Sulla Via della Seta da Khiva a Urumqi di parte III

… prosegue dalla sezione dedicata al Kirghizistan Venerdì 24 agosto: Passo Torugart – Kashgar Al confine cinese del passo Torugart, alle undici e mezzo finalmente arriva la nostra macchina con autista e interprete. Salutiamo Saltanat e Edoard e passiamo in mano cinese. In tutta la Cina regna l’ora di Pechino e dobbiamo spostare le...
Scritto da: mapko64
sulla via della seta da khiva a urumqi di parte iii
Partenza il: 10/08/2007
Ritorno il: 03/09/2007
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
… prosegue dalla sezione dedicata al Kirghizistan Venerdì 24 agosto: Passo Torugart – Kashgar Al confine cinese del passo Torugart, alle undici e mezzo finalmente arriva la nostra macchina con autista e interprete. Salutiamo Saltanat e Edoard e passiamo in mano cinese. In tutta la Cina regna l’ora di Pechino e dobbiamo spostare le lancette due ore avanti. Dopo pochi chilometri c’è il primo controllo ma i poliziotti sono in pausa pranzo. E’ uno choc essere circondati da edifici pieni di ideogrammi. Sono stati sufficienti pochi chilometri per proiettarci in un altro mondo pieno di volti orientali. Molti soldati indossano una mascherina per non infettarsi con i morbi stranieri (ma la SARS non è in Cina?!). Il clima di sospetto prosegue e i nostri bagagli sono passati sotto i raggi, utilizzando un veicolo attrezzato a questo scopo. Alle due ripartiamo; la strada è sterrata ma in buone condizioni mentre il paesaggio continua ad essere molto arido. Scorgiamo qualche yurta accompagnata da costruzioni di fango. I villaggi color terracotta sembrano strappati al Marocco. Ormai la valle è ridotta a una pietraia quasi del tutto priva di vegetazione. Viaggiamo con i finestrini chiusi per proteggerci dalla polvere e si scoppia di caldo per il riscaldamento a palla. Intorno, aride montagne velate dalla foschia seguite dopo un po’ da altre con belle striature diagonali bianche e rosse. Tra le case di un villaggio ecco sbucare tristissime yurte in cemento! Per un attimo l’autista fa sfoggio della tecnologia cinese: il parasole del passeggero è dotato di video e lettore DVD, che sostituisce la banale autoradio! In mezzo a polvere e foschia s’intravede che ci stiamo infilando in uno stretto canyon, seguendo il corso di un fiume. Montagne di roccia scura torreggiano altissime. Siamo all’incrocio tra due canyon spettacolari. La gola si allarga; TIR con scritte in caratteri cinesi e arabi sollevano gigantesche scie di polvere e in lontananza sembrano mostri che spuntano dalla foschia. Alle tre e mezzo la strada diventa asfaltata; dopo più di cento chilometri dal passo ecco finalmente il posto di frontiera. Un gruppo di cammelli con le due gobbe flosce, bruca la poca erba in mezzo alle pietre. I controlli doganali sono rapidi; abbiamo già pagato il nostro balzello affidandoci all’agenzia per non avere intoppi! Ci dobbiamo fermare davanti a una macchina tecnologica che misura la temperatura corporea. I cinesi appaiono terrorizzati dall’idea di essere infettati (tutto il contrario di quello che noi pensiamo di loro!). Proseguendo lungo la strada per Kashgar i cartelli sono bilingui, in caratteri cinesi e arabi. Ci troviamo, infatti, nella regione autonoma dello Xinjiang, abitata dagli uiguri, una popolazione turca, cugina di quelle oltre frontiera che ha mantenuto l’alfabeto arabo. Attraversiamo paesi animati da bancarelle, ciascuno con la sua moschea. Gli uomini indossano cappelli a quattro facce, simili a quelli uzbeki. C’immettiamo al chilometro 1453 di un’autostrada: la Cina è immensa chissà da dove viene!? A Kashgar ci sistemiamo all’Hotel Seman, prenotato tramite il corrispondente cinese. La città è un miscuglio di elementi cinesi e uiguri ma questa sera ci limitiamo a una passeggiata lungo Renmin Xilu, asse principale della parte moderna, piena di centri commerciali e affollata di passanti. Le insegne dei negozi sono in caratteri cinesi e arabi, questi ultimi naturalmente più piccoli. I sottopassi sono pieni di negozietti. Raggiungiamo Piazza del Popolo, vegliata da una grande statua di Mao che arringa la gente con il braccio alzato. Il nostro tentativo di cambiare yuan fallisce miseramente: le due filiali della Bank of China sono chiuse, anche se i cartelli recano le 19:30 come orario di chiusura e sono solo le sette. Mentre passeggiamo, mi sento toccare il borsello con la macchinetta fotografica; è un tentativo di scippo, un brusco segnale del ritorno ai pericoli delle grandi città dopo la tranquillità di Uzbekistan e Kirghizistan. Ceniamo all’Intizar, un locale vicino all’albergo apprezzato per la cucina uigura; ordiamo il piatto nazionale, il langhman, simile alle nostre fettuccine. Sabato 25 agosto: Kashgar – Yarkand – Kashgar Il tassista che ci porta alla stazione dei bus non è una cima e non è facile fargli capire che non vogliamo andare a Yarkand in macchina. Ride divertito pronunciando le quattro parole d’inglese che conosce tra cui un “one beer” del tutto inutile! La stazione, vicino alla piazza principale, è ordinatissima e troviamo facilmente il bus. Partiamo puntuali alle nove. Il mezzo quasi vuoto è moderno, dotato di aria condizionata e televisore che trasmette video musicali. Il cielo è pumbleo e il sole, un disco bianco lucente. Attraversiamo una pianura intensamente coltivata (girasoli, granturco, cotone, alberi da frutta). La velocità di crociera è molto bassa, con punte di 70 km/h. Lungo la strada incrociamo carrette trainate da asini, condotte da uiguri con lunghe barbe sotto il mento; trasportano meloni, fieno, tappeti di vimini e legna. Il terreno diventa più arido e compaiono cammelli con le due gobbe belle gonfie. Poi si fa più vuoto con qualche duna di sabbia. La strada è dritta ma si balla come su una nave. Gli ammortizzatori del bus dimostrano che il mezzo non è poi così nuovo come sembrava. Alle dieci e un quarto siamo a Yengisar, apprezzata per la produzione di coltelli. Il ragazzo, aiutante dell’autista, si gira e dietro la schiena rivela un coltello con l’impugnatura decorata. Superata la città, compaiono colline di terra prive di vegetazione e le acque di un lago. Ormai siamo nel deserto, una piatta distesa grigia di terra e sassi. Dopo una breve sosta alla fermata dei bus di un paese, passato mezzogiorno ricompaiono coltivazioni sempre più rigogliose, segno di un’oasi e quindi dell’avvicinarsi di Yarkand. All’una meno un quarto finalmente arriviamo a destinazione, dopo quasi quattro ore di viaggio. In taxi ci facciamo portare fino alla moschea principale. Yarkand è divisa in una parte cinese e una uigura. La strada principale, girato l’angolo dalla bus station, è cinese ma dopo un paio di chilometri diventa uigura. Il taxi ci lascia nella piazza dove si concentrano le maggiori attrazioni. La fortezza ha un portale fiancheggiato da due torri, superato il quale si scopre che si tratta dell’unica parte sopravissuta poiché subito dietro sorgono le case della gente comune. Sul lato opposto visitiamo la tomba di Amannisa Khan, una poetessa moglie di un khan, morta di parto a 34 anni nel 1560. Il mausoleo è grazioso con colonnine bianche e mosaici blu. A fianco sorge un cimitero nel quale sono sepolti diversi re di Yarkand, vissuti nel cinquecento. I sarcofagi sono molto belli, in pietra chiara con iscrizioni in caratteri arabi. Al centro si trova il mausoleo di Sulitan Saiyidhan. Terminata la visita, osserviamo con tristezza i lavori d’ammodernamento in corso nella piazza, con la costruzione di ponticelli tipicamente cinesi. La moschea sarebbe vietata agli infedeli ma un “assalom aleikum” ci rende ben accetti. L’edificio è un bel porticato di legno con pilastri e soffitto dipinti. Assolti i “doveri” turistici, facciamo un giro per i vicoli della città vecchia, sicuramente pittoreschi e non contaminati dal turismo ma anche molto poveri. Mi chiedo fino a quando le misere case di fango resisteranno alle ruspe cinesi! Sbuchiamo