“1600 anni vecchio, 500 concubine”
4 eterogenei viaggiatori, 2 alti ed aitanti, 2 bassotte un po’ clown, 4 enormi valigie e una voglia di ferie che sanguinava, un carico di aspettative per qualcuno, che puntava lo sri lanka dal giorno in cui aveva visto la prima volta il video di Save a Prayer dei Duran Duran, ed era il 1983 e lei aveva 13 anni e non aveva nemmeno una ruga.
Voli Jet Airways scomodi ma economici, puntuali e perfetti, uno scalo a Delhi con le lacrime del ricordo dell’anno prima e della sabbia che l’India aveva tolto dagli occhi, all’arrivo un enorme cartello con il nome dell’allegra combriccola e 4 corone di fiori viola da mettere al collo, degne del funerale più lussuoso.
Prima grande sorpresa, il sole, su quella costa ovest che le guide promettono spazzata da monsoni violenti e piogge torrenziali, ad agosto.
Sosta con pernottamento a Negombo che si credeva tecnica, una specie di pit – stop necessario a caricare le pile dopo un volo lungo ed un anno di lavoro un po’ più lungo, che si rivela invece il primo momento di contatto con quella natura che c’è lì, che vince su tutto, un bagno nel mare quasi in burrasca che sferza, trascina, annega, che ti strappa il costume, che ti apre finalmente il cuore ancora chiuso nell’agenda e dopo quel mare grigio e cattivo si può perdere il caricabatterie del telefono perché lo senti che per 3 settimane potrai anche farne a meno.
Primo lungo viaggio sul furgone che sarà spesso il nostro letto, il nostro divano, la nostra sala riunioni, il nostro tavolo da picnic, il nostro rifugio, la nostra salvezza quando il caldo è tanto da sembrare troppo.
E i primi elefanti, nell’orfanotrofio, tante mamme, tanti piccoli, troppi alla catena, ma inutile chiedere perché, queste montagne di carne che sai che ti potrebbero uccidere con un passo ma che hanno gli occhi più dolci del mondo e quell’unica mano, la proboscide, che ti viene a cercare.
I primi elefanti di una lunga serie di elefanti che fanno il bagno, che si sdraiano nel fiume con i loro milioni di chili e sembra non si alzeranno più, che vengono sfregati da grosse ruvide spazzole da uomini che non capisci se sono servi o padroni o carcerieri ma non ti importa, sei così occupato a carpire con l’obiettivo lo spruzzo proprio nel momento in cui esce dalla proboscide e i gesti d’affetto, le carezze che questi pachidermi si fanno tra loro, carezze grandi perché loro sono grandi, e ti sorprendi che ci sia tanto affetto tra animali così immensi e così poco tra i tuoi simili, ma forse l’avevi solo dimenticato.
E prima di andare via riesci a catturare i giochi dei piccoli elefantini, che sono comunque più grandi della tua lavatrice e sei felice perché ce ne sono tanti, di cuccioli, e allora, forse vuol dire che non si estingueranno mai e provi a toccarli ma gli uomini ti tengono lontana, perché ci sono le mamme, e le mamme con i piccoli possono diventare molto aggressive, e questa è la frase che ricorderai con terrore qualche giorno dopo.
Bastano poche ore di viaggio per capire che lo Sri Lanka è prima di tutto buddista, perché il percorso è costellato di immense statue di un Buddha sempre giovane, sempre magro, sempre drappeggiato, in piedi o sdraiato e così diverso dal Buddha dell’estremo oriente, grasso, sudato, con quell’espressione beffarda, seduto a gambe aperte sulla pancia scoperta.
Visiti città antiche, muri sbrecciati tra i quali stenti a riconoscere le città che forse un tempo sono state davvero, ma che ora sono soltanto pietre accatastate in mezzo al nulla, ed in ognuna c’è sempre un tempio con un Buddha, o affreschi all’interno di grotte, e ci arrivi inseguendo l’odore dolciastro del fior di loto appoggiato su altari disadorni dalle piccole manine di piccolissime donne vestite di bianco e vecchissime, millenarie, forse estinte ma con gli occhi pieni di luce e di una fede che tu ancora stai cercando e che non riesci mai a trovare.
