1993 – Indonesia: Bali e Sulawesi
Dalla nostra c’era inoltre il fatto che il caro vecchio Max, stregato dall’Oriente dopo il nostro viaggio in Thailandia, era ritornato parecchie volte in questi posti, fino ad invaghirsi di una bella ragazza balinese, Dannick, a sposarla, a darle un figlio (uno splendido Alessandro) ed a stabilirsi a Bali in via definitiva! Oltre a questi dati sociali e di attualità, i motivi principali per cui eravamo così felici di rivedere Max erano la sua magnifica casa sull’isola (leggi soggiorno a sbafo) ed il suo interessante lavoro di agente di viaggi (leggi prezzi scontatissimi sui voli…).
Arriviamo quindi a Singapore con un lussuosissimo volo della Singapore Airlines, trovato ormai allo stesso prezzo scontato delle compagnie più infime, e decidiamo di fermarci un paio di giorni per far vedere questa straordinaria metropoli orientale ai nostri due amici. Alcune sorprese ci attendono; l’unica cosa che non è cambiata è il numero dell’autobus da utilizzare per raggiungere il centro della città proveniendo dall’aeroporto (391); una volta in Orchard Road lasciamo che Pier e Marina si riempiano gli occhi con le luci ed i colori degli innumerevoli centri commerciali, e decidiamo quindi di recarci in Bencoolen Street per trovare alloggio (vedi Capitolo 1). Tutto si è stravolto: la strada è praticamente fiancheggiata da cantieri, e le poche costruzioni ancora in piedi ospitano guesthouse che sinceramente, per quanto scafati, non ci sentiamo di affrontare; il posto è abbastanza squallido, tanto che Pier ribattezza subito Bencoolen Street in Vaffanculen Street. Taccio per decenza come è stata ribattezzata Orchard Road… Alla fine terminiamo il nostro fatale andare nel quartiere cinese, dove comunque un posto neanche troppo decente ci costa quasi 50 dollari americani.
Per viaggiatori del nostro target, Singapore non vale più di un paio di giorni di visita, e così è; si riparte per Bali, dove troviamo Max che ci attende all’aeroporto a braccia aperte. Parla ovviamente un perfetto indonesiano, e per un paio di giorni riusciamo a goderci la Bali delle vacanze come non eravamo nostro malgrado riusciti a fare l’ultima volta. Alla sera, belli spaparanzati sui divani di Villa Max, veniamo informati che sono pronti i nostri biglietti aerei per Manado, un paesino al limite nord orientale dell’isola di Sulawesi dal quale il nostro “vero” viaggio avrà inizio.
Tra abbracci e promesse di ritorno salutiamo Max e Dannick e saliamo sul solito, turpe aereo della Merpati che percorre la rotta Denpasar-Manado. Durante la manovra di decollo il sedile di Pier si sgancia completamente dagli attacchi a terra ed il nostro amico, già tristemente accomodato in ultima fila, percorre all’indietro un paio di metri, schiantandosi contro la paratia del cesso; persino le hostess non riescono a trattenersi dal ridere.
Arrivati a Manado, mentre attendiamo i nostri bagagli sul nastro non possiamo fare a meno di notare l’incredibile numero di borse da sub, bombole ed accessori per la subacquea che vengono scaricati; mi torna in mente all’improvviso un articolo che ho letto su di una rivista specializzata, e mi maledico in pectore per non essermi organizzato meglio: Manado è famosa per essere uno dei siti mondiali più ricercati per le immersioni. Le sue acque straordinariamente ricche, e le isolette vulcaniche poste a poche miglia dalla costa ne fanno uno dei più magnifici resort del mondo per le attività subacquee; la gestione, ai tempi, era però demandata totalmente agli indonesiani, che con la loro filosofia di vita quantomeno semplicistica riuscivano a rendere raffazzonato e disorganizzato ogni tipo di escursione.