nuovamente in una strada asfaltata animata dal bazar. Siamo gli unici occidentali e il nostro “assalom aleikum” suscita sorrisi e anche una stretta di mano. Gli uomini più anziani hanno lunghe barbe sotto il mento, i bambini ci salutano con “hello” mentre le donne hanno la testa coperta (anche Stefania si adegua con il suo fazzoletto arancione acquistato in Grecia che ha già riscosso tanto successo in Uzbekistan). Molte donne indossano solo un fazzoletto ma altre sono velate e alcune addirittura hanno il viso completamente coperto da un burka marrone. Una stradina, oltre la moschea, ci conduce in un vasto cimitero prosecuzione di quello monumentale già visitato. Molte tombe sono semplici ma affascinanti in mezzo agli alberi. Un mausoleo con cupola è decorato da maioliche blu. Proseguiamo tra le tombe fino al mazar, un luogo di pellegrinaggio segnalato da gruppi di bastoni con panni colorati. Miseri mendicanti siedono per terra; le donne hanno quasi tutte il burka. Non ci azzardiamo a entrare; anche le mie richieste di scattare foto suscitano secchi rifiuti. Ci tuffiamo di nuovo nelle stradine della città uigura. Il focolare di una cucina si trova all’aperto davanti alla porta di casa; qualche edificio presenta bei portici di legno. Sulla strada principale ritroviamo il bazar con un piccolo settore alimentare. Assaggio una frittella dolce, scatto foto ai bei volti uiguri e comunico con le tre parole che conosco (assalom aleikum, hosh che significa arrivederci e rahmat grazie). I bambini si fanno fotografe per rivedersi nel display. Un’altra corsa in taxi ci riporta alla stazione, dove ci attende l’ardua impresa di prendere il bus per Kashgar. All’andata l’autista ci aveva detto che ripartiva alle tre dallo stesso posto dove ci aveva lasciato, in mezzo al piazzale, ma del bus non c’è traccia. Forse intendeva l’ora locale, utilizzata a Yarkand al posto di quella di Pechino. Alla piazzola con la scritta Kashgar c’è invece molta animazione e un autobus più piccolo è già stracolmo. I biglietti devono essere acquistati prima ma gli sportelli sembrano una bolgia dantesca; cerchiamo quindi di aggirare l’ostacolo spostandoci alla “question window” dove ci dicono di attendere. Dopo un quarto d’ora però il tizio mi fa capire che non può fare il biglietto. Mi sposto allora alla biglietteria dove si sgomita all’impazzata; da dietro urlo “Kashgar!” ma la ragazza mi fa cenno di no. Panico! Chiediamo a destra e sinistra ma non si capisce cosa fare. Mi sposto di nuovo nei paraggi della “question window” e dopo un po’ il tipo si commuove, mi chiama e ci fa il biglietto. E’ fatta! Il mezzo è più piccolo dell’andata ma impiegherà lo stesso tempo, sbarcandoci a Kashgar solo alle sette e venti. Finalmente è venuto il momento di esplorare la città vecchia. Imboccata una via a destra della statua di Mao, lasciamo il mondo della Cina scintillante e passiamo nelle antiche atmosfere uigure. Lungo la strada si allineano i laboratori di fabbri e falegnami. Seguono i cappellai, indispensabili visto il largo uso che gli uomini fanno di tale indumento. Il cappello tipico uiguro è di forma quadrata, verde con ricami bianchi. Ne provo uno ma per ora rimando l’acquisto. Alzando gli occhi si ammirano verande di case antiche. Sbuchiamo nella piazza della moschea, sul lato affollato da chioschi per mangiare con montagne di spaghetti gialli e polli pronti per essere consumati. Sull’altro lato dell’ampio viale si apre una piazza immensa, frutto di chissà quale sventramento. La moschea Id Kah si trova in fondo, ma tutto intorno non mancano gli elementi di modernità, compreso un maxi schermo che proietta video. Frotte di uomini escono dalla moschea e si fermano a chiacchierare. I vecchi dalle lunghe barbe bianche hanno come sempre i volti più caratteristici. Terminata la preghiera, possono entrare anche i turisti. Un cartello in cinese, uiguro e inglese, dopo qualche sbrigativa notizia storica, racconta i meriti del governo della repubblica popolare. Leggendo quanto scritto, l’elogio dell’attenzione per la cultura delle minoranze etniche, non resta che sorridere amaramente. Dopo la rivoluzione, la moschea, la più grande della Cina, ha subito molti restauri. L’ampio porticato presenta una selva di pilastri verdi di legno e non ha un aspetto antico. Le regole sembrano meno rigide di un tempo e alcune donne pregano sedute sui tappeti. La semplice sala interna è molto piccola con un minuscolo “pulpito” di legno.

A un centinaio di metri dalla moschea si trova una chaikana, una casa da tè, che ha conservato le atmosfere dei tempi passati. Dalla veranda al primo piano si domina il passeggio nella strada. Il locale è frequentato da anziani vestiti di bianco con tanto di cappellino. Ci accomodiamo a un tavolo insieme a due signori che subito ci offrono il pane da dividere. Il non è molto duro e gli avventori lo inzuppano nel tè. Alle pareti vecchie decorazioni a stucco, ai lati tende azzurre. Stefania continua la sua dieta mentre io ordino un’abbondante zuppa di dumpling. Domenica 26 agosto: Kashgar La mattina il sole è diventato una luna piena, un disco lattiginoso. Sono le nove di Pechino e il mercato del bestiame alla periferia della città è quasi deserto; pian piano cominciano ad arrivare i primi greggi insieme a camion stracolmi di locali, pecore o mucche. Nell’attesa c’è chi ne approfitta per andare dal barbiere, facendosi radere a zero i capelli e spuntare barba e pizzetto. All’ingresso i venditori pagano un biglietto mentre le pecore avanzano compatte in cerchio, sollecitate dagli scudisci. All’interno un grande spiazzo in terra è diviso da staccionate di legno. Su un lato la carne già macellata pende dai ganci e il “prodotto” viene cucinato in pentoloni collocati su forni in muratura. Un gruppo di pecore aspetta tranquillo il destino che lo attende, masticando. Sono divise in ordine tra bianche, nere e pezzate. Il proprietario gli spunta la lana sul sedere per renderle più apprezzabili. Più in là i pastori piantano pioli per terra per stendere le corde alle quali legare altre pecore. Il “settore” destinato ad asini e cavalli è ancora quasi deserto. Una calorosa stretta di mano segna un’avvenuta transazione, mentre un asino raglia eccitato con la quinta gamba in bella mostra! Arriva un carretto con sopra una mucca, trainato da un cammello con due belle gobbe e il collo coperto dal manto. Tra le staccionate delle mucche fervono le trattative. Una si conclude con una vigorosa stretta di mano a tre. Un acquirente sta vagliando un gruppo di pecore; le solleva una per una per pesarle. Più in là, fervono le trattative e sorgono discussioni. Un tizio se ne va tutto arrabbiato, un altro gli ha fregato l’affare ma poi torna tra baci e strette di mano. L’acquisto si conclude con 1000 yuan poi inizia la scelta dei capi (ma quanti?). Una pecora viene sollevata e girata per mostrare gli organi intimi all’acquirente. Nel settore dei tori alcuni esemplari sono veramente imponenti. Una mucca passa di proprietario; sbirciando mi sembra che il costo sia intorno ai 1500 yuan. Le strette di mano sono vigorose al punto da staccare un braccio! Sono le undici e ormai regna una grande animazione; all’ingresso si succedono gli arrivi e il “bigliettaio” ha in mano una grossa mazzetta di soldi. Prima di lasciare il mercato mi guardo intorno e mi accorgo ci sono solo uomini. Il mercato della domenica invece è una delusione. Decantato come luogo dove convergono 100.000 persone di varie etnie, è diventato moderno in molti aspetti. Un grande padiglione coperto ospita negozietti che vendono di tutto, allineati lungo un reticolo di corsie. Nel settore dedicato all’abbigliamento c’è un vasto assortimento di seta, scarpe, cappelli e pashmine. Il mio passaggio suscita grande interesse soprattutto nei venditori di cappelli e sulla mia testa finisce ogni sorta di copricapo: uno di astrakan uguale a quelli indossati dal presidente afgano Karzai, un cappellino alla Mao, tradizionali cappelli quadrati uiguri e molti altri ancora. La parte più interessante del mercato è quella all’aperto dove insieme alle spezie, grandi mucchi di stoffe attirano le donne come mosche. Un vecchio ha un banchetto pieno di specchi con la cornice rossa. In giro si vedono solo uiguri, rarissimi i cinesi; alcune donne portano un pesante scialle marrone che copre completamente il volto. I carrettieri si fanno largo tra la folla gridando “boisch boisch!”