Diari di viaggio a Levanto

Lungo il sentiero che da Levanto porta a Deiva Marina, passando per Bonassola e Framura...
Scritto da: cappellaccio
diari di viaggio a levanto
Partenza il: 26/06/2008
Ritorno il: 28/06/2008
Viaggiatori: 1
Spesa: 500 €
Mentre mio figlio -saggiamente in vacanza con la nonna, al lido di Pomposa, uno dei sette lidi ferraresi-, ci dà dentro smodatamente con i gelati e la pastasciutta, facendo tremare l’ago della bilancia e assestandosi sui 60 kg per 153 cm di altezza e mio marito, in Irlanda del Nord, alterna il lavoro in fabbrica con momenti di relax allo Starbuck café o con una gita alla Giant’s Causeway, arrampicandosi sulle colonne di basalto che hanno dato vita a innumerevoli leggende, io faccio la pendolare tra gli esami di maturità –sono prof. Di spagnolo- e alcune escursioni in bicicletta e a piedi. Finalmente posso anch’io prendermi qualche giorno di ferie: corro a parcheggiare il mio Scudo Fiat nei pressi della stazione FS di Ferrara e a fare il biglietto per Lèvanto, in Liguria. In treno leggo tutto d’un fiato Mensajeros de la oscuridad, un giallo un po’ perverso –ci sono uomini evirati, vittime di un tragico rituale- di cui è protagonista l’ispettore di Barcellona Petra Delicado. Dato che nella preparazione dei bagagli sono stata super-mega essenziale per non portarmi dietro troppo peso, arrivata a Monterosso mi sintonizzo su quello che dicono altri passeggeri del treno: sì, sono proprio spagnoli! Piuttosto che abbandonare il libro o gettarlo lo regalo a loro (che idea generosa, no?). Chissà cosa penseranno quando si accorgeranno dell’argomento, a dir poco imbarazzante… A Lèvanto ero già stata con mio figlio in febbraio, quando ci eravamo cimentati nell’impresa di percorrere i sentieri delle Cinque Terre nel corto ponte di Carnevale. A quell’epoca la temperatura era ideale per il trekking e in quell’occasione Levanto mi era apparso piano piano, venendo dalla Punta del Mesco, con il mare agitato e le onde cavalcate dai surfisti. Adesso riconosco il posto, ma il clima è decisamente diverso. Individuo facilmente l’affittacamere: A Durmì da Gianni e Graziella e sono piacevolmente sorpresa dalla bella atmosfera del luogo: le stanze si affacciano tutte su un cortiletto, ornato da fiori, decorato con un mosaico pavimentale e abbellito da una pergola sotto la quale ci sono dei tavoli se uno volesse cenare all’aperto. Per 50 euro ho una doppia (uso singola) e persino la TV e l’aria condizionata. Quello che mi interessa è il sentiero che da Levanto porta a Deiva Marina, passando per Bonassola e Framura. Chiedo alla proprietaria come fare a trovare l’inizio del percorso. – Dunque, scendi giù fino alla spiaggia per via Roma, poi quando sei sul lungomare vai a destra, segui sempre la spiaggia finché non ti vedi davanti una scalinata, dopo attraversi una strada dove passano le auto e sulla sinistra c’è un’altra scalinata e in cima a questa trovi l’indicazione del sentiero n. 1. Sono le sette e mezza di sera e parto subito in esplorazione. Giunta in spiaggia mi siedo un po’ sulla battigia per lasciarmi cullare dallo sciabordio delle onde. Proseguo per la passeggiata a mare e mi trovo davanti la prima scalinata. Salgo? Ma sì, andiamo a vedere se c’è anche la seconda. Certo che è un pochino imboscata, ma la vedo, sulla sinistra. Ansimante, una volta su, trovo anche il cartello. Perfetto. Domattina, il più presto possibile, per evitare la canicola, mi metterò in cammino. Ora, all’imbrunire, il sole si è nascosto dietro una collina e la spiaggia è rimasta quasi deserta. Eccomi sul sentiero, bella arzilla, alle 7 del mattino. Il sentiero, pietroso, fiancheggiato da fitti cespugli, si inerpica per un lungo tratto, attraversando un terreno collinoso. In lontananza si scorge il borgo antico di Lèvanto, raccolto attorno alla chiesa di S. Andrea col suo campanile, e il molo