PECHINO… VAL BENE UNA MESSA di OH NO! ANCORA 1° Pt

E’ passato da poco Natale quando io, mia moglie Miriam, e Daniela e Stefano, due nostri amici, diamo il via a frenetiche consultazioni in cerca di una meta estiva. Dopo aver vagliato, in lunghe sedute invernali, praticamente tutto il globo terracqueo, l’unica cosa che riusciamo a decidere è la data di partenza: il 15 agosto. Il 10 di agosto,...
Scritto da: Luciano M.
pechino… val bene una messa di oh no! ancora 1° pt
Partenza il: 15/08/2004
Ritorno il: 29/08/2004
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
E’ passato da poco Natale quando io, mia moglie Miriam, e Daniela e Stefano, due nostri amici, diamo il via a frenetiche consultazioni in cerca di una meta estiva.

Dopo aver vagliato, in lunghe sedute invernali, praticamente tutto il globo terracqueo, l’unica cosa che riusciamo a decidere è la data di partenza: il 15 agosto.

Il 10 di agosto, più per sfinimento che per convinzione, la decisione è presa: andremo in Polonia, attraversando in auto l’Austria e la Repubblica Ceca.

Il giorno dopo, svaligiata una libreria di tutte le guide esistenti sui luoghi che andremo a visitare, mi stendo sotto l’ombrellone accingendomi ad iniziare la lettura. “Ferma tutto. Ho risolto la vacanza” mi blocca Miriam appena mi vede.

“Ah si? E come?” rispondo con un sorrisino ironico.

“Andiamo in Cina con Franca” Il sorrisino si tramuta immediatamente in una smorfia di terrore.

“In Cina …? Con Franca …? E chi è Franca?” “Non fare lo scemo. E’ la mia amica di Napoli. E’ stata anche testimone nel nostro matrimonio… ricordi?” Mi torna immediatamente la memoria.

“Va bene, ma che ci va a fare in Cina?” “Va a trovare il fidanzato che si è dovuto trasferire lì per lavoro e ci hanno invitato a raggiungerli” Ci penso un po’, poi sentenzio solennemente: “Ok. Allora andiamo in Cina”.

La Cina. Dunque. Cosa so io della Cina? Mao Tze Dong, ping-pong, L’Ultimo Imperatore… praticamente nulla! Torno di corsa in libreria e sotto gli sguardi perplessi della cassiera, compro una guida di questo sconosciuto paese. Una sola, stavolta, perché le sue dimensioni sono all’incirca le stesse di tutte le precedenti guide messe assieme.

Dopo aver avvertito Stefano e Daniela del piccolo cambiamento di programma (i quali, a parte un leggero mancamento iniziale, accettano con entusiasmo), ci rechiamo tutti in corteo nella solita agenzia di viaggio.

“Potevate venire un po’ più tardi! Le compagnie aeree stavano giusto aspettando voi” è la prima reazione dell’operatore.

“Non faccia l’esagerato. Chi vuole che ci vada in Cina!” rispondo con il solito sorrisino sulle labbra che anche questa volta, però, sarà destinato a spegnersi progressivamente. Infatti, dopo un’ora di disperate ricerche, di biglietti economici con partenza il 15 neanche l’ombra.

Cominciamo quindi a vagliare quelli “sufficientemente accettabili”, fino ad arrivare a quelli “appena umani”. In questa categoria riusciamo finalmente a trovare quattro miseri posticini sull’Air France.

Mancano solo tre giorni alla partenza ed abbiamo appena il tempo per fare le valige. “Sì, ma che ci mettiamo nelle valige?” mi fa notare Miriam.

Basta una rapida occhiata alla guida per cominciare a farci nutrire i primi dubbi sulla bontà della nostra frettolosa decisione.

Sembra che la Cina in agosto sia uno dei posti più infernali del mondo: caldo, umidità, piogge, tifoni e chi più ne ha più ne metta.

“Le valige saranno leggerissime” concordiamo all’unisono, e per la prima volta in vita nostra riusciamo a far entrare tutto in appena due trolley!

15-16 AGOSTO La mattina dell’imbarco devo ammettere di essere emozionato, cosa che non mi succedeva da molto tempo per un viaggio, ma davvero non so cosa aspettarmi dalla mitica e misteriosa Cina.

Il volo aereo, intanto, non fa altro che confermare la mia atavica scarsa propensione per tutto ciò che contiene il termine “Francia” nel nome. I sedili sono così stretti che, quando il signore davanti a me decide di inclinare il suo schienale, me lo ritrovo praticamente in braccio. Per di più mi tocca sedere nel posto centrale e la ragazza cinese che mi si sistema a fianco, si addormenta immediatamente dopo la partenza (risvegliandosi miracolosamente, però, pochi secondi prima dell’arrivo di ogni pasto), impedendomi così qualsiasi velleità di uscita in corridoio per sgranchirmi le gambe. Se a ciò aggiungiamo che le hostess sono di una scortesia rara, che i film trasmessi sono francesi e cinesi (davvero una bella lotta) e che il cibo è tra i peggiori mangiati nella mia lunga esperienza aeronautica, devo dire che l’arrivo a Pechino viene salutato con grande entusiasmo … non solo per l’inizio dell’avventura! All’aeroporto troviamo la prima piacevolissima sorpresa. Franca e Andrea (il suo fidanzato) sono venuti a prenderci e, mentre gli altri turisti si affannano per cercare di districarsi nella jungla di taxi multicolori all’uscita dell’aeroporto, noi ci sistemiamo comodamente nel pulmino con autista che Andrea ha affittato per l’occasione.