. Pranziamo a un banchetto con i soliti shaslik, questa volta di agnello e molto saporiti. Siamo in compagnia di Barbara, una romana che sta viaggiando da sola attraverso la Cina. Per lei Kashgar è una sorpresa per le sue atmosfere centro asiatiche mentre per noi invece l’elemento nuovo è quello cinese di Renmin Xilu. Durante il pranzo assistiamo alle evoluzioni di un tipo che sta preparando le fettuccine, stirando la pasta e tenendola come fosse lana. Lasciato il mercato, raggiungiamo in taxi il complesso della tomba di Abakh Hoja, dove è sepolta la “concubina fragrante”, un’uigura andata in sposa a un imperatore cinese e costretta poi a suicidarsi dalla suocera gelosa. Il mausoleo è una bella costruzione con un portale e quattro minareti angolari decorati da mattonelle verdi. All’interno, sotto l’ampia cupola, una moltitudine di tombe coperte da panni colorati; i defunti sono ricordati in tre alfabeti, arabo, cinese e latino. A fianco del mausoleo si trova un vasto cimitero di tombe anonime mentre la sala per insegnare il corano è un porticato di legno, puntellato da tronchi. La moschea Jaman come al solito privilegia gli spazi all’aperto con un affascinante porticato dall’aspetto antico; i pilastri di legno hanno capitelli dipinti. Ancora più bella è la moschea all’ingresso del complesso, con colonne di legno intagliate e tutte colorate. Sulle travi del soffitto noto insolite rappresentazioni di paesaggi e persino di un cocomero. Un’altra corsa in taxi ci porta al museo della Via della Seta. Subito un cartello sottolinea che da 2000 anni lo Xinjiang è cinese. L’esposizione, limitata a una grande sala, procede in ordine cronologico, iniziando con foto di pitture rupestri di antiche civiltà che ricordano lo stile del Tassili algerino. Le ceramiche della Via della Seta risalgono alle dinastie Hang e Tang. Statue dipinte provenienti da Turpan sono perfette, come appena fatte, benché risalgano alla dinastia Tang. Una donna ha la testa di gallina, un uomo quella di cane. Gli uiguri arrivarono in questa regione nell’840; la conversione all’islam avvenne intorno al mille con la dinastia Karakhanide. Il museo dovrebbe ospitare anche un’antica mummia; forse si trova in una stanza buia, priva d’illuminazione, ma siamo gli unici visitatori e tutto appare molto trascurato. Nell’isolato a nord del bazar domenicale si trova il mercato ortofrutticolo. All’interno ci sono solo uomini, tra pile di meloni e cocomeri. Fuori la strada è tutto un susseguirsi di bancarelle fino al mercato della domenica, con miriadi di carretti. Torniamo alla moschea Id Kah per riprendere l’esplorazione della città vecchia. C’è una gran ressa, molto più di ieri. Un ragazzo prepara pani dalla forma circolare su una pietra, poi con una pala li infila nel forno collocato all’aperto, poggiandoli sulle pareti. Numerosi i cesti con fichi in vendita già sbucciati. Un edificio a due piani presenta una bella veranda di legno, tutta decorata con arabeschi. Di fronte si lavora il rame e il battere cadenzato dei martelli accompagna il nostro passaggio. Qua e là incrociamo piccole moschee, fino all’inconfondibile odore del bazar delle spezie. Raggiungiamo un negozietto di cappelli e questa volta finisco per acquistarne uno verde, uguale a quelli indossati da tanti uiguri. Per sfuggire alla confusione basta lasciare le vie principali e addentrarsi nei vicoli dove, tra le case con verande di legno e fango, non s’incontra nessuno. Ceniamo di nuovo all’Intizar gustando un ottimo Suoman (quadrucci con verdure e carne). Lunedì 27 agosto: Kashgar – Lago Karakul – Kashgar La giornata è dedicata all’escursione al lago Karakul. La partenza è fissata alle otto e mezzo: ci aspetta un taxi ufficiale prenotato tramite un’agenzia nella hall dell’albergo. Il prezzo della gita è stato fissato a 550 yuan e alla guida c’è Said, un uiguro. Il tempo sembra migliore rispetto ai giorni scorsi con ampi squarci di sereno. Lasciata Kashgar, subito raggiungiamo la moderna città di Shufu. Su un edificio campeggiano falce e martello, simbolo ormai abbastanza raro. I bambini vanno a scuola con lo zaino sulle spalle. In periferia la ciminiera di una fabbrica di mattoni. Procediamo attraverso una piana pietrosa, puntando verso una lunga striscia di montagne disposte su due file, una dietro l’altra. Quella posteriore più alta è tutta innevata. La strada è ottima, perfettamente liscia; stiamo percorrendo la Karakorum Highway verso il Pakistan, storico collegamento con il mondo indiano. Ci fermiamo nel paesino di Urpal, con grande gioia di Said che ne approfitta per fare colazione. Oggi è lunedì e si tiene il mercato settimanale ma sono solo le sette e venti, ora locale, ed è ancora troppo presto. Sulla strada principale si allineano le botteghe che vendono il pane e altre dove si mangiano ravioli cotti al momento. Subito dietro nell’area del mercato cominciano ad arrivare i primi carretti e fervono i preparativi. L’atmosfera appare molto più tradizionale che a Kashgar e siamo accolti con ampi sorrisi dai fornai. Un carretto è stracolmo di carne appena macellata, ma il lago ci attende e dobbiamo ripartire. Ecco comparire un meraviglioso contrasto di colori: montagne una dietro l’altra, gialle, rosse, brune e bianche di neve si ergono proprio di fronte a noi. Ci avviciniamo al canyon scavato dal Ghez Darya; il sole alle spalle esalta i colori. Entrati nell’ampio canyon, le montagne diventano rosse acceso e poi improvvisamente brune. L’”inferno” del Torugart, con la visuale ridotta dal maltempo e la strada polverosa, è stato una delusione. Oggi invece il paesaggio è fantastico, la strada perfetta, con il manto asfaltato che reca persino la segnaletica orizzontale e specchi segnaletici nelle curve a gomito. Il traffico è inesistente al contrario del Torugart dove la processione di TIR sollevava vere tempeste di terra. Prima delle undici raggiungiamo un posto di controllo, dove i nostri passaporti sono registrati dalle guardie cinesi. Le montagne nel frattempo sono diventate marroni chiaro. Le acque del fiume rombano fragorose e in alto compare un ghiacciaio. Si comincia a salire anche se dolcemente. Su un ponte passiamo dall’altro lato del fiume. Il paesaggio cambia improvvisamente: siamo in un vasto altopiano con colline che assomigliano a dune di sabbia e un’ampia conca con il fondo erboso, nella quale il fiume si è allargato in vasti acquitrini. Ci fermiamo a un gruppo di bancarelle e ne approfitto per acquistare (prezzo iniziale 150 yuan, prezzo finale 50) un piccolo orologio da tasca omega con i meccanismi visibili attraverso la calotta di vetro. Said ci spiega che la gente è kirghisa; un uomo indossa, infatti, il tradizionale cappello alto di feltro bianco. Scendiamo nella conca; dune di sabbia chiara si addossano alle basse colline. Nota stonata le yurte di muratura. Dopo una curva appare una montagna interamente coperta di neve, verso la quale puntiamo. E’ il Muztagata, alto 7546 metri, un magnifico gigante dagli ampi fianchi. A mezzogiorno improvvisamente ecco le acque del lago Karakul. Abbiamo percorso poco meno di 200 chilometri da Kashgar. Ci fermiamo a un gruppo di yurte in muratura; in giro non si vede nemmeno un turista. Ci accoglie un kirghiso che parla un po’ d’inglese. Il lago è piccolo con le acque meravigliosamente azzurre. Il Muztagata domina una sponda, mentre le altre sono circondate da basse colline brune; nella direzione da cui siamo venuti altri giganti innevati attorniati da