California e Messico per due

Due sessantenni a spasso per la West Coast
Scritto da: POGGIA1953
california e messico per due
Partenza il: 01/06/2016
Ritorno il: 05/07/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €

Mercoledì 1 giugno 2016

Levataccia. Malpensa ok. iPhone e iPad – eccellenti compagni di viaggio – aggiornato in tempo reale con prenotazioni, imbarchi ecc. Check-in regolare e imbarco Lufthansa. Servizio eccellente, aereo (A320) ancor meglio, nuovissimo. Arrivo a Francoforte puntualissimo, segue incontro con un aeroporto di dimensioni inquietanti. Sedere q.b. e sbattiamo praticamente alle connessioni internazionali. Controllo rapido passaporto, e via al gate United Airlines, dove una simpatica donna in divisa, dai tratti asiatici, ci dice di metterci in fila al cartello n.3 – ma pretende di metterci proprio in fila indiana…

United Airlines, fantastico. A bordo degli aerei americani le cinture sono 50 cm più lunghe, è una goduria. Pranzo a bordo: pollo al curry, e si capisce perché in aereo i finestrini sono chiusi. Povero pollo, poteva volare ancora… Ma in aereo l’unica cosa che non vola è il tempo, d’altronde, meglio non essere “precipitosi”. Ma 11 ore continue in aereo sono davvero tante. United Airlines offe Wi-Fi a bordo, ed una signora americana, gentilissima, ci regala una spina adattatrice per alimentare il mio iPad. Scambiamo due chiacchiere, ed è il primo confronto con la loro logica così open-minded.

San Francisco, incredibile. Aeroporto, Bart, Union Square, e siamo in centro in mezz’ora. Scopriamo che il nostro hotel in Chinatown è a due passi dalla porta del drago e dai cable cars. In Chinatown puoi cenare sino alle 9 p.m. che già è raro qui. A quest’ora di sera la zona è deserta, c’è vento ed è freddo. La cima della Pyramid è annebbiata e le luci hanno un effetto ovattato, quasi novembrino, che si accompagna alla tristezza delle tantissime lanterne rosse spente.

Ho freddo, vogliamo rientrare dopo una giornata di 27 ore circa, e per ora va bene così.

Giovedì 2 giugno

Ore 4 a.m. Ho due palle da golf al posto degli occhi, mi guardo nello specchio del bagno, sveglio come non mai in piena crisi da jet lag; la Patty parla una strana lingua inglese di giorno e russa di notte. Io non ho sonno e mi innervosisco, mentre le palle da golf si trasformano in palle da tennis mentre scendono di circa un metro, molto aiutate dalle condizioni dell’hotel – ma si sa che negli states tutto è ingrandito; definirlo pensione sarebbe anche troppo.

Usciamo con calma, bel mattino, sole, aria tiepida, sistemiamo Muni Pass e sim AT&T, quattro passi ed abbiamo fatto già chilometri. Cable car e pranzo alle 3 p.m. da un italianissimo ristorante siciliano. Buono, clam chowder e granchi non male, prezzo corretto, evitando gli espressi e l’acqua Brio blu avremmo risparmiato 20$ ovvero un terzo del costo. Ok, servono ottima acqua in brocca e faremo senza caffè, che pur se italiano non è niente di che. Pier 39 da vedere. Molto americano, kitsch quanto basta, ma pieno di vita, colore e gente sempre sorridente e gentilissima. Il loro sorriso, il loro modo easy mi sta affascinando. Ecco come vivere una metropoli a zero stress. In tram, a piedi, se qualcuno ti vede dubbioso si avvicina e se può ti offre un consiglio, sempre col sorriso sulla bocca e negli occhi.

Leoni marini: non prendeteli, puzzano a lot indeed. Sono giocosi, rumorosi, sociali e del tutto indifferenti di noi umani. Sono anche carini, specie i cuccioli che giocano in modo chiassoso o riposano immobili. Alle 5 p.m. una nebbiolina oscura Alcatraz che non si vede già più.

Ritorniamo in hotel, loro mangiano presto, noi abbiamo fatto tardi, prendiamo un giubbino e torniamo al pier 39 a cena al “Fog Harbour” con vista sui pontili, le luci del Fisherman Wharf sullo sfondo e luci soffuse. Pesce cucinato benissimo: cena per due – solo birra a 62$ in un locale assolutamente da consigliare. Abbiamo visto il Bubba Gump Shrimps, ricordate Forrest Gump? Da dimenticare! Chiassoso, disordinato, camerieri sciatti e svogliati, ma soprattutto caro. I poster alle pareti con le immagini del film e la coda per entrare non giustificano tutto questo. Dopo cena, quattro passi, anzi due, perché la Patty è stanca (io invece di più), decidiamo di rientrare con un vecchio tram anni ’40. San Francisco ha acquistato esemplari unici di tram da tutto il mondo, stupendi e rimessi a specchio, e li usa sulle linee urbane brevi di downtown. Alla guida del mezzo, che evidentemente sta provando il percorso per un futuro improbabile rally, c’è la sosia di Whoopi Goldberg. Simpaticissima, spiritosa, scherza con tutti, gioca con le parole ed ha un sesto senso per capire da dove arrivi. Nei ritagli di tempo guida il tram a velocità folle, ma è San Francisco ed è così.

Cambio di linea a Powell per il Cable Car. Incredibili questi americani, sono andati sulla luna che ero un ragazzo, ma girano ancora i tram a mano.

Venerdì 3 giugno

Tra una cosa è l’altra usciamo alle dieci passate e ci troviamo al secondo piano del bus turistico in Union Square. Traffico caotico, non si viaggia. Città da girare a piedi o coi mezzi. Vista così San Francisco sembra non avere un’anima precisa, dopo ancor peggio. Alterna grattacieli tanto belli da lontano quanto brutti da vicino a file di case disordinate interrotte ogni tanto da qualche costruzione più strana che bella, o case eccentriche di personaggi famosi. Alla fine, il punto più attraente si rivela il Fisherman Wharf con il Pier 39. Esempio vincente di come si riconverte un quartiere di pescatori. In mezzo, in ordine rigorosamente casuale colazione da Starbuck. La Patty suggerisce un caffè in due, ok. Se avessi ordinato una birra grande avrei avuto un bicchiere più piccolo!

Caffè (???) da dimenticare!

Cambiamo bus, direzione Sausalito via Golden Gate. Giornata caldissima, sole pieno, costeggiamo la periferia, superiamo i tunnel e percepiamo l’imminenza di sua maestà il ponte, preannunciato dalle sirene delle navi che lo attraversano, all’improvviso… freddo e nebbia. Non la nostra nebbia appiccicaticcia e ferma, ma nebbia quasi “asciutta” e velocissima, che gioca con le cime del ponte in un continuo vedo / non vedo. Freddo becco, inutile dire che dopo cento metri dalla fine del ponte ritorna il sole, e picchia duro.

Sausalito è molto carina, scicchettosa e raffinata, sembra la Porto Cervo del posto, con pulizia ed ordine svizzeri. Ex borgata di pescatori, ha conservato il fascino originario ingrandendosi, rispettando gli spazi e curando il verde. Un bel passeggio, bei negozi, cari e ricercati, orgogliosa della sua bellezza conquistata e conservata.

Due cose saltano all’occhio: l’educazione di chi guida ed il rispetto dei pedoni, e lo stile italiano. Noi forse diamo troppo per scontato il nostro modo di essere. Ho molto apprezzato lo stile casual tipico degli states, ma quel negozio – Canali – con quell’arredo, i colori, l’abbigliamento dei commessi, il tutto assieme, mi ha ben ricordato quale sia il nostro punto di eccellenza.

Mega birra – ottima – con la Patty che non contesta, anzi se la gode, e poi rientro a Frisco con rinfresco (10 gradi centigradi) omaggiato dal Golden Gate. Cena al Pier 39 con un eccellente “cioppino” ovvero una zuppa di pesce con l’immancabile granchio del Pacifico. Il cameriere, troppo untuoso e gentile, gay friendly anziché no, ci sodomizza due bowls di acqua gasata a 15$ l’una al posto di quella normale a costo zero che dovrebbero servire di default, e mi solleva da ogni scrupolo per le mance che rigorosamente mi rifiuto di lasciare.

Lui: ma io prego i mezzi per venire a lavorare.

Io: caro, non sai quanti tram ho preso io oggi. Uno pari palla al centro.

Intanto tira un vento freddissimo e la coda per il cable è sofferenza pura. Back-up foto e nanna.