In realtà Andrea lavora come ingegnere a Suzhou, vicino Shanghai, ed è venuto a Pechino, approfittando del nostro arrivo, per passare qualche giorno di vacanza assieme a Franca (che ci aveva preceduti di qualche giorno), in questa città che non aveva ancora visitato.

I due ripartiranno questa sera alla volta di Suzhou, lasciandoci come gradita eredità sia il pulmino che l’autista.

Il primo impatto con Pechino è sconvolgente. Assolutamente nulla di ciò che avevamo immaginato. Una città modernissima, ma di un moderno “disordinato”. Migliaia di palazzoni enormi ed anonimi sono sorti e continuano a sorgere (la strada dall’aeroporto al centro è una sequela interminabile di cantieri) senza alcun apparente disegno urbanistico. Le larghissime strade, simili alle highway di Los Angeles, sono intasate da un traffico caotico fino all’inverosimile. Se non fosse per le scritte dei negozi e per la fiumana di biciclette, si stenterebbe a credere di trovarsi in Cina.

Il primo pensiero che ci corre per la mente è di cosa succederà quando qualche centinaia di migliaia di questo milione di ciclisti potrà comprarsi un’automobile! Mentre guardiamo rapiti l’incredibile spettacolo, Andrea comincia a darci qualche utile consiglio di sopravvivenza.

“Se volete conservare la vostra incolumità, la prima cosa che dovete ricordare è che qui gli automobilisti sono dei pazzi criminali …” e non ha ancora finito la frase che una macchina esce da una strada laterale e, senza minimamente rallentare, ci taglia la strada costringendo Zhao, il nostro autista, ad una frenata brusca. Ci aspettiamo qualche sana bestemmia come reazione, invece nulla. Come se niente fosse, innesta la marcia e riparte senza dire una parola.

E’ questa la nostra prima lezione sulla filosofia di vita dei cinesi. Dopo svariate centinaia di anni di muta sopportazione, i cinesi hanno perso l’abitudine di protestare. Nulla li può scuotere dalla loro imperturbabile rassegnazione e, durante il nostro viaggio ne avremo numerose riprove.

Dopo aver evitato per un pelo una dozzina di auto e qualche centinaio di ciclisti, arriviamo finalmente in albergo piuttosto scossi. Il nostro hotel (prenotato dall’Italia via Internet, è il Beijing Hao Yuan Hotel, un antico “siheyuan” (vecchia residenza tipica) ristrutturato. Dicono che ci abbia dormito Tony Blair durante la sua visita in Cina, ma nutro qualche dubbio in proposito. La struttura è ad un piano e tutte le stanze si affacciano su un cortile centrale molto suggestivo (soprattutto la sera, quando le lanterne rosse appese davanti ad ogni porta sono accese). Le stanze sono piccole, ma arredate con mobilio tradizionale. Insomma, quello che ci voleva dopo lo scioccante impatto con la “nuova Cina”.

Il tempo di una doccia e siamo subito in pista. A dire il vero, dopo il lungo viaggio e una notte totalmente insonne a causa del fuso, siamo distrutti, ma vogliamo far fruttare al massimo il tempo a nostra disposizione. Dopo aver riaccompagnato Franca e Andrea all’aeroporto, il nostro autista torna a prenderci e, prima di mettersi in moto ci mostra un foglio su cui è stampato un itinerario dettagliato dei 3 giorni seguenti. Non parla inglese, e men che meno italiano, quindi non riusciamo a capire cosa voglia comunicarci.

E qui è bene aprire una parentesi importante. In Cina nessuno parla inglese, se non qualche sporadico addetto al turismo o negoziante intraprendente. Le conversazioni, quindi, si svolgono alla stessa stregua di quelle tra due sordomuti che non conoscono il linguaggio dei segni. Scrivere non serve a nulla, perché loro non sanno leggere i caratteri occidentali, né noi i loro incomprensibili scarabocchi. Ma la cosa drammatica è che anche la gestualità è totalmente differente, quindi, potrete sbracciarvi quanto volete ballando il “ballo del qua-qua” nel tentativo di mimare un’anatra (abbiamo fatto anche questo). Non vi capiranno.

Per fortuna sembra che i giovani, oltre che scimmiottare la moda occidentale, comincino anche ad interessarsi allo studio dell’inglese e nel futuro le cose potrebbero cambiare. Ma torniamo a noi. Dopo una estenuante battaglia verbale con il nostro autista, riusciamo a capire che quello che ci ha mostrato è il nostro programma di visita. Non conoscendo i cinesi la parola “anarchia”, così cara a noi italiani, devono sempre attenersi ad un qualche programma, quindi l’agenzia, in mancanza di altre indicazioni, ci ha preparato un itinerario a sua discrezione. Nei giorni successivi, evadere dal programma ufficiale sarà tanto difficile quanto divertente.

Per ora siamo troppo stanchi per discutere, quindi, ci facciamo portare buoni buoni alla nostra prima meta: la Città Proibita.

