U.S.A. on the road, winter edition

Un mese d’inverno per la nostra avventura americana al caldo, con le nostre figlie, di 12 e 15 anni, per innamorarci della West Coast
Scritto da: ninfetta74
u.s.a. on the road, winter edition
Partenza il: 15/12/2017
Ritorno il: 15/01/2018
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €

Il nostro viaggio lungo un mese inizia da Los Angeles, che ci accoglie nel modo più insolito: con uno smile nel cielo, emoticon disegnata con la candida scia di un aereo, noleggiato da un ragazzo che doveva farsi perdonare chissà quale marachella da chissà quale ragazza. Atterriamo sperando che sì, che alla fine poi lei lo abbia perdonato davvero!

L. A. è una città sconfinata e trafficatissima, fatichiamo ad immaginare i suoi abitanti condurre vite anche lontanamente non stressanti, con l’abitudine inveterata di intraprendere love stories con le loro auto, dove si barricano quotidianamente almeno per qualche ora, per raggiungere semplicemente il luogo di lavoro. Salvo naturalmente chi vive e lavora a Beverly Hills, dove il benessere è tangibile. Non sono solo le Porsche a corredo delle ville fantastiche, in giardini privi di recinzioni, siepi, muretti o cancelli, come se sentire il bisogno di proteggersi da furti qui fosse semplicemente fuori dal mondo. Il benessere lo respiri ovunque: le ragazze si sorridono facendo jogging, le mamme sono rilassate e ci sono perfino gli scoiattoli! L’aria ha un profumo floreale incredibilmente buono, ci pare verosimile che siano presenti perfino nebulizzatori di pregiate essenze.

Al contrario, Bel Air è blindata: l’intero quartiere è inaccessibile ai non residenti. Non ci resta che sognare ai confini di questo paradiso proibito. Hollywood Boulevard invece, ben lungi da presentarsi in alcun modo solenne, è un brulicare di occhi a caccia della stella celebrante la star preferita. Noi ci tuffiamo nella mischia, naturalmente. Intercettiamo prontamente i nostri Tom Cruise, Topolino e Nicole Kidman. Ma Julia Roberts dove sarà finita? Noi non la troviamo… qualcuno insinua dal chirurgo plastico, mah! A Malibù tuffiamo i nostri piedi nell’oceano: di più non osiamo perché a dicembre piuttosto freddo; allora passeggiamo sulla battigia sorvolati da gabbiani enormi che giocano con le raffiche di vento, sopra milioni di cozze e coralli molli.

Muscle beach pullula di personaggi improbabili e negozietti di souvenir incastonati tra i marijuana shop, erba appena legalizzata in California. Il risultato è piuttosto squallido. In spiaggia c’è la fiera del bicipite: boys & girls si cimentano in sport di vario tipo, dal basket al body-building, alla semplice ostentazione di fisici statuari ad uso e consumo dei passanti. Ce ne andiamo con in tasca un dubbio: come si concilia in questa parte del mondo un tale narcisistico culto per il corpo con un’alimentazione così platealmente sbilanciata? Ma poi il sole tramonta sul molo di Santa Monica nel modo più dolce e ancora a Naple Island il Natale è così generoso e traboccante di luci da riconciliarci col cosmo.Poi Rodeo Drive poi è incantevole, tutta natalizia, tra alberi vestiti di lucine bianche e negozi scintillanti. Il colpo di grazia ce lo dà l’Osservatorio Griffith e la notte trabocca di stelle e davanti a noi si è si estende sconfinata una Los Angeles intenzionata ad ammaliare tutti, ma proprio tutti i cui cuori, perfino i più critici.

Gli Universal Studios ci elettrizzano con effetti speciali tra cui incendi, inondazioni, terremoti. E poi foto con i Simpsons al completo perfino Telespalla Bob, che qui si chiama Sideshow Bob. Bellissima Jurassic Park, con gli spruzzi di dinosauri dispettosi e che risate e giù dalla discesa pazza a tutta velocità! Giochiamo a Quidditch con Harry Potter, attrazione vertiginosa incredibile. Poi lo spettacolo degli stunt man e quello dei tenerissimi animali, Animal Actors. Non riusciamo ad andarcene: vogliamo vedere anche il castello di Harry Potter illuminarsi: aspettiamo fino all’ultimo fuoco d’artificio!

La mattina dopo partiamo per Olancha e sulla via ville mastodontiche seguono i quartieri più poveri: la contraddizione americana si ripete all’infinito e pare diventarne metafora perfino il tramonto ultracoreografico nel nel deserto del Mojave, quando il cielo si spacca esattamente a metà tra il nero e un celeste rosato.

