Tour classico di Cuba

Dopo un volo certo non brevissimo finalmente nella tanto sognata Cuba! Come saraà? Un paradiso in terra o un carcere lungo mille chilometri? Presto lo scopriremo, finalmente con i nostri occhi e non con il filtro di altri. Trafila doganale e poi con un taxi (20 $) in meno di mezz’ora siamo già nel quartiere dell’Havana Central,...
Scritto da: Enrico Dello
tour classico di cuba
Partenza il: 01/08/2003
Ritorno il: 20/08/2003
Viaggiatori: fino a 6
Dopo un volo certo non brevissimo finalmente nella tanto sognata Cuba! Come saraà? Un paradiso in terra o un carcere lungo mille chilometri? Presto lo scopriremo, finalmente con i nostri occhi e non con il filtro di altri.

Trafila doganale e poi con un taxi (20 $) in meno di mezz’ora siamo già nel quartiere dell’Havana Central, all’indirizzo della casa particolar ufficiale che avevo preso su internet e che via mail aveva confermato la propria disponibilità.

Ci viene mostrata la camera, il bagno ed il sistema di cancelli che garantisce la sicurezza dell’abitazione. Ci va bene e la prendiamo a 25 $ al giorno. Havana È sera e decidiamo di farci un giretto per avere un primo contatto con la città.

Non facciamo letteralmente tempo a mettere piede fuori dalla porta che abbiamo il primo contatto con il motivetto che ci accompagnerà per quasi tutta la vacanza: “Italiano? Italia mafia! Ho un amico che abita a Torino … è la prima volta che vieni a Cuba? … Vuoi dei sigari buoni a buon prezzo? Vuoi …? …”. Prima tappa la Boteguita del Medio per un mojito, attraversando a piedi i popolari quartieri dell’Havana Central e dell’Havana Vecchia. Tornati a casa, più che il drink, buono ma non eccellente, quello che viene in mente è l’odore di marcio misto a nafta, il senso di sicurezza avvertito a dispetto del fatto di essere dei bersagli piuttosto facili, la quantità di persone in giro per le strade e la loro scarsa illuminazione, le case crollate, la presenza della polizia in ogni incrocio.

In perfetto stile del “turista consapevole”, i due giorni seguenti li impieghiamo a visitare i vari monumenti e i luoghi storici della capitale, combattendo l’afa con qualche refresco e la fame con le pietanze in vendita nei baracchini ai bordi di ogni strada: in altri termini, se avessimo avuto uno cinepresa, quest’inverno saremmo stati ospiti fissi di Licia Colò! La mattina del 4, ormai in partenza, ho ripensato alla prima impressione ritrovandomi solo in parte. Paradossalmente la parte della città che meno mi ha colpito sono stati proprio i monumenti ed i vari musei: è l’Havana che ha un fascino particolare, anche e forse per il mix unico di degrado urbanistico e di vitalità, di homeless e di bambini, di dignità e di abbrutimento, di edifici crollati e di gente sui carri, di prostitute e di odore di marcio-nafta, di alberghi monumentali e di truffatori, di vecchi rivoluzionari sull’uscio di casa e di vie martoriate da voragini. E poi il daijuiri al Floridita (6$): davvero un’emozione per gli occhi e per il palato.

Trinidad Prendiamo la macchina e facciamo subito conoscenza con la viabilità cubana: carretti trainati da cavalli, biciclette, mandrie in attraversamento, pedoni, inversioni ad U di ogni mezzo circolante, buche di dimensioni mostruose, assenza quasi totale di segnaletica, autostoppismo organizzato dallo Stato etc.Etc., il tutto indifferentemente sulla strada di campagna come sull’autopista.

In sintesi questo primo tragitto dura fino alle 20. Appena arrivati scopriamo che avremmo fatto bene a prenotare l’alloggio dall’Havana: la città è sold out. Con molta pazienza ed un po’ di fortuna riusciamo a rimediare una stanza (la tripla a 25 $ e possibilità di mangiare lì) in una casa particular, e a mettere la macchina in un garage (3 $ al giorno).

La città, decantata come gioiello coloniale, è una vera delusione: una passata di vernice sugli edifici centrali e qualche locale per turisti. L’unica cosa che mi colpisce è la quantità di donne occidentali in cerca di emozioni forti, che agitano disperatamente i fianchi nei locali per turisti sotto lo sguardo pietoso del cubano con cui si accompagnano.

