Cuba: Orden, Disciplina y Exigencia

Porto via ricordi nitidi che non riesco ancora a catalogare e altri confusi che non so ancora in quale cassetto riporre. Porto via la lucida consapevolezza di tornare in un mondo fortunato, così abituato a esserlo che non sente neppure ...
Scritto da: fantoniello
cuba: orden, disciplina y exigencia
Partenza il: 26/12/2013
Ritorno il: 09/01/2014
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €

BUONASERA CUBA, PIACERE DI CONOSCERLA – 26 dicembre

Finalmente atterro a L’Avana. Sbarcati a Cuba ci mettiamo in coda per passare la dogana. La lentezza della fila è causata dalla foto digitale cui tutti devono sottoporsi. Nel frattempo il bagaglio era entrato sul suolo cubano prima di me e aveva già avuto le sue prime esperienze: lo trovo aperto e manomesso. Mi sembra non manchi nulla.

La mia “tutor” mi aspetta all’aeroporto e mi consegna i voucher. È subito accoglienza Cubana: chiama una sua collega per farmi acquistare i biglietti dell’autobus con cui spostarmi a Cuba e farmi cambiare gli euro in pesos convertibles. Riusciamo solo nel secondo intento ma ciò che mi rimane impresso è che tra uomo e donna si chiamano “mi amor”, anche se si chiedono un biglietto.

Il tassista che mi porta all’hotel non prende bene il fatto che riceverà solo un foglio e niente denaro e corre nervoso per tutto il viaggio. Dalle sue imprecazioni imparo che i turisti sono una classe sociale a sé stante quando urla “vamos turista!” a un’auto nuova con targa cubana che gli ostruiva la carreggiata.

Faccio il check-in al mio hotel e un uomo anziano in giacca mi incrocia mentre vado in stanza, mi fa strada e mi mostra gli agi della camera: condizionatore sgangherato e TV senza telecomando. Quando lo sospingo verso l’uscio mi chiede di dove sono, insinuando che la mia provenienza influisse sulla mia capacità di elargire mance. Ma gli do poco peso, sono troppo stanco dal viaggio e dal fuso.

27 dicembre

Sveglia presto, colazione discreta con omelette ripiena di formaggio e prosciutto, frutta, succo di arancia e lo skyline di Centro Habana. Richiedo un taxi per l’autostazione Viazul per comprare il mio prossimo trasferimento a Viñales, il tassista si propone di aspettarmi per portarmi indietro. Intuisco che il servizio abbia un costo ma mi lascio contagiare dall’ottimismo del tassametro che indica in USD cifre modeste. La biglietteria Viazul non è uno spot all’efficienza: ci sono 2 file, “Informacion” e “Venta de pasaje”. Dovendo acquistare un biglietto vado per la vendita (Venta). Errore. Devo prima fare la prenotazione del posto all’Informazioni poi devo tornare lì a pagare. Eseguo obbediente e faccio le 2 file. Ma una volta pagato devo tornare con il mio biglietto stampato a mano all’Informazioni per confermare che la prenotazione è stata pagata. Il tempo di 4 file e il mio fido tassista è ancora lì ad attendermi vincendo la concorrenza di altri tassisti appostati come cecchini. Con la mia coetanea (una Peugeot 205) mi faccio portare all’Habana vieja. Metto alle spalle i 20 CUC di taxi e da lì inizio il mio tour in solitaria.

Escludendo un ragazzo che mi fa un ritratto schizzato al volo e a cui do 1 Cuc per ristrutturare la scuola dietro di lui, la mia prima vera interazione a Cuba è con Jorge. Pelle scura, cappellino verde da guerrillero, passione per il baseball e amore per la sua famiglia, bimba e compagna. Parla bene l’Italiano perché ha un amico sardo che spesso viene a Cuba e mi chiede preoccupato se per l’alluvione a Sassari ci sono stati molti morti perché non l’ha più sentito. Si offre di guidarmi per L’Avana vecchia, lì è dove è nato. In cambio vorrebbe parlare italiano per non dimenticarlo. È sospetto ma sembra un affarone, accetto volentieri. Mi racconta della vita a Cuba, dei razionamenti e delle limitazioni alle libertà, delle bodegas e delle paladares. Ma non sembra soffrirne, racconta tutto con beata rassegnazione. Da vero padrone di casa mi offre anche una bottiglietta d’acqua. Mi porta alla Escuela di Salsa e Flamenco e mi sdebito offrendogli un Coca e rum. Per me un mojito tradicional. Mi chiede se voglio andare alla cooperativa per comprare dei sigari a prezzo di fabbrica. Il governo mette prezzi esorbitanti e se acquisto sigari dalla cooperativa lui riceve una commissione. Dei sigari non so che farmene ma sento che negarmi una vendita di contrabbando di sigari cubani mi creerebbe troppi rimorsi. Mi lascio guidare e poco dopo l’arco-pagoda della Chinatown che non ospita più Cinesi, entriamo in una casa. Mi colpisce la nutrita rappresentanza della famiglia che espone in scala anagrafica dalla figlia piccola alla nonna. Ma il mio uomo dei sigari è la madre di famiglia, leonessa che da subito si dimostra un osso duro nelle trattative. Partiamo da 300 CUC per 25 sigari e finiamo a 25 CUC per 5 sigari. Gli attestati di stima della leonessa sulle mie (inaspettate) abilità mercatorie trovano conferma nel fatto che al povero Jorge non arriverà un cent di commissione. Per rifarmi gli offro quello lui stesso definì “un lusso che non è abituato a concedersi”, ovvero un pranzo di pesce con tipica orchestrina cubana. Dopo una foto di rito con Jorge ci congediamo e continuo il mio tour per il turistico Prado.

Tra i tanti che cercano di attaccarmi bottone con l’intento di scucirmi qualche CUC, mi soffermo con una ragazza che mi scambia per Argentino. Mentre il mio Narciso si specchiava ammirato in un turista spanglofono, mi racconta che è una ragazza madre, non ha soldi per mantenere il figlio di 2 anni e che ora è di nuovo incinta di 4 mesi (“ma per dio…” è stato il mio commento interiore). Non vuole soldi ma solo razioni di latte. Lei è Cubana e non può acquistarne di più di quante ne preleva alla bodega. Odora di menzogna ma fingo di crederci: comprare del latte in polvere può trovare ben pochi alibi. Mi accompagna allo spaccio e il Narciso spanglofono prende a pugni lo specchio quando capisce che una “ración” è una quantità che copre 3 mesi. Dunque 40 CUC. Faccio abbassare i quantitativi ma non pecco di generosità. La ragazza mi bacia sulla spalla e mi dice che quando un giorno avrò un figlio dovrò trasmettergli tutto il suo amore e quello dei suoi figli. 2 orecchini di tortuga che tira fuori dalle tasche mi faranno da promemoria.

L’episodio ha il duplice effetto di rendermi appagato del buon gesto e di indurirmi il cuore: non ho abbastanza denaro per migliorare le vite di tutti. Proseguo verso il Castillo de San Salvador de la Punta cercando di evitare ogni altra interazione e infine mi siedo su una panchina per riposare le gambe e leggere la guida. Fu allora che incontrai Michael: nero come il caffè, fisico asciutto ma muscolato, accento americano come il suo nome. Mi spiega che parla bene l’Inglese perché vicino a dove abita c’è un insegnante da cui ha imparato la lingua. «Cuba is a jail, man», questa la sua convinzione. Nonostante cercassi di renderlo orgoglioso dicendogli che nel mondo i Cubani sono un simbolo dell’allegria e della rilassatezza con cui affrontano la vita, le sue risposte erano precise e lapidarie «We’re stressed inside, man. It’s only appearance. Wouldn’t you be stressed if you don’t know how to gain money for tomorrow’s food?». Mi dice che si è seduto a una panchina di distanza da me perché ci sono telecamere ovunque e se la polizia lo vede parlare a lungo con un turista potrebbe portarlo via. Scettico e curioso gli chiedo dove sono le telecamere che in quel momento ci stavano osservando e prontamente pilota il mio sguardo verso il tetto di un palazzo, stando ben attento a non indicare. In effetti c’è un oggetto estraneo che non si addice al tetto di un edificio decrepito. Andiamo a parlare nel giardino alle nostre spalle, è più sicuro. Michael è un postino e la sua fidanzata è cuoca in una scuola. Lui guadagna 25 CUC al mese, ovvero 25 dollari. E la lenza che tiene arrotolata in un cerchio di legno gli serve per pescare la sera, vendere il pesce ai ristoranti e sbarcare il lunario. La vita è una prigione a Cuba e non riesce a smettere di ripetermelo. La sovrabbondanza di tale premessa prevedeva un esito quasi certo che all’inizio volevo ignorare: la richiesta di qualche maglietta perché a Cuba costano tanto. Acconsento e insieme ci dirigiamo verso il mio hotel. Salgo in camera, ritorno con una maglietta che possiedo in doppia copia e quando gliela consegno assesta l’ultima zampata, comprensibile ma violenta “hai anche qualche soldo da darmi? Ho fame…” “Ti dicevo prima che ho finito i soldi, mi dispiace”. Ci salutiamo, entrambi con il proprio amaro in bocca.

Approfitto della vicinanza dell’hotel per riposare un’ora visto che orologio alla mano camminavo da 6. Riparto per passeggiare sul Malecón all’ora del tramonto e dopo qualche foto di rito mi fermo al Poema 20, un bar che pare ricavato in una piccola grotta. Ordino un paio di birre, leggo la guida ma percepisco 2 occhi fissi su di me. È una “blanca” come dicono a Cuba ma dai tratti atipici. Chiedo il conto ma quando sto per lasciare il mio tavolo un gesto e una voce mi fermano “asientate aquí”. Pago e mi aggiungo al tavolo: sono 2 sorellastre, stessa madre ma padri diversi: uno cubano e uno “Chino”. Veniva dunque da oriente l’atipicità di quei lineamenti. Decido di intrattenermi con loro perché per la prima volta da quando sono a Cuba ho la sensazione di parlare con persone che non aspirano ai miei soldi di turista. Sono piuttosto sbronze e neanche il mio Narciso riesce a inorgoglirsi di fronte al numero sterminato di «que lindo» ricevuti immeritatamente durante la sera. Quando la 100% Cubana se ne va verso casa scopro dalla ragazza “China”, Diana, che la sorellastra è spostata «y està un poco loca». Diana invece è divorziata, 6 anni di matrimonio e poi «l’amor se muriò». Ci sediamo davanti al mare a parlare: lei, con passato da maestra elementare, corregge i miei numerosi sfondoni in spagnolo. Io cerco di farle confessare che brindare al proprio divorzio vuol dire cercare di esorcizzare la realtà. Parliamo di tante cose, del nostro passato, del nostro presente e della religione. Diana, lavora in un hotel italiano vicino a Varadero, crede nell’amore e in Gesù Cristo. Il suo libro preferito è la Bibbia perché ci sono consigli straordinari su come vivere, in particolare il libro di Ester, davanti al quale abbozzo un misto di sincerità e pseudocultura dicendole che probabilmente è uno dei libri considerati apocrifi dalla Chiesa Cattolica. Ecco perché non lo conosco. I miei punti aumentano quando indovino la fonte del suo aforisma preferito “El esencial no es visible a los ojos”: Il piccolo principe. Si alza quasi in piedi chiedendomi sbigottita «tu lo has leìdo de verdad??». In effetti sì, l’ho letto veramente ma nessun accenno al fatto che in Italia è una lettura comune. Il vento inizia a infreddolirci e Diana mi accompagna al mio hotel visto che la stazione dei taxi è lì vicina. Ci salutiamo con un «ci vediamo il 7», giorno in cui sarei tornato a L’Avana. Anche se ci siamo scambiati i numeri di telefono sappiamo che è una premurosa menzogna: è solo un modo per evitare la solennità di un addio poco sentito.

Salgo in stanza, faccio la valigia e mi abbandono al sonno profondo. Mancavano solo 7 ore alla partenza per Viñales.