Prima di ogni altra cosa, però, dobbiamo recarci in un ufficio turistico per acquistare i biglietti degli aerei e dei treni che utilizzeremo nei prossimi giorni per i nostri spostamenti. Chin ci porta nella sede del CITS, l’ufficio statale per il turismo cinese, una moderna costruzione tutto vetro e cemento, dove veniamo accolti da un gentilissimo impiegato che, in un inglese comprensibile, in men che non si dica esaudisce tutte le nostre richieste. Stiamo già complimentandoci per l’inaspettata dimostrazione di efficienza, quando arriva il momento di pagare. Tiriamo fuori le carte di credito … ed inizia la nostra Odissea. Senza scomporsi, l’impiegato dice di seguirlo e ci accompagna in una stanza al piano di sopra. Qui un altro impiegato ci fa compilare un modulo piuttosto dettagliato, quindi ci accompagna in una seconda stanza, dove consegniamo le carte di credito. Alla terza stanza, cominciamo ad avere il sospetto che le cose non saranno così semplici. Io e Stefano, esterrefatti, ma al contempo affascinati da tanta “organizzata disorganizzazione”, continuiamo nel nostro via vai tra corridoi, scale ed ascensori per prendere le ricevute, firmare le ricevute, riavere le carte di credito … il tutto rigorosamente in stanze diverse. E’ una burocrazia a compartimenti stagni che ti ipnotizza togliendoti ogni velleità di reagire. Finalmente facciamo ritorno a pianterreno con le nostre belle ricevute di pagamento che consegniamo al nostro amico impiegato, il quale ci comunica con un largo sorriso che i nostri biglietti sono nel terminale e basta farli uscire dalla stampante. Data la sua immobilità, però, questa operazione non sembra interessarlo particolarmente.

“Bene, e perché non lo fa?” accenna timidamente Daniela.

“Perché è mezzogiorno e io sono in pausa. Ci dobbiamo rivedere più tardi” è la risposta del nostro ineffabile amico, il quale prende una pesca dal cassetto della sua scrivania e se ne va da una porta secondaria lasciandoci tutti con un palmo di naso.

Queste poche ore in terra cinese ci hanno già fatto capire dei suoi abitanti più delle decine di libri e guide che eravamo riusciti a leggere prima di partire. Ma ogni minuto che passa facciamo qualche nuova scoperta. Ad esempio, cominciamo a pensare che il nostro taciturno Zhao, con tutta probabilità sia un ex membro della polizia segreta, in quanto non ci lascia un attimo da soli e ogni volta che scendiamo dalla macchina ci segue come un ombra. Ripresa la marcia di avvicinamento alla Città Proibita, parcheggiamo l’auto nei pressi di piazza Tian’anmen, e naturalmente Zhao vorrebbe accompagnarci anche dentro il sito, ma stavolta siamo irremovibili: la visita la vogliamo gestire secondo i nostri tempi.

Detto così potrebbe sembrare una cosa semplice, ma in realtà la nostra botta di orgoglio ci costa una lunga e laboriosa discussione sotto il faccione di Mao che campeggia benevolo dall’alto della porta d’accesso alla Città Proibita. Quando finalmente riusciamo ad avere ragione di Zhao, con nostra grande sorpresa ci accorgiamo di essere attorniati da decine di persone che ci osservano con attenzione, facendo commenti fra di loro.

“E questi che vogliono?” accenna Stefano “Boh. Uno mi ha anche messo il braccio sulla spalla per sentire meglio” replica Daniela.

E’ il nostro primo impatto con la smodata curiosità dei cinesi, e la loro assoluta mancanza di pudore. Durante il viaggio ne avremo molti altri esempi, alcuni esilaranti. Mentre si stanno facendo delle riprese con la telecamera, ad esempio, non è raro vedersi fare capolino, da sopra una spalla, la testa di un cinese che vuole guardare dentro il piccolo schermo che cosa si sta riprendendo.

Finalmente soli, ci soffermiamo un attimo su uno dei ponti che accedono alla Città Proibita per dare uno sguardo all’immensa piazza che si apre davanti a noi. A causa delle molte costruzioni presenti al suo interno, non se ne ha una comprensione globale, ma volendola girare a piedi, ci si accorge della sua vastità. Tutt’attorno i palazzi del potere e, appena alle sue spalle, una gigantesca struttura moderna che sembra un pallone pressostatico fuori formato. La guida dice che è il nuovo e contestatissimo (a ragione direi) Teatro dell’Opera.

Mi tornano alla mente le immagini in bianco e nero dei telegiornali di quando ero bambino che mostravano questo immenso spiazzo percorso da carri armati e soldati in parata, sotto lo sguardo (stavolta reale) di Mao e di un’altra serie di cariatidi in pigiama e berrettino. Gli stessi pigiami e berrettini che vedo indosso ad un gruppo di tizi che mi passano a fianco. I volti segnati, probabilmente contadini dell’entroterra venuti in visita nella grande capitale, saranno gli unici ad indossare le vecchie divise maoiste, che vedremo in tutto il viaggio.