E tra un tempio e l’altro scimmiette dispettose a frotte, che aspettano che ti allontani per dare l’assalto al tuo furgone, appendersi al tergicristallo e giocare a Tarzan, uniche padrone di quegli spazi, e anche loro hanno gli occhi dolci, hanno i piccoli appesi alla pancia e non riesci a non pensare che i loro gesti sono così simili ai tuoi, così umani, tanto umani da farti quasi paura.
Ovunque la natura ha preso il sopravvento, nello sri lanka, alberi giganteschi con mille rami, palme strapiene di cocco, fiori di ogni colore, foglie immense, e le case non ce la fanno ad opporsi a quella natura e forse non vogliono; sono casette piccole, timide, immerse nel verde che cercano disperatamente di farsi notare con colori sgargianti, poco più che baracche, a volte proprio baracche.
Ed eccolo il sasso di Sigiriya, quello dei Duran Duran che credevi non potesse esistere realmente, doveva essere un fotomontaggio, chi mai potrebbe essere tanto stupido da costruire una città su un sasso alto 370 metri in mezzo al nulla; un re, ovviamente, come ti spiegherà quel vecchietto, anch’esso millenario, che ti raccomanderà di indossare robuste scarpe da ginnastica ma che si inerpicherà fin sulla cima con le sue logore infradito, ripetendoti, come una litania “1600 anni vecchio, 500 concubine” sottolineando lo sfarzo del re attraverso le donne che possedeva e ti chiedi, che cosa è cambiato, da allora?
La salita è faticosa, anche oggi il sole ha deciso di splendere, un passo dopo l’altro per tutti i 1000 + 2 scalini non smetti neppure per un momento di chiederti chi diavolo gliel’abbia fatto fare a quel bizzarro sovrano, e cominci a pensare che l’essere umano è così, continua a fare cose folli, solo per avere un motivo per essere ricordato, ma lassù c’è un delizioso vento e inizi a credere che ciò che quel re cercava era un po’ di fresco, e che ne è valsa la pensa, perché là in cima, per un attimo, anche tu ti senti padrone del mondo e non sai perché.
Tra una città antica e l’altra, tra un tempio scavato nella grotta ed una gigantesca stupa, si va alla ricerca di animali, parchi naturali che, quelli sì, sono davvero un regno, angoli di giungla intervallati da praterie immense, specchi d’acqua dove si abbeverano placidi bufali totalmente disinteressati al passaggio delle jeep scassate e rumorose, pappagalli, tucani, uccelli dai mille colori, lì scopri che il pavone è capace di volare e non solo di fare la ruota e pavoneggiarsi, che Bambi lo chiamano Bambi anche a 10.000 km da casa tua, ed improvvisamente ricordi che cos’è davvero una famiglia.
Lo capisci quando un grosso elefante ti sbarra la strada, ti si affianca e comincia a ringhiare, che è diverso dal barrire e fa molto più rumore; lo capisci quando vedi la sua grande compagna che quasi corre verso di lui, con il suo cucciolo, e allora ti ricordi che all’inizio del viaggio ti hanno detto che le femmine diventano aggressive, lo capisci quando questi bestioni immensi si fermano, ti guardano dritto negli occhi, iniziano a grattare la terra con la zampa come per attaccarti, con il loro piccolino nel mezzo, protetto, che nessuno potrà ferire, perché loro lo difenderanno a costo della loro vita, fino a che non ti renderai conto che sei troppo piccolo e te ne andrai passando per la strada che ti hanno lasciata libera.
Ma la tua guida, in questi parchi, ha l’obiettivo di farti vedere lui, il leopardo, rarissimo nei mesi della nostra estate, perché sarà il leopardo a fargli guadagnare una mancia più alta; per scovarlo si inerpicherà sui sassi e guaderà i torrenti, incurante delle ecchimosi che ti sta provocando con gli scossoni ed improvvisamente eccolo là, fiero, placidamente sdraiato e consapevole di essere lui, il re, l’attrazione, l’intoccabile, il protagonista del tuo percorso accidentato e sferzato anche dalla pioggia; si alzerà in piedi, si stirerà allungandosi mellifluo, si leccherà via qualche sterpaglia dalla zampa e poi se ne andrà lentamente, elegante, ancheggiando, una diva di Hollywood di altri tempi che rientra in hotel dopo essersi affacciata al balcone ed avere salutato gli ammiratori.