Essendo tutti appassionati di immersioni – tranne Marina – decidiamo di sfruttare la buona sorte che ci ha condotto fin lì, e ci presentiamo al Nusantara Diving Centre gabellandoci come giornalisti (avevo ancora la tessera – vera e guadagnata sul campo! – di giornalista pubblicista) di un’importante rivista del settore, e riuscendo così a strappare un prezzaccio “tutto compreso”. Il mattino successivo, un veloce e piuttosto moderno motoscafo ci trasporta fino all’isola dove avremmo effettuato la prima immersione, un isolotto vulcanico quasi perfettamente circolare, caratterizzato da una corrente costante sia come velocità che come direzione, che ci avrebbe lentamente trasportato, senza neanche pinneggiare, per tutta la durata della nostra permanenza sott’acqua. Non avendo pianificato alcun tipo di immersione in questo viaggio non abbiamo con noi alcun equipaggiamento specifico, se non il mio inseparabile Citizen Aqualand con profondimetro incorporato; chiediamo quindi al nostro accompagnatore se per caso dispone di una tabella di decompressione in più da poterci prestare. Questo fa cenno di no, poi sbuffando accondiscendentemente ci fa capire che ci può prestare la sua. Lo ringraziamo e questo per tutta risposta ci allunga un foglio di carta con su delle tabelle di decompressione rozzamente fotocopiate da una rivista; Pierluigi comincia ad accusare, ancor prima di scendere in acqua, i primi sintomi di un’embolia… L’immersione è comunque splendida, i fondali e la vita subacquea non hanno nulla da invidiare a ben più rinomati siti di immersione: vi sono spugne cave al cui interno riesco quasi a nascondermi (e sono alto più di un metro e novanta…), gorgonie gigantesche, pareti verticali che spariscono nel blu notte delle acque profonde, pesci, testuggini… tutto quello che un subacqueo “da Mediterraneo” ha sempre sognato di poter vedere in un colpo solo. Trascorso il tempo prefissato, io e Pier ci appoggiamo ad uno scoglio, estraiamo le nostre “tabelle”, che spieghiamo con calma per non lacerare la carta e, determinato il tempo di decompressione che ci spetta, risaliamo lentamente verso la prima sosta. Il nostro accompagnatore, che ci ha gentilmente ceduto i suoi unici ausili tecnico-didattici, ci segue passo passo per effettuare le nostre stesse soste di decompressione (un metodo che, al di fuori dell’Estremo Oriente, farebbe rivoltare nella tomba qualsiasi istruttore sub, anche quelli ancora vivi!).
La giornata trascorre quindi con un lauto pasto sulla spiaggia ed una seconda immersione che, vista la temperatura dell’acqua, viene effettuata senza considerare le solite due ore di distanza dal pasto. La sera ci vede bighellonare sulla spiaggia, al chiaro di luna, pensando all’indomani, che ci vede partenti per l’inizio del nostro vero viaggio “da uomini duri”: autobus locale (ricordate la Filosofia Basica di Viaggio?…) diretto verso Gorontalo, un paese “importante” dal quale prendere un altro bus diretto verso sud.
Neanche a dirlo, il giorno dopo lasciamo Manado con un ritardo quantificabile in una decina di ore e l’autobus ci deposita a Gorontalo soltanto sul far della sera, per lasciarci scoprire un po’ di cosette: il Paese Importante è grande come il mio salotto, tutti i mezzi pubblici sono già partiti, non ci sono bemo privati e l’unica guesthouse del luogo è “chiusa”. Con la faccia di bronzo della disperazione, otteniamo un giaciglio presso l’ufficio della locale Polizia, dove ci assopiamo fino al mattino dopo. All’alba la temperatura esterna supera già i trentacinque gradi, e ci catapultiamo su di un piccolo bus rovente diretto a sud. Dopo le solite due orette di attesa, mentre Pierluigi stremato comincia a mormorare propositi di genocidio, l’autista mette in moto e ci godiamo un po’ di tragitto tra le risaie, i campi e le solite splendide immagini che balzano all’occhio viaggiando in Oriente. Verso mezzogiorno il bus si ferma in un minuscolo, devo dire orribile paesino di nome Marisa, dove ci viene spiegato che i nostri posti da qui in poi sono stati prenotati in anticipo da viaggiatori che si sarebbero imbarcati proprio a Marisa, e che pertanto dobbiamo scendere ed aspettare il prossimo autobus con dei posti liberi. Chiediamo sorridendo a mezza bocca quando arriverà il prossimo autobus. “Domani mattina – ci risponde l’autista – mentre incrocio il guidatore che torna a Gorontalo gli dico di prenotarvi quattro posti, va bene?”; Pier sbotta “E che cazzo facciamo qui fino a domani?”, e la risposta che ottiene rispecchia appieno il sunto dello spirito orientale: “Beh, potete sedervi ed aspettare l’autobus!”.
Cerchiamo alloggio, e troviamo una guesthouse il cui padrone ci mostra orgoglioso due stanze che presentano letti matrimoniali dipinti di rosa shocking, con incorporata nella testiera una radio stereo e mille lucine psichedeliche, degni del peggior bordello kitsch che il gusto perverso di un serial killer potrebbe partorire. Facciamo buon viso a cattiva sorte e gironzoliamo per Marisa per tutto il pomeriggio: nulla di nulla, una specie di periferia squallida e piatta senza alcunché che possa attirare l’attenzione anche per un solo attimo, tant’è che, durante la cena, il padrone della guesthouse (nonché dell’unico ristorante del paese) ci chiede sottovoce “Ma che cosa ci siete venuti a fare qui a Marisa?”.
