1989 – USA e Canada

Maggio 1989 – Canada e Stati UnitiQuest’anno – accantonando in maniera estremamente momentanea l’Oriente - abbiamo deciso di sfruttare le parentele di mia moglie: suo zio materno abita e lavora da venticinque anni in Canada (a Vancouver) come capo steward in una delle principali aerolinee nazionali e, anche se non è in grado di...
Scritto da: steweboy
1989 - usa e canada
Partenza il: 01/04/1995
Ritorno il: 29/04/1995
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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Maggio 1989 – Canada e Stati Uniti

Quest’anno – accantonando in maniera estremamente momentanea l’Oriente – abbiamo deciso di sfruttare le parentele di mia moglie: suo zio materno abita e lavora da venticinque anni in Canada (a Vancouver) come capo steward in una delle principali aerolinee nazionali e, anche se non è in grado di fornirci biglietti a prezzi ridotti, la scusa di andarlo a trovare (scroccandogli qualche giorno di vitto e alloggio) ed utilizzare Vancouver come tappa di partenza per un giro negli Stati Uniti occidentali è troppo allettante per essere lasciata cadere.

Grazie al cielo, le nostre professioni ci permettono di prendere ferie in periodi diversi dai soliti, iperinflazionati Luglio e Agosto. È infatti alla fine di Aprile che decolliamo – questa volta da soli, visto che tutti i nostri amici sono costretti, per problemi loro o dei rispettivi partner, a partire solo in piena estate – da Milano Linate con un volo Klm che ci porterà a Vancouver via Amsterdam e Calgary. La tratta Linate-Amsterdam trascorre rapidamente senza alcun problema. Durante il check-in per il passaggio intercontinentale, effettuato all’aeroporto Schipol, chiedo espressamente un posto in prima fila (necessità derivante dalla mia altezza e, conseguentemente, dall’impossibilità di stendere le gambe avendo di fronte un’altra fila di sedili) e – se possibile – vicino al finestrino (vedi capitolo precedente, Hong Kong, blablabla…). Siamo i primi della fila, il che farebbe presumere che l’aereo dovrebbe avere ancora buona parte dei posti liberi; perfetto: otteniamo due posti al centro dell’ultima fila centrale; al nostro fianco due signore canadesi, subito dietro la parete divisoria tra noi ed i gabinetti, e davanti al mio sedile un’arzilla (troppo) vecchietta milanese che va a trovare l’unico nipote a Calgary; parla solo italiano, ma conversa amabilmente con gli altri passeggeri – anche di madrelingua inglese – limitandosi a scandire un po’ meglio le parole ed a pronunciarle ad alta voce, tipo “Io… vado… da… mio… nipote!”. Quando i suoi interlocutori stranieri le fanno cenno di non capire (ovviamente!) nulla, si inalbera e ci guarda stranita come a dire “Guarda un po’ ‘sti imbecilli! E dire che mi spiego così bene…”. Per quanto mi consideri in generale abbastanza tollerante, verso la decima ora di volo comincio a sostenere la tesi dell’eutanasia terapeutica (nel senso che si tratterebbe di una terapia a nostro totale favore!). Meno male che a Calgary la nonnina scende, lasciandoci trascorrere un’altra oretta di volo in magnifico silenzio.

All’aeroporto di Vancouver incontriamo lo zio che, felicissimo di vedere qualche parente italiano dopo oltre cinque anni, ci fa un sacco di feste e decide di portarci in auto a fare un bel giro turistico completo della città. Nonostante il suo lavoro lo porti a volare in giro per i cinque continenti più volte alla settimana, lo zio sembra ignorare i tragici effetti del jet-lag, specie per chi non vi è assuefatto: a Vancouver sono le due del pomeriggio, ma per noi che proveniamo da est – con nove ore di fuso in più e un bel quattordici ore di volo sul groppone – sono già le undici di sera. Imperturbabile, zio Franco continua a farci visitare le parti più conosciute della sua città che, detto per inciso, è veramente magnifica (e in un certo senso anche simile a Genova): montagne ricoperte di abeti che si tuffano nel mare, verdissimi parchi in mezzo alla città, quartieri residenziali degni di Beverly Hills; centri commerciali all’avanguardia… il tutto apprezzabilissimo, se non fosse che le nostre mascelle cominciano a rimanere spalancate senza ritegno, le palpebre si chiudono e non riusciamo a pronunciare tre parole senza sbadigliare.

Verso le sei di sera, quando ormai per noi sono le cinque del mattino, orario degno di un after hour in discoteca, lo zio ci trova praticamente semisvenuti sul sedile posteriore e decide saggiamente di accompagnarci a casa. Arrivati nella magione del parente ci risvegliamo momentaneamente, sia per salutare la zia che per fare il gesto di apprezzare la casa, ma soprattutto per cercare di contrastare il più possibile la voglia di andare subito a letto, che causerebbe risvegli definitivi nel cuore della notte. Parliamo parliamo, ma dopo un po’ non riusciamo proprio più a resistere; chiediamo scusa per la nostra poca educazione e guadagniamo la camera da letto, dove sveniamo ancora vestiti sulle coperte. Come previsto dal programma, ci risvegliamo affamati come lupi siberiani verso le tre di notte (mezzogiorno ora italiana), raggiungiamo silenziosamente il frigorifero e diamo fondo a tutti gli avanzi che riusciamo a trovare. I nordamericani sono fantastici! Nei loro frigoriferi – come nei supermercati – puoi trovare veramente di tutto: addirittura, in uno sportello della credenza troviamo, bella inscatolata, una “sfoglia precotta e preformata per strudel di mele alla tirolese”; mentre mi chiedo che cosa ci si può mettere dentro, mia moglie trova nel frigo un barattolo enorme, pieno di una sostanza marrone bugnosa tipo “blob”, con un’etichetta che riporta “Ripieno premiscelato e speziato per strudel di mele alla tirolese”! Consumato il pasto, torniamo a letto cercando di riprendere sonno ma invano; leggiamo, ci laviamo i denti, beviamo un po’ di latte caldo, ci rilaviamo i denti, rileggiamo un po’, e finalmente dalle finestre arriva il primo raggio di sole. Ci catapultiamo in cucina, dove la zia sta friggendo – that’s America! – numerose fette di bacon sulla piastra. Sul tavolo fanno bella mostra di sé una tanica da cinque litri di succo d’arancia, una uguale piena di latte ipervitaminizzato e due barattoli abnormi pieni di marmellata. Completano il ritratto “american style” trentasette tipi differenti di pane e crackers e una montagna di uova strapazzate che se la guardi per più di dieci secondi ti viene mal di fegato. Per non rivelare platealmente le scorribande gastronomiche notturne ci riabbuffiamo e, con gli zii, riprendiamo la visita di Vancouver. Ci godiamo il magnifico acquario di Stanley Park ed una bella passeggiata in riva al mare, terminiamo la mattinata in un centro polisportivo dove proviamo per la prima volta nella nostra vita la sauna e lo jacuzzi, e nel pomeriggio andiamo a trovare due amici degli zii che vivono in uno chalet nei boschi a poca distanza dalla città. Ai primi di Maggio, sulle montagne prospicienti Vancouver ci sono ancora più di due metri di neve; a mezz’ora di auto dalla città ci sono delle magnifiche piste da sci, aperte fino a mezzanotte ed – ovviamente – illuminate artificialmente nelle ore serali. Arriviamo allo chalet degli amici, ma nessuno risponde al campanello; dopo dieci minuti arriva il padrone di casa in accappatoio e dice “Scusate, eravamo fuori a fare il bagno!”; soddisfa i nostri sguardi smarriti accompagnandoci sulla veranda della loro abitazione (lunga venti metri e larga almeno cinque, con vista mozzafiato sulla vallata) in mezzo alla quale troneggia una vasca idromassaggio circolare, rivestita in legno e del diametro di almeno tre metri. Non si deve stare troppo male da queste parti, pensiamo, declinando con un sorriso l’offerta di provare a fare anche noi un bagnetto.