Dopo il leopardo e la sua potenza, qualunque animale non è in grado di reggere il palcoscenico e potrà essere soltanto una comparsa; così l’orso bruno, appena sceso dall’albero e che si avvia verso la tana tutto sgarruppato, traballante e sporco di foglie, quasi un tontolone che ti verrebbe voglia di abbracciare, così simile, oggi, all’orsacchiotto che ha abitato il tuo lettino da bambina.
Così il coccodrillo, che si immerge nel fiume così lentamente da non farlo neppure increspare, e poi scompare alla vista.
Così il camaleonte, che non riesce a mimetizzarsi nemmeno lui, in mezzo a tutto quel verde così acceso, e si accontenta di rimanere grigiastro e quasi si fa toccare, quasi a voler essere lui, il protagonista della tua storia.
Lungo il percorso che ti porta ad est, verso il mare di Trincomalee, si percepisce la guerra di 25 anni che ha devastato questa terra bellissima, ma che per fortuna si ostina a rinascere dalle proprie ceneri sempre più rigogliosa; strade accidentate, piene di buche e costellate di presidi militari che non capisci che cosa ci facciano ancora lì, vecchie trincee ogni 10 metri a difendere non capirai mai cosa, perché lì c’è poco o niente, il disagio di trovarsi su quel percorso, ultima roccaforte delle tigri Tamil, lo percepisci anche dallo sguardo dell’autista, oggi più duro e più stanco, forse si sta chiedendo perché diavolo questi stupidi turisti italiani hanno voluto deviare il percorso classico e tranquillo di tutti i tour operators dell’isola.
Quando intravedi il mare, al di là del filo spinato, oltre un cancello chiuso con un lucchetto, ai piedi di un allegro e coloratissimo tempio induista davanti al quale sta ancora parcheggiato un carrarmato con il suo soldato a bordo, ti si riapre il cuore.
Il sole, anche oggi il sole, splende su una spiaggia immensa mentre passi 2 ore a cercare di finire il granchio più grande e più buono del mondo; per un attimo ti sembra di non essere lì ma su una qualunque spiaggia di una qualunque costa e ricordi di essere in sri lanka solo verso sera, quando vedi passare una mandria di mucche sulla riva, o durante la cena, mentre cerchi disperatamente di evitare lo sguardo di due cani affamati ai piedi del ristorante, scacciati dai camerieri, fino a che non ce la fai più, ti riempi il piatto per la terza volta e senza farti vedere corri sulla spiaggia a cercarli, quei cani, e stai a guardarli mentre divorano in un attimo il tuo piatto, quasi che fosse il loro ultimo pasto, o forse il primo.
E dopo il mare, la montagna, proprio nell’attimo in cui avevi preso confidenza con quel caldo torrido ed avevi imparato a convivere con le gocce di sudore che ti scorrono ogni istante lungo la schiena, ecco, insospettabile, il freddo, anch’esso umido, di Nuwara Eliya e della fine del mondo.
Ci arrivi passando attraverso piantagioni di the sterminate, colline verdissime e splendide intervallate da qualche cascata e da piccole baracche di frutta che continuano ad attirare la tua attenzione come il primo giorno; l’autista ti fa assaggiare l’ennesimo frutto sconosciuto, questo è il turno del jackfruit, l’enorme, ma con un sapore così dolce e timido da non sembrare così grande.
Alla fine del percorso, dopo una levataccia prima dell’alba, imbacuccato in tutto ciò che può tenerti caldo, mentre maledici la tua valigia in cui manca un maglione degno di questo nome e ti chiedi per quale motivo tu sia costretto ad alzarti così presto il 24 di agosto, quando il furgone si ferma e ti scarica all’inizio di quello che sai sarà un faticoso percorso a piedi di oltre 4 km in salita, ecco che immediatamente l’isola ti ripaga di tutto.