nuvole immobili. Il cielo è incredibilmente terso. Siamo a 3800 metri di quota e mentre Stefania riposa sull’erba in riva al lago, io salgo con molta calma su una collinetta. Dall’alto le acque sono ancora più belle, con tonalità azzurre e turchesi oppure perfettamente limpide con il riflesso delle montagne. Una pecora bruca tranquillamente accanto a Stefania, un cavaliere abbevera il suo cavallo nel lago. Sul lato della strada si distinguono gli unici segni della presenza umana: le yurte di feltro ma anche di muratura dei kirghisi. La quiete regna sovrana, interrotta solo da qualche auto che sfreccia sulla Karakorum Highway. Il giro a piedi del lago richiede tre ore e ci propongono anche escursioni a cavallo o in cammello ma noi preferiamo goderci il paesaggio senza fare nulla, consumando le provviste che ci siamo portati. Said si è fermato alle prime yurte. All’una cominciano ad arrivare pullman carichi di turisti cinesi che si fermano più in là, al gruppo principale di yurte, provviste di bancarelle e probabilmente di un ristorante. Abbiamo fatto bene a partire presto! Andiamo a curiosare: questa parte è molto più sporca, con rifiuti di plastica in riva al lago. Naturalmente i cinesi sono tutti presi dalle foto di gruppo e non fanno un passo a piedi. Noi invece ci spostiamo sulla sponda occidentale. Da qui la vista sulle montagne ad est è straordinaria: una lunga striscia di picchi innevati, avvolti dalle nuvole. Tra un picco e l’altro, conto una decina di lingue di ghiacciai. Siamo in compagnia solo di pecore, capre e qualche cucciolo peloso (mezzi yak!?), vicino a due yurte di feltro fumanti. Alle tre, non senza rimpianti per la breve visita, riprendiamo la strada del ritorno. Una lunga colonna di camion militari vuoti è ferma sulla strada, diretta verso il confine pakistano. Rivediamo da un’altra prospettiva i magnifici paesaggi dell’andata. Nel primo tratto il fiume fangoso in piena lambisce la strada, poi le dune di sabbia formano un sorprendente angolo di Sahara. La spia della batteria comincia a lampeggiare, speriamo bene! Ripassato il ponte, il canyon è dominato da giganti con le cime innevate, vere muraglie di roccia. Il colore dominante è il bruno della terra. Presso un gruppo di yurte in muratura un ponte pedonale scavalca il fiume. Una frana gigantesca copre il costone sull’altra sponda. Procediamo in forte discesa; all’andata questo tratto non mi era sembrato così ripido. Un pastore sfoggia una nuova tipologia di cappello: un’alta bombetta nera con un giro di pelliccia. Superato il posto di controllo, la valle si allarga e i colori si fanno più chiari; compaiono le prime rocce rosse. Abitazioni di fango si stagliano sullo sfondo di montagne multicolori, mentre il fondovalle è tutto una pietraia. E’ un paesaggio meraviglioso di colori e forme diverse. Alla fine il rosso ha la meglio e le montagne prendono letteralmente fuoco. Alle cinque usciamo dalla valle, proseguendo fino a Urpal. Ormai il mercato è al massimo dell’animazione e dopo la delusione di Kashgar rappresenta una piacevole sorpresa. Clienti e venditori arrivano come nei tempi passati su carrette trainate da asini e il “parcheggio” è pieno. Tutto è molto più spartano e autentico. C’è una gran polvere. Subito plachiamo la fame con “corposi” fagottini ripieni di carne. Sotto i tendoni, gli uomini giocano a biliardo mentre le donne si accalcano nel settore abbigliamento. Molte sono vestite per la festa, con abiti trasparenti pieni di ricami luccicanti, indossati sopra sottane. Gli uomini fanno sfoggio di un vero campionario di cappelli, una sorta di ripasso di quelli visti attraverso l’Asia Centrale; inconfondibili quelli bianchi dei kirghisi. La gente sorride al nostro passaggio e si mette in posa per le foto. Nessuna donna è velata: contrariamente a quanto accade in altre nazioni la provincia mi appare meno integralista della città. Nei vestiti delle donne ritrovo anche i disegni caratteristici dell’Uzbekistan. Schivando carretti trainati da asini, passiamo al settore alimentare. I macellai espongono le carni appese a ganci, mentre meloni e cocomeri dominano come al solito il reparto ortofrutticolo. Il mercato del lunedì di Urpal completa quindi una giornata meravigliosa, densa di emozioni. Said è molto ligio nel rispettare i limiti di velocità; la polizia cinese fa paura! All’albergo ci attende il procacciatore dell’agenzia; per saldare il conto passerà lui in camera. Il furbacchione liquiderà il tassista con poche centinaia di yuan e si fregherà tutto il resto. Salutato il mite Said, dopo cinque minuti il tipo si presenta in stanza. Sorge una discussione per il biglietto d’ingresso al lago (50 yuan pax). Io avevo detto che avrei pagato al lago ma non si è visto nessuno; lui sostiene di averlo già pagato. Gli chiedo allora di mostrarmi i biglietti; interviene Stefania che mi dice di lasciar perdere ed io obbedisco. Ceniamo in compagnia di Barbara nella chaikana vicino alla moschea. Dopo cena la accompagniamo nel suo lussuoso albergo affacciato su Piazza del Popolo. E’ sera e la piazza è illuminata, stile luna park, con getti d’acqua intermittenti tra ponticelli cinesi. La luna si staglia sullo sfondo delle grosse lanterne rosse. Chissà cosa penserà Mao di fronte a questo spettacolo!? Martedì 28 agosto: Kashgar – Treno La mattina ci rechiamo alla Bank of China per cambiare 200 euro, poiché il tasso di cambio dell’albergo è molto sfavorevole (9,8 yuan per un euro). La banca ha sportelli distinti per cinesi e uiguri, visti i problemi d’incomunicabilità linguistica. Noi siamo indirizzati alla fila dei cinesi; dobbiamo aspettare un’ora nonostante davanti a noi ci siano solo due persone. Sono, infatti, transazioni “complesse” che richiedono la compilazione di numerosi foglietti e qualche digitazione al computer! Una signora ritira 100.000 yuan in contanti (circa 10.000 euro); in Cina circolano molti soldi! Finalmente è il nostro turno; il tasso di cambio è 10,04 e quindi abbiamo risparmiato circa 5 euro, forse non ne valeva la pena! Tornando verso l’albergo incrociamo una lunga fila di donne in divisa davanti a un grande magazzino. E’ l’ora dell’apertura e le commesse vengono chiamate per l’appello; prima di entrare sono controllate persino le loro borse. Una corsa in taxi ci porta alla stazione, dove ci attende il treno per Turpan. Abbiamo acquistato, tramite il corrispondente cinese, due biglietti soft sleeper (470 yuan pax), trattandoci bene poiché ci attendono 21 ore di treno. All’ingresso della stazione i bagagli sono passati sotto i raggi e veniamo smistati nella sala d’attesa della prima classe. In quella per il popolo c’è una gran folla mentre nella nostra siamo solo in pochi. Saliti sul treno, ci sistemiamo in uno scompartimento da quattro, sfruttando l’ampio spazio a disposizione. Arrivano i nostri compagni di viaggio, una coppia cinese di mezza età. Fanno parte di un viaggio organizzato. All’una il treno parte puntuale. Poco dopo scorgiamo i resti di una pagoda a forma di torre e di una struttura a piramide; sono i ruderi della città Tang di Hanoi (VII secolo). I nostri compagni di viaggio si mettono subito a dormire; lui dopo cinque minuti già russa ma poco dopo arriva il controllore e deve esibire il passaporto. Sorpresa si tratta di due giapponesi. Viaggiamo in un paesaggio desertico, accompagnati solo dalla strada. Poi sulla sinistra cominciano ad apparire le montagne, per un lungo tratto formate da tre belle linee di altezze crescenti: davanti arancioni, in mezzo verdi e dietro brune. A destra invece la piatta distesa del deserto del Taklamakan. Per passare il tempo percorro tutto il treno. Le carrozze di seconda classe con posti a sedere sono stracolme e le scolaresche fanno un gran baccano. Uiguri e cinesi mangiano, chiacchierano e ridono. Tutta un’altra atmosfera rispetto al silenzio dei soft sleeper con i passeggeri che dormono rinchiusi nei propri scompartimenti. Il treno è così composto. In