Nei due giorni che seguono visitiamo alcune cascate nel parco di Topes de Colante, a pochi chilometri dal centro abitato, e rimaniamo affascinati dall’incontenibile esplosione della natura. Purtroppo il fascino che la giungla ha esercitato su di noi il primo giorno ci induce a voler tornare nel parco per visitare a cavallo un altro luogo del parco. Pessima scelta: la sensazione è di aver fatto il Fantozzi in vacanza, e per di più ci siamo giocati il giorno che avremmo potuto dedicare alla visita dei Cayo che si trovano a poca distanza dalla costa.

Playa Santa Lucia È tempo di acqua color smeraldo e di sabbia bianca.

Ci dirigiamo dunque a nord, nella zona dei Cayo nella provincia di Camaguey. Quando arriviamo a destinazione ci accorgiamo che il nome del posto descrive esattamente il posto: esiste solo la playa ben imbottita di resort, mentre il centro abitato, se così si può definire, è costituito unicamente dagli alloggi dei lavoratori cubani, case di legno e casermoni stile socialismo reale.

Il mare è come ce lo si immaginava: il verde dell’acqua è intenso e la spiaggia si perde all’orizzonte senza soluzione di continuità. Certo non è perfettamente rastrellata come a Forte dei Marmi, ma davvero non se ne sente la mancanza. Quello che invece mi manca è la possibilità di comunicare coi i cubani del posto: qualsiasi contatto è fisicamente impedito dal nutrito gruppo di vigilantes disposti lungo la spiaggia ed all’ingresso dei villaggi, i quali allontanano i cubani che provano ad avvicinarsi alle strutture riservate agli occidentali.

Santiago de Cuba Lungo la strada incrociamo la famosa Basilica del Cobre, ed abbiamo la conferma che andare per monumenti a Cuba è come ordinare un toast e un bicchiere d’acqua da Vissani.

Troviamo alloggio nel centro storico (strappiamo 20$ per la tripla) e, abbandonati i bagagli, ci troviamo immersi in un’atmosfera piacevolmente vivace: i piazzisti di cene e quant’altro sono meno assillanti dei loro colleghi della capitale, e ci si può incamminare lungo le viuzze strette che si precipitano verso i mare ovvero fermare nelle piazze del centro ad ammirare le architetture coloniali. In una parola, godibilissima.

Visto le precedenti esperienze, evitiamo accuratamente i musei e ci dirigiamo verso le spiagge che si allungano sulla costa. Arriviamo alla Playa de Francais, molto rinomata tra i locali.

Siamo i soli turisti e praticamente gli unici bianchi, ma la sensazione di disagio è subito vinta dalla tranquillità dei bagnanti che affollavano a migliaia il litorale, dalla presenza di tantissime famiglie alle prese con robusti picnic e da una generale spensieratezza delle persone. Decidiamo di mischiarci alla folla, e presso un baracchino improvvisato prendiamo un refresco (1 peso) e una pizzetta (3 pesos) cotta in un forno rudimentale. Solo al bis di refresco scopriamo che il ghiaccio con cui viene guarnito è conservato con cura sotto la sabbia per essere pulito in un secchio d’acqua prima di essere servito: in quel momento ho deciso di non assaggiare il maiale del venditore di fianco! La sera, ma anche il pomeriggio, tappa fissa alla Casa della Trova dove si esibiscono i migliori artisti cubani. Baracoa La strada che porta da Santiago a Baracoa è davvero molto bella. Passata Guantanamo, si costeggia per diversi chilometri la costa rocciosa, e poi ci si arrampica sopra due montagne completamente ricoperte dalla giungla: spettacolare.

Dopo aver preso possesso dell’abitazione e scaricati i bagagli, decidiamo di fare visita alla spiaggia cittadina. Di per se sarebbe stata la solita spiaggia dei cubani, tanto lunga quanto invasa dalla allegra folla di ragazzi del posto dediti a tuffi e partite di beachvolley. A renderla particolare ci pensa però sia lo stadio del baseball (praticamente dentro la spiaggia) sia la foce di un fiume che prima costeggia per alcuni metri la spiaggia e poi si getta in mare. Nei due giorni seguenti visitiamo le varie playa ed i fiumi che circondano la città. La spiaggia di Managua è davvero molto bella, e non essendoci praticamente nessun resort mantiene intatto il suo fascino selvaggio. La mia preferenza però va alla spiaggia Mangolito, molto meno conosciuta e dunque molto meno battuta dai turisti. Si trova ad una decina di chilometri a sud della città e, grazie alla barriera corallina a poche decine di metri, è una sorta di enorme vasca da bagno: l’altezza dell’acqua, a tratti caldissima, non supera mai i venti centimetri! Sulla riva la vegetazione circonda le casette di legno dei pescatori, che non mancheranno di proporre un pasto a pesce o aragoste: purtroppo avevamo già prenotato la cena, e ci siamo accontentati di dissetarci con dei cocci presi e aperti per l’occasione.