Il giorno successivo ci svegliamo all’alba e partiamo per recarci al Whistler Mountain, un complesso sciistico a due ore di auto a Vancouver dove ogni anno vengono disputate alcune prove della Coppa del Mondo di sci. Il paesaggio che osserviamo durante il tragitto è di quelli che si pensa di poter vedere solo sfogliando i cataloghi della “Marlboro Country”: distese innevate spolverate di altissimi abeti, il sole che fa capolino tra le cime delle montagne, cerbiatti che brucano l’erba a fianco della strada, degnandoti solo di uno sguardo se ti avvicini, aquile calve (il simbolo degli States) che planano nel cielo sfruttando le correnti ascensionali; insomma, la migliore idea che potreste esservi fatta dei boschi canadesi viene appannata dalla realtà a soli cento chilometri dalla costa. Quando arriviamo al Whistler Village, un tipico paesino di montagna sul tipo di Courmayeur, per citare il primo che mi viene in mente, ci rechiamo in un negozio per noleggiare l’attrezzatura; per undici (dicasi 11) dollari canadesi mi vengono affidati degli sci nuovi di trinca, un paio di scarponi da competizione e persino guanti e occhiali. L’abbonamento giornaliero all’intera rete degli impianti di risalita costa più o meno un quarto di quello che si pagherebbe in Italia, e si tratta di seggiovie coperte a quattro posti, non di terrificanti skilift spaccaculo.

Descrivere le piste è quasi inutile: distese di neve liscia e curata come la pelle di un’adolescente, larghe più di duecento metri. Nessuno lì scia facendo serpentine strette: si godono tutta la pista nella sua imponenza quasi scivolando da un lato all’altro, curvando solo per evitare il burrone o le pinete ai lati; una discesa dura così moltissimo, e l’incanto di trovarsi sulla vetta del mondo si rompe solo ogni tanto, quando ci si rimette in coda (praticamente inesistente) per la risalita. In serata ritorniamo entusiasti a Vancouver, dove la zia ha organizzato una specie di festicciola di addio (partiamo l’indomani per San Francisco) con degli amici italiani. Ci presentiamo con un certo educato distacco, e decidiamo di comportarci “come si deve”; a metà cena decido di cedere e comincio a raccontare qualche barzelletta. Dopo una ventina di minuti – complice anche l’ottimo vino californiano offerto dai convenuti – siamo tutti sdraiati per terra a battere i pugni sul pavimento con le lacrime agli occhi; l’equilibrio psichico è ormai così labile che alla minima battuta, alla storiella più idiota, crolliamo preda di convulsi accessi di risate incontrollate. A tarda notte – il jet-lag è ormai un ricordo – gli ospiti si accomiatano e riguadagniamo il letto. In mattinata lo zio ci accompagna all’aeroporto, dal quale decolliamo alla volta di San Francisco, dove abbiamo già prenotato un’automobile della più infima categoria (questa volta – vedi il capitolo 1 – la carta di credito ce l’abbiamo eccome…); una volta atterrati, ci presentiamo al bancone della Hertz, dove l’impiegata – profferendosi in scuse fino a terra – ci dice che sono desolati ma non dispongono più di vetture del tipo da noi prenotato. Se non è troppo disturbo per noi, saranno felici – ovviamente senza alcun sovrapprezzo – di noleggiarci un’auto di categoria superiore. Rispondiamo sbavando in pectore che in effetti un po’ di disturbo ce lo arrecano, ma se è per dar loro una mano… l’addetto ci presenta una Mercury Topaz lunga circa cinque metri, multiaccessoriata, con cinture di sicurezza automatiche (questa ve la spiego: le cinture sono già ancorate al lato interno del sedile e scorrono elettricamente lungo un binario posto intorno alla porta; quando essa si apre la cintura scorre in avanti fino al cruscotto, e quando si richiude torna al suo posto classico, bloccando così automaticamente l’occupante del sedile), lettore CD, cerchi in lega… insomma, pensate ad un accessorio e mettetecelo dentro. Partiamo sgommando verso lo YMCA, dove abbiamo deciso di cercare alloggio. Nonostante ci si trovi in un paese cosiddetto “civile”, infatti, la nostra Filosofia Basica di Viaggio non cambia: nulla è stato prenotato (salvo l’automobile, ma solo perché effettuando la prenotazione dall’Italia i prezzi sono più convenienti), in modo da “ritagliarci” il viaggio il più “su misura” possibile. Naturalmente, il tipo di turismo che si può mettere in pratica nei paesi “ad alto tasso di sviluppo” è ben diverso dall’errare nelle foreste pluviali, dal varcare fiumi torrenziali o dal giacere su spiagge incontaminate; negli Stati Uniti si gira per visitare le città (memori delle migliaia di film che vi abbiamo visto ambientati), i più suggestivi angoli di paesaggio (la Valle della Morte, le Cascate del Niagara…), i parchi nazionali (Yellowstone, Yosemite, Grand Canyon…), le attrazioni artificial-consumistiche (Hollywood, Disneyland, Las Vegas…). Il cibo non rappresenta mai un problema: oltre ai vari milioni di fast-food (McDonalds’, Burger King, Wendy, Subway…) vi sono migliaia di ristorantini a poco prezzo (gli attuali sette/dodici Euro… dimenticatevi i prezzi dell’Oriente: Denny’s, Sizzlers, IHOP), aperti ventiquattr’ore al giorno ed in grado di servire qualsiasi cosa in qualsiasi momento del giorno. Nessun problema viene inoltre dal reperimento dell’alloggio: lungo ogni highway, prima e dopo ogni seppur minuscolo centro abitato, a fianco di popolari attrazioni e/o di centri commerciali, vicino agli aeroporti, insomma ovunque, sorgono numerosissimi motel, spesso associati a catene nazionali, ciascuna rientrante in un’area di prezzo ben definita (ad esempio, tra i più economici vi sono i Travelodge, i Motel 6, i Days Inn, i Super 8 Motel; un po’ più cari sono i Comfort Inn e gli Howard Johnson’s; un gradino più in alto si trovano i Quality Inn e i Ramada Inn; gli altri sono per noi abbondantemente fuori budget). La filosofia del motel è semplice: chi primo arriva bene alloggia, la stanza si paga in anticipo, bisogna compilare un moduletto con nome, cognome, tipo e targa dell’automobile, data di arrivo e di partenza; ben pochi vi controlleranno i documenti, a meno che non asseriate di chiamarvi John Doe. In moltissimi ristoranti e fast–food (Denny’s e Burger King su tutti), inoltre, si possono trovare all’ingresso centinaia di copie di Traveller’s Coupons, “riviste-sconto” che, piene di tagliandi da ritagliare (ma va’…), offrono motel ed alberghi a prezzi scontati (di solito un 15-20% in meno di quello che si può riscontrare sulle guide); la cosa che può stupire noi italiani è che queste offerte sono reali, cioè non si tratta di bufale per attirare la clientela; noi abbiamo provato ad entrare in un motel e chiedere una camera: quando ci è stato comunicato il prezzo – peraltro affisso – abbiamo presentato il coupon e, senza né sbuffi né borbottii di malcontento, abbiamo ottenuto lo sconto previsto.

