talmente abituate alla presenza umana che si lasciano avvicinare e prendono addirittura le banane dalle mani dell’uomo. Per quanto riguarda il mare, il Ghana offre delle belle spiagge bianche e sabbiose, con palme da cocco dai tronchi alti e sinuosi – esattamente come è nell’immaginario collettivo – ma nel fare il bagno è bene usare la dovuta cautela a causa della presenza di correnti marine e risacche.

L’acqua comunque è calda e giocare tra le onde è stato un gran divertimento. Lungo la costa ci siamo goduti attimi di intensa vita locale sostando presso alcuni animatissimi villaggi di pescatori, tra cui il pittoresco villaggio di Dixcove, dove una mattina abbiamo assistito al mercato del pesce direttamente sulla spiaggia. Le barche di legno, che la grande tradizione artigiana ghanese realizza e decora con colori brillanti – affievoliti poi dal tempo, dalla salsedine e dalla scarsa manutenzione ma non per questo meno belle, forse di più – al rientro dopo la pesca notturna hanno iniziato a scaricare una grande quantità di pesce di ogni dimensione, tonnetti grigio perla, pescispada e altri tipi di pesce dal peso superiore ai 40 kg, ceste di granchi colorati. In mezzo alla gente accalcata sulla spiaggia alcuni pescatori, con abili colpi di macete, hanno pulito e tagliato a pezzi i pesci più grandi lasciando poi le interiora, le teste decapitate o le mandibole alla putrefazione dell’aria o come cibo per gli avvoltoi appostati sui tetti delle baracche circostanti. Come in ogni villaggio del Ghana anche qui caprette, galline e cani vivono in un’eterna simbiosi con l’uomo invadendo ogni spazio solitamente destinato alle persone (casupole, strade, botteghe, cortili, spiaggia) e non senza stupore li ho osservati mangiare di tutto e spesso direttamente nello stesso pentolame utilizzato per cucinare. Ed anche qui, come in ogni luogo attraversato durante il viaggio, siamo stati accolti da decine di bambini che al grido “Obronì, obronì”, cioè uomo bianco, ci sono venuti incontro festosi, incuriositi prima dal colore della nostra pelle e poi catturati dalla magia delle macchinette fotografiche digitali che riproducevano sul display l’immagine dei loro volti sorridenti. Porto ancora forte in me la sensazione di tante piccole manine scure che, quasi senza neanche accorgermene, si aggrappavano saldamente alle mie dita diventando un’appendice del mio stesso corpo, felici di seguirmi anche in capo al mondo. Al momento dell’inevitabile separazione un piccolo dono, una penna, un quaderno, un cerchietto per capelli – finchè ne ho avuti a disposizione – poi solo un bacio sulla fronte, una carezza e il ricordo indelebile impresso nella mia memoria.

* * * * Vorrei chiudere questo mio racconto con le parole di un grande antropologo italiano, Marco Aime, che in un suo libro scrive: “Non è vero che i viaggi avvengono nella testa, che si può viaggiare rimanendo a casa, che si possono fare stupendi viaggi con la mente. No, non è vero. Il viaggio nasce e matura nella testa, ma per esistere ha bisogno di assorbire linfa vitale attraverso tutti i suoi sensi. Affinché il viaggio ritorni a essere un’esperienza autentica e unica, è necessario passare attraverso il proprio corpo, ascoltarne i messaggi, decifrarne i cambiamenti, imparare ad esporlo alle sollecitazioni esterne. E allora riscopriamo il piacere di sudare, di rabbrividire, di rimanere abbagliati dal sole o di sentire la sabbia sulla pelle….” Dedicato ai miei compagni di viaggio con i quali ho condiviso gli umori, i colori, gli odori e i sapori di questo paese con una familiarità spontanea e sincera e a tutti i viaggiatori sensibili e curiosi. Laura Infantino .



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