turistico. Incrocio le quattro case di un villaggio, dove c’è anche una fontana, scendo per una stradina lastricata e poi passo nei pressi di vari campi coltivati e vigneti, ma solo dopo più di un’ora raggiungo Bonassola. Fin qui tutto facile. Adesso sono su una via del centro di Bonassola, ma non ci sono indicazioni su come proseguire per Framura e Deiva. Mi dirigo verso la zona pedonale del paese e una negoziante mi indirizza verso la chiesa. Lì, accanto alla spiaggia, vari stradini si affaccendano nel ripristino dell’asfalto: – Scusi lei è di qui? Dove si prende il sentiero per Framura? – Chieda all’operatore, più in su, che abita qui. – Mi ha detto il suo collega operatore di domandare a lei come si va a Framura, su per la montagna… Per fortuna l’operatore non mi manda a quel paese, ma mi indica il percorso dietro alla chiesa, che mi affretto a raggiungere. Una freccia È mi invita a salire su per delle scalette che conducono a uno stradone, da cui si gode la vista del mare. A un certo punto, sulla destra, ci sono delle panchine e faccio merenda. Lo stradone si addentra in una pineta, ma i miei passi mi conducono a un … Cancello chiuso!! Devo aver sbagliato qualcosa. Sì, ma in che punto? Retromarcia fino a ritornare all’ultima volta che ho visto il segnale azzurro. Provo a telefonare all’ufficio informazioni turistiche di Bonassola. -Senta, sono sul sentiero per Framura, vedo ancora la spiaggia di Bonassola sotto di me e ci sono delle panchine, ma poi lo stradone finisce da un cancello, dove devo andare? – Ha passato il bunker? – Il bunker? Mi sembra di non aver visto nessun bunker, si vede una chiesetta tutta rosa su uno spuntone di roccia, proprio qui vicino… Purtroppo cade la linea, e poi comuque non capiscono dove mi trovo. Io neppure… Nel tornante sotto di me scorgo un furgone con degli operai. Mannaggia non sono della zona, ma mi suggeriscono di chiedere ragguagli alla proprietaria dell’azienda agricola più sotto. Scendo fino al viottolo d’ingresso dell’azienda, dove un cartello annuncia: “vendesi limoni non trattati” e seguendo un operaio con un tubo sulle spalle sono finalmente davanti alla mia salvatrice: – Devi tornare su fino alle panchine, poco prima, sulla sinistra, ci sono delle scalette che portano sul sentiero. Ecco dove mi sono confusa! Facendo caso alle panchine sulla destra mi sono completamente dimenticata di guardare sulla sinistra. Bene, ho ritrovato la retta via… Dopo un po’ giungo effettivamente al bunker, dove una scalinata scende al baratro sospeso sul mare. E’ un bel posticino dove fermarsi a bere e riposare, anche se la giornata è torrida e non c’è ombra da queste parti. Per qualche minuto sto a contemplare il paesaggio, poi torno indietro e noto che il sentiero si biforca. La solita freccetta si trova su un albero N, stavolta fa una curva, vorrà dire di qua? Sento che sto per smarrirmi un’altra volta. Ma ecco sbucare dalla mia stessa direzione due anziane tedesche, un’occasione unica per testare le mie conoscenze della lingua germanica e fare un pezzo di strada in compagnia. Le aspetto, perché loro il bunker non l’hanno ancora visto. Dico quello che riesco a dire e chiedo quello che posso domandare considerate le mie limitate conoscenze. Quando siamo nei pressi di Framura mi congedo dalle mie temporanee compagne di viaggio, fiancheggio un ripido costone, scendo fino a un ruscelletto, passo un ponticello di legno e arrivo nei pressi della stazione di Framura. Solo che io voglio andare a Deiva Marina. Mi siedo, alquanto scoraggiata, sulle scale e riempio la bottiglia a una fontanella. Una coppia sta facendo una passeggiata e spero ardentemente che siano del posto. – Guardi deve tornare su in cima alle scale, proseguire per Anzo. Sì, entra nel borgo e dopo trova delle scale sulla destra. Gulp! Sento che sto per perdermi nuovamente. Fino ad Anzo, nessu problema. Un