Incontri ravvicinati con un coyote, che attraversa all’improvviso, ma per fortuna freniamo giusto in tempo perché lo schianto non avvenga. Forte la notte nel Tipi, la tipica tenda indiana, anche se il vento sferza raffiche gelide inaudite, a dispetto delle quali il nostro sorridente albergatore indossava solo una camicia leggera.

Al mattino arriviamo alla spettacolare Death Valley con le sue rocce coloratissime, monoliti rossi di ferro e verdi di rame, poi arancio marroni, bianchi, neri in tutte le combinazioni e striature possibili, dalla turistica Fournace Creek a Bad water, a 86 m sotto il livello del mare, fino all’incredibile Zabriskie Point, con il suo panorama mozzafiato. Strada facendo, non resistiamo: ci facciamo perfino la foto pericolosa seduti di schiena nel mezzo della strada!

Si sale e si scende nella Death Valley, sembra di guidare sulla gobba di un lungo drago! Poi arriviamo a Las Vegas. Nella città del peccato noi pecchiamo, che altro possiamo fare? Ce la siamo gustata, la nostra Vegas, concedendole tempo: due notti invece della solita consigliata notte singola: siamo arrivati di giorno, l’abbiamo conosciuta passeggiando, per conoscerla nel profondo in modo insolito, con tutte le sue contraddizioni, da Egypt a Venetian, da Parigi alla Statua della libertà: il giro del mondo in una strip. Sconcertati, assistiamo in diretta all’arresto di quattro giovani artisti di strada, che a dire il vero ci parevano del tutto inoffensivi. Scegliamo l’Hard Rock Hotel per pernottare. E’ bellissimo e superrock! Perfino l’ascensore ci invita a spassarcela, citando gli Aerosmith: Love in an elevator: living it up while I’m going down! Nel casinò entriamo solo io e Alfredo: le nostre figlie devono restare a tre metri di distanza dalle slot machine, come tutti gli under 21. Confessiamo: le slot ci prendono che è una bellezza. Giocarci elettrizza. Consapevoli che nessun giocatore sarebbe felice se qualcuno gli desse il denaro tra sua vincita, ci limitiamo almeno col budget e, come da copione, vinciamo e poi perdiamo tutto. Però siamo orgogliosi di aver capito il segreto: lasciare e in camera la carta di credito. Solo così si riesce ad essere più forte delle tentazioni!

Andiamo a trovare perfino Rick Handerson, nel suo Gold and Silver Pawn, meglio conosciuto in Italia come ‘Affari di famiglia’: è molto simpatico, ci concede perfino una foto con lui.

Las Vegas ce l’aspettavamo eccessiva, ma è di più: è talmente pazza di luci e colori e follie a 360 gradi da dar impallidire New York, farla sembrare un umile convento di clausura! La cosa bella di questo viaggio on the road è che ce lo gustiamo attimo dopo attimo dall’ inizio alla fine, assorbendo lo spirito americano miglio dopo miglio, quasi per osmosi. Lungo le highways ci incantano le aiuole di fiori curate a livello maniacale, i ghirigori di ghiaia bicolore perfetti a decorare i cavalcavia. Azzardarsi a farlo in Italia si collocherebbe tra l’ingenuo e il fortemente pericoloso! Qui invece c’è il gusto e il totale rispetto della sacralità di ciò che è di tutti, mai avvertito come roba di nessuno.

L’Arizona, che a primo impatto ci è sembrata arsa e al limite dell’inospitalità, è stata subito dopo una sorpresa, un amore inatteso, come ci insegna per prima Coco, la cameriera carinissima di Peachsprings, che viene dalla verdissima California, produttrice di vegetali per tutti gli Stati Uniti ma ci assicura che ‘Life is much prettier here!’ Ogni singolo lago, come Lake Mead, e ogni singolo punto di attrazione turistica, seppur minima, è dotato di Information point e di personale prodigo di cartine, filmati e curiosità.

A Flagstaff non si notano tracce del Natale: è il 25 dicembre, siamo a 2100 mt d’altezza, ci sono 28 gradi e nemmeno uno straccio di chiesa aperta, forse per i numerosi culti professati qui. Allora optiamo per un pranzo di Natale atipico a Sedona, al sole in terrazza godendoci lo spettacolo policromatico: L’Arizona non sarebbe Arizona senza almeno un monolite rosso stagliato sul cielo terso e un saguaro in bella mostra. E senza i suoi treni merci infiniti, anche a due piani di containers.

L’indomani visitiamo lo spettacolare Grand Canyon, una delle sette meraviglie terrestri visibili dallo spazio.

Jane, la ranger, ci spiega che la distanza tra il north rim (Page) al south rim (Tusayan) è di 18 miglia, con una profondità di 600 metri, scavati tenacemente dal fiume Colorado ed erosi da tempo e dal vento. Ranger Jane ci racconta del suo amore a prima vista per il Grand Canyon, che le ha fatto lasciare giovanissima il Michigan. Da come ne parla non fatichiamo ad immaginarla decidere di mollare tutto e farlo diventare qualcosa di più di un lavoro, la sua nuova vita, vittima di un radicale quanto inconsueto Effetto Stendhal.