JUAN MIGUEL DA PINAR DEL RIO PIANGE CON UN TURISTA SCONOSCIUTO PER AMORE – 28 dicembre

Sveglia presto e fugace colazione. Mentre mi affretto a masticare guardo l’ultima volta la cupola del Campidoglio dell’Avana: non avrò molte altre occasioni di averla come compagna mattutina. Il taxi mi aspetta e mentre scendo con i miei bagagli incontro l’anziano signore che mi mostrò gli agi della stanza. Mi fa togliere lo zaino di spalla e lo imbraccia come un corpo svenuto fino al taxi. Questa volta gli lascio una piccola mancia. Il tassista del giorno prima è più fido di quanto pensassi: è di nuovo lui a portarmi all’autostazione.

Il discreto anticipo con cui arrivo si consuma nella fila per il check-in. Tutti i bagagli passano per un filtro come all’aeroporto. Dopo aver deriso amichevolmente l’efficienza delle file Cubane con una coppia brasiliana e dopo qualche pagina della guida, mi abbandono al dormiveglia, incoraggiato dal caldo e dalla marcia cullante che l’asfalto intermittente restituiva all’autobus.

Giungiamo a Viñales e l’accoglienza è quella riservata alle rockstar. Solo che le decine di persone che circondano l’autobus non hanno cartelli “i love you” ma “casa particular”. Scendo e vengo frastornato da inviti di vario genere. Il problema è che non so dove andare, il mio hotel non è nella mappa e la biglietteria indicata dalla guida sembra l’unica cosa chiusa e immobile nel colorito marasma. Una piccola signora sorridente, dopo essersi proposta come ospite, mi dà gentilmente una mano: mi indica un’altra biglietteria dove compro il mio successivo trasferimento e urla il nome di un tassista che corre a contrattare con me la corsa fino al mio sperduto hotel. Da 30 CUC arrivo a 15. Avessi saputo la reale distanza avrei abbassato ulteriormente l’offerta. Durante il viaggio scambio qualche parola con l’autista, Bapo, che mi parla del piatto tipico dell’ultimo dell’anno, una sorta di cotechino che viene fatto marinare con aglio e altre spezie per una notte e poi viene cotto nel forno a bassa temperatura. «El olor se siente de 3 milles!». Mi strappa una risata quando sorridendo dichiara chiusa la sua «producción»: ha già 2 figli e per mantenere la famiglia lavora tutto il giorno. Basta così.

Il posto in cui mi scarica si chiama Aguas Claras, un residence immerso nel verde di una lussureggiante vegetazione. Gli animali da cortile che girano spensierati sono 3 cani, qualche pollo con progenie e un cavallo. Il lato negativo è che sono isolato: a una decina di chilometri da Pinar del Rio e a una ventina da Viñales. L’unità di misura è il “chilometro tassista”, ovvero l’arrotondamento alla decina superiore, sempre utile per alzare la richiesta. Faccio un giro nel complesso delle piccole abitazioni indipendenti e mi imbatto in quello che durante l’alta stagione deve essere il fulcro delle feste, una sorta di anfiteatro in stile villaggio turistico. Un uomo con gli occhi acquosi e un bar alle spalle mi guarda solitario. Ordino una birra e scherzando gli chiedo «e adesso che facciamo qui?» «Ahora nada» ma la voce tremula precede il suo sfogo.

Juan Miguel da Pinar del Rio piange con un turista sconosciuto per amore.

È innamorato della sua fidanzata che è emigrata a Miami e ora non possono ricongiungersi: lei non può rientrare, lui non ha i soldi per partire. «Me estoy muriendo por dentro Felipo». Gli dico che deve essere terribile quello che sta provando e cerco di rinfrancarlo raccontandogli con maldestro Spagnolo la mia storia a distanza, barando un po’ nel finale e rendendola più simile a una favola dal lieto fine. Ma niente può placare le sue lacrime, sincere e dolorose a vedersi su un uomo di 38 anni. Arrivano dei suoi colleghi e interrompono la nostra intimità. Juan Miguel si asciuga le lacrime e mi fa cenno di non parlarne più.

Decido allora di incamminarmi a piedi verso Pinar del Rio, il receptionist mi dice che in un’ora di cammino sarò arrivato. La strada per Pinar del Rio è costeggiata da piccole abitazioni, a volte nuove a volte fatiscenti. E anche i mezzi che la percorrono godono di grande varietà: auto nuove, auto di 50 anni, carretti trainati da cavalli, scooter elettrici e bici. L’impresa di farmela a piedi deve essere considerata più eroica di quanto immaginassi visto che dai “camiones” la gente suona il clacson e mi saluta con gesti di incoraggiamento. Dopo più di 1 ora di cammino chiedo informazioni a una giovane ragazza che dalla periferia di Pinar del Rio non riesce a darmi indicazioni per il centro se non che «es muy lejo». È in quel momento che cedo alle lusinghe di un risciò guidato da un signore sulla 50ina con i capelli d’argento e la pelle di bronzo. Mi faccio portare al Cafè de Pinar, provando pena e rispetto per quell’uomo che mi sta trasportando con fatica, asciugandosi la fronte con un fazzoletto sgargiante che deve aver prestato servizio per tutta la giornata. Gli lascio un peso convertible, più del doppio della sua richiesta. Cammino un po’ per la città ma ha una pianta irregolare e nelle strade non ci sono targhe delle vie. Il cielo si sta imbrunendo e preferisco rimanere intorno al mio Cafè de Pinar. Dopo aver curiosato nella stanza del Comune durante la celebrazione di un matrimonio, prendo un gelato da un uomo appostato in un terrazzo al piano terra vicino alla sua prode macchina cromata. Mi chiede 2 pesos cubani e quando gli mostro 3 pesos convertibles decide di regalarmelo perché non ha resto. Gli do allora tutto ciò che ho in moneta: 5 centesimi di peso convertible e capisco dal suo sorriso che in effetti sono quasi la cifra che richiedeva. Con il caldo il gelato si liquefaceva a velocità impressionante e le mani e i pantaloncini ne facevano le spese a ogni passo. Decido allora di diventare il primo cliente del sabato del Cafè de Pinar per sciacquare le mani e per mangiare qualcosa. Un bocadito, una cerveza e la partita di baseball Holguin – La Habana a fare da piano di discussione tra me e 3 amici del barista. Fingo anche di sapere di cosa stanno parlando quando mi dicono che l’Italia ha un buon «equipo» di baseball e nel «clasico» di quest’anno è in semifinale. Sfoggio allora qualche nozione appresa a L’Avana e commento con riverenza da ospite che Cuba è seconda nel ranking mondiale, tanto di cappello. Ma vengo smentito dai miei compagni: prima di Cuba ci sono diverse nazioni. Il pensiero che ho avuto è stato che forse le propaganda nella capitale è più forte e gli «equipos nacionales» diventano leggende. Chissà. A smentirmi questa volta ci pensa la TV: la propaganda c’è in dosi massicce anche qui a Pinar e ogni 15 minuti e passano spot celebrativi per il 55° anniversario della rivoluzione in cui l’eroe Fidel viene mostrato in filmati e foto di repertorio.

Dopo un altro giro di perlustrazione mi rendo conto di essere l’unico turista a Pinar del Rio e forse anche tra i più vegliardi. Per qualche CUC stringo un accordo con il barman per farmi portare in auto ad Aguas claras. La pioggia di certo non stava facendo decollare il sabato sera.

29 dicembre

Onoro la domenica e non imposto la sveglia, questa sarà una tappa di riposo. Mi svegliano una conferma e una novità di Cuba: la luce forte che passa dai vetri smerigliati del mio bungalow e la pioggia, londinese nella costanza ma tropicale nell’intensità. Già. Non avevo considerato l’eventualità della pioggia. Intanto faccio colazione, intuisco che omelette e frutta saranno una certezza nelle mie mattinate cubane. Approfitto del tempo per chiedere al receptionist, che per fisionomia e abbigliamento potrebbe tranquillamente essere un camionista del Tennessee, di fare qualche telefonata per dare un alloggio alle mie prossime tappe. Di telefonate ne fa diverse e mi sdebito con 2 CUC.

Nonostante il receptionist sia poco fiducioso che possa incrociare dei mezzi, mi incammino cocciutamente per Viñales, a 20 km-tassista dal mio alloggio. Lungo la strada m’imbatto in una vecchina con un occhio di vetro azzurro e un’evidente artrosi deformante alle mani. Da dietro la precaria staccionata mi invita ad entrare in casa per presentarmi la figlia, che in quel momento è indaffarata in cucina per i preparativi della sua festa di compleanno. Mi presenta anche suo nipote ma questa volta solo dalla foto e chiede se per caso ho qualche indumento per lui. Nel frattempo tuffa la sua faccia nel frigo e riemerge con una pepita bianca «mangiane un po’». Lo assaggio e indovino gli ingredienti: cocco e zucchero. La mia intuizione mi fa vincere l’intera pepita incartata in un foglio di giornale. L’edizione che la vecchina strappa è accidentalmente storica: è del 6 dicembre, e nello stralcio di giornale campeggia il messaggio di Cuba per la morte di Nelson Mandela il quale viene proclamato «un ejemplo de revolucionario». La mia valigia è a 3 km da lì, non posso tornare indietro a prendere degli indumenti per il nipote, ma le prometto di tornare a restituire il favore in qualche modo. Temo a pronunciare quelle parole perché non sono così certo di poter pilotare il mio ritorno.

Poco dopo ho la fortuna di incrociare “El camion de el servicio publico”: una camionetta di almeno 50 anni, rumorosa come un trattore, che al posto delle merci trasporta persone. Il prezzo del biglietto è di 2 pesos cubani ma l’uomo dei biglietti mi irride e mi invita a salire lo stesso quando gli dico che ho solo una banconota da 10 pesos convertibles. Che è come dire “ho una banconota da 200 euro, hai 199,50 di resto?”. Mai la gratuità di un viaggio mi aveva fatto sentire così a disagio. Vorrei fare delle foto ai volti delle persone, a quel tetto di truciolare ammuffito, alle veneziane in lamiera al posto dei finestrini e ai giochi di luce che queste disegnavano sui volti dei passeggeri ma tirare fuori un qualsiasi oggetto il cui valore può mandare avanti l’intera comitiva per un mese mi crea troppo imbarazzo. Forse vergogna. A Cuba profumano tutti. Magari di deodorante o dopobarba di bassa qualità ma il caldo e l’umidità non hanno mai la meglio sugli odorosi Cubani. E anche in quella calda camionetta, ognuno aveva la sua dignità olfattiva intatta. Nonostante le strade disegnate da un sismografo e lo stile di guida del pilota che in salita è costretto a sfruttare ogni singolo cavallo del motore, i Cubani odorosi, immuni ai colpi di frusta, riescono persino a schiacciare un pisolino. Arrivo a destinazione e mi bevo una birra nella piazza centrale di Viñales. Sono le 15.30 e lo stomaco inizia a ricordarmi che è vuoto da un po’. Scendo lungo la strada principale e finalmente trovo il mio punto di riferimento: la pizza. Per 10 pesos cubani mi tolgo lo sfizio di capire come le tradizioni cubane hanno contagiato una pizza formaggio e salsiccia. Il formaggio e quello filante delle omelette e la salsiccia sembra prosciutto cotto sbrindellato. Nonostante i sapori non siano rivoluzionari come il cartello posto poco più avanti («este cielo, esta tierra y esta bandera la defenderemos al precio che sea necesario»), l’interpretazione cubana della pizza mi rimane una gradevole scoperta.

Passeggio di nuovo verso la piazza e un dirompente acquazzone sospinge la folla sotto i variopinti porticati. Fu allora che finì a ripararmi vicino a Julian, 42 anni nei campi e 72 sulle spalle. Mi è inevitabile ammirarlo e Julian contraccambia con un cordiale «Hola». La sua pelle color tabacco è come tostata dal sole e il sigaro che tiene in bocca in una morsa priva di denti sembra la prosecuzione naturale del suo mento. Veste di bianco Julian, compreso il piccolo sombrero, e l’ingiallimento del cotone della sua camicia non riesce ad attenuare il pittoresco contrasto con la pelle. Gli chiedo qualche informazione e ovviamente se posso fargli una foto. Il modo con cui mi chiede qualche spicciolo è buffo e gentile «guarda cosa mi hanno regalato altri Italiani che ho conosciuto» mostrandomi una moneta da 5 centesimi di peso «allora prendi anche le mie Julian». Cammino verso La Ermenita per ammirare meglio il paesaggio: le montagne si staccano maestose dai campi come dei molari consumati che emergono da un suolo morbido di gengiva.