Il giro nella Città Proibita è lungo e, per noi, piuttosto faticoso. Per fortuna il cielo è un po’ coperto ed il caldo è sopportabile. Come spesso accade in posti famosi, si ha sempre l’impressione di averli già visti, anche se è la prima volta che si visitano, e questo non fa eccezione. Il sito è una serie ininterrotta di grandi piazze e costruzioni in legno, molto diverse dal nostro concetto di palazzo. Sono in realtà dei grandi padiglioni, ad un piano e aperti verso l’esterno. Abbandonati a se stessi per lunghi anni, molti sono ora in fase di restauro. Purtroppo non è consentito entrarvi all’interno, e le loro decoratissime sale si possono vedere solo attraverso delle vetrate, sempre che si abbia voglia di ingaggiare degli incontri di lotta libera con la muraglia di visitatori che vi stazionano davanti. Al termine della visita accogliamo come una manna il bel giardinetto nei pressi dell’uscita, dove ci fermiamo all’ombra a riposare e riordinare le idee.

Non abbiamo voglia di tornare da Zhao, così, eludendone la sorveglianza, ci spingiamo fino all’immenso (è l’ultima volta che uso questo termine, tanto in Cina è tutto immenso) parco del lago Beihai, uno dei tanti polmoni verdi della città. Qui affittiamo un pedalò e ci rilassiamo sull’acqua ipnotizzati dallo splendido paesaggio e … dall’insistente cigolio dei pedali (che avrebbero bisogno di una bella oliata).

Dopo esserci fermati in un baretto a mangiare un Magnum Algida (sembra incredibile, ma sono i gelati più diffusi in tutta la Cina), ritorniamo al pulmino, prima che Zhao decida di denunciare la nostra scomparsa alla temibile polizia cinese.

Tornati in albergo evitiamo di allungarci sul letto, per non rischiare di addormentarci. Sono quasi 36 ore che non chiudiamo occhio, ma in questa lunghissima prima giornata abbiamo un’altra importante incombenza che nessuno vuole perdere: l’anatra laccata! Zhao ci porta in uno dei più antichi e famosi ristoranti di Pechino specializzati in questa prelibatezza: il Quanjude Roast Duck Restaurant.

L’ingresso in questo tempio dell’anatra alla pechinese è scioccante. Il locale è immenso (accidenti, ci sono ricascato) e sovraffollato. Dopo aver ritirato un numero da una avvenente ragazza in costume tipico, si viene parcheggiati in una specie di “sala d’attesa”, attrezzata con sedie sistemate a platea, nella quale una cinquantina di persone attendono pazientemente il loro turno. Chiaramente i numeri vengono di volta in volta annunciati in cinese, quindi, messo il nostro orgoglio nel cassetto, preghiamo Zhao di rimanere con noi per avvertirci quando sarà il nostro turno.

Sulla parete di fondo di questa affollata “antisala”, una grande vetrata si apre sulle cucine dove, sotto i nostri occhi rapiti, una squadra di cuochi prepara, come in una catena di montaggio, una enorme quantità di volatili. L’interminabile fila di anatre appese per il collo a mò di impiccato, dà una certa credibilità al vistoso display luminoso attaccato nella sala da pranzo, che aggiorna il numero degli uccelli che sono state sfornati dall’apertura del locale: ad oggi ben 115 milioni. Una strage! La cena viene servita secondo un rituale rigoroso ed un po’ asettico. Un cameriere in mascherina e guanti da chirurgo, raggiunto il nostro tavolo con un’anatra grande quanto un tacchino adagiata su un carrello, ci seziona abilmente l’animale ricavandone sottili fette di carne e pezzi di pelle croccante, che ci invita a mangiare dentro delle frittelline di pane con l’aggiunta di verdure ed una salsa scura e dolciastra. Dopodiché, con un colpo netto le taglia la testa e la spacca a metà, poggiandola con cura sul tavolo come un oggetto particolarmente prezioso. In effetti è questa la parte più ambita dai cinesi che la considerano una vera leccornia, ma per noi sarà una presenza inquietante per tutta la durata della cena. La distribuzione di un brodino conclude l’operazione.

Che dire? Tralasciato il brodino (e, naturalmente, la testina) che è oleoso e insapore, tutto il resto è semplicemente divino! Il conto, poi, è quasi ridicolo, ma non immaginiamo ancora che questo sarà il pasto più costoso di tutto il viaggio! Distrutti, ma felici, raggiungiamo l’albergo dove finalmente ci tuffiamo nei nostri graziosi lettini di legno e bambù.

17 AGOSTO La mattina dopo ci ritroviamo nella sala della colazione dove è esposta tutta una serie di cibi misteriosi che gli avventori locali mangiano di gusto accompagnandosi con brodini caldi e verdure bollite. Nel mio precedente racconto londinese ho già avuto modo di esporre la frenesia gastronomica che caratterizza i miei viaggi all’estero, ma devo ammettere che un brodino con le verdure in prima mattina non riesce proprio ad attirare la mia curiosità. Prendiamo quindi un thé ed un po’ di frutta e usciamo in strada dove Zhao ci sta già attendendo (chissà da quanto). Non facciamo in tempo a salire tutti sul pulmino, che ci mostra il temuto programma. Per la mattinata è prevista la visita al Tempio del Cielo, cui farà seguito, nel pomeriggio, il Palazzo d’Estate.