La nostra normale procedura ante-serale prevede la scelta di due-tre motel al massimo, possibilmente situati a non troppa distanza l’uno dall’altro, in modo da confrontarne prezzi, qualità e fringe-benefits; va tenuto presente che se, ad esempio, un motel – a parità di qualità – costa dieci dollari di più rispetto ai concorrenti ma offre la colazione a buffet per tutti gli ospiti, è sicuramente da preferire. Infatti, ben difficilmente si potranno spendere meno di cinque dollari a testa per un’american breakfast, considerando inoltre la scomodità di dover cominciare a gironzolare di buon mattino per trovare un locale dove far colazione. Il novantanove per cento dei motel espone i prezzi per camera, indipendentemente dal numero degli occupanti (senza esagerare!) e offre, in una camera standard, due letti matrimoniali; è quindi di immediata comprensione come il numero ideale di persone per girare gli States sia quattro o un multiplo di quattro.

Torniamo a San Francisco… l’ostello dove troviamo una camera sorge a pochissima distanza dal pieno centro, peculiare caratteristica degli YMCA, che ad un prezzo non estremamente conveniente abbinano però una comodità logistica senza pari (a parte gli albergoni di lusso per noi categoricamente off-limits). Parcheggiamo l’auto nel posteggio dell’ostello e ci avviamo per le vie della città. Ci salta immediatamente all’occhio – anche nella cosiddetta “downtown” – l’enorme numero di homeless di ogni tipo e razza spalmati sui marciapiedi. Per raggiungere Market Street – una delle arterie principali di San Francisco – dobbiamo letteralmente scavalcarne una dozzina.

Le giornate a San Francisco trascorrono fresche (questa città è nota per il suo clima tutt’altro che afoso, tant’è che un famoso detto americano recita: “Se vuoi provare un freddo inverno statunitense, passa un’estate a San Francisco”) e ventilate, e riusciamo a visitare il visitabile.

Alcatraz, l’ex-prigione di massima sicurezza, ci ha dato un insostenibile senso di oppressione, specie quando ci siamo recati nel cortile dove i carcerati potevano fruire dell’ora d’aria: da lì si vede San Francisco a poco più di due miglia di distanza, ma è come se fossero anni-luce. Per quanto si stia parlando di veri criminali spietati, immedesimarsi in loro ed osservare una città viva (e libera) così vicina, sapendo che – magari per vent’anni o più – non sarà possibile calcarne i marciapiedi né vederne i negozi addobbati per Natale fa precipitare in una depressione veramente cosmica. È comunque una visita interessante, e permette di provare a stare dentro una cella senza aver commesso crimini, una posizione in netto contrasto con la normale giustizia italiana dove i criminali sono di solito liberi come l’aria. Questa, ancora una volta, è però un’altra storia… Al famoso Pier 39 (i “pier” sono i moli che dalla spiaggia si allontanano verso l’oceano; sono numerosissimi in tutta la California, e passeggiare lungo un pier al tramonto, circondati dalle grida dei gabbiani, è un’esperienza indimenticabile), nella zona di Fisherman’s Wharf, sembra impossibile che centinaia di otarie e foche monache possano vivere tranquille e rispettate all’interno di un vero e proprio porto. Considerato che a Genova gli unici animali che vivono in ambito portuale sono i ratti ciclopici, l’osservare questi magnifici animali riposare al sole su piattaforme di legno predisposte esclusivamente per loro sembra tanto strano da essere incredibile. Stessa impressione ci danno i due scogli – distanti un paio di centinaia di metri dalla spiaggia, sempre in piena città ma in un’altra zona – che ospitano cormorani, pellicani ed altre foche. Inutile spendere molte parole su Chinatown (la più grande al di fuori della Cina) o sul quartiere gay di Castro: ne potete trovare innumerevoli e dettagliate descrizioni su qualsiasi guida o sui numerosi periodici dedicati ai viaggi ed al turismo. Sicuramente, gironzolando per il quartiere cinese e chiudendo gli occhi, pare quasi di potersi trovare alle porte della Città Proibita; molte persone non parlano quasi inglese, e persino i telefoni pubblici hanno il tettuccio a pagoda; il profumo delle spezie che proviene dai negozi di erboristeria (anche se non è l’Odore dell’Oriente), mischiato con la fragranza dell’onnipresente the al gelsomino, arricchito dall’umanità quasi esclusivamente asiatica che si incrocia sui marciapiedi, dalle anatre laccate appese nelle vetrine dei ristoranti, dai numerosi e coloratissimi ideogrammi delle insegne e – come sempre – dalla nostra fantasia e suggestione, ci fanno dimenticare di trovarci nel Paese più evoluto e moderno del mondo e ci catapultano in una terra di dragoni, di muraglie e di kimono di seta.

Per essere invece catapultati in una terra di colori pastello e paillettes, di completi in pelle e cappelli da poliziotto, di musica e divertimento, di trasgressione e di simpatia contagiosa, basta percorrere un paio di chilometri e trovarsi nel bel mezzo di Castro, il quartiere gay più famoso del mondo. Tutto risale agli anni ’70, quando – ben lontani i tempi dell’outcoming – la “parola d’ordine” per farsi riconoscere tra omosessuali era chiedere al proprio interlocutore “conosce qualche posto allegro (gay) dove divertirsi?”; San Francisco – contrariamente alle altre metropoli bigotte e bacchettone degli Stati Uniti (e non) – accettò senza problemi questa multicolore comunità, che si “autoghettizzò” simpaticamente nel popolare quartiere di Castro, tramutandolo in una zona divertentissima e multi-tutto, ideando anche una propria bandiera (arcobaleno). Qui si trovano i ristoranti più esotici (thailandese, australiano, vietnamita, jugoslavo, greco… anche italiano, sì), i locali più trendy della città, le birrerie più movimentate, i negozi più hip. Non c’è Lombard Street, cable car o Golden Gate che tenga: non si è stati veramente a San Francisco se non si è trascorsa una notte dal tramonto all’alba nel quartiere di Castro.