Bene o male arriva l’indomani, e con esso il bus, sul quale (come faranno è tuttora un mistero…) ci sono quattro sedili vuoti: i nostri posti riservati: il viaggio è molto lungo e la strada a tratti quasi inesistente, con fosse, buche e chi più ne ha più ne metta; ad un certo punto il bus sobbalza violentemente, e Pier – che si era assopito – viene sbalzato con la testa contro il soffitto di metallo del veicolo, riportando un bernoccolo degno del Gatto Silvestro delle migliori annate e perdendo quasi subito conoscenza. Marina lo conforta dicendogli “Nessun problema, Pierluigi, stai tranquillo: ora ci fermiamo nel primo ospedale!” (che credo distasse – a quel punto – qualche centinaio di chilometri).
Arrivati al bivio per Palu (la nostra meta di questa tratta) dopo un tempo apparentemente eterno e dopo almeno trentaseimila sobbalzi di varia intensità, l’autista ci dice che alcuni passeggeri, che avevano prenotato prima di noi, devono andare urgentemente a Donggala, e che pertanto l’autobus effettuerà una deviazione stimata in circa dodici ore. Marina cade preda di un collasso nervoso e comincia a piangere urlando di voler tornare a casa che aveva ragione sua madre che sono un pezzo di merda con questi viaggi da deficiente che quando torna compra un monolocale in Trentino e che il primo bastardo che le propone un viaggio più lontano della Svizzera lo ammazza, divorzia da Pierluigi e lo manda sul lastrico con gli alimenti. Per non alimentare ancor più i tremendi propositi di vendetta della nostra amica, decidiamo di comune accordo, non appena arrivati a Palu, di prendere un aereo per Ujung Pandang e da lì proseguire direttamente per Bali, dove rilassarci e riprenderci dallo stress dell’Indonesia meno turistica. A dir la verità non è che questa soluzione mi soddisfi moltissimo, ma quando si viaggia in gruppo è buona norma adeguarsi alle esigenze del più “debole”, per non trasformare una tanto agognata vacanza in un incubo dagli strascichi indimenticabili; oltre all’interruzione del viaggio, mi urta oltremodo l’acquistare un biglietto aereo non preventivato che fa lievitare il budget di viaggio di una percentuale inaspettata, che avrei preferito investire in attrezzature fotografiche o in altre “immobilizzazioni” più soddisfacenti.
Sull’aereo, sentendosi ormai prossima alla civiltà, Marina si calma decisamente, ed insieme a Pierluigi cominciano a chiedermi che cosa si sono persi nella parte di Sulawesi che stiamo sorvolando; quando comincio a parlare di Tana Toraja (vedi cap. 5 – 1990) mi accorgo che i loro occhi cominciano a brillare. Da vero serpente, continuo a calcare sui toni più pittoreschi e romanzeschi di questa parte di Indonesia veramente unica e singolare… ed ancor prima che l’aereo atterri siamo decisi: appena fuori dall’aeroporto prenotiamo un bus per l’indomani che ci riporti verso Nord, verso Rantepao e la terra dei Toraja.
Forti dell’esperienza del 1990 (vedi, se vuoi, più indietro), pur gironzolando per Ujung Pandang evitiamo il tragico ristorante sul lungomare che ci ha disgustato insieme a Gianni e la Franca e ci rechiamo in una viuzza un po’ più frequentata da autoctoni, dove acquistiamo del cibo nei pittoreschi ed economicissimi “carretti” ambulanti. Pier cede alle lusinghe della gola e si lascia tentare da un succulento “totano da passeggio”, una sorta di calamaro disseccato, scaldato tra due rulli roventi, infilato su di un bastone e porto all’avventuroso acquirente, naturalmente non prima di essere asperso con copiose spezie di origine sconosciuta.
Il nostro compagno di viaggio si avventa sullo sfortunato pesce secco e lo divora in quattro morsicate, lamentandosi solo verso la fine del pasto dell’estrema “piccantezza” del condimento. Dopo mangiato (noi ci accontentiamo di più modesti risi fritti e verdure al vapore… ebbene sì, questa sera anch’io opto per una “dieta sana”) facciamo due passi e ci rechiamo al nostro hotel (!), dove per poco meno degli attuali 10 Euro abbiamo preso una splendida camera con due letti matrimoniali a baldacchino, nella quale abbiamo trovato solo uno scarafaggio morto e sepolto (sotto il tappetino del bagno…).