Sabato 4 giugno

Tempo mezzo grigio, destinazione Japaneese Tea Garden. La prima cosa che mi chiedo è come mai venga ignorato dalle guide. È una piccola perla inserita nel grandissimo – anzi enorme – Golden Gate Park e merita sicuramente una visita con sosta. Solo qualche immagine può dare una vaga idea di quanto bello sia. Tra piante ad alto fusto, bamboo, gingko biloba e conifere centenarie dalla struttura bonsai e ginepri contorti, si snodano vialetti con ponticelli, corsi d’acqua, cascatelle e pagode di ogni dimensione. È una bellezza non aggressiva, non stupisce, non mozza il fiato anzi, lo regolarizza con la pace e la quiete che trasmette. Solo un orientale poteva pensare e realizzare un’armonia cosi statica e dinamica nel contempo. Prendiamo un tè con dei dolcetti di riso aromatizzato, e rimaniamo a lungo seduti. Facciamo fatica a decidere di ripartire.

Haight-Ashbury, quartiere fricchettone anni ’60 dove nipoti e figli dei figli dei fiori espongono in negozi incredibili di abbigliamento vintage cianfrusaglie che contro ogni aspettativa sono apprezzate. Murales di Bob Marley, rasta, musica a palla. L’isola su cui appoggiano i due tratti del ponte di Auckland si chiama Yerba Buena, ma la migliore sicuramente la si trova ad Haight-Ashbury. Particolari sono le casette molto colorate e decorate, tutte in legno e tutte sostanzialmente molto simili. Decidiamo di continuare a piedi per Alamo Square intorno a cui ci sono le famosissime Painted Ladies, sei casette in legno identiche fra loro dipinte con sei diversi colori.

Potere mediatico: ci sono eserciti di turisti in coda per fotografare quella pochezza. O che San Francisco non ha altre risorse, o che ci trattano da deficienti. Paolo Villaggio mi perdonerà, ma rubo le parole di Fantozzi alla proiezione della corazzata Potemkin… intanto fa sempre più freddo, è tardi e abbiamo fame, andiamo al Pier 39 che brulica di gente – è sabato – ma è allegro, vivace e coloratissimo, specie ora che c’è il sole. Clam Chowder calda, servita nella tipica pagnotta. Si tratta di una crema, vellutata o come volete, di vongole, patate, prezzemolo e qualche altro aroma, ben pepata, che viene servita in una pagnottella di pane sourdough, scalottata e svuotata due volte, prima da loro e poi da me. Ottima. Cercheremo di replicarla a casa. (Btw: rifatta a casa, è squisita).

Pullman e andiamo su Telegraph Hill per visitare la Coit Tower, che in se non è davvero bella, ma regala un panorama su tutta la città. Giusto il tempo di sapere che è chiusa, chiude alle 5.30 pm, usciamo e siamo nella nebbia, che corre veloce pochi metri sopra di noi. Camminata lungo il Wharf, e ceniamo prestissimo da Capurro’s, dove ci propinano il peggior fritto della California.

Ripeto, da Capurro’s, se lo conosci lo eviti. Tralascio per decenza la mia risposta allo splendido cameriere che ci ha chiesto come fosse stata la cena.

Cable car, attàccati al tram e rientra in hotel, le gambe non ci permettono altra strada.

Domenica 5 giugno

Ogni nostra vacanza, dopo tre o quattro giorni subisce una battuta d’arresto, e San Francisco non fa eccezione. Oggi abbiamo concluso poco, girato molto a vuoto e ci siamo stancati. Mattino, tempo freddo, molto freddo e con nebbiolina in sospensione sul Wharf. Vento teso, nebbia diradata, sole caldo. Siamo in Ghirardelli Square con un cioccolato al mango da urlo e due tè “piccoli” conoscendo le manie di grandezza americane. Ci servono due tazze enormi piene di te, buono ed aromatico, la menta del tè esalta il mango del cioccolato. Ci vogliamo bene.

Rientrando diamo uno sguardo veloce al molo delle navi d’epoca, ma continuiamo verso il Pier 39, bus direzione Coit Tower che sarebbe anche bruttina, ma regala una vista superba da Telegraph Hill, panorama a 360 gradi. Così facendo, arriviamo a pranzo – si fa per dire – che sono le quattro. Altra Clam Chowder, ancora pesce, avremo ancora un mese per mangiare carne.

L’idea sarebbe di visitare Twin Picks, ma si addensano le solite nubi a ovest sulla baia, rimaniamo al sole di downtown e camminiamo un po’ per grattacieli, che non sono poi così immensi. Si respira piuttosto un’aria di pretesa maestosità e grandezza che contrasta sia con i molti barboni in giro, che con il carattere semplice e solare degli abitanti della west coast.

Altra cena al Fog Harbour – consigliatissimo – e rientro con uno dei tram d’epoca della linea F. La fortuna ci regala di incontrare di nuovo la sosia di Whoopi Goldberg, simpaticissima, il tram scoppiava dalle risate.

Ma domani partiremo, direzione Monterey.

Lunedì 6 giugno

Puntuali in aeroporto, ritiriamo una Grand Cherokee nuova fiammante, super comoda. Un po’ più cara – nemmeno molto – ma visto il chilometraggio da percorrere diciamo di sì. Durante tutto il viaggio ed alla fine ne saremo più che soddisfatti, in pratica faremo 24 giorni in macchina. Partiamo verso Monterey in mezzo a pinete e campagna coltivata a perdita d’occhio, fra sole pieno e foschia, mah… Il mito della California dove c’è sempre il sole è andato un po’ in cantina. Motel molto pulito e spazioso, la receptionist come sempre gentilissima, ci prepariamo per la 17 Miles road.

La vediamo al peggio, con l’onnipresente nebbia, non ostante ciò è meglio di ogni aspettativa. Sabbia bianchissima, brughiera, vegetazione salmastra, bassa e tappezzante, ginepri, pini e cipressi sono il contorno di un infinito campo da golf, anche se in realtà sono più di venti circuiti, ma sono un tutt’uno. Sembra che il green sia la pavimentazione ordinaria, interrotta talvolta da steccati in legno nodoso scolorito dal vento e dall’oceano. Rientriamo in Monterey per cena, come al solito al Wharf dove si susseguono ristoranti e pub, e tutti – seppure con grafiche diverse – ci propongono gli stessi menù: granchio (carissimo) gamberi, Fish & Chips, Clam Chowder et similia.

Domani, se ci sarà sole, rifaremo la 17 Miles drive, altrimenti via, direzione Big Sur.

Martedì 7 giugno

Direzione Big Sur, di sole nemmeno l’ombra. Non troviamo uno straccio di un caffè, neanche pessimo, e scappiamo sulla California 1, Pacific Coast Highway o Highway 1, la statale che collega San Francisco a Los Angeles, facciamo a malapena 500 metri e siamo in coda. Mezz’ora buona e si riparte. La Ca-1 è davvero bella, oltre ogni attesa, sempre panoramica e spesso tortuosa, la percorriamo per 250 chilometri. Il Julia Pfeiffer Burns State Park, 52801 California State Route 1, Big Sur, CA, si rivela ancor più suggestivo del previsto, anche con il tempo grigio. Certo pensare che 52801 sia il numero civico fa un po’ impressione, ma ci stiamo abituando a tutto. Ci concediamo una buona mezz’ora sul sentierino che porta alla cascata. Un acquerello leggero di una bellezza incontaminata, un angolo di parco protetto, il teatro di una fiaba.

Continuiamo fra curve e saliscendi, e nel frattempo maciniamo strada. Sosta al ponte Bixbie (nulla di che) ed arriviamo ad Elephant Beach, dove rimaniamo sorpresi non tanto dagli elefanti marini, ma dagli innumerevoli scoiattoli che, per nulla intimoriti dall’uomo, per un pezzo di cracker si lasciano alle spalle ogni remora e ti salgono in mano a mangiare, altro che cip e ciop…

La Grand Cherokee si rivela un’auto perfetta, comodissima per un viaggio così lungo. Non è grande, è enorme. In pratica un salotto in pelle insonorizzato su un pianale poco più piccolo di un pick up. Il costo basso della benzina ed i limiti di velocità placano la sete del V8 da 5700 cc da 352 cavalli. Dopo otto ore di macchina arrivi ancora intero che riesci a fare serata. Ciao Vigorelli, comincio a capire il perché della scelta della tua macchina. È la versione diurna dei letti king size larghi tre cuscini.

America dalle misure XXL, mi sento tanto PoggiaSnella (ciao doc Fiorilli, i tuoi lunedì pomeriggio spopolerebbero negli states dove tutto e tutti sono soooo big). Intanto tra viaggi, ritardi e soste impossibili la regolarità dei pasti è un ricordo, la Patty è tutta contenta, perdo visibilmente peso ma lei dice che sto benissimo… mah.