ragazzo, che è lì in vacanza, mi accompagna a un bar-edicola. – Il sentiero per Deiva? Sì. Vada fino ai lavatoi, prende la strada a sinistra, poi dopo la curva a destra, vede un sentiero che sembra che entri a casa di qualcuno, con un corrimano, ma non è vero, di lì trova le indicazioni per il sentiero. E’ semplice. Mi spiega candidamente la signora, mentre riempie fino all’orlo un bicchiere di té freddo alla pesca. – Mio Dio, mi sembra difficilissimo, ma lo sa che mi sono già persa una tonnellata di volte? – Non si preoccupi, guardi le scrivo qui il mio telefono, così se ha dei problemi mi chiama. Si propone generosamente di sostenermi nelle mie imprese, ma non sa quanto sono imbranata (e priva di mappe dettagliate). All’una del pomeriggio, sotto un sole cocente, mi incammino e presto mi ritrovo sulla strada delle auto. In precedenza un altro signore mi aveva detto che dovevo arrivare per la strada delle macchine fino a un campeggio. Trovo un indicazione di un sentiero, ma non c’è il segnale “Deiva Marina”. Prima telefonata alla signora del bar: – Scusi, sono sulla strada delle auto, quel sentiero che diceva lei non l’ho trovato, però qui ce n’è un altro, è uguale se prendo questo? – No, così lo allunga, vada avanti fino all’agriturismo. Procedo. Arriva una macchina. Forse potrei fermare la tizia e chiederle se questo nuovo sentiero qui sulla sinistra è quello giusto. – Sì, vada pure, è una scorciatoia. Poi trova una casa e dopo è sul sentiero per Deiva. Mi addentro nel bosco e mi inerpico su un ripido versante finché non arrivo a un incrocio con 4 possibilità. Una è la direzione da cui provengo, poi propone un orto botanico a 5 minuti, una Punta qualcosa a 1 ora e un monte qualcos’altro a 40 minuti. Telefono alla signora. Cosa faccio? Mi sembra, a naso, di dover proseguire verso sinistra. Lei me lo conferma, anche se sembra vagamente perplessa. Speriamo bene. Memorizzo un punto 9 –c’è un cartello-, sono comunque su un sentiero, giusto o sbagliato che sia, non mi sono persa nel groviglio di una foresta sul monte, manca ancora molto al calar della sera e ho sufficienti scorte d’acqua e di cibo, mi dico in un ultimo barlume di buon senso. Poi mi lascio invadere dallo sconforto, mi sono persa, non so dove sono, sento il battito del mio cuore accelerato dall’ansia, comincio a provare i primi sintomi da overdose di camminata e di caldo. Faccio una pausa. Calma, mi dico. Farsi prendere dal panico non serve a nulla. Mi siedo, riprendo fiato, aspiro alcune boccate d’aria profonde. Il frinire delle cicale echeggia fra gli alberi. In capo a dieci minuti di cammino eccolo il segnale: Deiva Marina, 40 minuti!! Sono salva!! Mi sono ritrovata! La discesa è ripida e io indosso un paio di sandali, che fino a questo momento si sono dimostrati solidi e comodi, ma che nella pietraia e nello scivolare continuo dell’alluce contro le stringhe mi producono una vescica in entrambi i piedi. Ci mancava solo questa! Strizzo gli occhi in direzione della costa, ma non si vede ancora niente. Ho persino le idee sfuocate, figuriamoci la vista! Poi, schermandomi gli occhi dal sole, vedo vibrare all’orizzonte una sorta di bidonville, un’accozzaglia di tetti di latta, non so, qualcosa del genere. E finalmente sono in paese e zoppicando cerco la stazione e la trovo. Sono circa le due del pomeriggio e ho camminato per ben sette ore! La cosa più terribile è che una volta seduta comodamente sul treno, questo impiega il risibile lasso di tempo di 10 minuti per coprire la distanza Deiva-Lévanto. Ma la mia meta non è più Lèvanto, bensì La Spezia. All’ufficio informazioni mi indicano che la fermata per l’autobus per Portovenere è a una ventina di minuti di distanza a piedi, però siccome sono fortunata, oggi c’è il mercato e quindi devo raggiungere la fermata successiva, dove finiscono le bancherelle. Dunque mi servono 4, no 5 