Ritorno alla piazza centrale ammirando la preparazione degli “spaventapasseri dell’ultimo dell’anno”, con l’intento di prendere el camion con il quale ero arrivato ma giunto in piazza mi lascio attirare dalla musica che proviene dal centro culturale. Una tipica orchestrina cubana accompagna le animate discussioni dei Cubani che come centro tavola non si fanno mai mancare una bottiglia di rum scuro. Mi siedo a un tavolo e per integrarmi al meglio ordino anch’io del rum scuro con ghiaccio. I posti a sedere sono pochi e condividere il tavolo è piuttosto normale. È così che conosco due viaggiatrici che si siedono vicino a me: Vania e Denise. La strana coppia si è costituita alla stazione del treno che le portava all’aeroporto e stavano continuando insieme il viaggio a Cuba. Vania è l’estroversa: di origini portoghesi, vive in Germania ma avendo vissuto a Miami ha un forte accento americano. Denise è svizzera, delicata e più introversa. Dopo un po’ di chiacchiere andiamo insieme a mangiare nella casa particular che le ospitava. Un grosso pesce cotto in forno, verdura, banane e patate fritte, riso con salsa di fagioli, frutta e un dolce simile a una cheesecake. I complimenti alla cuoca sono sinceri e i 14 CUC spesi volentieri. Ritorniamo al centro culturale per la “salsa night” e trascorriamo piacevolmente la serata tra rum, spettacoli con il fuoco, chiacchiere e giovani salseiri locali che assediano con richieste di ballo le mie compagne di tavolo. Saluto le ragazze e per una decina di CUC mi faccio accompagnare a casa da un “amigo” che mi fa accomodare nei posti dietro perché una delle sue due giovani “amigas” è incinta.

È già l’una di notte e non ripasserò più dalla vecchina che mi ha regalato la pepita di cocco. Mi consola immaginarla che in pieno spirito Cubano, abbia pensato «no hay problema».

LA ESCUELA DE MOJITOS DE CIENFUEGOS LE CONFERISCE LA LAUREA IN BALLO – 30 dicembre

Bapo, il tassista dell’andata, è pronto ad aspettarmi fuori dal cancello. 6.15, puntualissimo. Nel tragitto che mi porta a Viñales riesco a godere dell’ultimo spicchio di luna calante. Mi imbarco quindi sull’autobus che mi porterà a Cienfuegos e da lì mi godo lo spettacolo dell’alba che illumina i campi di tabacco e i guajiros che con i loro sombreri bianchi si incamminano verso il bagliore dell’orizzonte. Dopo l’illusione del sole sopraggiunge invece una nebbia umida che ci scorta fino a L’Avana. Facciamo fermata a Jaguey grande, e faccio ridere l’assistente di viaggio quando confesso che pensavo a una grande autostrada (la pronuncia è simile a “Highway grande”). Invece Jaguey grande è un parco ricco di vegetazione tropicale e spontaneamente disordinato, dove ovviamente non manca l’orchestrina tradizionale a vivacizzare il pasto dei viandanti nel chiosco.

Arriviamo a Cienfuegos e prendo un bici-taxi (un risciò più accogliente) per trovare una casa particular. L’allegria e l’affabilità dell’uomo che pedala mi fa piacere da subito questa cittadina coloniale. I miei ospiti sono Rafael e Maria Antonia: lui un ex poliziotto e lei una dottoressa. Ci scambiamo solo battute di circostanza ma sono cordiali e mi fanno gradevolmente sentire a mio agio.

Dopo qualche dritta parto in esplorazione della città andando a fare un sopralluogo della stazione degli autobus e girovagando per gli edifici storici conservati e restaurati con cura. Non posso fare a meno di notare che a Cienfuegos le persone sono molto più “occidentali” delle altre città che ho visitato, negli abiti, nelle mode e negli agi che una parte di popolazione può concedersi. È qui per esempio che vedo il primo iPad di Cuba.

Passando per il Prado mi faccio attirare dal cartello “birra alla spina 350 ml, 6 pesos cubani”, ovvero una birra media a 25 centesimi di euro. La birra mi viene servita in un boccale di plastica che sembra un vaso portafiori da cimitero, quelli di latta che dopo anni di intemperie si ossidano con striature verdi e ramate. Un autentico tentativo di dissuasione che affogo insieme alla sete. José Alberti Vitale ha il mio stesso boccale, la mia stessa sete e origini italiane: un nonno di Castrovillari. Si mostra fiero di sapere un po’ di italiano e di raccontarmi che suo nonno era uno «zapatero» che dall’Italia riusciva a mantenere una famiglia a Cuba. Lui stesso avanza dei sospetti sulle facoltà di un semplice contadino e sorridendo mi dà la sua spiegazione «la mafiaaa» gesticolando e accentuando l’accento de Il Padrino. Come a tutte le persone con cui ho parlato, neanche a José piace Raul Castro, «no gusta a nadie» mi spiega ma anche lui fa spallucce e spera in un futuro più libero che però nessuno desidera tanto da meritare più di una speranzosa attesa. «A los Cubanos gusta la fiesta» si giustifica con un po’ di rassegnazione. Mi saluta invitandomi a passare di lì per il capodanno perché ci sarà “mucha fiesta”.

Proseguo il mio cammino per le vie del centro e una bella signora canuta con gli occhi azzurri interrompe il suo canto ventriloquo e indovina la mia nazionalità. Segue poi una domanda che era ben più di una premessa «sei solo o con la fidanzata?». Le dico la verità è in cambio ottengo un biglietto «es una chica a cui escribir» e mi rassicura «una chica buena, no de calle». Apro il biglietto e trovo nome, età, provenienza e indirizzo di una giovane ragazza di Cienfuegos. Quella che sembrava una rispettabile signora canterina era una maîtresse o un’improbabile emissaria del ministero della Cultura che stimolava “amici di penna”? Non indago e ripongo quella minuscola scheda anagrafica, che era stata ripiegata 4 volte su se stessa come a nascondere qualcosa di illecito e segreto.

Cammino per diverse ore e arrivo fino a Punta Gorda per ammirare la baia avvolta nella notte. Nella strada verso casa mi imbatto in un concerto heavy metal che assiepa giovani teenager dal look altrettanto metal: divaricatori all’orecchio, capelli elettrizzati dal gel, tatuaggi sul corpo. I giovani metal guardano immobili i musicisti sul palco, come giudici concentrati a esaminarne tecnica e presenza scenica. Ma a Cuba anche le minoranze di lignei giudici hanno il ritmo nel sangue e quando al termine del concerto proiettano i video clip di reggaeton, di El Yonki e di “Bailando”, non riescono a tenere i piedi attaccati a terra e sciolgono la loro alternatività nella danza. Rincaso e mi apre Rafael con il quale faccio due chiacchiere. Ci appoggiamo con i gomiti al parapetto bianco in perfetto stile coloniale e guardiamo la gente passare nel Prado. Una cosa di cui vanno fieri i cubani sono le loro donne calienti. E anche Rafael mi fa notare «las chicas» che passano e mi salutano. Una di queste, una giovane nera con i capelli afro, mi fa segno di scendere. Rafael, mi sussurra a bocca stretta «Chica pericolosa: se ti acchiappa mangia te e tuo babbo». Ci facciamo una risata, salutiamo la «chica peligrosa» e ci corichiamo entrambi. —

31 dicembre

Come da mia richiesta, alle 8.30 la colazione è pronta in tavola: tortilla con cipolla e formaggio, pane e burro, macedonia di frutta, caffè e succo fresco di papaia. Finita la colazione mi siedo in terrazza a prendere il sole garbato delle 9. Rafael si siede con me e parliamo per 2 ore di Cuba, della sua economia e dei suoi rapporti con gli altri stati. Avendo prestato servizio come militare per 25 anni (la polizia è considerata carriera militare) Rafael è potuto andare già in pensione a soli 53 anni, 10 anni prima degli altri. Non riesco a decifrare se le sue affermazioni sono drogate di propaganda, se voglia farmi innamorare della sua terra così come lo è lui, o se realmente creda che Cuba, pur non essendone mai uscito, sia uno dei «mejor lugar de el mundo» sotto quasi ogni aspetto che trattiamo: il clima, la posizione, la varietà, la sicurezza, i medici, lo stile di vita, la gente. O forse, più semplicemente, non c’è contraddizione nelle mie ipotesi: a Rafael hanno insegnato ad amare la sua terra e con gli occhi dell’amore descrive la sua amata. Mi avvio verso punta Gorda per guardare di giorno la baia naturale di Cienfuegos. La lingua di terra che si prolunga sul mare termina in un parchetto dove mi siedo e prendo al chiosco una delle bevande che piace tanto ai cubani: la malta. La vista e le prime papille suggeriscono che si tratti di semplice chinotto. Ma in gola si conferma la forte presenza di malto e luppolo che l’olfatto, spaesato, intercetta già all’apertura della lattina.

Per abbreviare i tempi della risalita verso la città mi faccio dare un passaggio da uno dei tanti bici taxi di Cienfuegos per un paio di CUC. Rolando pedala di tre quarti con il busto verso di me per farsi sentire meglio. È un testimone di Geova e segue i precetti della sua religione: appena montato sul sedile mi consegna un libro aperto sulla traduzione italiana di un messaggio tipico dei testimoni di Geova: ti piacerebbe un mondo migliore? È possibile grazie a Geova. Gli racconto che la mia “tata” era una testimone di Geova e conosco abbastanza bene la sua religione. Iniziamo a conversare: di dio, della Bibbia e della targhetta in ebraico che ha apposto sopra la scritta “taxi”. Per fingermi consapevole padrone della materia teologica gli dico che qualche mese prima sono stato in Israele (dettaglio inutile con il quale volevo solo mostrarmi empirico nelle asserzioni) e che ho visto con i miei occhi come a Gerusalemme gli abitanti vivano divisi nella loro città, rifugiandosi delle certezze dei propri testi sacri che interpretano in maniera diversa, a volte opposta, un evento storico: la nascita di Gesù Cristo. Perché quindi la verità su entità metafisiche e intangibili sta nella Bibbia e non nel Corano o nella Torah? «Rolando, cosa ti rende così sicuro che sia proprio Geova quello che chiami dio?». Rolando è un ex pugile e la sua risposta è un gancio destro che mi mette KO «la chiave è nel libro di Luca» e ne cita i versi a memoria. Si offre di allungare il giro perché «me gusta hablar contigo» ma sono steso sul ring impermeabile della sua fede e non posso fare altro che accettare senza altre riserve il passaggio extra e il suo opuscolo. «Adios. Che tu possa trovare la verità».

In quel momento mi accontento di trovare una birra ghiacciata a El Palatino, di fronte al volto europeo del teatro Terry Thomas. Le ginocchia mi sono riconoscenti quando le sgravio del mio peso sulla panchina davanti alla statua di Benny Moré. Tre niñas negras, graziose e ben vestite, vengono spavalde e sorridenti verso di me «ci regala i suoi braccialetti? Sono molto belli». Sono 2 braccialetti di gomma colorata che comprai in Italia da 2 bambine che vendevano i loro giocattoli usati. Non potevo immaginarne destino migliore. Le niñas mi concedono una foto di loro 3 vicino alla statua di Benny Moré mentre espongono entusiaste le loro colorate conquiste. Proseguendo la mia lunga passeggiata nel Boulevard mi imbatto in un risto-grill italiano che pompa sul terrazzo musica commerciale cubana. Mi siedo e senza premeditazione commetto l’errore gastronomico più grande della mia vita: il menu è più italiano delle sembianze del locale e, messo alle strette dalla mancanza di diversi piatti, ordino gli “spaguettis con jamon”. Mi concentro e cerco di cancellarne il nome dalla memoria, cercando di immaginarlo un piatto tipico cubano. Il potere dell’immaginazione non può però distrarmi a lungo dalla poltiglia che mi si impasta in bocca, al sapore di formaggio filante, prosciutto cotto, succo insapore di qualcosa di rosso e semola scotta in acqua insipida. Detesto lasciare il cibo nel piatto ma per evitare epiloghi imbarazzanti mi arrendo al fondo paludoso dei miei spaguettis.