Domani giornata di relax a Santa Barbara.

Mercoledì 8 giugno

Santa Barbara è la città immagine della California, grande spiaggia di sabbia fine, belle ragazze, ragazzi abbronzati sui pattini o lo skate, simpatia e comunicativa. Però non ha un centro, e questo mi spiazza. La città ruota intorno a state street (7 km) ed alla marina che offre come quasi tutte le città della costa un Wharf con negozi (pochi) e ristoranti (molti) invariabilmente di pesce. State Street alterna teatri, boutiques, ristoranti, ma in maniera discontinua, in modo tale che non si riesce a fare il passeggio delle vetrine. Hanno molto spazio e lo usano.

Detto questo andiamo a visitare la County Courthouse, edificio di stile ispanico coloniale con rimandi di stile moresco nei decori lignei all’interno, con vaste pareti decorate con azulejos, le caratteristiche maioliche policrome così frequenti in Andalusia. Bello l’interno e bella la vista dalla torre sita al quarto piano, torre che se pur non molto alta, spazia sul paesaggio completamente pianeggiante. Scendendo, al secondo piano intravediamo un matrimonio, ed io curioso mi avvicino e faccio un breve filmato ma… C’è qualcosa che non torna, infatti sono due mogli (politically correct) – io più realisticamente sostengo che sono due lesbiche, e pretendo il diritto di poterlo dire. Cavoli loro, si fa per dire…

Nel tardo pomeriggio andiamo alla missione di santa Barbara che è però già in chiusura. La vediamo dall’esterno, quel poco che basta per trovarla davvero molto carina. Ultima cena al Wharf con una ricca porzione di gamberi, scampi, ostriche e calamari, con birra locale al seguito. Rientro e nanna, domani si va a Palm Springs.

Giovedì 9 giugno

Piccola spesa da viaggio in un minimarket (quasi una città) e via per Palm Springs. Tempo abbastanza soleggiato, specie tenendo conto che è presto. Durante il Viaggio però la nebbia è una costante sulla costa californiana sino a Ventura. Ventura Highway degli America diventa la mia colonna sonora mentale, con tanti ricordi e sogni. Poco dopo iniziamo a costeggiare L.A. ci renderemo conto di costeggiarla in autostrada per circa un’ora a 70 mph, tenendo conto che la sfiliamo tangenzialmente e solo parzialmente. Non riesco ad percepirne le dimensioni, ma non è la nostra meta e tiriamo decisamente dritto. Nel frattempo l’aria si riscalda ed a Riverside inizia a fare decisamente caldo, però ancora sopportabile. Il problema è che a casa pioveva, e San Francisco era freddina, per cui non siamo acclimatati. A Banning la densità del paesaggio scende con la stessa velocità con cui il termometro sale. Vedo un treno, conto 90 vagoni – ma il convoglio era già iniziato – poi smetto, il treno continua ed io torno ai miei pensieri. Adesso il paesaggio è desertico.

Il deserto… non l’avevo mai visto. Ne ho sentito parlare, ho letto, ho visto immagini, ma quando ci sei dentro è tutt’altra cosa. Incute soggezione, forse, anzi più del mare. So nuotare discretamente, ho sempre visto il mare come un elemento amico, ho una mente strutturata per amarlo e conviverci, ma il deserto no. Non hai strumenti, non hai difese né risorse. Ti estenua, ti annienta. Percepisco l’enormità degli spazi, la mancanza di ombra, di riparo, e guidando via via ne intuisco le dimensioni ma non i confini. E non è che l’inizio. Poi, di colpo, la strada è più nera, l’asfalto più nuovo, file ordinate di palme, case tanto lussuose quanto pigre, basse, sdraiate, allungate su giardini di piante grasse e prato inglese, in questo angolo artificiale nel bel mezzo del deserto, dove abbondano fontane, campi da golf e piscine. È Palm Springs bellezza.

Anche qui facciamo fatica ad adattarci alla città senza un suo centro. Downtown è racchiusa tra due controviali a senso unico distanti un centinaio di metri e lunghi almeno cinque chilometri. Giovedì sera mercatini in strada e bancarelle con cibarie di ogni tipo. Dopo otto giorni di costa e di pesce, assaggiamo la prima carne, assolutamente squisita. Piatto unico, la cowboy steak con contorno di verdure. Molto ma molto Ok.

Domani direzione Phoenix, dove rimarremo due giorni, percorreremo il famoso Indian Trail, con paesaggi da Tex Willer ed un lungo tratto sterrato.

Sono contento perché abbiamo deciso di programmare le tratte con Google map tenendo conto dei tempi e non dei chilometri, e del fatto che disponiamo di un 4×4 che ci permetterà, senza cercare eccessive follie, di addentrarci su qualche sterrato non troppo impegnativo.

Un saluto agli amici che pensiamo spessissimo, e per i quali scrivo questi appunti. Back-up foto fatto e nanna.

Venerdì 10 giugno

Back-up foto e a nanna… mica tanto. Ci svegliamo poco dopo “cullati” da un terremoto lungo almeno una dozzina di secondi (da quando mi sono svegliato) e ben deciso (eravamo al primo piano) ma tant’è, siamo sulla faglia di Sant’Andrea e si balla, come dire vado alle giostre con la constatazione amichevole, che sull’autoscontro… In ogni caso è stato riportato sul web come forte, anche se un po’ lontano come epicentro. Big One rimandato.

Direzione Phoenix. Percorso lungo, che allunghiamo decidendo di iniziare la visita dei parchi con il Joshua Tree National Park, dato che Phoenix di per sé non ha particolari attrattive. Decisione quanto mai azzeccata, perché entriamo nella “pancia” del deserto. Iniziamo con un ranger gentilissimo ed altrettanto disponibile, che ha una volta in più confermato l’amabilità di questa gente. Abbonamento annuale per tutti i parchi nazionali 80$ (che ammortizzeremo alla grande) scorta di consigli ed inizio dell’incontro con questo tipo di deserto.

Contrariamente a quanto immaginavo, il deserto – ogni deserto – è un centro di vita ben preciso e con un suo specifico ecosistema. È tutt’altro che la negazione della vita.

Clima caldo, molto caldo ma non ancora torrido, l’umidità bassissima mi rende sopportabile queste temperature che sommano il calore del sole al riverbero della terra chiarissima, quasi bianca. È questo un deserto misto, con molte rocce scure vagamente rossicce e molto venate, raccordate da sabbia chiarissima e polvere fine, asciutta, che scrocchia sotto le scarpe, che ospita animali pericolosi, come scorpioni e serpenti, tra cui il crotalo. Ci sono molte tane di piccoli animali, roditori e mustelidi, che invece non abbiamo visto. La vera scoperta però è il verde. C’è molto verde – per un deserto, o per come noi lo immaginiamo – vegetazione composta da arbusti (i più vecchi rinsecchiti) qualche tamerice e cactus, della famiglia delle yucche, di ogni dimensione e di forma slanciata. Altri spinosissimi, più bassi e tozzi, quasi cicciotti, del tutto ricoperti da una lanugine che a tratti pare bianca e vetrosa, tanto la superficie è riflettente per respingere i raggi del sole. Ci regaliamo due ore circa di questa bellezza che puoi solo registrare con gli occhi, e con le orecchie, dato che nella mia usb c’è una ricca raccolta di Morricone Western, che esalta la suggestività del panorama intensificandone la percezione.

Ci fermiamo in un mega benzinaio 600 metri fuori dalla I-10 in mezzo al nulla e pago la benzina 2,60$ al gallone e mi dico: non ho bisogno di fare sesso, i politici mi hanno già fottuto tutti i giorni. Nel frattempo incontriamo la prima ed unica pioggia. Ma dai, nel deserto; non ci crederà mai nessuno. Stanchi per il lungo trasferimento, per il caldo, per il clima ogni giorno diverso, arriviamo a Phoenix alle sei. Andiamo in centro, solo una dozzina di km, e troviamo un locale coloratissimo che fa cucina internazionale, nel senso che ci dà un pollo americano, patatine francesi, fagioli messicani e birra (forse) tedesca. Sono tutti allegri, gioiosi e sorridenti, come la famiglia di fianco al nostro tavolo, che mangia a quattro palmenti, la Patty ride di gusto, e per la prima volta ammette che sono magro. Caro Alberto, come diceva Nino Manfredi, forse che fusse la vorta bbona…

Solito back-up foto, domani ci attende una tappa molto bella con un lungo sterrato: the Apache Trail, strada bianca dall’inizio della 88 fino a Tortilla Flat, per poi continuare sino al lago Roosevelt.