biglietti: uno per andare fino a Fezzano, a cinque chilometri da Portovenere, dove ho trovato una camera a un prezzo decente, uno per spostarmi a Portovenere stasera, uno per tornare a Fezzano, uno per domattina per raggiungere di nuovo Portovenere e fare il sentiero fino a Campiglia e un ultimo biglietto per tornare da Campiglia a La Spezia. A Fezzano la stanza è piuttosto modesta, solo un letto matrimoniale con due comodini e un armadio; inoltre condivido il gabinetto con gli occupanti dell’altra stanza da letto del bed and breakfast. Dalla persiana accostata filtra aria calda. Ora mi ci vuole proprio una doccia, mi dico. Mi cambio il vestito intriso di sudore, mi infilo il costume da bagno e mi spalmo sul letto. Mi sento le gambe polverizzate. Ma è tempo di ripartire per Portovenere. Intanto decido di incastrare un po’ di carta igienica fra il ditone e il sandalo per evitare gli effetti dell’attrito sulla vescica. Quindi vado a fare una puntatina al bar di Fezzano dove domattina dovrei esibire il buono per la colazione. Meglio accertarsi dell’orario di apertura, sennò finisce che rimango anche senza tè. Infatti il proprietario mi conferma che prima delle otto non aprono e mi propone: – “Ti posso dare adesso una crostatina e un succo di frutta, magari?” Affare fatto. Alla fermata, di fronte alla stazione di servizio, c’è un anziano, seduto, che suppongo stia aspettando l’autobus. Siccome ho il culo che tira a sedersi mi affianco al vecchio, che mi dice che l’autobus è appena passato.- “Si sta bene qui all’ombra” commenta. – “Vuol dire che non è in attesa dell’autobus?” domando dilatando gli occhi per la sorpresa. – “No” replica lui. Lungo la strada, in autobus, prima di approdare a Porto Venere, scorgo il borgo marinaro delle Grazie, incastonato al fondo di un’insenatura. Portovenere mi accoglie nel suo ventre, il “Carugio” un budello stretto e colorato che sfocia sulla luminosissima piazza S. Pietro, aperta a destra sulla grotta Arpaia e a sinistra verso il braccio di mare che separa Portovenere dall’isola di Palmaria, dove sfreccia un motoscafo. Gli invitati a un matrimonio scendono la scalinata che porta alla chiesa di S. Pietro. Una “dama” si toglie le scarpe col tacco, liberando i piedi martoriati. La festa proseguirà al Castello Doria, ora non più baluardo difensivo, bensì accogliente e suggestivo scenario di un sontuoso pranzo di nozze. Tuttavia i neo sposi si intrattengono ancora con i fotografi sulla terrazza che sovrasta la chiesetta. Lui è più belloccio mentre la sposa sembra meno attraente, sarà lei quella ricca, penso maliziosamente. Percorro una strada selciata in salita e raggiungo prima la chiesa di S. Lorenzo, quindi mi spingo fino alla massiccia fortezza. Quest’ultima, purtroppo, sta per chiudere i battenti per i turisti, mentre è in procinto di aprirsi ai convitati al banchetto, dal quale, inutile dirlo, sono esclusa. Be’, vuol dire che per cena mi ingollo in anticipo la mia crostatina con il succo della colazione di domani e magari ci aggiungo anche un gelato. Intanto mi metto a sedere sul davanzale di una finestra ad arco acuto rimasta con le sue colonne bianche a decorare il muro grigio di un edificio in rovina. Una luce obliqua diffonde bagliori accecanti penetrando attraverso gli archi gotici. E i protagonisti della scena che si può ammirare da quell’angolo pittoresco sono sempre gli stessi: il mare e il tempio -a fasce bianche e nere- dedicato a S. Pietro. Mentre scatto qualche foto, imitata da una coppia di giovani innamorati, mi giungono i gridi striduli dei gabbiani che volteggiano sui faraglioni a picco sul mare. Il sole occhieggia tra i vicoli, ancora animati da vari passanti, quando scendo verso la calata Doria per immergermi nel mar Ligure. Attorno ad alcuni scoglietti altri bagnanti, soprattutto ragazzini, si feriscono i piedi sui sassi per entrare in