Nel ristorante italiano incontro un compatriota, Paolo da Como, con cui condivido una birra e scambio opinioni su Cuba, sui posti che abbiamo visitato, sulle ragazze indigene e sui programmi per la notte dell’ultimo dell’anno. Mentre siamo al tavolo, come succede a Benigni nel film “La vita è bella” (che tutti a Cuba amano) incontro e saluto tutte le persone di Cienfuegos che ho conosciuto nelle ore precedenti: Rolando il bici tassista, le 3 niñas e José Alberti Vitale, che viene al tavolo e rinnova il suo invito, questa volta a casa sua per il dopo cena. Paolo non trattiene la curiosità «ma da quanto stai qui a Cienfuegos?». A differenza del film, io e Paolo non ci sposeremo. Ma ci rincontreremo di nuovo lungo il nostro viaggio.

Il sole tropicale che picchia senza sconti dalle 9 mi ha arrossato il viso e la faccia. Me ne torno a casa per rinfrescarmi con una doccia. Attraverso il terrazzo che conduce verso la camera e faccio la conoscenza di tutta la famiglia di Maria Antonia: zio, nipote, padre e madre. Per il cenone di capodanno, che a Cuba riunisce tutta la famiglia, sono ospite di Rafael e Mary. Mangio e brindo al nuovo anno insieme a loro. Maria Antonia contestualizza la ricchezza delle portate «questo che vedi in tavola è quello che si mangia il 24 e il 31 dicembre». In un misto di ingenuità e voglia di rendermi simpatico rispondo «e il 25 no?». La mia battuta provoca l’ilarità dei miei commensali che tra le risa mi spiegano «si lavora un mese per queste 2 cene» e poi arriva la spiegazione antropologica delle risate «noi Cubani siamo così: non sappiamo se domani abbiamo il pane ma ci ridiamo sopra. Oggi però si è mangiato tanto e siamo contenti». La cena finisce presto e ho tempo di fare due chiacchiere con Anabel. Anabel è la figlia di Mary e Rafael. Ha 28 anni, una figlia di 4 e un ex fidanzato a L’Avana che viene a visitare la piccola quasi ogni settimana. Parla un buon italiano perché dopo averlo studiato lo ha praticato in Italia per qualche mese, ospite a casa di una sua amica. Anabel è medico, visti gli stretti rapporti di collaborazione tra Cuba e Venezuela andrà lì a fare pratica per 2 anni e poi vorrebbe specializzarsi in “neonatologia”, la branca della medicina che cura i neonati dagli 0 ai 28 giorni di età. Guadagnerà 25 dollari al mese, se è brava 30, se farà carriera 50. Non le interessa la politica e non le disturba pensare che Fidel sia ricco perché ha fatto tanto per il paese. «E se dopo Raul Castro arrivasse il capitalismo?» ne sarebbe ovviamente felice perché lei e sua mamma guadagnerebbero molto di più come medici. «Allora ti interessa la politica…» insinuo sorridendo. «Ma questa non è politica, è come vivere!». Sono di nuovo al tappeto, per la seconda volta in poche ore. La coscienza civica è un muscolo ancora atrofico nelle menti cubane e non vedono relazione tra l’operato de “i capi”, come li chiamano loro, e la vita quotidiana.

È arrivato il momento di andare a divertirsi e a celebrare l’arrivo del 2014. Anabel “la rubia” si veste di tutto punto, dà un bacio alla piccola che già dorme da un po’ e partiamo a piedi per il club Cienfuegos. Dopo musica dal vivo e spettacoli di cabaret, parte la musica: salsa, reggaeton e pop internazionale. Per buona parte della serata rimango ipnotizzato da una ragazza di fronte al nostro tavolo. Il dj cambiava musiche e ritmi e nel tempo in cui realizzavo che la canzone era cambiata, lei aveva già trovato il passo giusto, l’ancheggiamento perfetto, il movimento ritmico delle spalle e il miglior ondeggiamento della testa. Come se ne avesse studiato le coreografie di tutte le canzoni, da sempre. Balliamo fino alle 3 e torniamo a casa seguendo il flusso del Prado. Mentre Anabel sistema con una smorfia di dolore il caraibico plateau delle grandi occasioni, sopraggiunge un complimento inaspettato «tu si que bailas». L’effetto congiunto dei miei e dei suoi mojito mi aveva reso un ballerino, nel paese in cui durante il conto alla rovescia per il nuovo anno le persone si alzano e “sculettano” a ritmo, con movimenti che in Italia richiederebbero l’intervento di un coreografo. Metto in bacheca la finta laurea di ballerino ottenuta alla Escuela de mojitos de Cienfuegos e inizio tronfio il mio 2014.

IL POPOLO DEVE ESSERE ORGOGLIOSO: HA LAVORATO BENE E HA PRODOTTO TANTO. QUESTA è LA VERA VITTORIA – 1 gennaio

Mi alzo con calma alle 10 e dopo la colazione saluto quella bella famiglia che mi aveva caldamente ospitato per 2 giorni. La “dueña” di casa si oppone strenuamente quando chiedo di pagare la cena dell’ultimo dell’anno «era una cena en familia». Ringrazio e prometto loro di inviargli per posta elettronica le foto scattate. Arrivo con un bici taxi all’autostazione di Cienfuegos e ricevo da subito un’offerta bislacca dal sosia di Marcellus Wallace di Pulp Fiction «vuoi un taxi per Trinidad allo stesso prezzo del bus? Allora trova altri 2 passeggeri». L’offerta è allettante come curare una carie. Compro il biglietto e mi imbarco nell’autobus con altri 49 stolti senza il fiuto degli affari. Il vano bagagli del pullman è proprio sotto di me e mentre cerco conferma che il mio bagaglio affronterà il mio stesso viaggio, scorgo con grande sorpresa Marcellus Wallace. L’uomo che vende passaggi in taxi, lavora nell’autostazione e sta stivando le valigie nel pullman. Un conflitto di interessi che comunque non pare logorarlo troppo.

La mia avventura a Trinidad inizia nel modo più classico: «Dov’è questo hotel?» «È lontano. Meglio se prendi un taxi.» Già, a Cuba tutto è abbastanza lontano da meritare una corsa in taxi. L’hotel di Trinidad mi riserva una sorpresa: una freschissima piscina. Giù lo zaino dalle spalle e sono già a bagno. Verso le 16 mi incammino per la città per cogliere le ore del tramonto che tingono di colori spettacolari le già variopinte facciate del centro storico. Quando alle 18.30 la luce inizia a diventare fioca e stanca, mi siedo alla Casa de la Musica sulla scalinata di Plaza Mayor. Lì conosco Paolo e Carlo da Mariano Comense. Siamo esattamente complementari nei luoghi visitati a Cuba e ci scambiamo consigli. Paolo e Carlo, detto “Charlie”, hanno 25 anni ma hanno già visto una bella fetta di mondo. Sono ragazzi affabili e di cuore, qui a Cuba hanno accompagnato in macchina 2 ragazzi cubani, mai usciti dalla loro città, da Santa Clara a Santiago de Cuba, pagando loro vitto e alloggi. I nostri 3 stomaci viaggiatori rivendicano a attenzioni e ci mettiamo in marcia. La proprietaria di un ristorante cubano-spagnolo mi irretisce furbescamente in una discussione in cui secondo lei io sarei spagnolo. E lei lo sa bene perché ha sposato uno spagnolo che «per la fine dell’anno è andato in Spagna e ha lasciato la negra qui a lavorare» ci spiega ridendo. Diamo ascolto alla fame e fiducia alla simpatica ristoratrice. Mangio un petto di pollo ben cucinato e Charlie mi fa scoprire la yuca, un tubero simile alla patata ma più saporito. Passiamo a berci un rum alla Palenque de Los Congos Reales ma la bella cantante terrorizza il pubblico chiamando alcuni turisti sul palco a improvvisare movenze di bacino. Paolo si defila sempre di più. Fino all’uscita. Andiamo quindi a ballare a La Cueva, una meravigliosa discoteca ricavata in una grotta naturale e frequentata per lo più da giovani cubani che oltre ai classici della loro terra conosco a memoria i pezzi di Lady Gaga e Christina Aguilera. Conciato vistosamente da turista che non fa una doccia dalla mattina, sono oggetto delle grazie di sedicenti maestre di salsa. Specialmente di Beatriz, una bella ragazza “mulata” che senza giri di parole offre a “cifre standard per Trinidad” ben più di due passi di salsa. A Paolo e Charlie rimangono dopo poche ore di sonno prima di rimettersi in macchina. Lasciamo la grotta e ci salutiamo.—-

2 gennaio

Esco dalla camera alle 9.30 giusto in tempo per approfittare della colazione. La mia prima attività mattutina è inseguire come un paparazzo le pose delle salamandre che si sono impossessate del giardino. Non le avevo mai viste dal vivo ma mi piacciono da subito: muscolose, impettite col busto, goffe e rumorose quando tra i cespugli portano a spasso la loro coda riccioluta. Parto a piedi in cerca della biglietteria Viazul per comprare il biglietto per Santiago. Purtroppo non c’è posto fino al 5 gennaio e così mi faccio dirottare dal destino a Santa Clara. Da lì vedrò cosa fare. Mi riparo dal sole a la Casa de la Trova, dove l’orchestrina cubana fa danzare le coppie a ritmo di salsa. Leggo dalla guida qualche informazione in più sulla mia nuova tappa e il tempo scivola senza che me ne accorga. Al tavolo vicino a me siede “El sabio”: un “negro” di circa 60 anni. Scomoda teologi, filosofi ed evangelisti per sostenere una tesi che con molto rammarico non riesco a decifrare. Martin Lutero, Luca l’evangelista, Cartesio sono citati con voce greve e senza riverenza al cospetto dei suoi compagni di rum che lo ascoltano ammirati. Mi avvio stancamente sulle salite che mi separano dall’hotel e d’improvviso realizzo lo scopo di quelle persone che girano la città in cerca di lattine di alluminio. Mi accorgo soltanto dopo diversi giorni che le avevo sottocchio che le stelle ornamentali appese fuori dalle case non sono altro che delle lattine tagliate e arricciate ad arte.