Sabato 11 giugno – 150 Miles

Caldo. Neppure le otto e fa già troppo caldo. Rifacciamo il pieno alla petroliera (2,35$ us gal) e partiamo per Apache Junction – niente di che, a parte le autostrade a sette/otto corsie dove un 747 non avrebbe problemi ad atterrare. Az 88, strada a due sole corsie e paesaggio più scarno, sulla sinistra vediamo le indicazioni per la città fantasma di Goldfield. Quello che oggi è ad esclusivo beneficio del turista era sino a quarant’anni fa una autentica miniera, circondata da un vero villaggio, la cui pianta non è mutata e che fa mostra delle sue strutture arrugginite, dei vecchi binari e vagoncini sparsi dappertutto. Vorremmo fare il giro su un vecchio treno a vapore che fa un breve tour nei pressi, per soli 8$ ma ci spiega l’anziana signora alla biglietteria della stazioncina, il prossimo treno è fra oltre mezz’ora. Chit chat, da dove venite/Italia, dove andate/Apache Trail, ci raccomanda di avere scorte di acqua, e per esserne certa ce ne regala due bottiglie. Che gentile, ci sentiamo turisti interessanti – l’italiano è raro ed apprezzato – e non polli da spennare.

Ripartiamo in direzione di Tortilla Flat e la strada diventa sempre più tortuosa, anche se ancora asfaltata. Asfalto e doppia riga gialla scoloriti da quel sole che spinge il termometro ad oltre 100 gradi fahrenheit. Tortilla Flat ha ufficialmente sei abitanti, se avessero detto sette mi sarei sentito preso in giro. Niente benzina, uno store con ghiaccio, bibite, un saloon con bar e seggiolini tipo “sella western”, gift shop e basta. Prendo per 10$ un cappello di paglia un po’ troppo stile rodeo, ma la mia pelata dice che è bellissimo, ringrazia ed è felice.

Lo sterrato adesso è alquanto stretto e con tole ondulee, quella serie di corrugamenti che si formano sui fondi terrosi e sabbiosi. Mi dissero anni fa dei genovesi in Sardegna, che ogni macchina ha una “sua” velocità ottimale, raggiunta la quale è come se planasse. Dubito, far planare 2447 chili di jeep non è esattamente il mio mestiere ma, a 28 mph la magia si compie… ma solo per un attimo. La velocità possibile non supera le 20 mph e la nostra frullojeep si impegna con i suoi ammortizzatori e ce ne andiamo così. I saguari ci osservano schierati dai crinali della montagna a ridosso della strada, come vecchi indiani pronti ad attaccare. Sono centinaia, alcuni altissimi, i più vecchi con molti bracci e forme distorte. Fuck you saguaro.

È il paesaggio che conosciamo grazie alla matita di Gian Luigi Bonelli, il papà di Tex Willer. Mi passa per la testa che il prossimo mezzo che incroceremo (pochissimi in realtà) sarà per forza una diligenza, è quasi una pretesa la mia. Il ciglio della strada è un dirupo, al di là del quale si snoda un canyon che termina in un lago, il lago Apache, formato dalla costruzione di una diga. In realtà il lago è molto vasto, e sulle sponde ci sono molti centri di attività nautica, compreso un porto turistico. Moltissimi i creeks, torrenti rigorosamente in secca, per superare i quali troviamo diversi ponti metallici a corsia unica, ma qui è davvero una gara a chi cede il passo all’altro, e sempre col sorriso sulla bocca e negli occhi. La magia di questa strada tortuosa è che ad ogni curva propone uno scenario diverso e inaspettato. Il giallo delle rocce, il verdognolo di alcuni crinali, il rosso ossido di alcuni filoni di roccia, la verde e tremolante acqua del lago. Sono proprio molte le piazzole di sosta, alcune con camminamento guidato in cemento per raggiungere spiazzi panoramici, e noi le facciamo tutte. Immancabili le raccomandazioni, è zona di rattlesnakes, i serpenti a sonagli.

Stiamo vedendo un paesaggio tanto inimmaginabile quanto incredibile. Era questo sterrato lungo 22 miglia un vecchio sentiero Apache, che gli indiani nativi percorrevano per superare le Superstition Mountains. È come se ogni giorno volesse superare in fascino e bellezza il giorno precedente, e c’è la fa alla grande. Domani tappa a Sedona, “vicina” solo 200 km. Sto iniziando a ragionare come loro, ed in effetti sono in casa loro.

Piccolo bilancio su cui è d’accordo anche la Patty: San Francisco bella, ma niente di più, bello il Golden Gate, i tram, le colline, il Pier 39, ma decisamente troppo cara e deludente per quello che chiede rispetto a quanto dà. Bella la 17 Miles road di Monterey, Santa Barbara carina ma un giorno è più che sufficiente; lussuosa Palm Springs ed intrigante, si comincia a sentire odore di deserto. Molto bello il Joshua Tree N.P. e favoloso l’Apache Trail. Il nostro desiderio di viaggio solitario in scenari naturalistici si sta pian piano realizzando.

Nota: oggi a Phoenix benzina a 2,16$ il che, facendo un conto della serva è di circa 50/55 cent di euro al litro. A domani, ci aspetta la Cathedral Rock di Sedona.

Domenica 12 giugno – 165 Miles

Destinazione Sedona. Poco più di duecento km percorsi in circa due ore, solite mega strade di Phoenix, poi strada panoramica, by-way, che ti introduce al clima con pinete di conifere, e precisamente Araucarioxylon Arizonicum, dalla chioma meno folta che compare sui due terzi superiori del fusto ricoperto da corteccia rossiccia, e del caratteristico odore intenso. Improvvisamente dietro una curva appaiono le rocce rosse, the Red Rocks, che caratterizzano Sedona. Immagine mozzafiato. Faccio fatica ad impormi di guardare la strada, difficile davvero perché le rocce sono su tutti e due i lati. In hotel, la ragazza gentilissima risolve un piccolo problema con Booking e ci accoglie con una gentilezza a noi insolita.

Brava dolcissima squaw – infatti il suo viso carinissimo denota chiare ancestralità Hopi.

La camera viene pronta nel pomeriggio, ci prende i bagagli che poi provvederà poi a sistemare, e ci dà istruzioni chiarissime con mappa e rivista su come sfruttare la mezza giornata: non poteva fare di meglio: riusciamo a vedere le due valli contigue, visitiamo un centro commerciale in stile messicano di buona fattura, niente paccottiglia ma oggetti di buon artigianato, specialmente le sculture in legno ed i bronzi fusi, non a sabbia, ma con buona ricchezza di dettaglio e senso plastico.

Il meglio è però alla sera, quando le rocce rosse si infiammano e spiccano contro il verde delle conifere e l’azzurro del cielo. La vastità degli spazi ci appare in tutta la maestà, e ti senti solo un piccolo uomo. È una bellezza imponente e quieta, lo sguardo non riesce a fermarsi, sempre alla ricerca di qualche dettaglio sfuggito, di qualche altra sfumatura da scoprire.

Abbiamo visto canyon, torrenti, ponti, rocce di ogni colore, respirato il balsamo di pinete sconfinate, ma alla fine del giorno lo stomaco reclama il dovuto. Cena al ristorante messicano, dove servono del filet mignon grigliato ed un loro piatto con ottimo sirloin cucinato con spezie, verdure e fagioli neri. Profumo accattivante, colori vivaci e carni tenerissime e gustose, cotte alla perfezione ed impiattamenti ricercati. Entrambe squisiti, ma tanta era la fame che non li abbiamo fotografati, immaginate voi…

Rientriamo in camera e…. aria condizionata a manetta, stanza grandissima con camino… acceso!

Fagioli neri e… Academy of F’Art University!

Cosa cacchio sono andati a fare sulla luna se accendono camino e climatizzatore? Mah…

Domani direzione Page, via Az 179 sino a Flagstaff, strada panoramica, tempo stimato quattro ore salvo traffico e soste foto.