Per potersi fregiare del grado di “turista capital-consumistico”, non si può prescindere dal visitare le attrazioni più smaccatamente popolari: Lombard Street, “la strada più tortuosa del mondo” (Guinness dei Primati docet) è un’anomalia del piano regolatore. Tutte le strade della città, indipendentemente dalla loro pendenza, corrono rettilinee da est a ovest o da nord a sud, intersecandosi in modo da formare una scacchiera perfetta; tutte, tranne inspiegabilmente Lombard Street: una strada come le altre che per qualche strana cabala dei geometri californiani (probabilmente per l’inclinazione talmente ripida da risultare altrimenti impraticabile per quasi tutti i veicoli) è stata disegnata giù da una discesa con più curve di Jessica Rabbit. In poche decine di metri questa striscia di asfalto compie più di otto tornanti a gomito, con delizia degli automobilisti che – finalmente! – possono far stridere le gomme come nei telefilm di Starsky e Hutch.

Il famoso cable car viene preso d’assalto tutto il giorno da orde belluine di turisti, che alle lance e faretre medievali hanno sostituito telecamere digitali, macchine fotografiche e ombrellini multicolori da capo-comitiva; indipendentemente da ciò, comunque, un tragitto su questo originalissimo mezzo di trasporto è un must di San Francisco; i veicoli sono senza motore, hanno solo due enormi leve all’interno, manovrate da un “autista” estremamente nerboruto (anche se recenti viaggiatori hanno affermato di aver visto personale femminile alla guida dei tram): la prima leva comanda una specie di pinza che – sotto il livello stradale – stringe un cavo di acciaio che è in perenne movimento; una volta in prossimità di una fermata si rilascia il cavo, e a questo punto entra in gioco la seconda leva – il freno – che impedisce al cable car di schiantarsi nel palazzo di fronte o di investire trentasette turisti con camicia a fiori. Giunti al capolinea, la carrozza viene arrestata su di una piattaforma girevole, e sono proprio i passeggeri in procinto di salire che aiutano l’autista ad invertire la direzione di marcia del tram.

Il Golden Gate è giustamente famoso non tanto per essere qualche centinaio di tonnellate di longheroni di ferro dipinti di rosso, quanto per il suo ruolo di trait d’union tra la baia di San Francisco e il resto della California. È strafotografato quando la nebbia (piuttosto comune in città, dato il clima infimo) lascia uscire dal suo abbraccio grigio e umido solo le due campate, nascondendo sia i piloni sia il mare al di sotto (sia – di solito – buona parte di San Francisco…). Attraversando il ponte ci si può recare – a scelta – o verso Sausalito (un paesino molto blasé che può ricordare Saint Tropez, Portofino o qualsiasi altro rifugio-pensione per miliardari incartapecoriti, dove i vigili hanno i blocchetti delle multe di Gucci, e alzano le spazzole del tergicristallo con il mignolo all’insù) oppure verso la Napa Valley (sede dei famosi vigneti californiani, in grado di reggere agevolmente il confronto con i nostri decantati cru), proseguendo quindi verso Oakland e Berkeley (famosa cittadina universitaria nella quale – in certi scorci – sembra di trovarsi ancora negli anni del flower power) e ritornando infine a San Francisco tramite l’Oakland Bridge, più imponente e tecnologicamente avanzato del Golden Gate, ma che non viene sistematicamente cagato da nessuno.

Lasciata “Frisco”, ci rechiamo verso sud ed incontriamo subito Monterey, un delizioso ex-villaggio-di-pescatori che soffre un po’ del turismo d’élite che lo popola, non trovando una propria identità e barcamenandosi tra il naïf ed il radical-chic; degna di menzione la 17-Mile Drive, una strada a pedaggio che si snoda tra le pinete in riva al mare e regala scorci di paesaggio marino – tra scogli, campi da golf, ville da sogno e rocce a picco – di indescrivibile bellezza; in questa strada si può fotografare (o solo ammirare) il famoso lone pine, un pino marittimo solitario che è cresciuto in una roccia sul mare, che avrete visto innumerevoli volte su qualche rivista di viaggi, in qualche pubblicità o su qualche cartolina inviatavi da amici abbienti.

Guidando sempre verso sud arriviamo a Carmel, un paese veramente di lusso estremo, dove ai padroni dei cani è vietato persino che i loro beniamini perdano pelo per le strade, dove scaccolarsi sul marciapiede è un reato federale, e dove – per un lungo periodo di tempo – il sindaco è stato eletto per acclamazione nella persona di Clint Eastwood. Parcheggio con la gomma anteriore che sfiora il ciglio del marciapiede, e quando torno dopo mezz’oretta di passeggiata nei viali di Carmel, che offrono negozi di alta classe in grado di non far rimpiangere né Via del Corso né Via Montenapoleone (e chi li rimpiange, d’altra parte?), mi trovo una bella multa da 50 dollaroni sotto il tergicristallo (che probabilmente è stato sollevato con un paio di pinzette d’argento). Reprimo la nefanda tentazione di defecare nelle aiuole ed abbandono il villaggio profumato.

In serata ci fermiamo a dormire in un motel a Santa Cruz (caratterizzata da alcuni splendidi pier), dove ci viene assegnata una camera in un bungalow doppio; caso vuole che i nostri vicini si mettano a litigare e che ben presto la lite subisca un’escalation incredibile. Verso le due di notte possiamo assistere al lancio di suppellettili e vestiti dalla finestra, e della compagna di lui – con pregevole atterraggio gengive-asfalto – dalla porta principale; verso le tre la rissa è sedata da due “Chips” motorizzati che smanganellano il tipo e riportano la quiete nel simpatico motel.

Arriviamo finalmente a Los Angeles, e questa volta – a differenza del 1987 (vedi Capitolo 1) – abbiamo un po’ più di tempo per gironzolare, se si può usare questo vocabolo per una città la cui area urbana ha un’estensione quasi pari alla nostra regione Campania. Tra Disneyland (sì, di nuovo, e allora?), Universal Studios, Hollywood, Malibu, Rodeo Drive, Hollywood Boulevard, Long Beach, Venice Beach ecc. (tutti luoghi dei quali troverete più che esaurienti descrizioni in una guida qualsiasi – vedi Appendice), i giorni da noi preventivati per L.A. Trascorrono veloci, e ben presto ci troviamo sulla nostra Mercury Topaz a viaggiare nel deserto diretti verso Phoenix, Flagstaff ed il Grand Canyon. Arrivati alle porte del Grand Canyon National Park paghiamo l’inevitabile fee d’ingresso e proseguiamo; forse al giorno d’oggi la globalizzazione delle informazioni consente a chiunque di viaggiare aspettandosi esattamente quello che vedrà, fatto sta che entrambi ci immaginavamo di arrivare ai piedi del Canyon, e di trovarci circondati da immani pareti di roccia multicolore. Figuratevi il nostro stupore quando ci troviamo a parcheggiare l’automobile a Mather Point, il primo punto panoramico, un po’ interdetti in verità perché ancora nulla si vede all’orizzonte, e riusciamo a frenare appena in tempo per non precipitare nelle gole del Grand Canyon! Con il suo solito understatement da impiccagione, mia moglie esclama “Ah, è questo? Bello, ma in pratica è un enorme buco!”.