L’itinerario non ci soddisfa. Noi vogliamo visitare prima il Palazzo d’Estate e poi la Grande Muraglia, per lasciare il Tempio del Cielo al giorno successivo, ma questo è decisamente troppo per la sua (e la nostra) comprensione linguistica, quindi, preso il telefonino, chiama il suo capo. Qui inizia una surreale conversazione a tre (sarebbe meglio dire a sei) con Zhao che pone le domande in cinese al suo capo, il quale le traduce a Daniela (la nostra interprete ufficiale) in un inglese quasi incomprensibile, questa le ritraduce a noi in italiano, quindi ritraduce in inglese le nostre risposte al capo, il quale le riritraduce in cinese a Zhao. Il tutto con un solo telefonino che viene passato vorticosamente dall’uno all’altro. Sembra impossibile, ma riusciamo a metterci d’accordo e partiamo di gran carriera verso il Palazzo d’Estate.

Il viaggio è breve e, dopo aver come al solito evitato per miracolo una mezza dozzina di incidenti lungo la strada, raggiungiamo questo antico rifugio estivo degli imperatori dalla calura insopportabile della Città Proibita. Non si tratta di un vero e proprio palazzo, ma di una serie di padiglioni e templi sparsi attorno ad un lago ed avvolti da una rigogliosa vegetazione. Il posto è incantevole, anche se stracolmo di turisti. Durante la visita abbiamo la conferma di ciò che avevamo intuito il giorno precedente. I turisti in Cina sono quasi tutti cinesi che, forse iniziando a godere di una certa disponibilità economica, affollano praticamente ogni angolo del loro paese.

E’ comunque estremamente piacevole passeggiare tra i vari camminamenti che costeggiano il lago, superando ponticelli che si affacciano su distese di fiori di loto. Oggi è una giornata serena e la calura si fa sentire, ma la fitta vegetazione ed i molti porticati, offrono continue possibilità di refrigerio. Cosa che non si può dire della scalinata che conduce alla “Torre dei profumi Buddisti” che i miei compagni mi costringono a salire per poter ammirare la vista dall’alto. Il percorso, infatti, è scoperto ed arrivo in cima boccheggiante, giusto in tempo per ottenere un clamoroso schiaffo morale da una signora, salita prima di me, così vecchia da sembrare millenaria e che per di più ha i piedi piccoli, nel rispetto di una tradizione molto in voga nel passato ed oggi fortunatamente messa al bando. La signora in questione, infatti, complice anche l’età, è costretta a camminare in modo malfermo e deve reggersi continuamente per non cadere. Vedere caracollare questa vecchietta sui suoi moncherini è al contempo emozionante e commovente. Giunti alla fine del giro e dopo aver ammirato, tra le altre cose, una improbabile nave di pietra ormeggiata sulle rive del lago, prendiamo un battello (vero) che ci riconduce all’uscita. Durante il breve tragitto Daniela si produce in una accanita conversazione con un gruppo di studenti coreani che, una volta conosciuta la nostra nazionalità, ci accolgono con l’ormai consueto “Italiani. Baggio … Inzaghi … Del Piero …”. E’ sorprendente come, in barba a millenni di cultura, l’unica immagine di noi che riusciamo ad esportare è quella dei nostri calciatori (che tra l’altro non vincono nulla da decenni).

Recuperato Zhao, partiamo immediatamente alla volta della Grande Muraglia.

Il nostro amico Andrea ci aveva consigliato di non farci portare a Badaling, sempre affollato di turisti, ma a Mutianyu, ugualmente bello e meno frequentato. E così facciamo. Il percorso è un po’ più lungo, ma il panorama è così bello da non lasciarci un momento di distrazione… nonostante le manovre di Zhao che, ce ne accorgiamo ora con una certa apprensione, non sa guidare. Riesce a destreggiarsi benissimo nel folle traffico cittadino, ma appena il percorso si fa più accidentato, le sue carenze di pilota vengono drammaticamente alla luce. A parte la disattenzione delle più elementari norme stradali (sorpassi azzardati, ecc.) affronta le numerose curve in salita sempre in maniera errata, a volte tagliandole troppo, a volte facendo il pelo allo strapiombo che scorre sulla nostra destra (ovviamente privo di guard rail).

Stiamo proprio riflettendo su questo, quando, superata una curva cieca, Zhao rallenta e ci indica di guardare in alto. All’improvviso ci dimentichiamo di tutto. Sul crinale della montagna che abbiamo davanti si stende come un infinito serpentone la Grande Muraglia. Siamo nella leggenda! Percorriamo gli ultimi chilometri in preda ad una grande eccitazione e quando arriviamo alla base della seggiovia che ci porterà a destinazione, schizziamo letteralmente verso la biglietteria, dove ci pongono una strana domanda: “come volete scendere?”.

Ci stiamo ancora interrogando fra di noi su quale misterioso mezzo possa esserci, oltre alla funivia, per tornare indietro, che la bigliettaia ci porge un depliant, dal quale apprendiamo con sgomento che hanno costruito un “toboga”! Per la precisione, un lunghissimo scivolo in acciaio sul quale si scende a folle velocità seduti su delle specie di slitte con le ruote. Rifiutiamo l’offerta inorriditi e, il tempo di superare lo sbarramento antiuomo dei venditori di paccottiglie, iniziamo la salita.