Lunedì 13 giugno

Doccia, valigie, colazione, puntuali come i treni pendolari italiani lasciamo Sedona per Page. La graziosissima ragazza della reception consiglia la US 89A e fa bene. Viaggeremo per un’ora buona fra pini, cielo cobalto e rocce rosse. Alla fine delle successive sessanta miglia in autostrada, la strada che ci porterà a Page è una stecca di biliardo, mossa da qualche raro e lieve saliscendi. Caldo, paesaggio brullo e qualche chiosco lungo la strada di bigiotteria navajo di dubbia qualità. Ad un certo punto nel bel mezzo del vuoto pneumatico compare un attraversamento pedonale ed un cartello giallo col simbolo scolaresca. Deduciamo, data la totale assenza di altro, che la baracca a lato sia la scuola. Ogni tanto qualche casa mobile in legno, vecchie roulotte di alluminio lucido e nulla intorno che denoti allevamento o coltivazione; solo macchinoni e furgoni. Sono gli zingari americani, i rom delle riserve, piccoli gruppi di persone isolate e senza radici, o meglio radicati alla fede della non integrazione. Ogni tanto si vede un trasporto eccezionale con queste esagerate case mobili a bordo. Page appare come un villaggio nato attorno al cantiere della diga del lago Powell. Le bellezze naturali ed il turismo di massa hanno aggiunto motel e resort, ma rimane quello che è. Tutt’altra cosa invece la bellezza del paesaggio: consapevole di essere monotono, torno a parlare di una bellezza mozzafiato. Abbiamo visto velocemente la diga, il lago, il canyon ed un angolo unico, Horseshoe Bend. Lo abbiamo trovato cercandolo perché sapevamo che c’era. Piccolo posteggio in fondo ad una laterale, poi camminata di 1 miglio scarso su un terreno sabbioso e pietroso senza ombra, ma il paesaggio ê indimenticabile.

Domani visiteremo Antelope, lungo giro di 2 ore e mezza. Per oggi siamo stanchi.

Martedì 14 giugno

Sveglia, colazione, solite cose, andiamo a far scorta di acqua e ghiaccio che mettiamo nello scatolone di polistirolo; easy, simple, effective.

A mezzogiorno siamo pronti per partire, destinazione Cathedral Canyon. Ci sono due finlandesi, due italiani e tre americani, ma non è una barzelletta. Solo noi sette più la guida, una donna navajo molto simpatica e cordiale (rarità) sulla cinquantina che guida in modo fiero e sicuro un 4×4 molto alto. Appena iniziato lo sterrato ci inerpichiamo fra sabbia morbida e finissima (insidiosissima) e roccia a lastre. Lei conduce sovrana l’enorme fuoristrada senza apparente difficoltà né incertezze. Ci spostiamo a tappe in macchina, per fare a piedi tratti anche lunghi, pur se facili, ed apprezziamo il consiglio di portare almeno due litri d’acqua a testa, serviranno tutti. Apprendiamo che quello che sembra roccia in realtà è sand rock, sabbia solidificata, e le venature simili ad onde indicano le diverse concentrazioni dei vari metalli di cui la zona ê ricchissima. Ma sempre sabbia è, si sbriciola alla minima pressione, e questo rende i sentieri e le creste ancor più insidiosi.

L’ultimo tratto è il più interessante. Si va per una strettoia leggermente meno ampia del Poggia, che fornisce un saggio di abilità trasversale, seguono passaggi bassi a quattro zampe, sono l’ultimo della fila per evitare giudizi sulla mia indubbia agilità, salita con scala di ferro, per arrivare ad una grotta dall’acustica perfetta. Tornando vediamo una lepre selvatica all’ombra di arbusti. Deserto caldo come un forno, ma per la lepre fortunata mancavano le olive.

La temperatura è molto elevata, ma priva di umidità, il vento moderato ma costante prosciuga tutto. Non si suda, si passa direttamente alla disidratazione. Il deserto, anche con qualche arbusto non fa sconti. Riprendiamo con un’altra guida la visita di Upper Antelope Canyon, sapendo che l’ora non è la migliore, ma meglio di niente. Non esistono parole per descrivere questo canyon e credo che anche le foto facciano fatica a rendere realisticamente l’idea.

Per cena andiamo da Big John’s BBQ, azzeccatissimo. Band country, carne grigliata e affumicata ottima e tenerissima. Formula tavolone vicino a chi capita, sono tutti simpatici e chiacchieroni, è bella gente che ama vivere in modo semplice e sereno. Riconfermiamo che l’italiano è molto stimato e questo ci fa tanto piacere. Domani giro stradale del lago e navigazione al tramonto. Good night, we’re so tired, e puzziamo di fumo e salsa bbq.

Mercoledì 15 giugno

Doccia dentifricio barba, no dopo, presto che è tardi, dobbiamo vedere tutta l’America che c’è. Ma no, sveglia dolce, colazione tranquilla bordo piscina, due chiacchiere col titolare, tipo ex figlio dei fiori, che nel deserto sono belli ma non proprio molti. Capelli lunghi biondo bianchi fino alla vita raccolti in una coda di cavallo, un’espressione giovanile ed il sorriso costante… è anche magro. Saluta sempre con un “Hi guys, another beautiful day”. Strada 22B ed andiamo ad Antelope Island view point, uno spiazzo panoramico dinnanzi all’Antelope Island, che diventa una penisola nei periodi di siccità quando la diga di Glen rilascia acqua ed il livello del bacino cala. Il vero bel viaggio è dalle cinque alle sette di pomeriggio: con un battello navighiamo una piccolissima porzione di questo lago di dimensioni colossali. Ai bordi le rocce, o meglio the Sandstone – la sabbia solidificata – presenta due colori, rosso in alto e bianco sopra il pelo dell’acqua, ma il suo vero colore non è nessuno dei due. La parte chiara, a contatto con l’acqua è quasi bianca per i depositi di calcare, mentre la parte rossa, quella emersa, deve il suo colore alla ruggine del ferro di cui queste “rocce” sono molto ricche.

Cena simpatica a base pesce e birra – vino inavvicinabile – in un ristorante messicano che mi aiuta a fare pace con i nostri camerieri pelandroni. Sapete com’è, si dice che i messicani… nel frattempo ci gustiamo la birra ed il fresco della sera, dopo una giornata a 96 gradi fahrenheit.

Domani Monument Valley. Grandi aspettative, musica di Morricone a palla e la nostra jeep-diligenza carica come un postiglione, poiché ai bagagli abbiamo aggiunto un mega box di polistirolo per il ghiaccio e le bevande. Tutti ce l’hanno, noi scettici, ma dopo 24 ore c’era ancora ghiaccio nel sacchetto. Questa sera ho fatto il pieno a 2,14$ e capisco perché nessuno ha il diesel. La macchina va benone e la nostra relazione ancor meglio. Sentiamo sempre meno la nostalgia di San Francisco, che evidentemente non è nelle nostre corde.

Giovedì 16 giugno

Monument Valley, far beyond expectations. No words to describe it.

Gli ultimi chilometri lasciano ben presagire cosa ci aspetta. Formazioni simili, ma meno belle e maestose. Affrontiamo ogni curva con ansia, pronti ad un tuffo al cuore, ma non è mai ora. Abbiamo letto recensioni e blog, sappiamo che dopo una curva appare all’improvviso quello spettacolo unico, ma sembra un gioco al gatto e al topo. Eccoci all’ultima curva, che precede il famosissimo rettilineo… “the man with the armonica” di Morricone è il sipario aperto di un momento indimenticabile. Emotivamente impatta come un deja-vu, perché tutti abbiamo visto almeno un film western girato in questa terra, ma esserci è emozionante.

Buttate le valigie in casa ci precipitiamo all‘ingresso del parco, biglietto valido anche domani (rifaremo il giro all’alba) ed impieghiamo tre ore per il loop sterrato. Non volendovi tediare con aggettivi tanto magnificanti quanto inevitabili, riteniamo più utile rimandarvi alle foto, https://www.flickr.com/photos/ruggeropoggianellaphotostream/albums/72157671428626505 – https://www.flickr.com/photos/ruggeropoggianellaphotostream/

Che più di mille parole riprodurranno una minima parte di questo teatro naturale. Solo un cenno dovuto alla John Ford rock, la roccia di John Ford, dove l’indiano a cavallo sulla rupe osserva la diligenza sulla radura che a momenti verrà assalita.

Venerdì 17 giugno

A parte il casino dei fusi, orari e umani, sveglia alle 4 a.m. lavare faccia e denti e via in macchina all’ingresso della Monument Valley. Albeggia, luce poca ed incerta, arriviamo sul piazzale che domina l’accesso alla valle che già si vede abbastanza bene, ma il sole deve ancora apparire. Una “mandria” di giapponesi rumorosi e maleducati schiamazza in uno stato che non definisco d’ebbrezza solo per l’ora antelucana. All’apparire del sole, dopo un’ondata di flash (?) spariscono come vampiri, inghiottiti dal bus che li ha portati.

Nella quiete solenne sale lento il sole a rivelare uno scenario che nessun cinemascope può rendere, nessuno fiata, solo il ticchettare degli otturatori delle fotocamere, mitragliatrici inoffensive che cercano di catturare l’estasi di tanta bellezza.