testa le carrozze del popolo con posti a sedere; poi il vagone ristorante seguito dall’unica carrozza di soft sleeper. Infine le carrozze di hard sleeper, divise in miniscompartimenti senza porta. Lo spazio a disposizione è poco ma sembrano più confortevoli rispetto ai vagoni visti in certe foto, formati da un unico ambiente di cuccette. La linea ferroviaria che stiamo percorrendo è stata inaugurata nel 2000 ed ha rivoluzionato i viaggi lungo questo antico tratto della Via della Seta. Alle quattro, vaste coltivazioni annunciano un’oasi e quindi una città, Bachu. Passano due ore e, dopo avere attraversato un largo fiume e vari canali, ci avviciniamo ad Aqsu con grandi aziende agricole e qualche fabbrica. La città è la più grande tra quelle attraversate finora e l’oasi si protrae verdissima per decine di chilometri. Mi sposto nella carrozza ristorante per la cena che Stefania preferisce saltare; siedo insieme a una famiglia, madre e due figli, ma quando arriva il menù è tutto in cinese. Indico quindi il piatto di carne con le patate di un tavolo vicino che m’ispira più degli altri. Nell’attesa arrivano le ordinazioni della famiglia: zuppa, alghe, carne con peperoni e funghi. Anche il mio piatto si rivela gustoso. Circondato da cinesi riesco a non sfigurare nell’uso delle bacchette. Tornato nello scompartimento, il paesaggio verde ha lasciato di nuovo spazio al deserto. Arrivati a Kuqa verso le nove e mezzo, i giapponesi scendono e il loro posto viene preso da due cinesi. Ormai è tempo di mettersi a dormire. Mercoledì 29 agosto: Treno – Daheyan – Turpan La notte trascorre tranquilla ma alle sette e mezzo, al risveglio, le orecchie mi fanno crack: dopo molti giorni siamo scesi al livello del mare. Dai finestrini scorgo montagne arrossate dalla luce dell’alba. Nel corridoio sono in compagnia di un cinese in pigiama. Alle 10:10 con soli dieci minuti di ritardo arriviamo a destinazione dopo 21 ore di viaggio. La stazione si trova a Daheyan, anche se è indicata come Tulufan (Turpan in cinese). Ignorando un tizio che ci offre una macchina per 50 yuan, raggiungiamo la vicina stazione dei bus. Questa volta la situazione è tranquillissima; il bus parte appena sono occupati tutti i posti a sedere. I passeggeri sono tutti cinesi. Nel primo tratto la strada asfaltata è un lontano ricordo, ridotta a brandelli. Viaggiamo direttamente sulle pietre del deserto fino a un paesino, dove la strada torna asfaltata e affiancata da vasti vigneti. Il paesaggio torna poi un piatto deserto. Oltre la highway si avvicina una grande oasi verde. Ne percorriamo un tratto fiancheggiato da edifici di mattoni tutti forati! A Turpan ci sistemiamo al Jaotong Hotel di fronte alla stazione dei bus e raggiungiamo subito il bazar, molto più piccolo di quello di Kashgar ma sempre interessante. Alcune bancarelle vendono strumenti musicali, altre coltelli. In uno slargo è in corso uno spettacolino con tre uiguri che ballano accompagnati da tamburi e una tromba. Pranziamo ottimamente in un ristorantino nel bazar. Il museo su Gaochang Lu, ospitato in una struttura moderna, è interessante. Iniziamo con la sala dedicata ai dinosauri, dove campeggia lo scheletro di un gigantesco Paraceratheriom Tien Shanensis, scoperto nel 1993, accompagnato da un Platybelodon Danovi con lunghi prolungamenti alle mascelle. L’esposizione è dedicata ai dinosauri scoperti in Cina ma le spiegazioni sono solo in cinese e uiguro, con appena qualche titolo in inglese. Al primo piano belle foto in bianco e nero, datate 1914, ritraggono rovine di città nel deserto, tra cui un curioso “colosseo quadrato”. La sezione più corposa è dedicata ai numerosi ritrovamenti nei dintorni di Turpan, favoriti dal clima secco. Si parte dal 3000 a.C. Con pettini di legno, stoffe, asce dal manico di legno, calzari. Un recipiente cilindrico del 2500 a.C. Presenta belle incisioni tra cui un cervo con corna che sembrano una lunga capigliatura al vento. Più recenti (700-500 a.C.) una medaglia d’oro con un uomo con turbante e una veste con ricami di cavalli accoppiati uno di fronte all’altro dentro un medaglione. Un modellino ricostruisce una tomba scavata nel terreno, con un dromos che conduce alla camera sotterranea. Una sala è dedicata alle mummie. Un anziano si è conservato con tutte le vesti mentre un uomo e una donna sono nudi e i cinesi per pudore hanno coperto le parti intime con un panno rosso (640 d.C.). E’ impressionante come siano perfettamente conservati: hanno ancora unghie e capelli, la donna raccolti da un pettine. Due neonati sono avvolti in un panno mentre un uomo indossa pesanti vestiti invernali. Al piano terra le didascalie sono solo in cinese e l’inglese scompare del tutto. Un leone maculato con la testa di drago ha quattro ali; curiose le figurine di personaggi che preparano il pane e di un forno. Una statua di Buddha chiude l’esposizione. Per raggiungere il minareto Amin affittiamo due biciclette al John’s Cafè (3 yuan l’ora). Attraversiamo un quartiere con casette sormontate da strutture in mattoni tutte traforate, “torri di ventilazione” per lasciare passare l’aria ma non il sole. Lungo la strada, alcune pittoresche moschee di quartiere. Il minareto Amin assomiglia a quello di Bukhara ma è molto più panciuto. Costruito in mattoni nel 1770 è decorato da fasce di motivi diversi, fino alla calotta terminale. La moschea a fianco ha il colore delle costruzioni di fango ma appare troppo perfetta per essere antica. La visuale migliore si ha dalla torre di ventilazione sopra il museo. L’interno della moschea è dominato da pilastri di legno che reggono un soffitto a traliccio. Da vicino le mura sembrano effettivamente di fango e paglia anche se moderne. Fa un caldo bestiale! Restituite le bici, raggiungiamo in taxi il sito di Jahoe a una decina di chilometri dal centro. Posto sotto la protezione dell’Unesco, contiene le rovine di un’antica città che sorgeva su un vasto ed isolato pianoro. Insieme a comitive di turisti, percorriamo la via principale con i resti di vari edifici di fango, deviando poi per una stradina limitata da alte mura. In fondo si arriva ai ruderi di un grande stupa (antichi di 1640 anni secondo la datazione riportata nel cartello): un moncone centrale e quattro ai lati, tutto intorno le basi di centinaia di piccoli stupa. Siamo arrivati quasi in fondo al pianoro e sulle colline si scorgono decine di torri di ventilazione. Tornando indietro raggiungiamo il “piccolo tempio buddista”, risalente al IV secolo con la sala centrale e il camminamento intorno che ancora conserva gli archi delle porte. Affacciandomi nella scarpata a ovest, ecco una sorpresa: la stretta vallata è tutta coltivata, una macchia verde in contrasto con l’arido paesaggio del deserto. Al big temple buddista sono in corso i restauri e nelle nicchie in fondo alla sala principale s’intravede da lontano una statua di Buddha. Gli operai stanno piazzando delle cannelle nelle pareti! Sull’altro lato della piazza si erge una pagoda formata da tre gradoni decrescenti. Terminata la visita, ci spariamo un quarto di cocomero; ci voleva proprio dopo il sole cocente del sito. Il grande plastico di Jahoe ora mi è molto più chiaro: riconosco i tre templi buddisti e lo stupa in fondo, la via principale che divide in due la città e termina nella piazza del grande tempio. Dietro campeggia un grande poster con politici cinesi (Deng?). Ceniamo in un locale cinese sulla pedonale Quingnian Lu. La strada è ombreggiata da un grande pergolato coperto da tralci di uva, una bella idea per mitigare la calura della città, la più calda di tutta la Cina perché situata sotto il livello del mare. Dopo cena ci spostiamo nella piazza centrale animata da uno spettacolo di luci, suoni e getti d’acqua dalla grande fontana. Accompagnati da brani di musica classica, cinese e rock, spruzzi spettacolari suscitano sorpresa e ammirazione nei curiosi convenuti. Come a Kashgar i cinesi si danno da fare per animare le serate.