Imperdibile il bagno nel Rio Toa. Partenza dall’omonimo Ranch, da dove con una barchetta a remi ci si spinge verso l’interno del fiume per giungere dopo pochi minuti di navigazione nel paradiso terreste: la vegetazione casca letteralmente dentro l’acqua verde e quasi immobile, mentre piccoli pesciolini ti nuotano intorno. Sia al fiume che a Playa Mangolito siamo arrivati quasi per caso e senza troppe aspettative: alla fine non volevamo più uscire dall’acqua! Banes Si incomincia la risalita dell’isola. Dopo aver impiegato diverse ore sulla strada sterrata che porta a Moa, eccoci su Marte: tutto è diventato improvvisamente rosso. Rossa l’acqua, rossa la terra, rossa la strada, rossi gli alberi, rosso il cielo. Siamo nella zona dell’estrazione del nichel, dove non sembra le esigenze ambientali abbiano trovato grande considerazione! Noi poi abbiamo la ventura di non vedere un bivio, e di finire dritti dentro la miniera: ce ne accorgiamo quando ci stiamo per infilare in una gigantesca tramoggia per il movimento terra. “Perdono, una pregunta! Por Holguin?” “Holguin? Esta non es la carettera por Holuign! Esta es la mina! Por Holguin …”. Il tutto mentre un odore fortissimo di zolfo invadeva i polmoni e camion per il movimento terra di dimensioni mostruose ci scorrazzavano a fianco.

L’obbiettivo è raggiungere Playa Guardalavaca, descrittaci come luogo paradisiaco. Effettivamente l’affollamento dei resort testimonia il gradimento dei turisti, ma alla copia preferiamo l’originale: se bisogna rintanarsi in una sorta di fortino inespugnabile a non meno di 70 dollari al giorno, aspettiamo Varadero. Non rimane dunque che Banes, una cittadina di mare quasi ignorata dalle guide e che scopriamo minuscola e bella nella sua semplicità. La giornata viene trascorsa al mare alla spiaggia PuertoRico, in compagnia di un giovane professore di inglese col quale discorriamo a lungo e che ci consente di comprendere la reale condizione di vita dei cubani che non lavorano coi turisti. La sera invece andiamo a vedere il museo, minuscolo, dedicato agli indiani taino e che viene aperto per noi dalla direttrice. Quel che più mi colpisce è quello che non c’è: in meno di un secolo, una civiltà è stata cancellata per sempre dalla faccia della terra. Fuori dalla porta del museo (letteralmente a circa un metro) intanto si sta svolgendo un concerto che può spiegare molto di cosa sia Cuba oggi: un gruppo di musicisti “maturi” suona musica cubana, alternandosi con alcuni gruppi di giovani rapper cubani. L’esibizione avviene senza alcun palco, direttamente sul marciapiede, mentre gli spettatori ascoltavano in piedi dall’altro lato della strada: in mezzo il traffico di carretti, macchine, biciclette, pedoni, motorini e camion. Camaguey Lasciata la cittadina arriviamo nella terza “metropoli” del Paese, che come tutte le grandi città cubane brulica di vita a tutte le ore del giorno e della notte. Dal punto di vista architettonico non offre molti spunti, ma forse proprio per questo alla fine lascia un ricordo piacevole, fatto di bambini che giocano a pallone per strada, di refreschi, e di una tranquillità nel vivere le giornate che colpisce. Esiste poi anche una zona più “occidentale”, dove si dislocano i vari alberghi (continuo a non abituarmi al fatto che i cubani non possano entrarvi) e qualche negozio: in realtà è la parte della città che ho trovato meno interessante, perché non offre nulla di particolare se non una folla di piazzisti che ti si avventano ad ogni passo! Molto bella la Casa della Trova, con il palco collocato sotto le stelle all’interno di un edificio coloniale.

Cayo Coco / Cayo Guillermo Arrivati a Moron prendiamo la prima casa che viene a tiro per dirigerci il prima possibile verso le sabbie bianche dei Cayo. In poco più di mezz’ora raggiungiamo la barriera per il pagamento e, controllati i passaporti (ai cubani non è dato entrare nel Cayo senza permesso governativo), iniziamo a percorrere il terrapieno che collega Cuba all’atollo di sabbia. Spettacolo naturale di una bellezza non descrivibile: si viaggia quasi a pelo dell’acqua, e all’orizzonte il mare si confonde con il cielo.

