Semilla de cafeto

Il cubano è fatto così: prende in giro soprattutto se stesso.Si chiama vacilon: è una parola magica. Un invenzione di uomini veri per divertirsi della vita.Più la vita è crudele, più si cerca di vacilar. Saverio Tutino (Cicloneros) Il tiepido aguacero cadeva sul nastro pulsante del Malecon purificandomi dalle scorie di tre settimane...
Scritto da: Giovanni P.
semilla de cafeto
Partenza il: 01/01/1999
Ritorno il: 23/01/1999
Il cubano è fatto così: prende in giro soprattutto se stesso.Si chiama vacilon: è una parola magica. Un invenzione di uomini veri per divertirsi della vita.Più la vita è crudele, più si cerca di vacilar.

Saverio Tutino (Cicloneros) Il tiepido aguacero cadeva sul nastro pulsante del Malecon purificandomi dalle scorie di tre settimane trascorse per le strade insonni dell’Avana. Quando accostai la Feroza per dare uno strattone alla cappotta ero già fradicio da capo ai piedi. Radio Progreso- la onda de l’alegria, mandava: “Estoy solo/grita mi alma en pena./Sè que haces falta, estoy solo en mi lecho desespero los goces de tu cuerpo anhelo…”. Mi sembrava tutto molto strano, anche io mi sentivo strano e solo e pensavo: Cuba è fatta di questo e forse di quest’altro. Un tempo la rivoluzione aveva giustificato tutto, oggi era inevitabile che la controrivoluzione giustificasse le conseguenze della politica internazionale adottata nei confronti dell’isola:la chiusura degli zuccherifici, la mancanza di medicinali, l’ufficializzazione del dollaro, la prostituzione organizzata, il turismo selvaggio. Eppure il fascino e la dignità di certe scelte non era in discussione. Il gioco é sottile, troppo sottile, mi dicevo, incomprensibile per la maggior parte di noi. Ma che significava questa corsa verso l’utopia? E il ritorno alla piccola borghesia urbana poteva considerarsi una sconfitta? M’accorsi che stavo forzando i meccanismi della comprensione, niente di più sbagliato: per capire bisognava tenersi lontani dai deprimenti turisti del sesso, dagli alberghi di Varadero, bisognava parlare con persone di buona volontà che volessero, sapessero spiegarti. E a Cuba queste persone non mancano. Rischiavo di ripartire con una grande confusione in testa. Cerveceros e roneros, in cerca di una postazione per la sera, razzolavano pigramente fino a dove Calle Prado s’affaccia sul mare. La gente dell’Avana usciva dai patii dalle foglie giganti, rigurgidava dai condomini odorosi e dai sudici vicoli dei barrios, inforcava le biclette senza fanali, e vacillava per la città. Nessuno sembrava curarsi del “periodo speciale” imposto da “El”, così oggi lo chiamano Castro, coloro che hanno timore di nominarlo. Uscivano, vacillavano, chiedevano passaggi alle auto, alle moto, e alle bici, accumulando sbornie e sommandole a quelle rimediate nei giorni che vanno dal carnevale alla festa nazionale per la presa della Moncada.. Sbornie vere, e quando dico sbornie intendo dire sbornie.

Tutto questo dovette sembrarmi una vera e propria attrazione, ma distante dalla soglia di dignità promessa. Intanto Radio Progreso continuava a sovrapporre mambo e chachacha alla ormai logora propaganda rivoluzionaria.

In questo scenario incontrai Jenny. Alle sei del pomeriggio mi sentivo distrutto. Quando la feci salire, all’acquazzone tropicale si era già sostituita una pioggerella piagnucolante che incoraggiava i ragazzi (rifugiatisi sotto i portici albicocca, blu elettrico, lilla e zafferano) ad uscire sulla esplanade fumante di vapori e guardare con patetica fiducia l’orizzonte di Miami illuminato dal sole. -Miami, paradiso o utopia? Sospirai al suo indirizzo per provocarla.

E poi aggiunsi altre cose il cui senso compiuto fece sorridere Jenny. Fu così che m’accorsi che parlava l’italiano meglio di quanto volesse far credere. La lasciai decidere dove saremmo andati a passare il paio di ore che mi separavano dalla mia ultima notte cubana. Scelse il bar della fortezza dalla cui sommità lo sguardo spaziava sulla città coloniale fino al Castillo del Morro. – Mojito – dissi al cameriere.

– Cuba libre – chiese lei.