Gli abitanti di Trinidad sono ospitali e quando con lo sguardo vai ficcanasare dentro le loro case ricevi spesso in cambio un gesto di saluto e un «happy new year!». Dopo qualche scambio di auguri incontro una decina di negretti di 3 o 4 anni disposti in fila e pronti a un gioco simile a ruba bandiera. Il primo, il più intraprendente, appena mi vede pronuncia la formula magica «Hola! Una caramela?». Dopo di lui gli altri seguono l’esempio e danno origine a un canone per voci bianche che si inseguono «Hola! Una caramela?». Qui le unghie si fanno presto. Arrivo in hotel e il canto delle sirene che proviene dalla piscina non arriva nemmeno al ritornello per convincermi ad immergermi. Per un problema alle tubature non ho l’acqua per la doccia e ne approfitto per passare in reception a prenotare il mio prossimo pernottamento e condividere con le receptionist l’olezzo del cloro. Prendo intanto un mojito al banco, dietro il quale Lester si ricorda di me e da lontano mi saluta. Lester è il barman dell’hotel che il giorno prima avevo aiutato a decifrare una richiesta di un cliente americano e con cui avevo scambiato qualche parola. È curioso di sapere cosa penso di Cuba e dei cubani e se quello che ha imparato dalla TV sull’Italia e sulla storia dei Romani è vero o meno. Mi fa I complimenti per lo spagnolo ma ridimensiono subito l’elogio quando uno dei possibili termine di paragone, una coppia canadese alla mia sinistra, è costretta a indicare le bottiglie per ordinare un cocktail. Lester mi racconta di quanto i Cubani abbiano trasformato lo Spagnolo con termini che neanche uno spagnolo potrebbe comprendere. E mi cita subito un esempio didattico. Siccome molti guajiros (contadini) portano i pantaloni con 4 tasconi laterali, che chiamano pantaloni “quatro puertas”, oggi il nome dei pantaloni è diventato un sinonimo di “rozzo”. Prima di andarmene mi chiede l’email perché gli piace essere in contatto con gente “dal mondo”. E magari se un giorno ritornerò a Trinidad sarebbe contento di ospitarmi. Non certo per amicizia. Quando gli chiedo la sua email mi risponde che non ce l’ha, chiederà a una sua amica di potermi scrivere perché «estamos un poco limitados aquí». La giornata scivola via letargica fino a sera. Rientrato in camera, riesco finalmente a fare la tanto agognata doccia. È l’ora del telegiornale e Cubavisiòn mi aiuta a comprendere meglio Cuba: 1. “Revoluciòn” è un sinonimo della forma di governo cubano. Pensavo che fossero dei nostalgici che inneggiavano a una rivoluzione avvenuta 55 anni fa, invece il grido di Raul Castro «viva la revoluciòn, siempre!» significa di fatto «viva il governo socialista». 2. Il linguaggio dei membri governativi ha il sapore delle socialdemocrazie europee dei primi del ‘900. Il comandante dell’esercito Cubano proclama con autoritaria fierezza: «il popolo di Bayamo deve essere orgoglioso. Ha lavorato bene e ha prodotto tanto. Questa è la vera vittoria.» 3. Il linguaggio del TG è fortemente propagandistico. I nuovi servizi che lo stato offre ai cittadini cubani sono reclamizzati come “un miglioramento della qualità della vita” oppure Cuba è “l’unico stato al mondo” ad offrire il servizio in questione. 4. Ogni termine inglese di uso comune non solo viene pronunciato in maniera incomprensibile (più che “false friends” sono dei veri “true enemies”) ma viene anche riscritto per la fonetica spagnola. Ne avevo fatto già le spese con “cocteil” e con “sandguic” (sandwich). Ma “beisbòl” (baseball) mi chiarisce definitivamente il concetto.

Arricchito e intriso di cubanità, ritorno in città e mangio un panino a la Casa de la Musica e assaggio il cocteil tipico cubano che Lester mi aveva consigliato di provare, la “Cha cha cana”. O qualcosa del genere. Un mix di rum, ghiaccio, miele e acqua frizzante al termine del quale realizzo perché l’Europa abbia importato solo il mojito e il cuba libre. Durante l’impazzare delle danze di salsa, Manuel mi dà il benvenuto a Trinidad. Manuel ha 30 anni ed è insegnante di inglese nel corrispettivo della nostra scuola media. Infatti ci tiene a sfoggiare il suo inglese. Mi chiede perché non sto ballando con una chica e gli rispondo che non sono molto bravo. Chiama allora Carlo, suo cugino, che è insegnante di salsa e merengue e prontamente mi mostra i passi base. La combriccola di agganciatori di turisti è simpatica e offro un giro di birre che prevedibilmente accettano. Il gruppetto che si è creato travolge anche una famiglia di Amsterdam: la figlia, giovane e carina, viene fatta roteare al ritmo di salsa da Manuel, un altro ragazzo si prende cura della madre 60 enne che si ride e si diverte come una pazza, il padre e io siamo a fianco di Carlo che aumenta il coefficiente di difficoltà dei passi. Da la Casa de la Musica ci spostiamo di nuovo a La Cueva, la discoteca nella grotta che è a 500 metri dal mio hotel. Baratto la loro compagnia e la loro riconoscenza per l’ultimo giro di birre. Dentro il locale faccio varie conoscenze. La più curiosa è Andreas di Norimberga, che viene deciso verso di me «Ti ho visto a L’Avana, eri nel bar con 2 ragazze! Alla fine come è andata?». Incontro nuovamente anche Beatriz che, dopo avermi chiesto soldi con una scusa lacrimevole di pessima fattura, si veste dei panni dell’unica persona di cui mi dovrei fidare e mi mette in guardia dai ragazzi a cui ho pagato le birre «stai attento al cellulare». In realtà Beatriz non mi dice niente di nuovo. Uno dei ragazzi mi aveva precedentemente invitato a fare una foto allo spettacolo che aveva anticipato la musica «non hai il cellulare? Dai fai una foto!» La richiesta era troppo poco raffinata per non destare sospetti ma tiro fuori comunque il cellulare e scatto una foto. Con la coda dell’occhio guardo le reazioni del “mi amigo” che sfrutta quel momento per studiare bene l’oggetto acclamato. Lo ripongo vistosamente in una tasca dei pantaloni, poi vado al bagno e lo ripongo nella tasca opposta, quella chiusa con un bottone. La reazione de “mis amigos” è altrettanto sospetta quando mi vedono parlare con Beatriz e mi incalzano «che ti ha detto?» «mi chiedeva dei soldi ma per stasera non ne ho più, li ho finiti». Davanti ai loro occhi svuoto il portafoglio che sputa 1 CUC e qualche spicciolo «anzi, tenete. Se voi che siete cubani riuscite a farvi dare una birra questa è l’ultima che posso offrire». Già, se sei cubano le cose costano metà o un terzo. In realtà in bagno avevo anche infilato le banconote in una tasca interna lasciando solo qualche moneta. Confuso e a disagio, saluto tutti e mi incammino in direzione del mio hotel, opposta a quella dei miei compañeros. Il più timido del gruppo, Israel detto “El Chino”, si offre di accompagnarmi in spiaggia all’indomani. Mi vuole parlare “da amigo” e spiegarmi come funziona veramente Cuba. Purtroppo ho esaurito anche i fondi di fiducia da investire in relazioni umane a Cuba e quella sarà l’ultima volta che vedrò El Chino e los compañeros de Trinidad.

“A SANTIAGO INCONTRERAI LA DONNA DELLA TUA VITA” – 3 gennaio

Metto la sveglia presto con l’idea di prenderne un taxi e andare a vedere Playa Ancòn ma il sonno che sopraggiunge dopo la colazione e il cielo completamente coperto di nuvole mi dissuadono. Mi informo allora per andare alla cascata ma non farei in tempo, alle 14.00 devo partire per raggiungere l’autobus per Santa Clara e non me la sento di rischiare. Faccio allora una bella doccia, ricompongo la mia valigia e mi stendo sul letto a guardare la TV cubana in attesa che ritorni il sole. Ritorna invece la donna delle pulizie che bussa alla porta e fortunatamente mi strappa dal sonno in cui ero scivolato. Raggiungo l’autostazione di Trinidad e mi imbarco nell’autobus per Santa Clara. Dopo circa 5 ore ero nella mia “cabana” a l’hotel Los Caneyes, un posto bellissimo alla periferia della città, ricco di vegetazione e con una sontuosa piscina. Prendo una birra nel bel giardino vicino alla piscina e la mia attenzione è calamitata dall’esatta scientificità della lezione di portamento che un uomo, che in quanto a femminilità aveva sicuramente molto da insegnare, impartiva a una neo-modella. In un paio d’ore sarebbe iniziata una sfilata all’hotel Los Caneyes e la neo modella aveva bisogno di un corso accelerato. L’hotel è lontano dalla città e do un’occhiata intorno se qualche gruppo aveva la mia stessa esigenza di prendere un taxi per la città. Vedo 3 ragazzi seduti al tavolo che parlano Inglese Americano e sondo se più tardi andranno in città. La mia richiesta è però troppo “mondana” per la comitiva. I 2 pastori protestanti Jordan e Brian e il seminarista Mike non hanno bisogno di un taxi e mi invitano a sedermi al loro tavolo. Mi emoziono quando lo chiamano «Padre Brian». Avevo sempre desiderato conoscerne uno. Vengono da Dallas, Texas e sono lì in vacanza: uno dei loro professori gli ha consigliato di vedere Cuba. Affondano subito alla parte per loro più interessante: il rapporto con la religione in Italia. Gli racconto la situazione attuale condita dalle mie opinioni personali: l’anacronismo e la lontananza dai precetti religiosi da parte istituzioni ecclesiastiche e dei suoi leader, la commistione tra politica e religione, la voglia di cambiare e di infilare nel tritacarne “tutto ciò che è sempre stato” ha allontanato una buona parte dei giovani. Un’altra parte di giovani si è invece semplicemente laicizzata. Tutti mi ascoltano con grande attenzione, come bambini avidi di conoscere il mondo. Mike, il più loquace, fa un di riepilogo del mio pensiero in un inglese molto più efficace e trova molto interessante quello che gli ho appena detto perché la stessa spiegazione potrebbe applicarsi a quello che succedendo non solo in Italia ma in tutto il mondo. Anche a Dallas. Ci prendo gusto a fare il guru e li stordisco con un ultimo colpo di coda «sapete cosa penso? che le religioni hanno terreno fertile in 2 tipi di società: quelle che vivono nel benessere e quelle che vivono nella miseria perché entrambi, per motivi diversi, ne hanno bisogno. Per una società come quella europea, che il benessere lo sta perdendo, la religione viene considerata un accessorio dannoso». «Wow» interrompere il silenzio Mike «How deep». Hanno anche diverse curiosità sull’Italia, tipiche di chi la conosce solo tramite dei racconti. Con gentile fare pastorale mi fanno sentire apprezzato quando gli racconto che sono a Santa Clara perché non ho trovato posti per Santiago «è stata una fortuna, altrimenti non avremmo potuto conoscerti». Si sono fatte le 20. Saluto i miei amici protestanti e prendo il taxi per la città.

Da lì a poche ore le mie frequentazioni avrebbero avuto una svolta: sarei stato seduto a un tavolo con cui cantante heavy metal, con una “espiritualista” che legge il futuro dalle conchiglie e un insegnante di salsa senza denti. Ma la mia serata a Santa Clara inizia a la Marquinita, dove l’attempata orchestra dispensa salsa per principianti. Regla, nera e giunonica 50enne, mi invita a ballare. Accetto dichiarando però lo stato primordiale dei miei passi. Regla mi passa alle cure di Crespo, insegnante di salsa che mi fa esercitare con le “vueltas”. Seguirlo nel ballo è la parte più semplice perché quando mi impartisce i comandi vocalmente rivela un problema logopedistico e a stento comprendo cosa mi stia dicendo. Per tentare di articolare meglio le parole, spalanca la bocca a ogni vocale e l’arcata dentaria superiore vince in presenze quella inferiore per 6 a 1. Termina la musica e mi invitano al loro tavolo. Regla mi prende in simpatia e mi racconta fatti di vita privata come se fossi un nipote. Ci spostiamo a El Rapido, la catena di fast-food cubana, e come dei veri Cubani compriamo (con i miei soldi ovviamente) una bottiglia di rum da condividere. Al tavolo si aggiunge anche Rodrigo: blanco, capelli lunghi raccolti in un codino, maglietta e pantaloncino neri, all-star ai piedi. È un chitarrista heavy metal di Santa Clara che nel 2004, mi racconta soddisfatto, ha suonato a L’Avana con la Banda Bassotti. Si siede con noi e Regla lo rimprovera per qualcosa che non riesco a capire. Rodrigo la chiama “Madrina”. Regla mi spiega che lei è un espiritualista e la gente la ferma per Santa Clara chiamandola Madrina e chiedendole di leggerle il futuro. Rodrigo è uno di questi e con il suo look truce pende dalle labbra di Madrina quando lei lancia sul tavolo 4 conchiglie. Inizia quindi il rito: Madrina si fa baciare le mani con dentro le conchiglie, chiede a Rodrigo di pronunciare il suo nome per intero e mettere sul tavolo delle monete per gli dei. Ad ogni lancio le 4 conchiglie raccontano a Madrina la vita di Rodrigo, che in uno stupito silenzio annuisce e si rispecchia nelle analisi di Madrina. Rodrigo ha una moglie canadese ed è preoccupato da questa relazione. «Tutto andrà bene» lo tranquillizza Madrina «se tu farai quel passo in avanti di cui avete già parlato». Rodrigo sorride guardando nel vuoto, senza chiedere spiegazioni. Forse sa di cosa parla Madrina. Se era un trucco per fregare turisti ha funzionato perché ora è il mio turno: Madrina leggerà il mio futuro nelle conchiglie. «A Santiago incontrerai la donna della tua vita. Appena la vedrai capirai che potresti innamorartene. Sarai tu a sceglierla, non lei. È una morena. E come te non sta cercando nessuno perché non crede che potrà trovare qualcuno». E dal palmo della mia mano invece vede un matrimonio a 35 anni, 2 figlie femmine e una vita lunga e tranquilla. Ok, Madrina mi ha sistemato per la vita. E Crespo, innescato dal rum, esulta per la positività delle profezie battendo le mani e i pugni sul petto. Guardo i miei compagni di tavolo e mi immagino la scena vista da fuori: Filippo è in un fast food cubano di Santa Clara a bere il rum con una “espiritualista” che gli sta leggendo il futuro dalle conchiglie, con un chitarrista heavy metal pensieroso e un insegnante di salsa senza denti che si batte i pugni sul petto. Il rum rovina il surreale quadretto che si era creato. Madrina inizia a farmi delle avances e a chiedere un regalino per la nipote. Crespo in segno di ospitalità mi presenta delle chicas che si dimostrano ben disposte nei confronti del turista. Peccato che la più grande del gruppo dimostrava poco più 16 anni. Infilo sottobraccio il mio quadretto surreale rovinato, saluto Madrina dicendole che se dovessi sposarmi con la morena di Santiago la chiamerò, e saluto Crespo, che mi accompagna al taxi verso il mio hotel.