Un meraviglioso cervo con le grandi corna di peluche si staglia solitario lì a due metri, placido, per nulla intimorito, raccoglie dalle tue mani le banane che dovevano essere metà della tua colazione, mentre un corvo ruba i tramezzini che erano l’altra metà, che avevi abbandonato per un istante su un muretto; e questo incontro sarà la molla che ti spingerà a percorrere quei faticosi 4 km di cielo, boschi e silenzio, in cui puoi evitare di parlare e limitarti ad ascoltare gli strani rumori della natura e finalmente arrivi lassù, a worl’s end, 2000 mt dai quali puoi vedere un panorama che ti toglie il fiato, in un silenzio infinito.
Ce l’hai fatta ad arrivare prima delle 9, quando tutto si riempie di nebbia e nuvole, ed alle 9 in punto eccola lì, la nebbia che corre verso di te e copre tutto, la valle, il fiume, le colline e poi rimane solo lei, non ci credevi, ma è così.
E lungo la discesa ancora un cielo di un azzurro che non ricordavi nemmeno più, e le solite cascate, e prati sterminati e un iguana appoggiato su una foglia che fa della gran finta di niente e la fatica ti prende e mentre scendi, risali sul furgone e benedici quella banana che avevi dimenticato lì e che potrebbe salvarti da una fame che ti sembra atavica, eccone un altro di cervo, questo è Raja, sta sempre lì a salutare i turisti, e anche il resto della tua colazione lo fai finire nella sua pancia …
Non ci sono le città, nello Sri Lanka, ci sono i paesotti accatastati con i mercatini a cielo aperto e quei negozietti, dei bugigattoli bui e strettissimi che non vedi più da anni, nei quali si vende di tutto, dall’innaffiatoio al riso ma nei quali non riesci mai a trovare ciò che cerchi e allora ne esci con il the e le spezie, come al solito, come se non ne avessi la valigia già strapiena.
Ogni percorso riserva sorprese, bambine con le trecce e la divisa bianca della scuola che aspettano un decrepito pullman strapieno e che ti salutano con i loro bianchissimi sorrisi, bancarelle di pesce fritto, lamiere con pesci ad essiccare, pescatori con le braccia infilate dentro ai tonni, vecchiette minuscole e storte con i loro sacchettini di arachidi anch’esse minuscole e storte, case dipinte con i colori delle caramelle, vecchie città coloniali decrepite, erose dall’umidità e dalla salsedine, testimonianza di un colonialismo continuo, inglese olandese, porti silenziosi dove continuano a volteggiare i corvi, che con il loro gracchiare, sono la tua colonna sonora da sempre, da quando sei arrivato.
E’ nella costa sud, lungo la strada costiera che fiancheggia il mare arrabbiato, che riesci a vedere le tracce tangibili di quella immensa onda che ha fatto 50.000 morti; le vedi nelle innumerevoli case ancora diroccate, cumuli di debole cemento che si è sgretolato in un attimo e che nessuno ha avuto la forza di ricostruire, le vedi nelle palme piegate quasi fino a terra che hanno deciso di sopravvivere, le vedi nelle decine di muratori che continuano a costruire inerpicandosi su impalcature improvvisate, senza alcuna protezione, che hanno come unico presidio Buddha e le loro infradito, le vedi in quella nature ed in quegli alberi che continuano a crescere, che non si sono arresi, nei rifugi per le tartarughe che sono stati spazzati via e che sono stati ricostruiti, nelle tartarughe che continuano a nascere e che, quando hanno un solo giorno di vita, puoi tenere in mano.
E le vedi nelle tombe, improvvisate, solitarie, che stanno lì, a pochi metri dalla spiaggia, lungo tutta quella costa martoriata, tombe che sono la prova che non c’erano cimiteri a sufficienza per tutti quei morti.
C’è così tanto, nello Sri Lanka, così tanta natura, così tanto mare e tanta bellezza, che ti sembra di non avere i polmoni abbastanza grandi da poterla respirare tutta, quest’isola, benedetta e maledetta che non hai mai pace, che fa la guerra, ma che in qualche modo vince, che non si lascia sopraffare dalle città, soffocate e che non potranno mai prendere il sopravvento, che ti lascia con un sorriso, chiedendoti quando ritornerai.