Si tolse il cappellino esageratamente sportivo con la visiera che le copriva la fronte e i riccioli neri si avvitarono leggeri sul suo viso caffellatte. Non ebbi il tempo di un sussulto che disse mostrando tutta l’insolenza del suo sguardo: -I turisti apprezzano molto i nostri intrugli a base di rum. Annuii accettando la fastiosa realtà.

-Vanno matti per la Bodeguita dell’M., per il Floridita e per tutte quelle sciocchezze che si leggono sulle guide, e…Quando partono ne sanno meno di prima.

-Non tutti- ribattei mordicchiando con indifferenza le foglioline di yerbabuena. .

Come spiegarle che la sua città offriva contrasti troppo forti per la maggior parte di noi: o l’ami subito o sei immediatamente portato a respingerla. Me lo ero ripetuto ogni giorno ad ogni contrattempo, ad ogni apagones (interruzione di energia elettrica), mancanza d’acqua o di carburante: piccoli accidenti che nell’intensità del tropico riuscivo a prendere con sufficiente filosofia. -Come conosci l’italiano?- le chiesi.

-Lo studio- rispose mostrandosi sorpresa della domanda.

-A scuola? – No, la sera prima di dormire, ormai è da qualche mese che non faccio altro; a settembre mi iscriverò ad un corso.

-E poi?-domandai- poi che ci farai con l’italiano? -Partirò- disse Jenny sicura del fatto suo.

-Partire? E per dove? -Dios mios, ma per l’Italia, per dove se no?- rispose divertita.

In lontananza il sereno già dilagava e le nubi andavano dissolvendosi sopra la corrente del golfo. Mentiras, le solite bugie, pensai, adesso vedrai che mi dirà che è una studentessa di Cienfuegos in vacanza, una ballerina di Matanzas o una modella di Las Tunas. Pensai al consumato copione delle ragazzine che giungono all’Avana dalla provincia e che si danno da fare per rimediare cene al ristorante, ingressi in discoteca e camere d’albergo con aria condizionata. Dovette leggermelo negli occhi quel pensiero.

Mi lasciai anticipare: -Hai già incontrato una pirana vero?-domandò scoraggiata.

-Vero.

-E com’è andata? -Bene! -Bene come? -Sono sopravvissuto.

-Aspetta a dirlo.

-Aspettare cosa? -Ti sei specchiato? -Dovrei farlo? -Da quante notti non dormi?- chiese mostrando una padronanza perfetta del vocabolario italiano. -Praticamente da quando sono arrivato qui.

-E’ carina almeno?- -Non quanto te.

I suoi occhi parvero rassicurati. Da dietro il bicchiere cercarono il mio sguardo, lo fissarono, lo sfidarono, sorrisero. L’ha bevuta, dovette pensare.

Crede che l’abbia bevuta, pensai.

M’accorsi che la mia pirana più che a una pirana assomigliava ad un chicco di caffé, e a me il caffé da una certa eccitazione.

In silenzio, invisibili, nei cantieri e negli orti abbandonati, nei patii assonnati di Mariel e di Cojimar i balseros lavoravano segretamente alle loro zattere, accarezzavano l’utopia. Mi sembrò di avvertire i battiti di quell’utopia. Pensai a lei che aveva scelto un’altra via di fuga. Scendemmo le scale della fortezza che erano le sette. Prima di farsi accompagnare a casa Jenny insistette per vedere dove abitavo. Forse la mia pirana temeva incontrassi qualche sua concorrente; magari una di quelle mante che cacciano tra i sargassi lasciandosi portare dalla corrente. Manco a farlo apposta all’altezza del Parque Central ne incrociammo una. Si chiamava Marilìn, chissà da quanto mi stava oppostando? Quando mi vide da lontano cercò di richiamare la mia attenzione in tutti i modi. Jenny finse di non accorgersene. Credeva la volessi mollare e quindi doveva ad ogni costo localizzare la mia tana. Giunti in via Bernaza disse: -Saliamo a bere qualcosa? -No- risposi -voglio dormire un paio d’ore, prima.

-Prima di cosa? – Prima di portarti a ballare al Comodoro, claro.

-Claro-fece eco lei.

Quando la scesi nel barrio Escobar disse: -Sarò da te verso le undici.

-Come ci arriverai?-chiesi.

-Non mancherò, riposa.

L’unico suo desiderio era andare a ballare. Accompagnata da uno straniero che le pagasse l’ingesso. Come avrei potuto deluderla quella sera all’Avana … Dove non si capisce perché sia leggittimo sperare che rivoluzione e mambo possano convivere? Eppure convivono. Que Cuba viva.



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