Giovedì 30 agosto: Turpan – Urumqi Ieri ci siamo accordati con l’agenzia nell’albergo per visitare con un’auto privata le attrazioni nei dintorni di Turpan, al prezzo di 200 yuan. Alle otto partiamo dirigendoci verso oriente e, lasciata la statale, attraversiamo alcuni villaggi. La gente si sta appena svegliando dopo avere dormito all’aperto su tavoli collocati davanti alle case. La città di Gaochang era molto più grande di Jahoe e sorgeva in pianura circondata dal deserto, protetta da possenti mura, ma oggi le sue rovine sono conservate peggio. Per raggiungere il big temple prendiamo un carretto trainato da un mulo. Al centro si trova una grande sala con un pilastro per il Buddha; nella corte, tutto intorno, i resti delle celle dei monaci. Su un lato sopravvivono (o sono stati rifatti) i primi due livelli di uno stupa circolare. Dopo un’occhiata alle mura della cittadella interna, estese per più di tre chilometri, ci facciamo lasciare al Khan’s Castle, residenza del re, fiancheggiato dai resti di una pagoda che risale al 600. All’ingresso del sito una moschea attiva ribadisce il trionfo dell’islam sul buddismo. La prossima tappa sono le tombe di Astana (273-718), la necropoli di Gaochang, risalenti all’epoca della dinastia Tang. In esse sono stati rinvenuti molti corredi funebri e persino dei manoscritti. Le tombe sono formate da una camera sotterranea alla quale si accede tramite un corridoio in discesa; esternamente non c’è che un piccolo tumulo di terra. Si possono visitare solo tre tombe. La prima contiene una coppia mummificata. In un’altra, dotata di due stanzette laterali, sono sopravvissuti affreschi di papere, oche e pavoni. La terza presenta un affresco ispirato a temi confuciani. Sono rappresentati i tre regali ricevuti da “Mister” Gong: l’erba verde simbolo del cavallo che sa scegliere il padrone ma poi non si cura di come lo tratta, una pezza di seta che simboleggia le possibilità di crescita e un contenitore con un’entrata ma senza uscita, simbolo del funzionario incorruttibile che non deve spremere tasse. L’uomo d’oro con la bocca coperta ricorda che bisogna saper tacere mentre l’uomo di pietra con la bocca aperta indica che bisogna agire. Tornati sulla statale, proseguiamo verso est infilandoci nel canyon del Murtur River. Il paesaggio è stupendo con il fondovalle verde tra pendii di sabbia rossa sormontati da creste rocciose. Superiamo il parco dedicato al libro “Viaggio a Occidente”, molto popolare in Cina e ispirato al lungo viaggio in India del monaco buddista Xuanzang vissuto nel 600. Poco dopo sorgono le grotte di Bezelik decorate da dipinti buddisti risalenti al 900 e di poco successivi all’arrivo degli uiguri nella regione. Le tombe sono state depredate all’inizio del novecento dal tedesco Von le Coq che staccò gli affreschi e li trasportò a Berlino, dove poi sono andati distrutti durante la seconda guerra mondiale. Il resto lo hanno fatto le guardie rosse durante la rivoluzione culturale (ma nelle spiegazioni non se ne parla). Oggi il complesso ha perso il fascino antico: le porte moderne numerate, quasi tutte chiuse, danno l’impressione di essere davanti a camere d’albergo! In una prima cappella sopravvive solo una fascia di piedi che calzano sandali. I bei colori e le riproduzioni degli affreschi, grovigli di demoni, accrescono il rimpianto per quanto è andato perduto. Entra un monaco con un gran ventaglio giallo e recita una breve preghiera davanti alla camera centrale chiusa. Una seconda cappella recava in mezzo un disco con Buddha ma ora ne rimangono solo le tracce. Un’altra più profonda ha la volta tutta coperta da piccoli Buddha ma quelli più grandi sui lati sono stati asportati (27, XI-XII sec.). Nella cappella 31 si ripete la struttura della precedente ma sopravvive qualche Buddha sulle pareti laterali. Un grosso Buddha, con gli occhi a mandorla e lunghe orecchie, indossa una tunica rossa dalle belle pieghe; ha un’aureola e un ovale intorno, tra le figurine più piccole, una gli porge un fiore su un piatto. Lungo la statale verso Turpan un “imprenditore” cinese ha creato uno spiazzo denominato “Flaming Mountains”, imponendo un biglietto di 40 yuan. Tutti i cinesi si fermano e pagano per scattare le foto. Pazzesco! Basta fermarsi lungo la strada ma del resto la vista è meno bella rispetto al paesaggio lungo il tragitto per le grotte. A nord di Turpan si estende la Grape Valley. Ancora una volta i cinesi hanno imposto un esoso biglietto d’ingresso di 60 yuan ma il nostro autista aggira il cancello principale e per ora non paghiamo nulla; vedremo poi. Lungo la strada si allineano casette ombreggiate da pergolati d’uva e tutto intorno risplende il verde dei vigneti. Proseguiamo per un bel pezzo, fino a una strada laterale piena di ristoranti. Ci sistemiamo al fresco, sotto l’ombra di un pergolato, con i grappoli che pendono sopra di noi. Subito ci portano un piatto d’uva bianca dai chicchi piccoli e dolci; poi arrivano anche le fette di cocomero. Il menù è solo in cinese ma il laghman è universale. La scodella è piena di spaghetti, verdure e carne; non riesco ad arrivare nemmeno a metà! All’uscita dalla valle il nostro autista fa il vago e quindi non paghiamo l’ingresso. I nostri risparmi continuano al Karez. Davanti sono parcheggiati numerosi pullman di turisti ma l’autista ci fa capire che conosce un altro posto dove la visione è gratis. I karez sono canali sotterranei utilizzati per portare l’acqua dalle montagne alle città nel deserto. L’antico sistema sfrutta solo la pendenza ed è utilizzato ancora oggi, fino in Iran. Ci fermiamo in un punto dove parte del soffitto è crollato portando alla luce il canale con l’acqua (e la spazzatura). A qualche isolato di distanza due bambini si riposano all’imboccatura di una lunga e bassa galleria. L’acqua è freschissima, ideale per un pediluvio. Rotto il ghiaccio, l’autista ci porta a casa di una famiglia. Ci fanno salire sul tetto per visitare una torre di ventilazione (almeno così la chiamo io!); è tutta piena d’uva stesa a seccare. Sono gentilissimi e ci regalano un grappolo. Alle due torniamo in albergo e saldiamo il simpatico autista, aggiungendo 20 yuan di mancia. Dopo un quarto d’ora siamo già in viaggio per Urumqi su un pullman di lusso con aria condizionata stile aereo, finestrini sigillati e video musicali uiguri! Prima di partire i nostri bagagli sono stati passati sotto i raggi. Viaggiamo nel deserto su una moderna strada a due carreggiate. Superato l’incrocio con la strada da Kashgar, c’immettiamo in un’arida valle. Il canyon di montagne brune è attraversato da un lato dalla nuova autostrada e dall’altro dalla vecchia statale. Sbuchiamo poi in una vasta pianura erbosa con animali al pascolo. Sulla sinistra compare un vasto lago. Segue una vera foresta di mulini per l’energia eolica. A Urumqi, capitale dello Xinjiang, ci sistemiamo nell’Hostel Maitian, situato in pieno centro. Il parco della Collina Rossa è tipicamente cinese con elementi da luna park insieme a templi e pagode in stile tradizionale. Dall’alto del Tempio Rosso si domina tutta la città, con i grattacieli, le strade trafficate e le montagne del Tian Shan sullo sfondo. Nella