A questo punto una piccola, doverosa parentesi: per un’incomprensibile malformazione della psiche umana, ho potuto appurare che – dato un numero x + y (dove y è uguale o maggiore di 1…) di individui presenti contemporaneamente in una qualsiasi forma di vita sociale (cena conviviale, viaggio, riunione, pomeriggio sulla spiaggia, gita aziendale ecc.) – esiste almeno una persona che, di fronte al gruppo, non riesce a fare a meno di eruttare commenti denigratori o semplicistici su di un qualsiasi argomento oggetto di discussione e/o di ciò che si sta osservando in quel momento. A supporto di questa mia tesi, riporto alcune frasi che mi è capitato purtroppo di ascoltare personalmente: • A Singapore, nel famosissimo orto botanico: “Sì, va beh… alberi e fiori. Se lo sapevo restavo ai Parchi di Nervi!”; • Trekking nella giungla thailandese: “Fatica, fatica… l’anno scorso a Stefano d’Aveto ho camminato molto di più”; • Grand Canyon, Arizona: vedi paragrafo precedente… • Di fronte ad un’aragosta da due chili, su di un atollo maldiviano: “D’accordo, sarà anche buona l’aragosta, ma io, per un bel piatto di spaghetti…” • Sullo stesso atollo, mattino dopo: “E io ho fatto otto ore di volo e speso tre milioni per una spiaggia senza neanche un ombrellone, che se lo sapevo me ne restavo a Fregene che almeno lì se rimango tette al vento non mi rompono con i musulmani?”.

Francamente, le prime volte ascoltavo annuendo imperturbabile con un risolino enigmatico tipo Gioconda; ora di norma mi incazzo e invito l’idiota ad attuare immediatamente i suoi loschi propositi.

Ma torniamo nel Grand Canyon ad alla frase sfortunata di Roberta: evitando di spiegarle che l’enorme buco lo farei volentieri nel suo cranio con uno scalpello, lascio che le sensazioni mi travolgano (parecchi anni più tardi avrò la fortuna di ritornare in questi posti e di visitare nuovamente “l’enorme buco” sia a piedi che a bordo di un elicottero, e vi garantisco che l’esperienza è di quelle realmente indimenticabili), e mi perdo a guardare l’altro bordo del canyon, reso tremolante dal calore del mezzogiorno. Puntando lo sguardo verso il basso, gli occhi seguono vecchi sentieri indiani, e pare quasi di sentire scalpiccii di cavalli e di vedere bianchi segnali di fumo; in fondo il sentiero sparisce dietro un burrone, dove duecento metri più sotto romba il fiume Colorado. I pochi alberghi presenti all’interno del Grand Canyon National Park sono oltremodo cari, e la Filosofia Basica di Viaggio (vedi), oltre alle nostre ridottissime finanze, ci impone di ricercare soluzioni alternative; le troviamo nell’emporio del Grand Canyon Village (qui tutti i nomi cominciano con Grand Canyon: Grand Canyon Restaurant, Grand Canyon Souvenir Shop, Grand Canyon Toilettes, ecc.) sotto forma di un reparto che noleggia tende e sacchi a pelo. Decidiamo di affittare una “canadese” a due posti e due sacchi a pelo leggeri. Il tipo insiste per un po’ per noleggiarci quelli pesanti, poi scuote la testa sghignazzando. Sgommiamo verso, indovinate un po’, il Grand Canyon Camping e conquistiamo una piazzola. Montiamo la tenda, non senza qualche bestemmia mista dovuta alla confusione tra le dita ed i picchetti da parte del martello, e ritorniamo a mangiare qualcosa al Grand Canyon Snacks and Beverages (aarghhh!). Siamo talmente stravolti – e in più abbiamo deciso di svegliarci l’indomani alle cinque per una bella marcia fino in fondo al Canyon – che andiamo a dormire alle nove scarse. Ci svegliamo alle tre di notte, e comprendiamo immediatamente perché il tipo all’emporio rideva: dentro la tenda la temperatura si aggira intorno ai due/tre gradi, e forse fuori c’è qualcosina di meno, tanto che quando esco per fare ciò che viene voglia di fare quando fuori fa freddo e si è bevuto molto la sera, il terreno scricchiola ghiacciosamente sotto i miei piedi. Dalle tre alle cinque – specie se sottozero – il passo è breve, e ben presto ci troviamo equipaggiati di tutto punto (maglia di lana, pantaloni lunghi di felpa, gallone di Gatorade) all’inizio del sentiero che conduce in fondo al Canyon; cominciamo la marcia che si rivela subito oltremodo facile: il percorso è in discesa, la temperatura fresca, l’entusiasmo alle stelle. Arriviamo a Indian Gardens, la nostra meta pianificata, ben prima di quanto preventivato. Belli carichi e pieni di energia, decidiamo di proseguire verso Vista Point, il punto terminale del sentiero, posto sul ciglio di un burrone alla Wile Coyote che dà direttamente sul Colorado; dal punto di partenza in cima al Canyon sono esattamente dodici chilometri.

Raggiunta la nostra meta, ci sediamo a godere con calma questi momenti stupendi: sotto di noi il glorioso Colorado, intorno a noi la vegetazione del Canyon profuma ancora di teepee, di bisonti e di sere passate intorno al fuoco, alle nostre spalle le pareti del Canyon ci racchiudono in un suggestivo, enorme anfiteatro naturale; i colori che le rocce assumono a seconda della loro posizione rispetto al sole sono mozzafiato, si possono distinguere persino i vari strati di sedimentazione di questo magico letto di fiume preistorico, datato ad oltre seicento milioni di anni fa. Beviamo il nostro Gatorade (nei supermarket statunitensi vendono delle vere e proprie taniche – un gallone, circa tre litri e mezzo – di integratori di ogni sapore e colore) “Blue Crystal”, un gusto a metà tra la canfora antitarme e la menta piperita. Che cazzo l’abbiamo scelto a fare, vi chiederete? E secondo voi è possibile assaggiarli prima? Il colore era attraente, che diamine! D’altra parte in Italia in quel periodo il Gatorade si trovava al limone e all’arancio, ed i negozi di primizie offrivano a prezzi gonfiati quello al mandarino, qui nei supermercati meno forniti si trovavano almeno quindici gusti, il più sobrio dei quali era verde smeraldo e si chiamava “Unforgettable Summer Evening”… Dopo esserci dissetati mangiamo anche qualche leccornìa: carne secca “teriyaki” (alla moda dei pellirosse) e biscotti con gocce di cioccolato; ribeviamo, guardiamo ancora un po’ intorno e sotto di noi, scattiamo un’altra dozzina di foto e decidiamo di ripartire: è quasi mezzogiorno, e il fresco del mattino ha lasciato il posto ad un caldo desertico terrificante. Cominciamo a camminare, e giunti a Indian Gardens vediamo che di fronte a noi comincia un sentiero in salita (che è poi lo stesso che questa mattina abbiamo percorso in discesa) dalla pendenza preoccupante. I primi passi sono veramente duri, ma proseguendo scopriamo che ogni metro in più rappresenta una fatica ciclopica; la maglietta di lana ed i pantaloni di felpa sono una tortura micidiale, lo zaino con le bevande mi piaga la schiena, i piedi gonfi sembra vogliano uscire gorgogliando dalle scarpe come l’acqua bollente da una pentola. Bene o male, lentamente, riusciamo a proseguire fino a metà salita.

