Acqua, aria e le Dolomiti Friulane attorno

Blogger per Caso sotto la neve, a passo lento
Scritto da: Ladal22
acqua, aria e le dolomiti friulane attorno
Partenza il: 07/12/2012
Ritorno il: 09/12/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
E alla fine partiamo. Ci aspetta il pordenonese, per un percorso inedito, tra acqua, aria, terra e fuoco. Io e il mio amico fotografo Dario, a bordo della mia Fabia, amichevolmente chiamata Skodinzola… la cito solo come omaggio per essermi stata fedele compagna per tanti viaggi, in compagnia o da solo. Poco più di un mese fa, ho avuto un brutto incidente e ora mi fa un enorme piacere che io e “lei” ci siamo ancora e siamo pronti ad una nuova partenza. La nostra scoperta del Friuli Venezia Giulia inizia al mattino presto perché, in questo periodo dell’anno, nella zona del Vajont sarà già buio quando arriveremo nel tardo pomeriggio. E scopriremo, poi, che l’assenza di luce ci regalerà uno dei momenti più suggestivi del primo giorno di viaggio, come il colore ci darà una prospettiva sorprendente durante il secondo giorno.

Dunque, arriviamo in località Santissima, vicino a Polcenigo, e lì abbiamo il primo incontro con l’acqua che incontreremo molte volte, in diverse forme. In questa zona nasce il fiume Livenza. Alla Santissima incontriamo per caso una famiglia di cigni e Davide, cuoco della trattoria Alla trota blù, che ci indica la via per raggiungere la sorgente del Gorgazzo. Prima però ci sgranchiamo le gambe a Polcenigo. Passeggiare per Polcenigo è piacevole, ci fermiamo poco, e ci colpisce la calma di paese Qui ha sede il Museo dell’Arte Cucinaria, che ricorda i cuochi friulani emigrati in tutto il mondo. Vicino a Polcenigo, alla Santissima, nasce il Livenza e le sorgenti sono particolarmente scenografiche. Vicino a Polcenigo c’è una particolarità verde: il Parco Rurale “Europark” di San Floriano, un riserva naturale e rurale, che raccoglie la fauna e la flora locale. Sempre vicino a Polcenigo, in direzione Caneva, si estende Palù di Livenza, uno dei più antichi siti paleolitici del nord Italia, dal 2011 iscritto nelle liste Unesco per i siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino.

Riprendiamo la macchina e ci dirigiamo verso la sorgente del Gorgazzo, Gorgàs in friulano. La sorgente la si raggiunge a piedi, lungo un tratto di torrente che scorre accanto ad un gruppetto di case. Man mano che ci si avvicina alla sorgente sembrano sparire tutti i suoni e l’acqua diventa di un azzurro cristallino mai visto. Una volta abituati a quello strano silenzio, ci accorgiamo che, in realtà, l’unico suono che rimane in quel luogo è quello dell’acqua che viene a galla da dentro la roccia carsica. L’acqua appare quasi ferma, però sul pelo della superficie si intuiscono dei piccoli vortici che fanno diventare la corrente subito tumultuosa appena poco più là. C’è un ponticello praticamente a livello dell’acqua e il terreno è fangoso. Inizia a fare freddo, ho le mani gelate e il fiato si condensa. Eppure qui fuori si sta bene. I riflessi verde smeraldo brillante danno un misto di serenità e inquietudine. Un luogo quasi sospeso tra la roccia sopra la sorgente e l’acqua che silenziosamente emerge. Il Gorgàs ha qualcosa che va oltre la suggestione. Parlando con l’oste del bar vicino alla sorgente (in una struttura che non altera l’atmosfera del luogo) vengo a sapere che qui si celebra la messa la notte della vigilia di Natale. Mi piacerebbe andarci…

Per pranzo decidiamo di risalire la pendenza che porta in Piancavallo. La strada è ben asfaltata lungo tutto il percorso. Così, in modo piuttosto agevole, dalla sorgente sotterranea ci troviamo ai 1.267 metri del Piancavallo. Però il cambio di temperatura è notevole: da 3 gradi a meno 6. L’aria qui su è frizzante, accarezza la gola. Punge. Arriviamo in Piancavallo a metà pomeriggio ed entriamo nella taverna “all’Urogallo”, un locale storico di queste parti, che ha la cucina aperta fino a tardi nel pomeriggio. Il Piancavallo è un grande stadio all’aperto dove si può praticare lo sci, lo snow board, il free style, pattinare, passeggiare in mezzo ai boschi con le ciaspole, persino giocare a bocce. O si può semplicemente guardare questa vallata ed ascoltare la neve scendere. Perché da queste parti, abbiamo capito, la neve quando scende va ascoltata. La neve come quella che è iniziata a calare mentre stiamo mangiando. E la prima spruzzata di neve rende tutto più divertente. Vista l’intensità crescente della nevicava decidiamo di ritornare presto a valle direttamente verso Barcis, dove passeremo la notte. La strada si snoda in mezzo al bosco, attraverso tornanti e falsi piani ormai coperti di neve. Scendiamo con attenzione e in sicurezza (l’equipaggiamento da neve è necessario in questa zona) … ed è divertente guidare in questa situazione climatica. Arriviamo al lago di Barcis avvolto dentro un’atmosfera gotica.