Attraversata la foresta di mangrovie e con lei il fetore dell’acqua paludosa, decidiamo di fermarci a Playa Flamenco. Senz’altro un’ottima scelta: sabbia bianchissima, mare da catalogo Francorosso. Breve rosolatura al sole e poi un bel bagno rinfrescante (fino ad un certo punto, visto la temperatura dell’acqua!), prima di concederci un drink al baretto della spiaggia.

Ci dirigiamo poi all’estrema punta occidentale, e più precisamente a Playa Pilar. Beh, se Playa Flamenco era bella, qui sembra davvero di essere in paradiso: pochissime persone, lingue di sabbia fine come il borotalco che si perdono in un mare di cristallo e di smeraldo, cielo terso con nuvole dipinte all’orizzonte. Gabbiani che si inseguono lungo la battigia. Decisamente il mare più bello che abbia mai visto.

Varadero Dopo aver cercato di vedere la Cuba dei cubani, è tempo di vedere la Cuba dei turisti. Scegliamo il Palma Real, struttura alberghiera 4 stelle che prenotiamo e paghiamo il giorno prima a Camaguey.

C’è poco da girarci intorno: è un salto nel tempo e nello spazio. La differenza è tanto forte che all’inizio faccio fatica ad abituarmi. Soprattutto, visto che nessuno dei problemi sociali ed economici che la popolazione deve affrontare qui è minimamente percepibile, non riesco a non pensare l’idea che chi passa le vacanze in un posto del genere possa farsi di Cuba.

Un solo esempio, che come tutti gli esempi pecca di particolarismo ma che spero possa dare l’idea. Durante il viaggio molti ragazzi cubani ci hanno dipinto Varadero come una festa per partecipare alla quale avrebbero fatto di tutto: “magari riuscissi ad entrare nel giro di quelli che lavorano a Varadero! Con le mance che prendi sistemi tutta la famiglia, e poi magari trovo qualche d’uno che mi sposa o almeno mi fa l’invito (i cubani non hanno diritto di espatriare e possono presentare richiesta di espatrio al governo solo se sposati o invitati da un cittadino di un altro Paese). Ma io non conosco nessuno, e perché ti prendano devi conoscere qualche d’uno d’importante …”. Al ristorante invece i turisti si meravigliavano della quantità di lavoro svolta dai dipendenti cubani, ed in particolare della premura e dalla gentilezza che dimostravano verso gli ospiti del resort: “però, col culo che si fanno sono pure sempre allegri e sorridenti …”. Per il resto la spiaggia ed il mare sono come li si vede nei cataloghi (Playa Pillar rimane senza dubbio su un altro livello), ed effettivamente gli unici cubani che si incontrano sono i camerieri che vi portano il mojito sotto l’ombrellone. Havana Dopo 20 giorni e circa 3.000 chilometri, rieccoci. Restituiamo la macchina e nell’ultimo pomeriggio che ci rimane visitiamo prima la fabbrica dei sigari Corona (10 $) e poi l’adiacente Museo della Rivoluzione (4 $).

Nella fabbrica torniamo in contatto con la realtà cubana: all’inizio della visita ci fanno lasciare gli zainetti all’ingresso, ma appena entriamo in contatto con i torceros questi ci offrono spudoratamente di comprare i sigari che hanno appena lavorato e che giacciono ancora sui loro banchi: la scena è difficilmente descrivibile, perché dovete immaginare uno stanzone con almeno un centinaio di persone che, appena entriamo, prendono in mano un mazzo di sigari che hanno davanti e ce li mostrano dicendo “5 dollars” o “10 dollars”. Quasi superfluo aggiungere che la guida prima ci dice di non accettare perché altrimenti avrebbe perso il posto, e poi appena usciti dalla stanza ci indica un torcero di sua fiducia dove possiamo concludere qualche affare.

Il Museo della Rivoluzione è tanto enorme quanto poco fruibile: interessante la parte pre-rivoluzione castrista. Poi il lungo elenco di foto e didascalie diviene un interminabile peana a Castro e soci, talmente generoso di aggettivi e di iperboli da far apparire dei dilettanti i dirigenti dell’Istituto Luce del ventennio fascista.

Usciamo ed è quasi tempo di andare in aeroporto. Quasi. C’è giusto quella mezz’ora sufficiente per un ultimo daijuiri al Floridita. Con ancora in bocca il sapore del lime, prendiamo un taxi per chiudere in bellezza: una Chervolet Impala del 1960. Gli ultimi 25 dollari servono per pagare la tassa per uscire dal Paese (una tassa per uscire, e per di più nella valuta del nemico!), e poi è solo il ronzio dell’aereo ed i ricordi di una vacanza che non dimenticherò facilmente, anche grazie al “Comandante” Cristiano ed al “barbuto” Giuseppe, i miei due compagni di viaggio.



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