Dopo un tornante uguale a mille altri la testa comincia a girarmi, le pulsazioni del cuore aumentano fino a farmi rimbombare i bulbi oculari, mi ricopro di sudore freddo e mi mollano le gambe; due camminatori americani si fermano, mi fanno sedere all’ombra e mi spiegano che sono vittima di un colpo di calore unito ad una forte disidratazione. Il clima desertico non permette di accorgersi della sudorazione, che avviene comunque copiosa, e non si avverte quindi il bisogno di ripristinare l’equilibrio dei liquidi corporei; vengo inoltre informato che – il mese precedente – un ragazzo di diciannove anni che camminava da solo è morto a seguito di questa patologia; nessuno lo ha soccorso in tempo, e quando i primi escursionisti si sono accorti del problema e hanno chiamato l’elicottero, questo non è riuscito ad atterrargli vicino e si è perso altro tempo; alla fine il poveretto è morto per sopravvenute complicazioni cardiache. Piuttosto rinfrancato da queste amene notizie, bevo in un sorso il litro di Gatorade che restava nella tanica, mi rialzo e, cercando anche le più piccole zone d’ombra, riprendo a camminare lentamente; i due americani – che ormai mi hanno adottato come il figlio scemo, anche perché mi fanno notare che di bevande dovevamo portarne almeno il doppio – mi suggeriscono un metodo indiano di marcia: cento passi, poi mi devo fermare e contare fino a cento con la stessa cadenza dei passi precedenti, quindi altri cento passi e così via.

Dopo sette ore dall’inizio della salita intravedo il bordo del canyon e mi affretto verso la meta, dimenticando gli indiani e i loro stramaledetti cento passi. Stramazzo sul piazzale e bacio il terreno peggio del Papa quando arriva a visitare nuovi Paesi. Mi infilo nel primo bar e mi bevo una bella Coca Cola gelata da mezzo litro. Comincio a ristabilizzarmi: il cuore batte con maggior sincronia, i muscoli delle gambe dolgono per la camminata ma reggono egregiamente il mio peso, non mi sento più debolissimo…E sono pronto quindi a sorbirmi la cazziata olimpica della mia consorte, del tipo “Sei il solito deficiente, vuoi sempre strafare, eravamo lì nel giardino degli Indiani o come cazzo si chiama ma lui no, vuole andare in culo al mondo, tanto poi se muori qui chi è che resta nella merda, eh?” eccetera.

Ripieghiamo la tenda e, restituitala all’emporio e ritirata la cauzione, saliamo in macchina alla volta di Las Vegas. Questa città nacque in pratica una quarantina di anni fa, quando il Nevada era l’unico stato che concedeva con estrema facilità il divorzio; l’unico obbligo era quello di esserne residenti, e per far ciò bastava rimanere per quaranta giorni di seguito all’interno dei suoi confini. Essendo però un territorio quasi completamente desertico, la gente si rompeva i coglioni dopo pochi minuti; per non perdere l’enorme afflusso di divorziandi (ed ovviamente i corrispondenti introiti economici) furono creati i primi motel-casinò; da quel momento in poi Las Vegas ha conosciuto un’escalation unica al mondo per ciò che concerne le attrazioni ed il lusso sfrenato degli hotel. Ora in pratica tutto è gratis (o quasi), ed i divorzi non interessano più a nessuno: il business principale sono i casinò, ospitati in alberghi dallo sfarzo indescrivibile.

Visto che in pratica ogni tipo di attrazione nasce nella mente dei proprietari come “decorazione” intorno ai casinò, Las Vegas è un posto delizioso dove togliersi gli sfizi di grandeur senza spendere in pratica nulla. Si può mangiare nei buffet “all-you-can-eat” predisposti in ogni albergo: si paga un ingresso (dall’importo ridicolo: attualmente siamo intorno agli 8/12 dollari) e si viene ammessi in un ristorante self-service di dimensioni faraoniche dove, su banconi chilometrici, viene presentata la più grossa esposizione al mondo di cibo: carni bovine, ovine, equine, suine, di fauna avicola, cotte (o crude) in ogni modo conosciuto sulla Terra; vegetali provenienti da ogni luogo dell’universo, dal vegetable curry indiano all’insalata verde condita con olio e aceto; pesci di mare e di acqua dolce alla brace, in cartoccio, bolliti; cucina cinese, giapponese, indiana, coreana, vietnamita, messicana; mezzi buoi che rosolano su spiedi giganteschi insieme a maiali interi e a prosciutti succulenti; ogni tipo di contorno che riuscite ad immaginare; dolci a dismisura, trionfi di panna e di cioccolato, bigné grandi come torte, torte grandi come automobili, automobili di lusso che potete vincere giocando con la slot-machine vicina alla cassa mentre siete in coda; banconi delle bevande dai quali ci si può spillare ogni tipo di liquido potabile conosciuto: acqua, soft-drinks, birra, vino, sidro, succhi di frutta e verdura, integratori, caffè, the, karkadé.

Tutto questo senza limiti: una volta pagato l’ingresso (che è situato di solito in fondo al casinò, in modo da tentarvi a giocare qualcosa come aperitivo) potete mangiare e bere fino a scoppiare, nessuno vi guarderà storto come se vi additasse al pubblico ludibrio, nessuno si stupirà se mettete la panna sopra l’insalata capricciosa, nessuno obietterà se dopo il terzo bigné al cioccolato che ancora vi riempie la bocca decidete di caricare il vostro piatto con tre fette di sugoso roast-beef, o se decidete di pasteggiare a ostriche e the verde cinese.

I parcheggi sono gratuiti: meravigliosi silos multipiano con posteggiatori gentilissimi ed aria condizionata; monorotaie futuribili portano i visitatori da un albergo all’altro, fermandosi (guarda caso) proprio di fronte al casinò; nessun disco orario, né ticket da convalidare alla cassa: d’altra parte non ci sono neanche le casse. Gli alberghi comunicano ogni mattina all’Ufficio del Turismo (Tourist Information Office) locale la situazione delle loro vacancies, ed il prezzo minimo al quale cedere le stanze; è proprio recandosi in questo Ufficio, infatti, che si possono ottenere i migliori prezzi della città. Se volete la suite presidenziale o la camera di cristallo o altre pacchianate del genere non recatevi qui (ricordate la Filosofia Basica di Viaggio?), ma andate a farvi spennare direttamente presso le reception dei vari alberghi, che saranno lieti di chiedervi anche più di mille dollari per farvi dormire nella stessa camera dove una volta ha vomitato Elvis Presley.