foschia s’intravede una cima innevata. All’interno le foto della città, che ha superato i due milioni d’abitanti, esaltano il progresso e lo sviluppo economico. Oltre agli edifici di rappresentanza, non mancano svincoli stradali e condomini intensivi! Nella ringhiera attorno alla Torre Rossa, a picco sulla città, i giovani lasciano lucchetti per significare il loro amore, come a ponte Milvio a Roma. Per cena raggiungiamo una traversa della strada dei grattacieli, Xinhua Beilu. Ceniamo in un locale dove il cuoco prepara a mano gli spaghetti: stira e ripiega l’impasto mettendo un dito a metà e, ripentendo l’operazione, ottiene spaghetti finissimi. Venerdì 31 agosto: Urumqi – Lago Tian Chi – Urumqi Per la gita al lago Tian Chi ci affidiamo ai bus privati che partono dall’ingresso nord del parco Renmin, a due passi dall’ostello. Un’intraprendente procacciatrice ci convince a prendere il suo bus, vincendo la concorrenza del ragazzo che ci aveva agganciato ieri sera (anche perché il suo pullman parte prima, almeno sulla carta!!). Naturalmente non partiamo all’ora dichiarata e scoppia persino una mezza rissa tra il personale delle due agenzie che si contendono i clienti. Quando alla fine ci muoviamo con quaranta minuti di ritardo, percorriamo solo un paio d’isolati. L’autista scompare per una commissione. Ripartiamo e nel bus si accendono animate discussioni con la ragazza che ci farà da guida. Siamo gli unici passeggeri non cinesi. Continua l’odissea: lasciamo la highway che attraversa la città per raggiungere in periferia un incrocio e raccogliere altri passeggeri. Dopo un po’ compaiono, infatti, due giovani cinesi, tutte truccate. Ma non è finita: ora dobbiamo fermarci per fare rifornimento e tutti i passeggeri ne approfittano per andare al bagno. Dopo più di un’ora dalla partenza siamo ancora in città! Finalmente la gita ha inizio: l’accompagnatrice prende il microfono e si lancia in una lunghissima presentazione che placa gli animi. L’autostrada attraversa una vasta piana coltivata che lasciamo per risalire una valle verdeggiante scavata da un torrente. Questa regione è abitata da kazaki ma le yurte immacolate mi sembrano finalizzate al turismo. Tutti i pullman diretti al lago fanno tappa a un negozio che vende erbe medicinali. Scambio quattro chiacchiere con un tizio con la scritta “Informix” sul cappellino (è un informatico come me!). Viene da Pechino e lavora in IBM. Dopo pochi chilometri, raggiungiamo il piazzale con il casello dove si paga l’ingresso (100 yuan, solo per gli stranieri?). La valle è molto stretta e i greggi di capre bianche sono costretti a passare lungo la strada. Il paesaggio è piacevole con le acque del torrente luccicanti al sole ma irreggimentate da continui scalini: intorno, verdi montagne. Qualche yurta cerca di sfruttare il poco spazio a disposizione. Un passaggio strettissimo tra due pareti di roccia è quasi interamente occupato dalla strada con il fiume canalizzato di lato. Siamo arrivati, davanti a noi un mostruoso parcheggio con centinaia di bus! Per raggiungere il lago ci sono tre possibilità: camminare in salita per un’ora, prendere un bus oppure la funivia. Scegliamo quest’ultima soluzione per godere la vista migliore. Il panorama sulla valle con i monti coperti di abeti è molto bello; un tempietto si trova proprio sotto di noi. Finalmente, scesi dalla funivia, mentre i cinesi si affrettano verso i ristoranti, un ultimo sentiero in salita ci porta al lago. La vista sul lago Tian Chi si apre improvvisa: le acque sono racchiuse da montagne boscose che si ergono una dietro l’altra mentre in lontananza appaiono picchi rocciosi con le cime innevate. La folla dei turisti e tutte le strutture si concentrano sul lato dove ci troviamo e non rovinano la visione del paesaggio naturale. Una passeggiata sulla sponda lungo un camminamento in cemento ci porta fino al tempio “tibetano”. Due torrette rosse ospitano un grosso tamburo e una campana che si fa suonare con un tronco sospeso. Il tetto del tempio è coperto da brillanti tegole arancioni. Due yurte, quasi nascoste di lato, sembrano simboleggiare la presenza kazaka schiacciata dal colosso cinese. Il lago è solcato da barche a motore che non contribuiscono certo alla limpidezza delle acque. D’altra parte i cinesi amano sfrecciare su motoscafi e odiano passeggiare; la maggior parte ha raggiunto il tempio con il servizio di barche navetta. Una lunga scalinata porta a un secondo tempio taoista situato in alto. All’interno, sotto una roccia, è collocata una statuetta vestita, davanti alla quale bruciano bacchette d’incenso. Dall’alto si gode il panorama, con le acque verdi del lago e i tetti arancioni del tempio inferiore. Ridisceso, nella corte del primo tempio trovo un braciere con lunghi bastoni d’incenso mentre all’interno una statua dorata (Buddha?) è tutta coperta di vesti. Dietro si trova la statua in pietra di una donna con un cappello a gondola dal quale pendono catenine. Tornati alla sponda di partenza, ci fermiamo a rimirare il lago. Le montagne lo avvolgono su tre lati e la luce del sole non più frontale esalta i colori. Le cinesi sono tutte prese a farsi immortalare indossando colorati vestiti tradizionali, disponibili a questo scopo. Per tornare al parcheggio questa volta utilizziamo i minibus, arrivando con più di mezzora d’anticipo sull’appuntamento fissato per le cinque. Sulla strada del ritorno, quando ormai siamo già a Urumqi e pensiamo di essere prossimi alla meta, ci tocca un’altra sosta a un negozio; queste gite organizzate cinesi sono proprio da evitare!! Per cena decidiamo di cambiare: alla ricerca di sapori occidentali ci rechiamo al Lao Ba Te a due passi dall’ostello. La bistecca al pepe e la birra scura tedesca non sono male, accompagnati dall’atmosfera soffusa del locale. Sabato 1 settembre: Urumqi – Tashkent All’ora di pranzo abbiamo il volo per Tashkent e per non correre rischi rinunciamo a visitare il Museo della Via della Seta, che apre solo alle dieci. All’aeroporto il terminal dei voli internazionali è molto piccolo, mentre quello dei voli nazionali è ospitato in una grande struttura moderna. In nessuno dei due è possibile tuttavia cambiare ufficialmente gli yuan che ci sono avanzati. Alla fine dobbiamo ricorrere a un negoziante che ci applica un tasso sfavorevole ma almeno ci permette di recuperare l’equivalente di un’ottantina di dollari. Il volo impiega circa tre ore ma a causa del fuso e dell’ora di Pechino ci porta “indietro nel tempo”. A Tashkent per raggiungere la Gulnara Guesthouse prendiamo un autobus davanti al terminal dei voli nazionali. Uno studente parla inglese e ci abborda subito per fare un po’ di conversazione. Nella guesthouse, recuperato il bagaglio che avevamo lasciato, ci assegnano la stanza del precedente soggiorno. Oggi è il primo settembre, anniversario dell’indipendenza e festa nazionale, ma in centro non ci sono particolari festeggiamenti. In piazza Amir Timur visitiamo il museo di Tamerlano, ulteriore segno dell’attenzione a lui dedicata dal moderno Uzbekistan. Nell’immensa e luccicante sala con cupola, un gigantesco lampadario a gocce pende dal soffitto. In mezzo si trova una copia del corano di Usman