Il leggero sconforto dovuto al toboga ci passa all’istante osservando l’affascinante panorama delle montagne e la vista, sempre più ravvicinata, della Muraglia. E, quando finalmente mettiamo i piedi sopra le sue antiche pietre ci sentiamo davvero al “settimo cielo”. Lo spettacolo è talmente imponente che siamo portati a parlare sottovoce per non rompere l’incantesimo. Una cosa del genere mi era capitata soltanto davanti al Grand Canyon, ma questa è un’altra storia.

Le condizioni della visita sono ideali. Non c’è praticamente nessuno e una provvidenziale nuvola copre il sole, evitandoci così anche una copiosa sudata durante le faticose “scalate” dei tratti più ripidi. La parte aperta al pubblico è ben restaurata, ma si vedono in lontananza dei tratti coperti dalle sterpaglie, alcuni semicrollati, che nella loro autenticità, sprigionano un fascino di eguale, se non superiore, intensità. Prima di andare via ci fermiamo per una decina di minuti su una torretta ad ammirare il paesaggio per l’ultima volta. Siamo contenti. Mentre ci accingiamo a riprendere la seggiovia, Stefano azzarda timidamente: “Non è che vogliamo fare una piccola follia?” Lo fulmino con lo sguardo, ma subito Miriam e Daniela intervengono:“Dai, su. Proviamoci. Magari è divertente. E poi, quante persone conosci che possono dire di essere scese in toboga dalla Grande Muraglia?” Nonostante i miei dubbi sulla ineccepibilità delle argomentazioni, in un attimo mi ritrovo seduto su un trabiccolo dal quale comincio a temere di rialzarmi con qualche osso rotto. La discesa, però, è tanto irriverente, quanto divertente, e raggiungiamo Zhao felici come dei bambini. Visto che ormai ho rotto il ghiaccio, però, non mi sembra giusto fare le cose a metà, così compro una bella maglietta con su scritto “I have climbed the Great Wall” e me ne torno soddisfatto dagli altri.

Dopo esserci conquistati l’eterna gratitudine di Zhao con la semplice offerta di un gelato, ritorniamo in città, o almeno così pensiamo, perché lungo il tragitto, il nostro autista ci propone una sosta in un grande magazzino “casualmente” incontrato. A gesti ci fa capire di aver compreso la parola “perle” durante una nostra conversazione e sembra che questo sia il posto giusto per acquistarle.

Miriam e Daniela non sembrano per nulla infastidite dalla sosta … anzi … così ci tuffiamo nella nostra prima esperienza di shopping cinese.

Il grande magazzino in questione, che all’esterno appare come un moderno e banale palazzotto in cemento armato, all’interno segue fedelmente l’etimologia della parola: non è altro, infatti, che un magazzino di grandi dimensioni. Per meglio dire, sono cinque piani stracolmi fino all’inverosimile di ogni genere di merce, per la gran parte contraffatta. Ogni settore è dedicato a qualche articolo ed una serie di piccoli box, gestiti da chiassosi commercianti, si susseguono uno dopo l’altro.

Mentre Miriam si dirige, come attratta dalle sirene, verso il reparto “perle”, io mi faccio un giretto esplorativo. Di solito non amo caricarmi di acquisti nei primi giorni di viaggio, ma qui c’è davvero di che perdere la testa. E infatti la perdo.

Nel giro di pochi minuti acquisto un paio di magliette dal marchio famoso, veramente perfette, ma ad un decimo del prezzo delle originali. Mi reco da mia moglie per mostrarle orgoglioso questi miei primi successi, ma vengo subito riportato con i piedi per terra. Lei alla metà di quanto ho speso io ha già comprato una collana di perle e due collanine di giada! C’è da premettere che io non sono per nulla portato per le contrattazioni, soprattutto se estenuanti come quelle che si svolgono qui. Avevo già avuto esperienze di questo genere in diversi paesi del mondo, ma l’alto grado di professionismo raggiunto dai cinesi in quest’arte credo sia ineguagliabile.

Qualsiasi prezzo tu abbia spuntato al termine della tua lunga battaglia, te ne vai sempre con la netta sensazione di esserti fatto fregare (in alcuni casi la sensazione diviene certezza quando, allontanandoti, vedi i venditori ridacchiare fra di loro indicandoti con la mano).

Dopo un paio d’ore di shopping sfrenato, stanchi ma felici e, soprattutto, carichi di roba utile (poca) ed inutile (molta) di ogni genere, ritorniamo in albergo.

Abbiamo appena il tempo per una doccia e siamo di nuovo in giro per Pechino. Nonostante la struttura della città non sia di grande interesse, il vero divertimento è osservare il comportamento della gente. Sulle prime siamo un po’ timorosi di urtarne la suscettibilità ridendo delle loro (per noi) strane abitudini, ma quando ci accorgiamo di essere noi stessi oggetto di uguale ilarità da parte loro, non ci facciamo più alcuno scrupolo.

Basta una breve passeggiata per sfatare la leggenda che vuole i cinesi riservati e silenziosi. I cinesi sono rumorosissimi. Comunicano fra di loro a voce altissima, tanto che, sulle prime, abbiamo sempre l’impressione che stiano litigando. Inoltre, ogni negozio ha un impianto stereo fuori dalle vetrine che spara musica a tutto volume per le strade. Il tutto, unito al traffico onnipresente, alle volte ci impedisce perfino di parlare fra di noi. Se dovessi farmi un’opinione dei cinesi da questi primi passi pechinesi, direi che le loro principali occupazioni siano: mangiare, fumare e … sposarsi.