Arrivati in città ci rechiamo subito all’Ufficio del Turismo e strappiamo una bellissima camera al ventiquattresimo piano del Sahara Hotel, proprio sullo Strip (vero nome Las Vegas Boulevard, la via principale della città) con vista sulle sue luci, piscina riscaldata e colazione compresa per 30 dollari; posiamo i bagagli e ci gettiamo nel vortice di questa moderna Sodoma (che poi, a Sodoma c’erano i sodomiti e tutti sappiamo quello che facevano… ma a Gomorra chi cacchio c’era e cosa faceva?); gironzoliamo tra i negozi sfavillanti e le attrazioni più esclusive del mondo di un paio di alberghi (al Circus Circus ci sono esibizioni gratuite di artisti circensi di fama mondiale, ventiquattr’ore al giorno senza sosta; al Mirage un duo di prestigiatori gay ospita nel proprio zoo privato – oltre a dozzine di altri animali – sette tigri albine; al Caesar’s Palace i più sfigati che si esibiscono sono Ray Charles e Bob Dylan) e, spinti dal demone infame del gioco, perdiamo in sette secondi e sei decimi dieci dollari alla roulette. Le figure più simboliche di Las Vegas sono i cosiddetti red eyes (occhi rossi), americani provenienti da ogni stato dell’Unione che al venerdì sera salgono su aerei speciali, arrivano in città, giocano alle slot machines, alla roulette o a black-jack fino a domenica pomeriggio praticamente senza mai dormire (da qui gli occhi rossi…) e ripartono in prima serata per potersi presentare, belli spolpati e stanchi come Ulisse dopo le fatiche, in ufficio al lunedì mattina. That’s (also) America, folks! Il giorno successivo ci rilassiamo al Wet ‘n’ Wild, un parco acquatico galattico dove la giornata dall’opprimente clima desertico si tramuta come per incanto (e per diciotto dollari di ingresso) in un fresco e riposante intermezzo di viaggio.

Abbandoniamo Las Vegas il mattino dopo, diretti verso la Valle della Morte, l’ideatore del cui nome è stato particolarmente clemente; arrivati ai confini della Valle ci sembra di trovarci in quei film di serie B dove i protagonisti fanno tutto ciò che non si deve fare e, circa a metà del secondo tempo, cominciano a morire come le mosche: in mezzo alla strada un portico di legno sormontato da un cranio di bovino, a lato un cartello “FERMATEVI E LEGGETE!”, al di sotto di esso una scatola di plexiglas piena di volantini. Ne prendiamo uno e leggiamo: “Non fermatevi per nessun motivo al di fuori delle zone segnalate! Non uscite dalla strada per nulla al mondo! Accendete al massimo il condizionatore della vostra auto! Assicuratevi di avere a bordo sufficiente acqua da bere! Rifornitevi di carburante appena potete!”, il tutto circondato da fotografie ritraenti scheletri di animale calcinati dal sole, rottami di auto arrugginite… e la pubblicità del Furnace Creek Hotel, l’unico resort accreditato nella Valle della Morte! Guidiamo, un po’ atterriti in verità, fino a Zabriskie Point (reso celebre dall’omonimo film di Antonioni con colonna sonora dei Pink Floyd); usciti dalla macchina – bella fresca grazie all’aria condizionata – l’impatto con la temperatura assurda che ci accoglie all’esterno (oltre 50° all’ombra, completamente secca) ci fa barcollare. Percorriamo i pochi metri che separano il posteggio dal punto panoramico di Zabriskie Point con l’andatura incerta degli ubriachi; arrivati in cima scopriamo che c’è anche il vento, solo che per colpa del calore sembra di trovarsi di fronte ad un asciugacapelli in funzione. Abbandoniamo il poco ameno luogo per portarci a Furnace Creek, l’unico posto abitato della Valle, dove un tempo sorgeva una miniera di cromo (provate un attimo a pensare alla gente che, oltre a vivere in questo posto infernale, si permetteva “il lusso” di lavorare in una miniera!); a parte un’esposizione all’aperto di vecchi attrezzi minerari, uno spaccio dai prezzi più alti della temperatura, un negozio di souvenir più triste del cimitero di Calolziocorte (BG) ed una stazione di servizio che ha conosciuto tempi ben migliori, il villaggio non offre altro; ce lo lasciamo alle spalle senza rimpianti, continuando a guidare per la Valle ed osservandone i mutevoli paesaggi: dune di sabbia modello Sahara complete di oasi, pianori di sale disseccato (the Devil’s Golf Course, il Campo da Golf del Diavolo), rocce multicolori fuse tra loro (the Artist’s Palette, la Tavolozza dell’Artista), scorci che sembrano esser stati teletrasportati direttamente dalla Luna. Abbandonata la Death Valley (e fatemelo scrivere almeno una volta in ingloamericano!) la strada comincia a salire tortuosamente e, mentre osservo l’ago della benzina scendere altrettanto tortuosamente verso il rosso, mi torna alla mente la frase del volantino minaccioso che esortava gli automobilisti a rifornirsi a Furnace Creek. Dalla depressione più profonda del pianeta ci arrampichiamo fino ad oltre i mille metri di quota, arrivando su di un pianoro dal quale si gode una stupenda vista. Ripartiamo, affrontando questa volta una ripidissima discesa; ormai il motore funziona succhiando la ruggine dal serbatoio; quando stiamo per disperare appare in lontananza un microvillaggio stile far-west: un’unica strada principale costeggiata da vari edifici, dalla caserma dei pompieri al municipio, dall’emporio al bar… alla stazione di servizio, che espone i prezzi del carburante più cari del continente. Ci riforniamo senza esitare (anche perché, negli USA, quando la benzina è cara costa comunque un terzo rispetto all’Italia) ed in serata arriviamo a Bishop, un paesino ai piedi delle Montagne Rocciose, dove troviamo una magnifica stanza in un motel che sembra essere uscito di peso dai romanzi rosa (letto a baldacchino, bagno rosa pastello, mobili antichi oliati a puntino), gestito da una tenera vecchina che il mattino dopo, profumando di cipria come mia bisnonna Teresa, ci ammannisce una colazione degna degli eccessi sibaritici più biechi.