mentre le pareti affrescate ritraggono Tamerlano e la sua corte; negli spazi laterali un’interessante esposizione di corani antichi (uno in miniatura, uno grande dell’ottavo secolo su pelle di cervo, alcuni libri in persiano). Tra gli oggetti esposti alcuni sono regali del presidente Karimov. Una sezione è dedicata ai ritratti di Tamerlano, raffigurato sempre con barbetta e cappello. Una pomposa frase di Karimov “se si vuole capire la grandezza degli uzbeki, si deve ricordare l’immagine di Tamerlano” sembra ignorare che Tamerlano non era uzbeko! Il plastico della moschea Bibi Khanum di Samarcanda permette di capire quanto fosse grande il porticato, oggi scomparso, che circondava la corte: aveva centinaia di cupolette. In metro raggiungiamo piazza dell’Amicizia dei Popoli; un monumento ricorda il fabbro che durante la seconda guerra mondiale adottò 15 orfani russi. Dietro il tipico palazzo “monolitico” sovietico, utilizzato per raduni musicali o politici, sorge un parco. Una madarsa ospita i soliti negozietti che vendono oggetti tipici, tra i quali leggii di legno per corano. Addentrandoci nel parco, affollato di locali, raggiungiamo la statua di Alisher Navoi, il poeta nazionale vissuto nel XV secolo. La gente si raduna attorno a un laghetto circolare. Su un lato sorgono le vetrate del palazzo del parlamento mentre un alto getto zampilla da alcune rocce e rappresenta una sfida irresistibile per alcuni nuotatori. Decidiamo di cenare nell’isoletta in mezzo al lago. I tavolini sono allineati sulla riva mentre al centro si canta e balla sopra un palco. L’attesa è un po’ lunga ma alla fine riusciamo ad ottenere i nostri shaslik. Un papà con quattro bambini cerca disperatamente un posto libero e quando vede che stiamo per finire piazza i figli al nostro tavolo e va a prendere da mangiare. Concludiamo quindi la cena in compagnia. Domenica 2 settembre: Tashkent La mattina è dedicata alla città vecchia di Tashkent. La madarsa di Kulkadesh, a fianco del bazar, è tornata ad essere una scuola d’insegnamento religioso e proprio domani avranno inizio le lezioni. I corsi prevedono l’insegnamento del corano in arabo ma anche materie più pratiche in russo. Le celle perfettamente restaurate si affacciano su un cortile fiorito. A fianco della madarsa si levano le tre cupole argentate della moderna moschea del venerdì. Oggi è domenica e il Chorsu Bazar è animatissimo. Nel settore ortofrutticolo le solite montagne di cocomeri e meloni. Il bagno di folla rappresenta per noi una sorta di commiato dai volti dell’Asia centrale. Una passeggiata ci porta, attraverso la città vecchia, fino a Piazza Kast Imam. Nell’ampio spazio si distinguono vari edifici dominati dalle caratteristiche cupole turchesi. Anche se mausolei, madarse e moschee sono troppo perfetti, frutto sicuramente di rifacimenti, l’effetto è piacevole. Al centro si trova la biblioteca che ospita il corano Osman, il più antico al mondo (644-6), una volta collocato sul leggio al centro della moschea Bibi Khanum a Samarcanda. Oggi si presenta come un librone con i fogli accartocciati; nell’ottocento fu portato a San Pietroburgo dai russi ma poi venne restituito all’Uzbekistan dai comunisti. Nelle salette intorno altri corani, tra cui uno antico su pelle di cervo. La grande moschea del venerdì, vegliata da due alti minareti, ha una corte con un porticato dai bei pilastri intagliati di legno. Il vasto interno è riservato per la preghiera. Sul lato opposto della piazza la madarsa Barak Khan, dalle belle cupole turchesi, ospita nelle celle del cortile i soliti negozietti e laboratori. In un angolo della piazza sorge infine il mausoleo Abu Bakr che presenta all’interno un soffitto di legno moderno ma molto bello. Tornati al bazar, pranziamo in un ristorantino, circondati da comitive di uzbeki. Un signore si rivolge a noi con un ottimo inglese, vantando i suoi quattro figli. Una corsa in metro ci porta in Piazza dell’Indipendenza, dove visitiamo il museo storico, già museo Lenin. L’esposizione si apre con il teschio di un uomo di Neanderthal (100.000 a.C.). Cerco di leggere i cartelli che raccontano la complessa storia del paese, ma spesso mi perdo: è difficile seguire le vicissitudini dello stato di Korezm (IV a.C. – II d.C.), del regno bactriano e del Kangha (III a.C.). Un braccialetto d’oro con due arieti affrontati risale al VI-V sec. A.C. Imponente il modello della fortezza circolare di Koi Krylgan Kala, nel deserto a nord di Urgench (IV sec. A.C.). Due grandi cartine illustrano le campagne dei persiani, con la sconfitta inflitta a Ciro dai Messageti nel 529, e di Alessandro Magno. Mentre si diffondeva la religione di Zoroastro, la Bactriana e il Khorezm si trovavano ai confini di grandi imperi ma ciò non impedì ad Alessandro Magno di passare per Samarcanda e sposare Rossana, figlia di un re locale. Le cartine proseguono con la Via della Seta in epoca romana. Il pezzo più bello del museo è un Buddha seduto tra due discepoli, proveniente da Termez (I-III sec.), con gli occhi socchiusi e l’espressione assorta. Sempre da Termez proviene una divinità solare con barba e baffi. Alcuni secoli più tardi due eventi fondamentali: nel VI secolo la nascita dei primi canati turchi e nell’VIII-IX la conquista araba con l’arrivo dell’islam. Fu un periodo di grande splendore con famosi scienziati quali il medico Avicenna (rappresentato in compagnia di Galenus e Ippocrate) e il matematico Al Khorezm, ”inventore” dell’algoritmo. Seguirono le distruzioni dei mongoli, il grande regno di Tamerlano e la nascita degli emirati uzbeki. Una sala è dedicata a ricchi costumi del XIX secolo. Saliti al quarto piano, si passa alla conquista russa dei tre emirati di Khiva, Bukhara e Kokand (nella valle di Fergana). La rivolta del 1916 si estese a tutto il Turkestan ma si concluse tragicamente come illustrato dalle foto di impiccagioni, subito seguite da quelle di Bukhara devastata dall’armata rossa nel 1920. La storia contemporanea dedica spazio al disastro ecologico del mare d’Aral, all’indipendenza, agli attentati del 1999 e all’undici settembre. Non mancano foto del presidente Karimov con i potenti del mondo e una vetrina dedicata ai successi dell’Uzbekistan Airways. La giornata è ancora lunga poiché il volo intercontinentale per Roma partirà solo nel cuore della notte. Prima ci riposiamo nell’ombreggiata piazza Amir Timur, sotto gli occhi vigili del condottiero; poi ci spostiamo in un locale, accomodandoci su un classico “lettone” uzbeko ma la sistemazione ci sarà addebitata nel conto. Per cena raggiungiamo un ristorante turco affollato di locali, dove ci troviamo di fronte al solito problema del menù unicamente in russo. Ormai non ci resta che fare ritorno alla guesthouse per recuperare i bagagli. Sono le nove di sera e abbiamo a disposizione ancora molte ore perciò decidiamo di non affrettare i tempi e raggiungere l’aeroporto in autobus. Lunedì 3 settembre: Tashkent – Roma Il volo per Roma partirà solo alle 5:20 del mattino proveniente dal Pakistan e quindi già pieno di passeggeri. Sbarchiamo a Fiumicino con quasi mezzora d’anticipo, sette ore dopo il decollo.



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