MARIA, SEDUTA SU UNA SEDIA A DONDOLO SCALCINATA, NEL MEZZO DEL SUO UMILE SALOTTO SENZA PAVIMENTO Dà LEZIONI DI VITA A UN PICCOLO TURISTA – 4 gennaio

Mi alzo contrariato. La superficialità dei rapporti a Cuba inizia ad irritarmi. Tutti sono amici di tutti, tutti si stringono la mano o si danno un bacio. L’apparente affettuosità nasconde però un sistema di scambi di favori e nient’altro. Più favori fai a qualcuno e più gli sei amico. E i favori sono quasi tutti di natura materiale. In questa pochezza di veri rapporti umani, il dio denaro fa inginocchiare tutti e li rende schiavi. Smetto di rimuginare e vado a far colazione. Forse sono solo deluso da quello che pensavo fosse “l’ospitalità Cubana”.

Dopo la solita colazione (omelette e frutta) con interessanti innesti di carne insaccata cotta in vari modi, chiedo aiuto alla reception per prenotare hotel a Santiago e un autobus per arrivarci. Dopo una decina di tentativi ottengo almeno la prenotazione dell’hotel, per l’autobus dovrò tentare la sorte andandoci di persona. Smetto di ringraziare quando il centralinista mi presenta il conto di 2 CUC per le telefonate. Faccio i bagagli e lascio Los Caneyes. All’autostazione compro finalmente il biglietto per Santiago e approfitto delle 2 ore di attesa per fare una passeggiata verso il centro di Santa Clara. Lungo la strada un nuovo episodio risveglia il mio prurito mattutino. Una famiglia tiene il mio stesso passo sul marciapiede e camminiamo affiancati per qualche minuto. È una bella famiglia: il padre spinge il passeggino con una bambina piccola, la madre sta mangiando un gelato e la figlia più grande segue a piedi. Tutti sono vestiti in maniera decorosa, il passeggino è moderno e tutto fa pensare che siano una delle poche famiglie fortunate a Cuba. A un certo punto la figlia, 4 o 5 anni di età, si stacca dal suo gruppo e mi si avvicina «un dolar por favor?». Ho aspettato fino all’ultimo una reazione dei genitori. Ma non è mai arrivata. Hanno continuato a camminare, indifferenti. Con la benedizione dei genitori, qui a Cuba fare accattonaggio nasce anche come un gioco, le cui regole si sofisticano mano a mano che i bambini perdono l’innocenza dell’infanzia. No, oggi non è giornata. E per la prima volta non giro neanche lo sguardo, proseguo dritto sospirando infastidito. La mia visita parte dal celebre monumento a El Ché, prosegue per Parque Vidal, baricentro del centro storico, e prosegue fino al Boulevard. In una traversa sento delle voci femminili cantare dal vivo. Faccio capolino e scopro che era una messa religiosa che, anziché i canti gregoriani, faceva cantare alle sue giovani partecipanti dei pezzi pop. O per lo meno quella era la musicalità. Un uomo in ultima fila mi vede e mi fa cenno di entrare. Mi sembrava troppo. Scuoto il capo sorridendo e ricevo dall’uomo un biglietto. A mandarmi il messaggio è una misteriosa sconosciuta: la Iglesia Advantista del Séptimo Dìa, la quale mi lascia un messaggio di speranza. Faccio della facile ironia quando mi spiego la diffusione a Cuba di questa confessione per l’attrattività che il suo nome esercita sui Cubani: il giorno in cui si riposò. Sì, oggi sono decisamente irritato.

L’autobus per Santiago finalmente salpa. A Cuba odorano sempre tutti ma hanno due grandi vizi: sputare a terra e tirare su con il naso. Lo sputo per fortuna rimane una prerogativa esclusivamente maschile. Invece, il tirare su con il naso è unisex. E soprattutto il rumore può risultare disgustoso ai più delicati: non è semplicemente quello di ispirazione dal naso quando c’è un eccesso di muco liquido nel naso ma è bensì quello si emette quando si stacca la saliva più densa (o il catarro) dalle pareti per farlo scendere in gola. Rumore che per i più anziani sfocia poi in un proiettile da far esplodere a terra. La prima volta che lo sentii da una ragazza rimasi piuttosto sconcertato. Ora invece sul pullman per Santiago il piccolo concerto per oboe, stimolato dal dormiveglia generale, non mi stupisce più. Durante le 11 ore di viaggio ho modo di apprezzare a pieno la gestione della climatizzazione interna dei pullman, anche questo di marca cinese “Yutong”. Essendo molto umido, gli autisti passerebbero sopra a qualche cadavere pur di non far appannare i vetri. Quindi se ti va male gli autisti sparano l’aria condizionata a 19 gradi mentre fuori sono 26. Se ti va bene mantengono la temperatura a 23 gradi sparando l’aria a 19 ogni 10 minuti. Il risultato è che chi si addormenta nei momenti di tepore si risveglia ogni 10 minuti come se gli avessero aperto un congelatore davanti al naso. E mentre io borbotto e impreco ogni volta, gli americani vanno a protestare con l’autista. I cubani invece stemperano il disappunto con un paio di ruggiti da catarro. Reazioni più emblematiche di quanto possano sembrare.

Arrivo a Santiago verso le 0.30 e alla stazione degli autobus il tassista più determinato mi vince, mio malgrado, come cliente. Mi porta alla macchina in cui sono costretto ad attendere l’arrivo di un altro passeggero, anche lui italiano. La corsa cambia rotta poco dopo la partenza: il guidatore scorge una pattuglia della polizia e preferisce aggirarla allungando il percorso. Ok, sono su un taxi abusivo. Benvenuto a Santiago. Arrivo al mio hotel, mi getto sotto la doccia e alle 1:00 sono pronto per tuffarmi nell’effervescente notte Santiaguera. Molti dei Cubani a cui avevo detto che sarei andato a Santiago mi mettevano in guardia «cuidate mucho a Santiago». Ma l’atmosfera allegra e gli ambienti luminosi della piazza di fronte al mio hotel mi tranquillizzano. In fondo è l’ultimo sabato di festa qui a Cuba, perché perderselo? Dalla curata Plaza de Marte, seguo un banco di ragazzi che nuotano nell’euforia del sabato sera. Voci sguaiate, risate e bottiglie di Corona in mano mi accompagnano lungo la discesa di via José Antonio Saco. Dopo qualche minuto di cammino faccio conoscenza con lo sguardo del gruppo di ragazzi che camminavano insieme a me. Santiago è una città a maggioranza nera, le influenze delle vicine Giamaica e Haiti sono evidenti. E non ci trovo niente di strano ad essere l’unico bianco che sta camminando in quella via. Tuttavia l’appariscenza del mio pallore non passa certo inosservata e sento diversi occhi su di me. Quando dei ragazzi alticci iniziano a schernirmi e il richiamo «ehi, turista!» inizia ad alternarsi alle risa, il pensiero che inizia a farsi largo è quello di aver sbagliato zona, luogo e momento. Sono l’unico bianco. Ma soprattutto l’unico turista.

Mi ritorna in mente la battuta che mi facevano a L’Avana «a Cuba siamo 11 milioni di persone e 6 milioni sono poliziotti». E’ troppo tempo che non lo sguardo non incrocia una divisa e mentre la cerca avidamente, si acquieta quando s’imbatte in 2 telecamere di sicurezza. Il livello di allerta si alza nuovamente quando 2 persone appoggiate sotto le 2 telecamere mi vedono, si staccano dal muro e si immettono nel flusso di persone dietro di me. La discesa mi svela la fine della mia passeggiata: intravedo il mare e le fievoli luci del porto. Mentre penso se tuffarmi in una delle strade laterali, separo nelle tasche i documenti dai soldi. Sono già pronto al peggio. Proprio in quel momento la visione della mia oasi: un fast food con delle coppie che mangiano in tranquillità. Mi fiondo dentro. Ordino una pizza e una birra e guardo defluire la gioventù festaiola.

Al termine del pasto torno verso l’hotel ripercorrendo la stessa strada al contrario. Mi sento stupido e credo che l’espressione del viso si sia distesa in un sorriso di chi irride le proprie paranoie. —

5 gennaio

«Qué hora es, amigo?» Ormai riesco a manipolare i Cubani a mio favore e me ne compiaccio. I pretesti con cui i jiniterios (agganciatori di turisti) mi fermano per strada sono principalmente due: 1) ehi, sei italiano o argentino? 2) che ora è, amigo? Quella mattina avevo girato Santiago a piedi per un’ora abbondante e avevo deciso di farmi trovare da una guida “unofficial”, ovvero un Cicerone che ti racconta la città e poi alla fine ti porta dai suoi amici per comprare rum e tabacco e prendere una commissione sull’acquisto. Infilo l’orologio che avevo risposto in tasca per evitare troppe scocciature, tengo il polso in bella vista e cammino lentamente. Miguel abbocca subito «qué hora es, amigo?». Prosegue a domandarmi di dove ero, da quanto tempo ero a Santiago, se già ero passato per il quartiere Tivolì, e mi svuota addosso un caricatore di informazioni procedendo a passo rapido verso i posti che voleva mostrarmi. Con Miguel però chiarisco subito gli accordi per evitare insistenze estenuanti a visitare il Museo del Ron Emilio Bacardi o simili: «Miguel, non compro né sigari né tabacco ma se mi fai da guida posso darti una propinita». Lo sprone funziona perché mi racconta con la sapienza di una guida ufficiale la storia dei vari luoghi, della casa di Fidel, di dove uccisero i manifestanti contro il governo di Batista, del quartiere francese Tivolì, della Casa de Tradiciones, del carnevale, della raffineria di petrolio venezuelana all’interno della baia e degli edifici del porto. Miguel è in effetti organizzatore di eventi culturali a Santiago perciò, anche se a Cuba la differenza tra un evento culturale e una “fiesta” è molto sottile, la sua conoscenza della città non è improvvisata. Come ricompensa offro a Miguel una birra per reintegrare i liquidi e 5 CUC per reintegrare le finanze familiari. Al temine del tour guidato mi trovo a Parque Cespedes. Un barbiere, sull’uscio della suo negozio, davanti a quella che fu la casa di Velasquez, fa il gesto di toccarsi la barba e mi invita ad entrare. Non mi faccio pregare più di tanto e richiedo un taglio di capelli visto che la mia capigliatura stava assumendo uno stile barocco-eclettico con contaminazioni dal regno vegetale. Dopo avergli fornito qualche indicazione di massima, l’uomo inizia a tagliare con cura. L’atto di fiducia è massimo perché non ci sono specchi frontali e non so se mi stia facendo un bassorilievo sulla nuca con scritto “turista” o mi stia rendendo il più tamarro di Santiago. Il risultato finale è però accettabile: sono un europeo che vive a Cuba da qualche anno.