C’è ancora luce e decidiamo di proseguire immediatamente verso Erto, Casso fino a raggiungere la diga del Vajont. Continua a nevicare, ma a Barcis non fa molto freddo. Arriveremo alla diga quando sarà già buio e probabilmente ne vedremo solo l’ombra. Il lago di Barcis (oltre 400 metri s.l.m.) è un bacino artificiale. L’acqua assume in ogni periodo dell’anno il colore verde smeraldo che regala alla gola tinte brillanti, che non si smorzano nella stagione invernale. Il riverbero del sole fa pensare di essere nel nord Europa ed è molto piacevole, in estate, guardare il tramonto sulla spiaggetta di ghiaia che dona a questo borgo lacustre di 250 residenti un’atmosfera perfetta per ascoltare le storie di folletti e fate che si raccontano da queste parti. Come quella degli alberi parlanti o delle Aganis. Le Aganis sono figure leggendarie della tradizione popolare friulana. Cambiano nome a seconda delle vallate: Agane, Anguane, Aganas. La leggenda narra che le Aganis vivano lungo i corsi dei fiumi e ne determinino l’intensità della corrente. E formino i mulinelli che all’improvviso si formano nei fiumi di queste vallate, come abbiamo visto ieri al Gorgas. E i gorghi sarebbero formati per l’ambiguità delle Aganis: a volte belle e generose, a volte creature orribili, da incubo. A ben pensare, però, rappresentano le caratteristiche di questo spicchio di Friuli, un po’ dolce, un po’ ruvido, pieno di mistero e di semplicità insieme. E’ sfuggente, è disponibile. In ogni caso, magnetico. E queste fantasie prendono corpo anche in una delle tante botteghe artigianali dove si lavora il legno. Seguiamo la strada verso il Vajont, e la neve si trasforma in pioggia ghiacciata, mentre quasi all’improvviso è calata la notte.

Superiamo Claut e iniziamo a salire verso Erto e Casso. Raggiungiamo la diga del Vajont dell’alto e nel buio vediamo da lontano due punti luminosi, che sembrano enormi occhi nel buio. Avvicinandoci capiamo che sono i fari posti sopra la diga e la loro luce è amplificata dal vapore acqueo che sale dal bacino della diga. Lasciamo la macchina nel parcheggio vicino alla chiesa che ricorda i morti del 9 ottobre 1963. Il termometro segna meno 8 gradi e ci dirigiamo verso la diga a piedi. Nevica ancora, fitto. Ci siamo fermati in silenzio a contemplare dall’alto l’ombra di quel colosso di ingegneria dentro una montagna gigante. Attorno alla balaustra che delimita l’area sono state appese tante bandierine quanti sono stati i bambini di meno di quindici anni morti quando un pezzo di monte Toc si è staccato dall’alto, è caduto nel bacino della diga, ha sollevato un’onda che cancellato quello che ha incontrato in pochi istanti. Toc nel dialetto di queste parti significa “pezzo” e si utilizza per indicare qualcosa che si sbriciola, crolla. Frana. Il pezzo dal monte Toc è stato enorme 270 milioni di metri cubi di roccia, terra, alberi, sassi, minerali, arbusti, cespugli, animali. Tre volte il volume dell’acqua che la diga teneva a bada la sera del 9 ottobre del 1963. La frana è scivolata in 115 milioni di metri cubi di acqua ad una velocità di 108 chilometri all’ora. E si scatena l’onda. Che è balzata cento metri sopra la diga, cancellando Erto e Casso. E poi è tornata giù. La parte che non torna giù, va al di là. Esce dalla diga, la sbeffeggia lasciandola intatta, si incanala nella valle del Piave, punta Longarone. Sono state 1910 le vite esplose all’istante. Oggi quella valle è tranquilla, la vegetazione è rinata. La comunità che la abita si è ripresa. La diga è ancora in piedi. Il monte Toc domina ancora la valle dal fiume Piave. Crediamo sia necessario ricordare quei momenti e visitare questo luogo.

Ci scaldiamo in macchina e, parlando delle sensazioni che il Vajont ci ha dato, torniamo indietro, verso Barcis e il Rifugio Vallata. Il Rifugio è una casa barciana restaurata da meno di dieci anni. Una struttura caratteristica, dotata di una taverna dove mangiamo una ricca cena friulana, dove c’è un po’ di tutto: la pitina (carne di pecora), crostino di tarassaco, prosciutto di cervo, lardo (trentino), funghi sotto olio, riccioli burro. Poi passiamo al primo: gnocchi di zucca, pancetta croccante, amalgamato in una colata di formaggio. E poi arriva il Pastic… è una ricetta antica, ma parecchio. Da quanto ci raccontano addirittura la ricetta originale risale a metà del 1400. Si tratta di rape bianche, coltivate in loco, fermentate per una quarantina di giorni. La carne è cucinata da sola, lentamente, e a tre quarti di cottura, sono aggiunte le rape. Il gusto della carne è esaltato, senza che sia speziato.

Si chiude una giornata intensa, tra acqua e aria, dentro un bosco del Parco Naturale delle Dolomiti, mentre il lago di Barcis si addormenta tranquillo sotto i fiocchi di neve. Ci concediamo una grappa, mentre da qualche parte qualcuno ascolta Sweet Child O’ Mine dei Guns’n’Roses. Sapete una cosa? Qui in Friuli, anche se magari oggi c’è stato parecchio freddo, si riscopre la bellezza delle cose essenziali, del tempo lento e di una fragorosa risata dopo una giornata intensa.

Ciao, Alberto

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