Per quanto riguarda le prime due, non ricordo di aver visto alcun cinese senza una scodella di cibo o una sigaretta in mano (sarei pronto a giurare che il grande smog di Pechino sia dovuto più al fumo delle sigarette che agli scappamenti delle auto). Alle volte entrambe le cose contemporaneamente. Ma la vera curiosità di cui siamo testimoni è la inusuale presenza di un gran numero di agenzie specializzate nell’organizzazione di matrimoni. Sono dei grandi saloni divisi in tanti piccoli salottini dove alle coppiette vengono illustrati tutti i particolari di un moderno matrimonio occidentale. Addobbi floreali, torte nuziali, automobili di rappresentanza, sembra che i cinesi ne vadano matti. Un’altra cosa che balza immediatamente agli occhi (oltre al personalissimo abbigliamento dei ragazzi, creato con la sovrapposizione casuale di capi di stile occidentale), è che la gente non sembra particolarmente soddisfatta dei propri capelli lisci e neri (per i quali, per inciso, mia moglie farebbe follie), per cui li massacrano con improbabili tinture bionde e, nel caso delle donne, con permanenti che non “attecchiscono” e lasciano i loro capelli, più che ricci, penosamente arruffati.

Per quanto riguarda la tanto temuta abitudine di sputare per terra dovunque e comunque, tipica dei cinesi, sembra che il governo abbia deciso di estirparla una volta per tutte, mettendo pesanti multe. In effetti bisogna dire che nelle strade cittadine il fenomeno è contenuto, ma appena ci si sposta in zone più periferiche e, soprattutto, nelle città vecchie, il tiro al bersaglio è ancora notevole. Col tempo diverremo dei veri professionisti nel distinguere l’intensità del suono prodotto dal “raschio” preparatorio. Più è vicino, maggiore è il pericolo di essere colpiti. Siamo intenti nelle nostre considerazioni, quando ci imbattiamo in un gruppo di una ventina di aspiranti parrucchieri, disposti ordinatamente sul marciapiede davanti al salone. Hanno tutti una spazzola in mano e ripetono all’infinito i movimenti dell’istruttore, posizionato di fronte a loro. Dire che la scena è inusuale è un puro eufemismo, ma i passanti non ne sembrano minimamente sorpresi. E’ la prima volta in vita mia che trovo divertente una “passeggiata per il centro”. Per le strade c’è una tale quantità di gente che va e che viene da far apparire incredibile il pensiero che tutti possano avere una qualche occupazione. Ed in effetti, ad un più attento esame, si ha l’impressione che per offrire una qualsiasi attività all’impressionante mole di persone, i cinesi si siano ingegnati nel creare un serie di attività del tutto superflue. Ad esempio, appostati nei pressi dei semafori ci sono due omini con una bandierina rossa, uno per ogni lato della strada, il cui compito (già di per sé assurdo) è quello di controllare che tutti i pedoni rispettino il semaforo, ma in realtà non fanno altro che agitare la loro bandierina per tutta la giornata assistendo disinteressati alla totale anarchia di pedoni ed auto. O ancora, davanti ad ogni ristorante stazionano permanentemente delle persone addette esclusivamente all’apertura della porta ai clienti che entrano e che escono. E così via.

Mentre avanziamo per le strade, avvisto un negozietto di dischi. Essendo un grande appassionato di musica, quando viaggio trovo divertente acquistare musica autoctona dei più svariati generi. Anche qui in Cina non mi posso lasciare sfuggire questa occasione, quindi entro e chiedo di conoscere i musicisti che si trovano al top delle classifiche locali. Il negoziante conosce solo alcuni termini, tipo “pop, rock, R&B, ecc.”, ma è più che sufficiente per instaurare un proficuo dialogo. All’inizio mi pare un po’ sorpreso, forse sono il primo occidentale che mostra di interessarsi agli idoli del posto, ma dopo essersi accertato di aver capito bene, con un lampo di soddisfazione negli occhi, comincia a farmi ascoltare svariati CD di artisti che, mi pare di capire, sono sulla cresta dell’onda. I brani non sono affatto sgradevoli, tutt’altro, anche se le canzoni sono, chiaramente, in cinese. Devo dire che fa una certa impressione ascoltare queste melodie straordinariamente simili a quelle di casa nostra, cantate in questa lingua melodiosa ma incomprensibile. Compro tre CD, a qualcosa come 3 euro l’uno, e raggiungo gli altri in un negozio di scarpe, dove, stranamente, Miriam se ne sta in un angolo disinteressata.

“Che ti è successo? Stai male? Non hai comprato neanche un paio di scarpe” “Ti sembra facile. In tutto il negozio non ce n’è un paio del mio numero! – mi risponde con uno sguardo depresso – E’ come un incubo, ci sono scarpe che non costano niente e non posso comprarle!”. E’ il nostro primo impatto pratico con la piccola corporatura dei cinesi. Avvertiti preventivamente da Andrea dell’abitudine locale di consumare la cena piuttosto presto, nonostante siano solo le sette, cominciamo a guardarci attorno per cercare un ristorante. Non abbiamo voglia di allontanarci troppo, così ci dirigiamo verso un locale, attratti più dal menù esposto che dalla sua estetica complessiva. La sala interna, infatti, sembra strettamente imparentata con quella di uno dei tanti ristoranti cinesi di casa nostra, dall’arredamento un po’ raccogliticcio e dall’ambiente freddino.