Con le nostre ottomila calorie in corpo, salutata Nonna Abelarda ci dirigiamo alla volta del Parco Nazionale di Yosemite (se non lo pronunciate Giassèmiti non vi capisce nessuno…), per raggiungere il quale dovremo percorrere un passo montano situato ad oltre duemilacinquecento metri di altezza; giunti al bivio con la strada che ci dovrebbe condurre al passo, troviamo una robusta sbarra di metallo a bloccarci la via; attaccato ad essa un cartello piuttosto sintetico che recita (siamo a Maggio) “Strada bloccata per neve in quota; utilizzare percorsi alternativi”. Proseguiamo sulla strada principale fino ad incontrare una stazione di servizio, il cui gioviale gestore ci spiega che l’unica strada alternativa per raggiungere Yosemite è quella che passa da Reno, prosegue per il Lake Tahoe e arriva quindi al Parco “prendendolo” da Nord; il nostro “benzinaio” stima inoltre ufficiosamente in circa settecento chilometri la distanza totale da percorrere. Piuttosto preoccupati ed incazzati saltiamo in macchina e sgommiamo verso Reno. Passata la brutta (ma veramente brutta!) copia di Las Vegas, ci dirigiamo verso il Lago Tahoe, luogo esclusivo di villeggiatura montana per ricchi americani (un po’ tipo la nostra Cortina d’Ampezzo), un paradiso circondato da immani pinete, con minuscoli e bellissimi villaggi interamente costruiti in legno (non a caso circolano più autocisterne dei pompieri – lucidissime! – che automezzi privati) che fanno capolino sul lago meravigliosamente limpido. Lasciatoci alle spalle il Lake Tahoe cominciamo la nostra discesa verso Yosemite, dove arriviamo a tarda sera e dopo aver percorso oltre ottocento chilometri; naturalmente tutte le camere nei motel sono già occupate, così come tutti i posti nei camper; le tende sono già state tutte noleggiate, e proprio mentre stiamo valutando l’opportunità di dormire in macchina il ranger ci prospetta l’affitto di una tent, in pratica una struttura di legno fatta a casetta ricoperta da un telone impermeabile tipo camion e fornita – all’interno – di luce elettrica, letto e comodini. Non avendo altra scelta, optiamo per la tent, e non appena presone possesso ci stupiamo dell’enorme quantità di coperte accumulate sul letto, che troveranno però la loro irrinunciabile utilità dopo solo un paio d’ore: fa ancora più freddo che nel Grand Canyon; nonostante le coltri, tremiamo infreddoliti tutta la notte, ascoltando fuori dalla “porta” (un foro quadrato nel telone) equivoci rumori di una fauna notturna che pare essere di dimensioni ben superiori a quelle di un procione. D’altra parte il periodo è quello giusto per il risveglio degli orsi, che dopo mesi di letargo hanno tutto il diritto di essere affamati.

Il mattino dopo, infatti, quando chiediamo consigli ai rangers in merito alla passeggiata da effettuare, veniamo redarguiti sull’opportunità di affrontare sentieri troppo lontani dalla zona turistica. “Ha appena smesso di piovere – annuncia greve quello che sembra il ‘capo’ – quindi dovreste evitare i sentieri rocciosi che sono estremamente sdrucciolevoli. Inoltre gli orsi si stanno svegliando dal letargo e sono affamati (non dice ‘come lupi’ per non cadere nell’ovvio); qualora doveste incrociarne uno non avvicinatevi, ma non fuggite neanche via a perdifiato: allontanatevi con calma e senza voltarvi troppo indietro. Non portatevi dietro niente da mangiare perché hanno un olfatto sviluppatissimo e quasi nessun freno inibitorio nell’avvicinare gli esseri umani”.

Dopo questa gentilissima disamina, abbandonate le manie camminatorie (grazie anche alla magnifica esperienza del Grand Canyon) estreme, optiamo per una tranquilla gita in pianura verso le cascate, e in prima serata – nel frattempo ha ricominciato a piovere di brutto – abbandoniamo Yosemite per tornare a San Francisco; lasciamo l’auto all’aeroporto dal quale partiamo in perfetto orario alla volta di New York.

Il viaggio è ormai agli sgoccioli; a New York pernottiamo nuovamente alla William Sloane House YMCA sulla 34° Strada (vedi Capitolo 1); questa volta almeno non piove e ci possiamo permettere di visitare anche i luoghi che nel 1987 ci era stato meteorologicamente impossibile anche solo avvicinare. Riusciamo a prendere il traghetto da Battery Park alla volta della Statua della Libertà; arrivati sull’isolotto che ospita il simbolo dell’America, un cartello all’ingresso ci avvisa che per raggiungere la testa di Lady Liberty dovremo sopportare un’attesa di circa tre ore; ringraziamo e decliniamo l’invito, accontentandoci di visitare l’interessantissimo Museo dell’Immigrazione situato nel basamento della statua.

Le giornate nella Big Apple (ecco, l’ho detto! Originale, vero?) trascorrono frenetiche come la vita che si può osservare all’ombra dei grattacieli. L’ultimo giorno decidiamo di andare a vedere il quartiere di Harlem e, dietro consiglio dell’addetto alla reception del nostro albergo, cassiamo tutte le visite organizzate e prendiamo una normalissima metropolitana diretta a Nord che ci deposita alla fermata della 136° Strada. Da lì scendiamo e percorriamo l’Avenue principale; naturalmente bisogna osservare qualche piccolo accorgimento (tutto ricompreso nella Filosofia Basica di Viaggio): nessun accessorio fotografico, nessun occhio famelico di dettagli splatter o semplicemente sensazionalistici (tipo “Oh, guarda il negro che fruga nei bidoni dell’immondizia!”, oppure “Cazzo, l’hai fotografato il barbone negro con i piedi che gli escono dalle scarpe” e così via, anche perché nelle avenues principali di Harlem di immondezzai non se ne vedono proprio, anzi!), nessuna deviazione in vie secondarie o in giardini isolati. A parte le considerazioni psicosomatiche e sociali che vedono in ogni abitante di Harlem un sanguinario criminale pronto ad attaccare briga per pochi dollari, il quartiere – almeno nelle vie principali – è piuttosto vivibile (d’accordo, la Park Avenue è meglio…); sostiamo qualche minuto di fronte all’Apollo Theatre, ora piuttosto squalliduccio ma che negli anni ’60 e ’70 ha ospitato calibri del tipo James Brown, i Platters, Cliff Richards e – è il caso di dirlo – compagnia cantante.

L’ultima sera newyorchese ci vede a cena in una steak house, stremati ma fondamentalmente soddisfatti.

Sull’aereo che ci riporta in Italia tiriamo – come sempre – le somme del viaggio. Interessante e frenetico, ci ha permesso di spaziare dal mare alle grandi città, dai parchi nazionali ai deserti infuocati, dai musei ai locali più strani del pianeta; resta tuttavia un po’ di latente insoddisfazione: manca la scoperta. Gli Stati Uniti sono un posto eccezionale, l’unico posto dove forse potrei pensare di andare a vivere lasciando l’Italia, ma non c’è più il “brivido” e l’eccitazione di scoprire qualcosa che solo in pochi hanno visto; nessun tramonto nella giungla (ci sono magnifici tramonti a Key West e in mille altre parti degli States, ma come minimo ci trovate due bar, un pianista e qualcuno che scatta istantanee), nessun villaggio sperduto sulle montagne (magari qualcuno c’è ancora, ma gli abitanti probabilmente vi sparano per allontanarvi), nessuna spiaggia incontaminata (magnifiche quelle californiane e della Florida, ma – in alcuni casi tipo Daytona Beach – ci passano addirittura le automobili, e come minimo sono affollate come il centro a Natale).

Quando le ruote del carrello toccano la pista di Milano Linate, ci guardiamo negli occhi, e questa volta Roberta parla per prima.

“L’anno prossimo voglio tornare in Oriente con Massimo e la Franca”.



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