Le tribù il canyon lo chiamano casa. Questo è un luogo sacro.

Se si dà abbastanza tempo, leggiamo all’ufficio informazioni, niente è più mutevole delle rocce. Al temine della nostra giornata di sconfinata bellezza, Dio srotola un cielo fiammeggiante dei rossi più appassionati al tramonto, per augurarci Buon Natale con il dono più generoso. Grazie, Capo, non dimenticheremo!

Quanti paesaggi ha l’Arizona. E quanti cieli. Come il cielo incasinato sopra la Petrified National Forest fino a Lake Roosevelt e Goldfield Ghosttown, la città fantasma con tanto di diligenza e di sparatoria inscenata per deliziare i turisti, un po’ come Tombstone ma più piccola.

Poi è la volta di Meteor Crater: il cratere che 50.000 anni fa è stato creato da un meteorite cattivo che filava giù dritto alla bellezza di 26000 Km orari! Sarebbe arrivato in 5 min da New York a Los Angeles!

A Phoenix un po’ di shopping e pomeriggio tra piscina e idromassaggio, tutto rigorosamente all’aperto, tanto ci sono 25°C. Niente male per un 27 dicembre!

Quello che facciamo dopo ci battezza a nuovi veri americani: facciamo esperienza della auto Laundry gestita da messicani! Il MIM, ovvero il Museo strumenti musicali, dotati delle cuffie wireless, riflettiamo che se non ci fosse la musica, l’anima non potrebbe esprimersi. Purché ci sia qualcuno che abbia orecchio per ascoltare. E il cuore. Scottsdale è benestante e pittoresca e le bici vengono lasciate in giro incustodite senza lucchetto! Impensabile dalle nostre parti! La sera ci godiamo la suggestiva luminaria al Desert Botanical Garden.

A Tucson in particolare, notiamo la venerazione per chi combatte per la patria, con parcheggi riservati, posti d’onore: la scritta Veterans troneggia anche sulle targhe ‘Proud to be American!’ Lo grida in silenzio ognuna delle bandiere disseminate ovunque. Le foglie delle palme, di un verde sfavillante, scintillano nel cielo terso dell’Arizona. Accanto, sventola una bandiera americana. Suona tanto retorico, eppure ci appare tremendamente sentito, vero come la scritta ‘Don’t forget your children’ nelle piazzole! Scottsdale è semplicemente adorabile. Sulle immense praterie di Sonoita, nuvole candide come neve velano a tratti il cielo, promettono un tramonto indimenticabile. Visitiamo il Sabino Canyon a bordo del trenino tra i saguaro, i fichi d’India e i sicomori. Al Saguaro National Park, mentre saguaro classici e con bracci contorti e attorcigliati mostrano uno straordinario attaccamento alla vita, scopriamo che tantissima gente abita nel deserto dei Saguaro, lo dimostrano le numerose cassette della posta. E’ un luogo di piantagioni di cotone, con tanti candidi batuffolini appesi qua e là. Curioso che qualcosa di così soffice nasca in terreni tanto arsi.

A Yuma facciamo l’amara scoperta che il Colorado non è una risorsa inesauribile. Qui si dice che ogni volta che a Phoenix qualcuno accende l’aria condizionata, un pezzo di Colorado muore, tanto che dal 1998 il Colorado non sfocia più in mare. Ci consoliamo passeggiando sotto sole caldissimo al Westend Park di Yuma, tra papere e oche a bordo stagno. Appena tornati in California, dune di sabbia dorata a perdita d’occhio. E infine San Diego, la nostra San Diego. Dedichiamo gli ultimi dieci giorni a questa splendida città, benestante e appagata, seduttiva e rilassata. Qui stanno bene proprio tutti, dai bambini che hanno parchi a volontà, ai ragazzi con tutte le occasioni di intrattenimento, dall’oceano alle passeggiate alle leisure activities, agli adulti che lavorano, agli anziani. Ci colpisce il porto, pieno di yacht a barche a vela, ma più di tutto il Balboa Park, vissuto da tutti come una seconda casa, letteralmente. Non mancano nemmeno le colonnine contenenti cerotti e acqua, disponibili e gratuiti per tutti. Pur frequentatissimo, il parco si presenta pulito e impeccabile al mattino come al tramonto. Le ragazze fanno yoga a piedi nudi. Ancora una volta, questo rispetto assoluto del comun bene ci sconvolge e ci commuove. STAY AMERICA, ci grida in silenzio l’ultima piazzola.

Ma è tardi, il nostro mese è finito, dobbiamo rientrare. Ma torneremo. Cross my heart.



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