Mentre, chiuso in bagno, restituisco alla natura la cena appena digerita, sento provenire dalla stanza le urla belluine di Pierluigi. Esco dopo qualche minuto e mi trovo di fronte ad una scena da tregenda: Pier inginocchiato a terra, carponi, mi mostra il suo sedere spalancato, rosso e gonfio come quello di un mandrillo in calore; il mio amico si lamenta piagnucolando: “Guarda, Ste! Cosa posso fare?”. Sospettando che la situazione “bruciante” dipenda in larga misura dalle spezie ingerite, consiglio allo sfortunato viaggiatore di lavarsi con cura, spalmarsi le parti gonfie di crema emolliente (viene a questo scopo saccheggiato il “beauty” di Marina) ma soprattutto di andare a letto senza rompere i coglioni durante la notte.
A parte qualche piccolo, comprensibile rantolo notturno da parte dell’arrossato Pier, il mattino arriva senza troppi traumi, e ci consente di ammirare le terga del nostro amico che hanno ripreso un colore ed una dimensione più normale. Rifacciamo gli zaini e abbordiamo un risciò che – dopo la solita mezz’ora di negoziazioni più o meno sterili – accetta di depositarci alla stazione degli autobus dalla quale parte il nostro, diretto a Rantepao.
Dalla partenza da Ujung Pandang fino alla fine del viaggio, i luoghi visitati e le esperienze accumulate (furto a parte…) sono talmente simili a quanto già descritto nel precedente capitolo 5 da poter essere onestamente tralasciati. Certo, qualche piccolo aneddoto rende le giornate meno monotone e sicuramente differenti l’una dall’altra, ma per quanto divertente non giustifica prolisse ripetizioni di luoghi, eventi e descrizioni. Questo prescindendo dal fatto che, secondo me, ogni viaggio va comunque considerato prezioso; se non variano le destinazioni, possono variare le compagnie, e questo porta sicuramente a vivere nuove emozioni, ad accumulare nuovi ricordi, a dividere momenti, immagini e sensazioni con persone che, insieme a noi, le hanno volute vivere a fondo. Per quanto al mondo ci siano moltissimi paesi e popoli da visitare e conoscere, non considero tempo perso il ritornare in un luogo già visto: è come rileggere un libro che ci è piaciuto moltissimo, e ad ogni rilettura scoprirne piccoli segreti, parole non scritte, espressioni preziose e fino ad allora rimaste sepolte tra le pagine; e quando lo chiudiamo per l’ennesima volta ci viene quasi voglia di riaprirlo ancora per scoprire che cosa non abbiamo visto, cosa ci siamo persi, cosa ci sta aspettando ancora proprio lì, dietro quella riga che con gli occhi abbiamo solo sfiorato.
L’Oriente per me è così: un libro di pergamena spessa, ingiallita e profumata con l’odore del tempo, miniato ed illustrato da mille e mille mani magiche che hanno reso ogni pagina unica ed irripetibile; e ogni volta che vengono sfogliate, queste pagine mutano e si rinnovano, regalando al lettore che ha deciso di “riprovarci” nuovi istanti, nuove sensazioni, nuove magie.
Nel 1994 un altro invito dello zio canadese ci ha consentito di trascorrere un discreto periodo negli Stati Uniti, altri posti e diversi paesaggi; una volta descritto su queste pagine il modo di girarli “a modo nostro”, sembra però inutile e dispendioso lo scriversi addosso, tantopiù che – a differenza dell’Oriente – gli USA sono un luogo tranquillo dove divertirsi a scoprire (senza stress né contrattempi né – ahimé – prezzi modici) le grandezze e le debolezze di un popolo che, piaccia o no, è unico al mondo tanto quanto i Pigmei, i Masai o i Toraja.
È nel 1995, in una tiepida sera di Maggio, che Gianni e la Franca ci vengono a trovare e ci annunciano che in autunno avrebbero una trentina di giorni liberi (no comment…), che farebbe loro molto piacere rifare un viaggio insieme a noi e dove ci piacerebbe andare e blablabla… Roberta decide di non averne voglia ma di darmi completa carta bianca, e non devo neanche pensarci troppo che mi balza davanti agli occhi un catalogo sfogliato un paio d’anni prima dal quale saltavano fuori splendide immagini litografate di un Paese sperduto nel deserto, dalle cui sabbie nascevano magnifiche case di fango che tiravano verso il cielo blu. Un Paese conosciuto come Arabia Felix. “Prenota” dico alla Franca qualche giorno dopo per telefono, e comincio a pensare a dove ho messo lo zaino.