Due ore dopo terminiamo il giro e rientriamo a casa per doccia e colazione nel giardino della casa che ci hanno assegnato. Il percorso per Moab, in uscita da Goulding è ancor più bello dell’arrivo, e dopo una quindicina di chilometri ci fermiamo dove l’immagine più iconica della strada che conduce alla valle è ritratta. È famosa tanto quanto la Monument Valley stessa. Trasferimento un po’ noioso, a parte un paesino ben curato di nome Monticello, poi sebbene il caffettone (uno in due e ne avanza) dò volentieri il volante alla Patty e dormo una mezz’oretta.

Moab, caldissima, quasi cento gradi fahrenheit (e dopo cena la temperature non scende sotto i 96) ed umidità inesistente. Motel 6 e via per Arches National Park, che a tutta prima non sembra granché – arrivando da Momument Valley – ma che dopo poche miglia diventa sempre più interessante. Alle rocce rosse intervallate da vene più chiare, quasi bianche, si aggiungono ampie porzioni di terreno verdognolo, con una vegetazione bassa (semi desertica) dal colore verde abbagliante e quasi metallico, affiancato da ginepri ed altre conifere nane e tappezzanti. Nemmeno a dirlo, il parco è tenuto come un’aiola svizzera, e non possiamo non ammirare l’attenzione che tutta questa gente ha nei confronti dell’ambiente e della natura. Il parco degli Archi è relativamente “piccolo” ma va considerato che un solo lato della sua estensione è circa la distanza fra Milano e Bergamo, e non si vede casa o costruzione. A differenza di altri parchi ci sono pochissimi visitatori, e tranne le prime piazzole incontriamo davvero poche auto. Cresce la sensazione di “deserto” e fa riflettere.

Cena con una “bisteccona” grande per dimensioni e soprattutto per sapore e tenerezza. Amanti della Griglia con la G maiuscola, abbiamo trovato il punto G ed il piacere della carne è assoluto.

Due passi in Moab che non è enorme, ma che dopo Page e soprattutto Goulding (non c’è niente di niente) dà l’idea di essere molto viva, luminosa e con negozi persino aperti. Comperiamo due creme corpo per la Patty e ricordandoci della levataccia andiamo a nanna. Domani Canyonlands, ma con sveglia ok.

Sabato 18 giugno

Ormai abbiamo perso il conto dei km di recinto metallico che abbiamo visto. La riserva dei territori Navajo, i nativi, gli indiani. Non sono cordiali, a differenza dell’americano yankee che è sorridente, gentile, dalla risata contagiosa ed estroversa, l’indiano è ombroso, mai sorridente, scontento. Giustamente, osserva la Patty, tutte le raffigurazioni egli indiani mostrano un viso con la curva del sorriso a scendere. Lungo la strada ogni due per tre incontriamo accampamenti dei nativi, tutti uguali, tutti accomunati da un senso di tristezza e sciatteria. Case precarie, provvisorie, pick-up enormi, macchinoni, vecchie roulottes, nessuna concessione al gusto od all’estetica, ed un senso di trascuratezza desolante. Sono gli zingari, i rom del West. Micro cellule di una società corporativa che rifiuta ogni forma di integrazione. Turista, vuoi entrare nella mia terra? Paga! Per centinaia di miglia la strada è una cicatrice, una frattura, un diritto di servitù prediale fra territori ininterrotti: una piccolissima striscia di stato, di contea in mezzo a terra straniera.

Questa mattina andremo ad Island in the Sky, uno dei tre accessi delle Canyonlands, distante 50 km circa. Come sempre tanto spazio negli occhi da riempire con immagini e tanta fame di nuovo e di sconosciuto. Come sempre sappiamo che saremo frastornati dalla vastità degli spazi. Questo viaggio, prima esperienza negli states rivolta come un calzino ogni nostro metro di valutazione di ciò che è grande o piccolo, sconvolge il senso di vicino e lontano, poca o tanta strada. The Canyonlands è un parco di 1.266 kmq.

Un’ora secca – in zona pressoché desertica – per arrivare all’accesso di Isle in the Sky del Canyonlands National Park, la cui più bella attrazione è il Mesa Arch. posteggio ben segnalato e camminata di circa un miglio (andata e ritorno) a difficoltà zero. Lo scenario è affascinante, arco di roccia sullo sfondo di un cielo invariabilmente azzurro senza nuvole, più da vicino, dalla “finestra” dell’arco si vede il canyon: profondo, scavato, eroso, stratificato, multicolore dalle mille sfumature dei marroni, dei colori della terra, dei rossi ossidati, dei gialli chiari, di venature verdognole, ma soprattutto enorme, tanto smisurato da risultare persino piccolo e poco impressionante. La grandezza e l’estensione lo rendono come una piccola foto col grandangolo – passatemi i termini – piccolo, lontano ed insignificante. Solo riflettendo se ne percepiscono le reali dimensioni. Il tabellone sul view point ci mostra la montagna di fronte: oltre 65 km di distanza, e sembra una collinetta vicina. Ecco in sintesi l’effetto che produce. A costo di ripetermi, saltano tutti i concetti relativi a misure, spazi e distanze. Per via dell’estensione, questo canyon ha tre ingressi distanti (ore di macchina) e non comunicanti. Ci dobbiamo accontentare di questo tour, e passiamo in rassegna gli altri view point, dei quali vi risparmio gli aggettivi.

Ritornando seguiamo per una ventina di chilometri il Colorado, che si rivela però deludente, non è questo il suo punto di maggior richiamo, ma per un fiume lungo solo 2339 km avere qualche tratto non spettacolare mi sembra perdonabile.

Non c’è fumo senza arrosto, e ci fermiamo al Broken Oar (la pagaia rotta) per una fantastica cena a base di costato di maiale (Pork ribs, full rack) grigliato, affumicato, con fantastica salsa barbecue in cottura e cipolle caramellate. La Patty approva e mangia a quattro palmenti, poi si lamenta che è appesantita, ma è l’America, bellezza! Solito back up foto e a nanna. Domani direzione Bryce Canyon, come dire quattro ore e mezzo di auto più soste varie.

Domenica 19 giugno

Da Moab a Bryce Canyon ci vogliono oltre quattro ore di viaggio a tratti anche monotono. L’ultimo tratto di strada è invece esaltante, poco prima di Bryce City incontriamo rocce arancio intenso con una pineta via via più fitta, interrotta dalla strada che attraversa cenge rocciose. Bellezza da stringere il cuore. Buttiamo le valigie a Bryce e voliamo al canyon, che canyon non è. È un enorme anfiteatro, un catino dalla cui base spuntano – scavati dal pieno – pinnacoli di roccia stratificata dai colori cangianti, dal rosso – onnipresente – al giallo, sino ad arrivare al rosa pallido. Se mai la parola piccolo può avere un senso da queste parti, ebbene il Bryce Canyon National Park è il più piccolo parco dello Utah.

Va detto, una volta di più, che l’organizzazione, la cura e l’attenzione di cui i parchi godono sono esemplari. Pulizia, ordine e grazia sono il biglietto da visita. Rangers gentili e disponibili per ogni richiesta, consiglio o curiosità. Nel parco si respira un’aria di eden. Dalla macchina, sul ciglio della strada vediamo due cerbiatti brucare impassibili, ma ho pensato non fosse vero. Solo quando la Patty mi ha detto “guarda” ho realizzato l’incontro.

Trascuro la sequela di aggettivi magnificanti, che sarebbero noiosi e ripetitivi.

Domattina sveglia ore 5 per l’alba sul Bryce. Have a good night…

Lunedì 20 giugno

Poca luce, molta emozione. Qualche minuto e siamo al Sunrise Point, dove l’aria è più che frizzante, ed il vento fa rimpiangere un abbigliamento più caldo. I colori tenui giocano con le rocce che appaiono rosate e pallide con contrasti azzurrognoli. Poca gente, molte reflex. Non appena il sole fa capolino, gli hoodoos esplodono in tutte le sfumature di arancio, come se un pittore folle avesse dato fondo al suo ultimo tubetto di colore. Rimanere a letto sarebbe stato un oltraggio.

Torniamo pigramente e ad un tratto incontriamo dei cerbiatti, a fil di strada, timidi ma non spaventati. Continuano a brucare, scendo e prendo la Nikon dal baule della macchina e loro fermi. Solo di tanto in tanto alzano la testa. Altri due rientrano fra gli alberi di qualche metro, ma non accennano né timore né fuga. Sono animali dolcissimi, con occhioni curiosi e mantello grigio beige chiaro, che ben si confonde col terreno battuto della zona.

Tempo tiranno, rientriamo, doccia, caffè e via, destinazione Las Vegas.