Dopo aver effettuato le nostre ordinazioni, in modo pressoché casuale, da un menù di almeno cinquanta pagine, le cameriere cominciano ad indicarci e, senza alcuna remora di sorta, scoppiano in una fragorosa risata. Scena, questa, che, da quando siamo arrivati in Cina, si ripete con preoccupante frequenza.

E’ ovvio che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. Ma cosa? La risposta non tarda a giungere: ognuno dei piatti che abbiamo ordinato è già dosato per quattro persone, quindi, avendo noi fatto, in media, tre ordinazioni a testa, ci ritroviamo a dover consumare la bellezza di una decina di portate cadauno! Al termine di questo pasto simil-nuziale, peraltro buonissimo, ma che siamo costretti a lasciare in gran parte sul tavolo, io e Stefano ci vogliamo concedere l’assaggio del Maotai, un liquore locale molto rinomato.

La cameriera, venuta a conoscenza delle nostre intenzioni, però, tenta misteriosamente di dissuaderci. Memori della figuraccia iniziale, non vorremmo incorrere in chissà quale nuova brutta sorpresa, così stiamo quasi per recedere dalle nostre intenzioni, quando la cameriera ci indica con faccia angosciata il prezzo segnato sul menù: 25 yuan (2,5 euro) a bicchiere. E’ allora che capiamo. Non ci vuole dare il liquore perché per lei costa troppo! Rassicuriamo la ragazza sulla nostra capacità di poter sopportare una tale cifra e ci beviamo in un sol sorso il bicchierino, ottenendo, così, un pronto riscatto ai suoi occhi. Il conto ci fa comprendere le preoccupazioni della cameriera, infatti, nonostante i “costosi” bicchieri di liquore, paghiamo 6 euro a testa. Dopo le mazzate continue a cui siamo abituati in Italia, è una vera pacchia.

Mentre torniamo in albergo veniamo a conoscenza di un’altra strana abitudine locale. Sembra che i cinesi amino farsi i capelli la sera tardi. Tutti i negozi di parrucchiere che incontriamo lungo la strada, non solo sono aperti, ma sono pieni di avventori seduti ordinatamente ad attendere il loro turno. “Ma sono matti? Si vanno a fare i capelli prima di andare a dormire – obietta incredula Miriam – Domattina si svegliano con i capelli dritti in testa!”

18 AGOSTO Oggi, il (nostro) programma prevede la visita al Tempio del Cielo. Anche qui, più che di un tempio isolato, si tratta in realtà di un complesso molto vasto comprendente più templi immersi in un gigantesco parco. A parte le strutture architettoniche, interessanti per i loro significati simbolici, ma dall’estetica piuttosto standardizzata, il vero motivo di interesse del sito lo troviamo nella gran quantità di persone che affolla il parco, ognuna intenta a praticare una attività fisica o ricreativa differente, ma sempre di grande fascino od originalità. Tanto per capirci, il primo che incontriamo è un signore in mutande e canottiera che muove il bacino come se stesse facendo roteare un “hula-hop” virtuale, al fianco del quale un gruppo di signore attempate si esibisce in un articolato coro polifonico, quindi abbiamo alcuni anziani che eseguono all’unisono, come legati da una corda invisibile, i lenti ed ipnotici movimenti del “Tai-Chi”. È tutto un susseguirsi di strane attività, alcune affascinanti, come quella di due giovani signore che, con in mano una specie di racchettone da mare colorato, invece di colpire la pallina, se la passano lentamente ammortizzandola con gesti plateali, altre veramente incomprensibili, come quella di un gruppo consistente di persone che, seguendo gli ordini perentori impartiti da un registratore portatile, con grande serietà e concentrazione si tirano ritmicamente le orecchie! Stefano, nella vita medico, guarda incuriosito, forse pensando di inserire questa terapia tra quelle da lui abitualmente praticate.

E poi ancora, suonatori di Pipa, uno strano strumento a corda suonato come un violoncello; giocatori di Go accucciati attorno alle loro scacchiere; persino due signore, una vecchia ed una giovane, che intonano arie di operetta accompagnate dall’immancabile registratore.

Siamo così rapiti che dopo un’ora che siamo lì, non abbiamo ancora iniziato la visita dei templi.

All’uscita incontriamo l’ennesimo strano personaggio: un vecchio il quale gira con un pennellone gigante che, intinto continuamente in un secchio d’acqua, usa per scrivere a terra degli eleganti idiogrammi cinesi. Dopo tanto assistere, non resisto, chiedo al signore di provare e, sotto il suo sguardo divertito, mi lancio nella composizione di una frase in italiano che sigillo con un mio autografo. E’ ormai giunto il momento di abbandonare momentaneamente Pechino (ci torneremo alla fine del viaggio) per dirigerci verso Shanghai, e di qui a Suzhou, a casa di Andrea.

(1 – CONTINUA)



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