Continuo a camminare e mi invaghisco dell’ombra del 2°parco di Santiago. Mi pianto su una panchina e studio la gente. Elio invece usa la tattica numero 1 «italiano o spagnolo?». «Italiano» «Ah! Uno dei miei migliori amici è Italiano e vive proprio qui…» E così inizia la nostra lunga chiacchierata. A differenza degli altri lui non sembra un jiniterio perché parla delle sue avventure passate con il gusto di raccontarle, mi parla del suo lavoro, chiede del mio e nessun argomento offre pretesti per scucire denaro. Elio è un fortunato rispetto ai suoi connazionali. Precedentemente lavorava per il governo, era il responsabile degli approvvigionamenti delle bodegas di Santiago e guadagnava 15 dollari al mese. Il suo amico italiano Salvatore gli ha poi comprato per 1500 euro i macchinari per fare il gelato e ha potuto mettersi in proprio, riuscendo a guadagnare 30 dollari al giorno. Una fortuna qui a Cuba. Dice che però l’avventura del negozio è finita male perché coi suoi guadagni aveva destato l’invidia di tanti ed era arrivato a dover pagare una persona che vigilasse sui macchinari perché avevano più volte tentato di danneggiarglieli. «Questa è Cuba. C’è tanta invidia per chi è più fortunato». Ora è comunque più fortunato di tanti perché ha venduto i macchinari per il gelato e ha comprato un carretto ambulante per friggere i churros, una sorta di patatine. A tutti gli effetti è un imprenditore perché paga un dipendente per andare a vendere i suoi churros. Mi racconta anche aneddoti delle sue avventure passate con una benestante (a Cuba è “rica”) bancaria olandese, che però era a caccia di virgulti più giovani, e una bella norvegese a cui Elio aveva sempre mandato le foto di quando era più giovane. Elio mimava la faccia impietrita della poveretta quando dalla Norvegia era venuta a trovarlo e non riusciva a contenere la sua risata. «Ho capito comunque che in Europa la gente cerca le persone giovani. Qui a Cuba no, i giovani vanno anche con le persone vecchiette». Mi porta a mangiare in un posto economico dove si paga con moneta locale e mi succede una cosa senza precedenti: Elio dice alla cameriera «io pago il mio, lui paga il suo». E subito dopo rinuncia alla sua birra senza fare commenti quando la cameriera gli annuncia che non c’è più quella alla spina (che costa 25 centesimi di dollaro) ma c’è solo in bottiglia (1 dollaro). Ammiro basito la scena e Elio si sente in dovere di giustificarsi «non voglio i tuoi soldi, a me non interessa». Ci mangiamo una bistecca con riso e fagioli, un’acqua e una birra a testa. Nonostante la sua buona fede, insisto comunque per pagargli il pranzo che mi costa la fortuna di 6 CUC per entrambi. Elio ci tiene a farmi conoscere sua moglie, Maria, una bionda con gli occhi azzurri che «no parece Cubana!». Pur essendo uno dei fortunati, casa di Elio è piccola e molto povera. Mi presenta la scalinata che ha “mosaicato” lui stesso utilizzando varie piastrelle rotte e mi fa vedere la terrazza. È totalmente scalcinata ma ha grandi progetti per il futuro: realizzarci una camera da affittare. Un anno e sarà pronta a ospitarmi quando torno a Cuba, scherza lui. Mi fa accomodare nel soggiorno. Maria smette di mettere in ordine le poche cose del cucinotto e si mette a conversare con me. Maria insegna alle scuole elementari e ama il suo lavoro. È cattolica e ottimista, ha grande fiducia nel futuro perché «il tempo futuro DEVE essere migliore. Se non è così, qualcosa accadrà a renderlo migliore». Prende in prestito la citazione del rivoluzionario Malla per spiegarmi il suo ottimismo. Quando poi parla della situazione difficile che affrontano i Cubani pronuncia una frase che mi fa venire le lacrime agli occhi. «Non abbiamo le scarpe e non abbiamo il pavimento ma abbiamo i piedi per camminare. Perché non dovremmo essere positivi?» Maria, seduta su una sedia a dondolo scalcinata, nel mezzo del suo umile salotto senza pavimento dà lezioni di vita a un piccolo turista. La figlia più grande di Elio e Maria sta studiando informatica e pensano che io possa essere un buon contatto per lei. Mi chiedono la mia email così anche loro figlia potrebbe scrivermi. Elio e Maria mi vedono sovradotato (senza troppi meriti reali, a onor del vero) e mi sommergono di complimenti: intelligente, educato, poliglotta. Non lo dicono apertamente ma il mio pregio migliore è quello di essere uno straniero e un quel momento nella mia email c’è più della speranza di dare un nuovo contatto a loro figlia. Tutti a Cuba sembrano prepararsi per un futuro che aprirà loro le frontiere di tutte le terre promesse che oggi sono solo un miraggio. Si è già fatta sera e saluto Maria. Elio si offre di accompagnarmi alla via della Trocha, dove c’è una festa in strada a cui è meglio che un turista non vada solo. O per lo meno così dice Elio. La festa in effetti non annovera turisti tra i presenti ma in ogni caso è poco divertente e dopo 20 minuti risaliamo verso il centro. Ringrazio Elio, lo saluto con la promessa di sentirci via email e mi avvio verso il mio hotel. Nella piazza antistante l’hotel mi ferma Rafael con il pretesto “italiano o spagnolo?” «italiano» «mio fratello studia ingegneria idraulica a Milano…» Rafael è un ragazzone nero di 40 anni che fa il cuoco in un ristorante lì vicino e quando la sera esce alle 22 ha voglia di andare in giro a divertirsi. Mi offre un caffè per avere una spalla attiva al suo fianco e mi fa cambiare rotta: si va alla Casa de la Musica. Prima però facciamo una cosa «molto cubana» come dice Rafael. Compriamo una bottiglia di rum, Rafael se la infila nei jeans e mimetizzandola con il riempimento naturale della sua pancia entriamo spavaldi. Dopo il classico spettacolo di cabaret inizia la musica di salsa e reggaeton. Rafael, che sta abusando bestialmente della bottiglia di rum, mi presenta delle sue amiche che come in un tutorial mi mostrano i passi giusti di ogni canzone. Durante il mio corso privato irrompe Nairovis, la bella “morena” dal vestito azzurro che era seduta vicina a me. Il suo linguaggio del corpo è abbastanza chiaro, vuole essere lei la mia insegnante. Rafael mi mette prontamente in guardia «puta…» In realtà Nairovis non è una prostituta, è una ragazza di 23 anni che per un anno ha aspettato un uomo italiano che aveva frequentava a Cuba e che le prometteva un futuro. Poche ore prima aveva scoperto che il suo uomo si era spostato con un’italiana. Si sfoga con me cercando di spiegarmi in italiano quanto è «farabuto» il suo caro Maurizio e china il capo all’indietro allungando ancora di più i suoi lunghi capelli corvini quando non riesce a trattenere le lacrime di rabbia, delusione e tristezza. «Non sa cosa mi ha fatto». Perché per gli standard cubani la 23 enne Nairovis è una zitella, che deve aver paura a parlare con i turisti dato che la polizia a Santiago ha adottato il pugno di ferro per estirpare la piaga del turismo sessuale. «Fuori da qui ho paura a parlarti perché pensano che sia una puttana. La polizia mi arresterebbe e mi registrerebbe. Qui funziona così». Nairovis, Rafael, le sue amiche ed io balliamo e parliamo fino a notte inoltrata nella Casa de la Musica. Prendiamo un taxi insieme e ognuno raggiunge la propria destinazione. Rafael mi invita a mangiare da lui prima di partire «sono io il cuoco, da me mangi senza spendere un CUC!». Nairovis mi invita invece a casa sua al compleanno della madre. La mattina passerà in città a comprare il pollo e le bibite per la festa e mi dà appuntamento nella piazza di fronte al mio hotel. «Però ti avviso, casa mia è molto povera». Accetto senza esitazione entrambi gli inviti e do la buonanotte ai miei nuovi amici Santagueri. —-

6 gennaio

Nairovis mi aspetta seduta su una panchina. Andiamo insieme a comprare pollo, gazzosa e una bottiglia di spumante per il compleanno della mamma che offro con piacere. Nairovis ha un fratello minore che vive con il padre, separato anni prima della mamma, e una sorella, anch’essa più piccola. Essendo la più grande dei tre è lei a fare da co-mamma ai suoi fratelli. Abita a Altamira, un sobborgo di Santiago. Per 2 pesos cubani ci facciamo dare un passaggio da due “motores” e bardati di casco ci inerpichiamo verso Altamira. Una volta arrivati riaffiora il ricordo di quel sobborgo, in effetti l’avevo già sentito prima. Me ne parlò Miguel, la guida “unofficial”, che dal quartiere Tivolì mi mostrava la favela di Santiago, e mi spiegava che le favelas a Cuba non sono sinonimo di violenza come in sud America, sono soltanto un modo per sopravvivere quando non si ha una casa. Mi trovavo proprio lì, nella favela di Altamira. La casa di Nairovis sorge su un piccolo terrazzamento vicino alla cima della collina, i muri sono fatti di lamiera e il pavimento è terra battuta. «Mama, soy con un amigo!» annuncia Nairovis. La porta si apre con fatica. All’interno della casa il sole penetra dagli interstizi delle lamiere e dei fogli di luce si insinuano da sotto la porte creando un cinematografico gioco di chiaroscuri. L’ingresso è adibito alla preghiera della Santeria e allo svago: su un vecchio mobile sono posizionate delle candele bianche e un cartoncino consumato dal tempo e dall’umidità che ritrae una figura simile a una Madonna. Dalla parte opposta della stanza c’è invece un vecchio televisore con lettore DVD, che in quel momento funge da stereo e suona Laura Pausini in Spagnolo. Nairovis le canta tutte a memoria. La seconda e ultima stanza è invece cucina e camera da letto. L’unico oggetto che si distacca dalle pareti è un vecchio letto matrimoniale. «Qui dormiamo io e mia sorella», mi spiega Nairovis «mia mamma dorme nella casetta qui a fianco», indicandomi un tugurio che pensavo fosse adibito agli animali del cortile. Su un lato della stanza c’è un lavandino senza acqua corrente che spurga direttamente sul clivio della collina. Accanto c’è un piano forse di acciaio su cui sono disposte le poche stoviglie. Dall’altro lato della stanza, il più buio, c’è invece un mobile con uno specchio a mezzo busto, un paio di prodotti di cosmetica, una sacchettta con dei trucchi e qualche accessorio che le 3 donne di casa usano per farsi belle e quando escono e fuggono dalla miseria della propria casa. Faccio la conoscenza della madre che parla uno Spagnolo un po’ più ermetico per il mio orecchio impreparato, forse usa una forma dialettale e sono costretto a chiederle di ripetere praticamente ogni frase. I fornelli con cui è intenta a preparare il pranzo sono di fuori e sono delle costruzioni artigianali di pietra che ospitano al loro interno il fuoco. Sopra di queste borbottano delle pentole simili a delle teiere di ghisa. Passano a fare gli auguri alla mamma amici e parenti e i preparativi vanno per le lunghe. Avendo il bus per Varadero dopo poche ore non potevo più aspettare. Mi assicuro con Nairovis di non offendere nessuno andando via prima che venisse servito il pranzo ma a Cuba pare che questo tipo di formalismo non sia nemmeno contemplato. Soprattutto ci tenevo a chiarire che le motivazioni per cui volevo andarmene erano legate all’orario e a nient’altro. Nairovis mi accompagna addirittura verso l’hotel e insiste perché conosca sua cugina e il marito, che abitano proprio vicino all’hotel. «Te li faccio conoscere e poi te ne vai». Accetto. In fondo 10 minuti li ho. La cugina vive in una casa che da fuori appare deteriorata come molte ma al suo interno rivela una condizione economica agiata, raggiungibile nel solo modo legale a Cuba: percependo uno stipendio in un altro Stato. Suo marito infatti, Luca, è un musicista romano che va spesso a suonare a a Los Angeles. I ricompensi ottenuti negli Stati Uniti consentono alla famiglia un buon tenore di vita. Luca è 14 anni che vive a Cuba. E che non torna in Italia. «Non mi manca l’Italia. Che torno a fare? Tutto costa tanto, dove vive mia madre non c’è niente… Pago l’aereo a mia madre e quando vuole sta qui con noi a Santiago. Con la pensione che ha vive pure meglio». La loro figlia, una splendida mulattina, si è vestita ed è pronta per andare a scuola. Prima di andare via dà un bacio sulla guancia a tutti, compreso me. Nairovis approfitta di un momento in cui i padroni di casa sono di là per esporsi piuttosto chiaramente nei miei confronti. In fondo me l’aspettavo. Nairovis fa fatica a capire che un ragazzo scelga di essere “soltero” (single) per sua volontà. Quello che certamente recepisce è che quello che le offro è la mia amicizia. Ci avviamo nuovamente verso l’hotel, davanti al quale ci scambiamo le email e ci abbracciamo. Da amici. «Que te la pase bien, amiga». Prima di lasciare Santiago mi rimane da onorare la promessa che avevo fatto a Rafael e mi incammino verso la Casa del Son dove lavorava. Non riuscendo a ritrovare il posto chiedo ai negozianti vicini di “Rafael el cocinero” fino a che uno mi risponde «Rafa è amico mio, guarda è lì fuori. Rafa!». Rafael mi fa entrare alla casa del Son e mi offre una coscia di pollo con il riso. Per ripagare il favore gli offro una birra che beviamo insieme guardando lo spettacolo di cabaret. Rafael apprezza la visita e mi impone amichevolmente di passare da lui se mai tornerò a Santiago, magari con in dote 2 o 3 delle magliette che indosso «e qui mangerai sempre senza pagare un CUC!». Ci tiene al suo slogan. Saluto Rafael e saluto Santiago, è tempo di imbarcarsi nel pullman per Varadero.