America così diversa e così uguale a te stessa. Paese nato sulle strade e per le strade. America on the road è una realtà quotidiana. Miglia e miglia senza incontrare nessuno, all’improvviso un paesino lungo la strada, tanto uguale al precedente quanto al prossimo. Main street, central road, una decina di traverse, drugstore, benzinaio, distributore di ghiaccio e avanti ancora. No fringles, niente fronzoli, pragmatismo e praticità sono il binomio vincente e costante. La roba in valigia è più che sufficiente ed apprezziamo molto il loro modo easy di essere e di vivere.

La prossima volta valigie ancora più leggere.

Oltre quattro ore di viaggio, io crollo presto e guida la Patty, che è davvero brava, oltretutto se io dormo lei guida meglio e più volentieri. Riprendo la guida all’uscita di Nellis Air Force Base, il centro di addestramento dei Top Gun, ed area secretata in odore di UFO e di molti “si dice”.

Circus Circus, siamo in coda come in aeroporto, transenne mobili per il check-in, dove saranno attivi una dozzina di desk. Doubtlessly c’è un desk rapidissimo, dedicato al Gamer Club, ma si sa, business is business. Nel frattempo guardiamo con gli occhi a rotelle come slot machines (siamo a Las Vegas) il campionario umano attorno a noi. Due giovani ragazze di colore e di dimensioni immense zampettano in ciabatte nella hall. Tutto è mega, taglia e peso, e mi ripeto “questa volta mi registro come Poggia-Snella”. La curiosità ed il caldo, oltre 44 gradi, ci fanno scegliere la sala da gioco.

Non devi pensare, devi divertirti, anzi, devi volerlo. Tutto è indirizzato al gioco, macchinette, luci, musiche e suoni, un otto volante indoor, ed una sala slot machine non più piccola del duomo di Monza. Non abbiamo ancora visitato i cessi, pardon “restrooms”, ma sono certo che puoi giocare anche lì. Più avanti la sala gioco bella, the main One, ed arriva una grossa delusione: niente tavolo verde alla roulette con giocatori assiepati. Il tavolo da roulette ê piccolo, da otto persone al massimo, e del tutto privo del fascino romantico dei casinò d’antan. La Patty sbianca quando vede mucchi e mucchi di fiches andare letteralmente in buca; la pancia del banco che sempre inesorabilmente vince e divora, e per maggior sicurezza è munita di doppio zero.

Luce, luce, luce, colore, colore colore, spazi enormi, gente in quantità impressionante, e mi rendo conto che non sei nemmeno un numero, forse a malapena un decimale. Però Las Vegas vince sempre, e mi sono trovato a dire “che bello” alla vista della hall del Luxor. In fondo è così, sin city per me è mad city, un centro pazzo per gente pazza dove vedi di tutto, e non abbiamo ancora visto la Strip di notte. And here we are, ma alla Strip preferiamo Fremont street, il vecchio downtown di Las Vegas. La regola ê chiara: nessuna regola! Tutto è permesso, senza inibizioni. Tette e chiappe vengono generosamente e democraticamente mostrate da entrambe i sessi (si, anche le tette, magari non del tutto naturali, ma a che serve sottilizzare) s-vestiti nei modi più eccentrici e colorati. È incredibile quanta stranezza si possa mettere in pochissimi centimetri di stoffa. Palchi, musica dal vivo in strada, alcuni davvero molto bravi, c’è pure un autentico falso Elvis nella sua seconda giovinezza che senza saperlo imita Bobby Solo, ma, poverini entrambi, the show must go on. Noi dribbliamo la folla felicemente armata di beveroni da litro e torniamo al parcheggio e via a nanna, mentre la temperatura non accenna a scendere sotto i 100 gradi.

Martedì 21 giugno

Outlet Las Vegas, 117 gradi fahrenheit, come dire 47 gradi all’ombra, che non c’è.

A differenza dei nostri outlet village, che a questo si sono ispirati, la merce è bella ed i prezzi veramente ottimi. Capisco ora perché molti comprano una valigia e la riempiono, facendo veramente ottimi affari.

Pomeriggio visitiamo il Mirage ed il Paris. Cena e continuiamo sulla Strip fino al NY NY, ma il piatto forte ê sicuramente lo spettacolo delle fontane al Bellagio. La caratteristica di Las Vegas è quella di non avere una sua caratteristica, infatti riprende i tratti ed i temi dell’originale a cui si ispira. Veramente falso, falso veramente, ma fatto bene. Decisamente la trovo bella, affascinante, tocca i sensi con umorismo, mai troppo sguaiata e diciamolo pure, tre giorni di cazzeggio impegnato e con gli straordinari ci stanno anche bene. Las Vegas è questo, venirci senza volersi divertire è sciocco, si sa come si vive a Las Vegas. Ê talmente una città a rovescio, che i pochissimi barboni che abbiamo visto, non sono sotto i ponti, ma sopra… si piazzano infatti sugli attraversamenti pedonali, ponti collegati ai vari hotel su cui si sale e scende con scale mobili.

Ore due di notte passate, torniamo in camera e…. have a good night.

Mercoledì 22 giugno

Il tempo è denaro, e noi avendo più tempo che denaro ritorniamo (plurale maiestatis) volentieri agli outlet dove dinnanzi alla fontana dei miracoli, e più precisamente da Tommy Hilfigher accade il primo miracolo: il Poggia trova la taglia (42 americana perfetta) e la Patty no… il Signore ê buono, giusto e misericordioso, punisce i cattivi e i rompiballe, Amen.

Rafforzati da questo “segno celeste” come i pantaloni comperati, decidiamo di rientrare un’oretta in camera, veleggiamo sui 46/47 gradi e non c’è da fare i furbi. Cena al Paris, in una piazza tipicamente parigina da cui si diramano vicoli, scorci e stradine perfettamente realizzate costellate da bistrot, che in realtà sono salettine pranzo, e negozietti ispirati alle varie regioni transalpine. Di notevole effetto il finto acciottolato nero semi lucido (antiscivolo) che riflette le luci dei lampioni sui marciapiedi, conferendo l’impressione del pavé bagnato e luccicante.

Altro lato della strada, il Bellagio con l’ennesimo spettacolo delle fontane illuminate a suon di musica. La migliore attrattiva di Las Vegas a nostro parere. Una fontana (riduttivo) è una fontana, quindi autentica, non è la riproduzione di altro. L’interno, naturalmente enorme, pur se in un contesto fiabesco di mondo marino, spiega assieme all’ambiente raffinato e sciccoso dei tavoli da gioco, il perché del successo del Made in Italy. Segue il Venetian, una lunga camminata (centinaia di metri) a fianco di canali navigati da gondole per turisti. Il tutto al secondo piano dello stabile, e qui devo dire che mi ha stupito non tanto l’estensione dell’invaso d’acqua, quanto la completa impermeabilizzazione. Ma come, tre anni fa abbiamo rifatto il pavimento in terrazzo perchè pioveva sotto…

Al Bellagio ho perso parecchio tempo per le foto, no no, non per farne tante, per farne una: mi preparo ed una comitiva di cinesi/giapponesi/coreani o chissà chi mi si piazza davanti. Ok. Giro successivo stessa cosa e così per sei o sette volte. Alla fine ho fatto una faccia da non verbale che l’asiatico (fotografo) avendo capito si è fatto da parte, ma pretendeva che fotografassi la comitiva di giapponesi. Cazzo, ma ti pare che siano parenti miei? A questo punto la vendetta è stata feroce: al bipede del sol levante ho spiegato di essere italiano, e che da noi, per indicare una cosa stupenda si dice “gìargianes de merda” e quello tutto felice lo ripeteva.

Finiamo la serata tornando sulla Fremont che abbiamo già visitato, ma è tardi ormai ed il popolo del folklore non c’è più – i Poggia hanno davvero dato tutte le energie, quindi cocktail by night e nanna, intanto si sono fatte le tre.

Giovedì 23 giugno

Lasciamo la caldissima Las Vegas verso Furnace Creek, Death Valley, per scoprire che, anche se il termometro segna la stessa temperatura 116/118 gradi fahrenheit, il caldo di Death Valley è abbacinante. La bocca da forno è dovunque e vomita calore. Check-in rapido con una receptionist ultra gentile e molto carina, valigie in camera e siesta. Saremo per il tramonto a Zabriskie Point, ma attenderemo la sera, qui il sole cala alle 8 p.m. e non è saggio far altro. Domattina invece alba a badwater. PS: siamo stanchissimi, domattina sveglia ore otto.