acqua e si rincorrono in una pioggia di schizzi e di insulti. La mia sguazzatina non dura molto. Riprendo i miei pochi averi dallo scoglio sul quale li avevo momentaneamente abbandonati e vado a ripetere l’operazione dall’altra parte, dove si trova la piccola cala rocciosa prediletta da Byron. Mi rituffo e nuoto, nella luce addolcita del pomeriggio che sta scemando, fino alla grotta Byron, anche se non c’è niente di particolare da vedere, come mi conferma una signora di Torino che galleggia a pochi metri da me. Ancora fradicia mi accomodo su uno scoglio, resto a fissare il mare, assorta, e ascolto il fragore della risacca. Con i capelli bagnati, nell’affocato rosso del tramonto, mi congelo. Mi stringo ancor più nell’asciugamani e chiamo il mio consorte con il cellulare: -“Sarebbe bello averti qui accanto a me!”. Sospiro. Segue una nostalgica conversazione (piuttosto breve perchè le pile del mio telefonino sono ormai scariche). Mi incammino nuovamente verso il capolinea dell’autobus. Una volta sul posto, circondata dalla notte incipiente, attendo dubbiosa l’arrivo del mezzo. Nel ristorante di fronte mi rassicurano dicendo che passa fino a mezzanotte e adesso sono solo le nove e un quarto. Infatti dopo una ventina di minuti arriva e appena giunta a Fezzano, esausta, mi vado a coricare.

The day after: Le mie palpebre si aprono all’alba e il corpo si solleva con energia inattesa… Appena butto giù le gambe dal letto, però, mi rendo conto che le giunture sono imbevute di acido lattico: il solo spostamento al bagno è una tortura. Per risparmiare tempo faccio una sorta di colazione “clandestina” alla fermata dell’autobus. Il mezzo pubblico è in ritardo, praticamente una corsa, quella delle sette e cinque, è saltata. Verso le otto mi ritrovo sul lungomare di Portovenere infestato dai camion che stanno raccogliendo l’immondizia o scaricando merci. Mi fermo a un bar per bermi un tè col latte: la cittadina “patrimonio dell’umanità” si sta lentamente popolando ed è appunto allietata da tutto l’andirivieni appena descritto. Mi trovo a due passi dalla piazzetta Bastreri, dove parte il sentiero n. 1 (il cui segnale avevo già individuato ieri sera), che rasenta il castello Doria per poi impennarsi senza sosta fino al forte Muzzerone. Comincio a camminare lentamente, gustandomi il paesaggio (e ansimando per la fatica). Resto interi minuti ammaliata dallo spettacolo del mare e della meravigliosa chiesa di S. Pietro, che come ho visto in certe cartoline, a volte affronta mareggiate paurose, sfidando la selvaggia potenza delle onde del mare in burrasca. In seguito avanzo sul sentiero sassoso e noto con disappunto che l’erba alta nasconde i segnali bianchi e rossi. In capo a un’oretta sono al forte Muzzerone, circondato da filo spinato. Adesso scendo per una stradina asfaltata e dopo vari tornanti (tra l’altro incontro anche alcuni atleti che sembrano essere in procinto di affrontare una scalata sulle pareti a strapiombo sul mare dette “palestra di roccia”) trovo un segnale rosso che invita ad addentrarsi nel bosco. All’imbocco del sentiero leggo un cartello “attenzione, caccia al cinghiale in corso, gli escursionisti sono pregati di collaborare”. Cosa si intende per collaborare? Devo stanare io l’animale? Basta solo evitare di grugnire come un cinghiale e non razzolare in maniera sospetta o devo gridare tutto il tempo “non sono un cinghiale, non sparate!”