LA LEGGE DELL’EQUILIBRIO TERMICO – 7 gennaio

Il viaggio da Santiago a Varadero si svolge di notte in maniera serena. Mi stupisce la solennità e la teatralità con cui l’autista, quello a riposo dal turno di guida annuncia che non farà fermate diverse da quelle previste. Si scusa con i “compañeros” a cui aveva dato la sua parola ma questo «es un reglamento y una disciplina». Se nelle citazioni è di rivoluzionaria ispirazione, nella forma è altrettanto vicino al comizio politico: voce impostata, pause per enfatizzare i concetti, intonazioni delle frasi che stimolano gli applausi. A turbare la quiete del viaggio arriva un diverbio tra l’autista politico e un passeggero che già aveva dato in escandesceza prima di salire per motivi che non sono riuscito a cogliere. La disputa finisce con il passeggero che scende prima delle fermate regolari e l’autista lo consegna a un poliziotto davanti al quale il passeggero firma dei fogli e argomenta animatamente. Tuttora mi rimane un mistero quello che è successo. Arrivo a Varadero e dopo un’ora di cammino trovo un hotel disposto ad accogliermi. Il tempo è inclemente con chi cercava sole e spiagge perché una pioggia fina e un vento freddo sorprendono gli stessi abitanti di Varadero. A dicembre, dicono, è sempre bel tempo. Per ambientarmi in quel paese lungo stretto e allungato sulla penisola che lo ospita decido di prendere il trenino che fa il giro degli hotel e capire le attrazioni principali. Il tempo è ancora meno clemente con chi decide di fare un giro sul trenino perché acqua e vento aumentano di intensità, riuscendo addirittura a infreddolire il russo che vive in Canada seduto vicino a me. Il giro sul trenino non mi aiuta a orientarmi, Varadero sembra un circuito di formula uno. Scendo tremante dal trenino senza più il controllo dei muscoli facciali. Faccio una doccia bollente e vado a cenare nel ristorante preferito da Compay Segunda, l’Esquina de Cuba, in cui mangio un buon mixto criollio, un misto di carne di maiale, manzo e pollo. Mi avvio verso il locale Calle 62 che raduna più turisti che Cubani.

Legge dell’equilibrio termico: quando due corpi costituiti dallo stesso materiale, che si trovano a temperature iniziali diverse, vengono messi in condizione di interagire termicamente, subiscono variazioni di temperatura che sono inversamente proporzionali alle loro masse. Allo stesso modo i Cubani si raffreddano, e in mezzo a tanti turisti perdono la loro vitalità e non basta più il ritmo della salsa ad accendere le danze. Al contrario i turisti si lasciano andare dopo diversi bicchieri di rum e azzardano qualche passo di salsa. La temperatura di equilibrio è quindi un clima di moderata festa. Come da suggerimento di 3 ragazze tedesche, mi dirigo al Havana Club, una discoteca con musica internazionale. Faccio il conto delle ore dormite nelle ultime 48 e ritengo conclusa la mia serata. —-

8 gennaio

La mattina inizia col sole. Approfitto immediatamente e mi fiondo in spiaggia. Il mare è tremendamente mosso e sprigiona tutta la sua potenza spostando a suo piacimento chi entrava in acqua. Mi tuffo anch’io in quel mare azzurro dal fondo bianco che non tradiva i suoi meravigliosi colori nonostante le onde schiumose. Stare in acqua diventa però un esercizio muscolare e così mi incammino per una lunga passeggiata, col fine di capire la bellezza di Varadero. Fallisco nel mio intento e me ne fuggo dai muti blocchi di cemento di Varadero per infilarmi in un camiòn che per 2 pesos cubani mi porta a Càrdenas, una piccola cittadina a una decina di chilometri da Varadero. Per chi viene dalla perfettina Varadero, Càrdenas viene definita dalla Lonely Planet come “uno schiaffo in faccia che presenta la vera realtà cubana”. Come speravo lo stridore tra le due città a soli 10 km l’una dall’altra è forte e mi stupisco io stesso di gradire il ritorno alla cubanità. A Càrdenas visito il Museo a la batalla de ideas, un museo che nasce dall’ispirazione del caso di Eliàn, un bambino che con la madre si era imbarcato nelle navi della speranza che salpano per gli Stati Uniti. Nel naufragio la madre morì ma il bambino si salvò andando alla deriva per sei giorni su un copertone. Eliàn arrivò negli Stati Uniti e la famiglia del pescatore che lo strappó alle fauci del mare lo adottó. Da Cuba però il padre lo rivendicó, trasformando così la sua battaglia in uno scontro politico, ideologico e propagandistico da ambo le parti. La vecchina che mi fa il biglietto all’ingresso è anche la mia guida. Mi conduce nelle varie sale e gestisce le luci come se fosse casa sua: le accende all’arrivo e le spegne all’uscita. L’ho trovata un’adorabile premura.

Terminato il momento culturale mi getto per le strade di Cárdenas nella cubanità più sfrenata e mi metto in fila dietro a due che hanno l’abbigliamento e le macchie di due operai edili: la cerveza dispensada (birra alla spina) ha il pezzo giusto per i cubani e a 30 centesimi di dollaro al bicchiere ci si può concedere il meritato relax. Il “dispensatore” di birra si chiama Carlos Alberto, è nero, ha 47 anni e ne dimostra 30. L’ombra della sua vita da dispensatore gli ha preservato la pelle fresca e pulita. Carlos Alberto, uno dei due operai che mi precedevano e io parliamo dell’Italia e delle differenze nello stile di vita. Per loro sono un personaggio esotico e aumento la mia aurea mistica quando alla domanda «ma l’Italia è più lontana degli Stati Uniti?» rispondo con un po’ di finta abitudine ai viaggi transoceanici «sono a 12 ore di volo da casa mia». A Càrdenas sono pochi i turisti che arrivano dalla perfettina Varadero e Carlos Alberto si prodiga per avere l’esclusiva di quel curioso esemplare che con una camionetta era giunto fino a lui «qualsiasi cosa ti serve, io sono qui!» Scopro finalmente che quel goffo suono che emettono, “el uaua”, è un sinonimo di autobus. Saluto i miei compagni di cerveza dispensada e raggiungo la fermata de “el uaua” che mi riporta sul finto set cinematografico di Varadero. Una doccia, un cambio di costume e sono di nuovo a calcare gli assi del palco di Varadero. Gli attori sono i soliti stereotipi dei film ambientati nei villaggi turistici: stranieri che imparano a ballare la salsa, ragazze disturbate dai continui tentativi di approccio, adolescenti che si ubriacano nei resort e nei locali consolidano la loro esperienza nei giochi delle coppie, indigeni ammiccanti con i turisti soli. I giorni vissuti a Cuba hanno costruito una corazza di autarchia e preferisco rimanere da solo al tavolo a godermi uno dei miei ultimi mojito cubani piuttosto che condividerlo con una corpulenta Varaderena che mi chiede di offrirle una birra. «No mi amor, no te invido una cerveza. Ya bebsite bastante». Scopro che il cinismo può aiutare nella fluidità della lingua. Capisco che Varadero può solo inquinare i bei ricordi che ho di Cuba e lascio la mia ultima notte cubana agli stereotipi del villaggio.

QUALCHE SIGARO, UN PORTACHIAVI, UN QUADRETTO DI LEGNO, 10 CUC, E UNA BANCONOTA CON LA FACCIA DE EL CHé – 9 gennaio

La giornata inizia alle 8. Fare per l’ultima volta la valigia sancisce meglio di qualunque cosa la fine della mia avventura. Dopo la solita colazione inizia il lungo viaggio di ritorno. 20 minuti a piedi e sono già arrivato all’autostazione degli autobus. Lo zaino in spalla abbraccia la mia ultima sudata cubana. L’autobus per L’Avana, dopo 2 ore di marcia, si ferma inaspettatamente in una piazzola di una cafeteria. La sosta mi permette di ammirare quelli che Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio in America definì come “i paesaggi più belli che in natura abbia mai visto” ma la quiete dei paesaggi stride con l’allarmismo degli altri passeggeri quando i 2 autisti scompaiono dentro la cafeteria senza dare notizie della sosta non prevista. Iniziano le ipotesi catastrofiche: stanno chiamando i soccorsi perché abbiamo problemi al motore, stanno comprando l’acqua per il radiatore, uno dei due si è sentito male. Un sacchetto pieno di cibi e due taniche di acqua potabile smentiscono ogni congettura. I 2 si erano solo fermati a fare rifornimento. No, ancora non mi sono abituato allo spirito cubano.

Arrivato a L’Avana, un taxi sgangherato mi trasporta fino all’aeroporto. Non potevo immaginare che avrei rimpianto quel sedile sfondato. La fila per il check-in dura 2 ore, quella per pagare la “tasa de salida” (una tassa per uscire da Cuba di cui nessuno ti avvisa) solo 15 minuti, e 1 ora quella per il controllo passaporti e check-in.

Ecco il momento. Valico il portello dell’aereo e lascio le lunghe file e le infinite attese, lascio tanti visi e tante storie. Lascio il ritmo di salsa, le feste, il rum, il nazionalismo disilluso, la voglia di emigrare e l’istinto di sorridere. Porto via qualche sigaro, un portachiavi, un quadretto di legno, 10 CUC, e una banconota con la faccia de El Ché. Porto via la lucida consapevolezza di tornare in un mondo fortunato, così abituato a esserlo che non sente neppure debiti di gratitudine. Porto via ricordi nitidi che non riesco ancora a catalogare e altri confusi che non so ancora in quale cassetto riporre. Porto dentro un’esperienza fantastica e la testimonianza di un mondo che presto vivrà nei ricordi solo di chi lo ha vissuto.

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