? Fa un gran caldo, di quelli che rallentano i processi mentali. La china è ripidissima e acciderbolina, mi graffio con i rovi e rischio di ruzzolare. Ma che c… Di sentiero è? Provo a leggere sulla mia guida poco dettagliata: “si attraversa una fitta macchia mediterranea” (in effetti), “ci si imbatte in una torretta e in un vecchio mulino a vento” (ho visto una cosa che sembra una cabina dell’Enel abbandonata, del mulino non c’è traccia). Scuoto il capo cercando di negare l’evidenza a me stessa: mi sono smarrita di nuovo!!! Mi confesso incredula, speravo questa volta di raggiungere Campiglia senza intoppi, invece ciccia. Devo ammetterlo l’indicazione che sto seguendo è solo rossa, non rossa e bianca come all’inizio. Fortunatamente dopo un quarto d’ora risbuco –sicuramente con aspetto un po’ malmesso- sulla strada asfaltata che avevo abbandonato di fronte al cartello sulla battuta di caccia al cinghiale. Adesso col cavolo che mi allontano un’altra volta dalla civiltà. La prima anima viva che incontro è un elettricista che sta facendo dei lavori: – “Senta, dove porta questa strada?” – “Scende fino alle Grazie” – “Quanto ci vorrà?” – “Una mezz’ora, forse di più, a piedi” L’asfalto rovente manda un riverbero da Sahara. Avvisto un abbozzo di borgo vecchio, con il campanile e la chiesa, che trovano rifugio nella parte più remota dell’insenatura protetta. L’aria incandescente fa tremolare l’orizzonte come un velo. Dopo una ventina di minuti di cammino l’elettricista mi soprassa in macchina e mi offre un passaggio per le Grazie. – “Benissimo, poi di lì posso prende l’autobus o per La Spezia o per Portovenere”. Effettivamente sono disfatta dal caldo e mi lascio andare contro il sedile della Panda. Le Grazie: qui ovviamente le ampie spiagge di soffice sabbia dei Lidi Ferraresi sono qualcosa di sconosciuto, ma mi sento dell’umore giusto per un bagno, vuol dire che mi massacrerò di nuovo i piedi sui sassi, tanto sono già un ammasso sanguinolento. Dovrei solo mettermi il costume. Entro in un’edicola-cartoleria per acquistare il biglietto dell’autobus che mi manca e vorrei sapere dove si può fare il bagno e ci si può cambiare. L’edicolante mi indica la chiesa: -“Lì ci sono degli scogli dove la gente prende il sole e fa il bagno, ma non degli spogliatoi.” – “Ma allora come faccio, mi denudo davanti alla chiesa?” Mi propone di nascondermi nel retrobottega, ingombro di fumetti e di riviste pornografiche. Io cerco di fare il più presto possibile, ma sono tutta appiccicosa. -“Signora, ha finito?” Si informa preoccupato dopo cinque minuti. Penserà che mi sto leggendo “a sbafo” i pornazzi? Finalmente posso tuffarmi in queste acque trasparenti, così chiare che si vedono le … Meduse!!! Nuotando lancio proprio una mano sopra all’ombrella gelatinosa di uno di questi celenterati, ma scanso per puro culo i tentacoli. Posto di merda! Le indicazioni fanno cagare, la spiaggia è microscopica e spacca i piedi e inoltre il mare è infestato da questi paracaduti urticanti! Esco gocciolante, mi rimetto in spalla lo zaino e passo accanto all’area archeologica della villa romana del Varignano (chiusa, ovviamente), poi, in autobus torno a Portovenere. Manca poco all’una e penso che in fondo un bel giretto in barca non mi dispiacerebbe per niente. Ma fino alle due e mezza non ne parte nessuna e dopo è troppo tardi perché devo prendere il treno delle 15.30 per Parma, il locale, che costa meno. OK, il castello non sono ancora riuscita a vederlo. La mia ultima tappa è dunque la roccaforte militare costruita dai genovesi, che naturalmente serviva per rendere meno vulnerabile Portovenere dagli attacchi e dalle invasioni dal mare. Gironzolo per i camminamenti, immagino il fortilizio assediato e leggo su un opuscolo che ai tempi di Napoleone era stato adibito a prigione politica. Infine mi incuneo nella luce di una garitta e armeggio con la macchina digitale per cogliere dalle feritoie l’impagabile vista della costa e del mare, perché so già che a casa, in una triste giornata d’inverno, accenderò il computer, mi lascerò andare indietro sulla sedia girevole facendo flettere lo schienale molleggiato e riassaporerò attraverso le immagini i brandelli di questi luoghi che affascinano e s’intrufolano nel cuore con un ricordo indelebile.



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