La strada che porta a Dante’s View è lunare. Questo deserto è aspro, cattivo, desolato, solo qualche sterpo stentato si ostina a sopravvivere al margine della strada. Infiniti cartelli raccomandano scorte di acqua e di non abbandonare mai la macchina qualunque cosa accada, fuoristrada vietato. Dante’s View è una piccola sommità dove la vista spazia sui due versanti del crinale, da un lato Badwater e dall’altro Zabriskie Point. Siamo circondati da catene montuose, non alte ma continue. Intanto la temperatura è scesa a 100 gradi e si sta quasi bene. La sorpresa è proprio la montuosità della zona, che in qualche modo invece immaginavo pianeggiante e vuota. Il tramonto a Zabriskie Point è commovente. Da ragazzo avevo visto l’omonimo film di Michelangelo Antonioni, ed in qualche modo mi ero ripromesso che un giorno, chissà come e quando, ci sarei venuto. La magia di quelle rocce, di quei colori, di quelle ombre e luci sono impagabili, come il bagno pomeridiano in piscina nel deserto, con cielo azzurro, vento caldo, prato inglese e palme.

Venerdì 24 giugno

Il caldo ci ha fiaccati e decidiamo di non alzarci per l’alba su Badwater, partiamo per Sequoia National Park alle 11 a.m. Con un’atmosfera vagamente fosca all’orizzonte, molto opaco e indistinto. Nonostante la petroliera sia piena, ci fa un certo effetto viaggiare per 80 miglia nel deserto senza incontrare un benzinaio. Noi in ogni caso riforniamo sempre a metà serbatoio (non ci siamo mai pentiti) e la petroliera, anche grazie all’assenza di traffico e semafori è davvero brava. In pratica il consumo strumentale indicato è stabile sulle 24 miglia per gallone americano. Non male per un salotto con 4 ruote motrici. Il secondo tratto di strada è impegnativo, continui saliscendi di montagna con forti pendenze, spesso anche 8%, che impegnano i freni molto sollecitati! Il cambio automatico offre pochissimo freno motore, e molto meno del diesel. C’è molto fumo e capiamo di essere nei pressi di un grande incendio di cui avevo visto un breve scorcio ieri sera al notiziario TV, senza però capire dove. Polizia e strade sbarrate, ci facciamo una deviazione grazie alla quale perderemo oltre un’ora. Tratto alquanto noioso, che dopo 45 minuti di curve continue ci riporta sulla hwy 190. Finalmente un rettilineo – troppa grazia – 140 km interrotti da sei o sette semafori che spuntano dal nulla, a 55 mph, in un paesaggio sconfinato, che alterna paglia dorata ai bordi della strada ad enormi coltivazioni di alberi da frutto, agrumeti ed olivi.

Va bene così, questo viaggio ha molti contenuti metaforici, è la sintesi della vita, progettata, programmata, preparata, orientata, piena di speranze e di attese, di realtà e limiti, di nuove esperienze. Noi due per esempio non avevamo mai fatto un viaggio così impegnativo a contatto di gomito per tutti questi giorni consecutivi. Ci siamo riscoperti, con fragilità, sorprese e risorse inattese. È come la vita, ci offre strade più o meno belle, ottimi ristoranti alternati a cuochi scaccia parenti, scenari mozzafiato e tratti noiosi, ritmi scanditi e puntuali, alternati a ritardi ed imprevisti.

Questa sera arrivati al Sequoia NP troviamo un motel carino, pulito e confortevole, una receptionist di vaghe origini italiane che parla inglese molto peggio di me, ma che è di fatto di madrelingua spagnola. Carattere latino, ospitalità usa. Ceniamo in un ristorantino dall’apparente unico pregio di essere vicino a casa. Mangeremo le migliori costine di maiale sin ora assaggiate, e su un terrazzo all’aperto (non sopporto più l’aria condizionata a palla) assieme a tre ottime birre (piccole); costo totale 42$. Torneremo domani.

Al mio amico Luciano, che leggerà queste mie righe, ribadisco il concetto che quanto a “tips” sono ancora sotto i 10$ e che nessuno ha fatto obiezioni. Credo e aprirò in Scozia un corso di formazione per genovesi spendaccioni. Domani visita al mondo degli alberi giganti, vedremo il generale Sherman, la sequoia più vecchia e grande in assoluto.

Sabato 25 giugno

Sequoia National Park, 1626 kmq di estensione protetta. Dal nostro lodge dista poco più di un miglio. Ranger gentilissimi, as usual, ma soprattutto molto carine. Sosta al visitors center, mappa dettagliata più spiegazioni, informazioni, evidenziato il generale Sherman, la più grande pianta vivente al mondo. Ci indicano due o tre zone dove è molto probabile incontrare orsi, benissimo. All’uscita una ranger, forse carina e certamente giovane quarant’anni fa, spiega ad una piccola folla estasiata di bimbi le abitudini alimentari degli orsi, maneggiando un teschio ed indicandone la dentatura.

Gli orsi sono all’85% vegetariani! Azz… e gli altri?

Dice un proverbio locale: se questi orsi non son sazi, se li trovi sono caxxx. Segue pistolotto sul rischio di intrusione in macchina degli orsi affamati, hanno un olfatto molto sviluppato, quindi niente cibo in auto, scaricare la spazzatura negli appositi contenitori metallici, non dare da mangiare e non avvicinarsi agli orsi (in pratica la stessa cosa), vi auguriamo di incontrare un orso!?

Avanti alla ricerca delle sequoie, per almeno una decina di miglia su una strada che è l’opera omnia delle curve, ogni tanto c’è un cartello con scritto “attenzione rettilineo”. Ad una curva, all’improvviso ecco le sequoie. Tante, magnifiche, maestose. Per qualche impercettibile fattore microclimatico nello spazio di dieci metri appaiono, da dove prima nemmeno l’ombra. Il folto bosco di querce ne cela la vista da dietro la curva, e l’effetto è sorprendente. Il cromatismo affascina, si passa dal blu del cielo, al verde scuro degli aghi per passare dal colore bruciato chiaro della corteccia fino ai toni più scuri del terreno che sotto ogni conifera è sempre brullo.

Il generale Sherman è l’albero vivente più grande al mondo, vecchio si stima 3.000 anni, la cui punta (sommità) è malata e non si allunga più (molti uomini hanno il medesimo problema almeno due millenni prima) in compenso aumenta il suo volume e la massa lignea in misura pari alla massa di un albero di medie proporzioni ogni anno.

Per me è impressionante, la Patty ha detto: “mi aspettavo di più”.

Grazie Patty. Mi sono subito sentito meglio perché ho trovato una ragione alle nostre incomprensioni di coppia. L’escursione a piedi è di due miglia scarse, su un percorso in gran parte pavimentato, con scalini e pochi tratti in terra battuta. È completamente in discesa, ed alla fine del percorso una navetta ti riporta al posteggio. Faccio due conti della serva e – ditemi se sbaglio – con 80$ annui hai l’accesso a tutti i parchi federali per due intestatari, una macchina a scelta, più l’accesso degli occupanti (max cinque) a bordo della macchina. I parchi fanno invidia ad un’aiuola Svizzera, curatissimi, con ranger al servizio, e bus navetta. Mi astengo dagli ingenerosi commenti sul parco di Monza.

Continuiamo il nostro viaggio in macchina all’interno del parco, velocità bassissima, come quel panorama richiede, molte soste, molti spiazzi anche attrezzati, con gli onnipresenti contenitori per rifiuti di metallo a prova di orso (a mio parere ridicoli, ogni orso li aprirebbe) e non finiamo di commentare la bellezza e la grandezza dello scenario che stiamo attraversando. Incontriamo una simpatica coppia poco più anziana di noi, viene dall’Ohio, viaggiano in tenda ed hanno percorso circa 7.000 miglia, sono simpaticissimi e chiacchieriamo una bella decina di minuti. Un’altra ragazza sui 35 anni mi saluta e mi chiede come va il Grand Cherokee, sai voglio cambiare auto, poi si chiacchiera e via. Siamo affascinati dall’amabilità di questa gente.

Il “se” torneremo in America è già sostituito dal “quando” torneremo e, salvo imprevisti, si delinea un bel maggio 2017. Nel frattempo il sole cala, la fame cresce, sosta veloce a casa e voliamo al ristorante di ieri sera. Ri-eccellente BBQ con lo stesso rack di maiale alla griglia affumicato, più una rib-eye superlativa. Totale 66$ a cui decidiamo di aggiungere 10$ di mancia tenendo conto della qualità, della gentilezza e cura del servizio, e poi boh… andava bene così… Ciao Luciano.

Domattina lunga tratta sino a San Francisco. Sistemazione, verifica check-in per il Messico, e cena con passeggio sul Pier 39 di Frisco.

Domenica 26 giugno

Sveglia, pronti (mica tanto) via (seee, ciao pepp) anziché alla una di pomeriggio ci avventuriamo per San Francisco alle tre passate. Giornata bellissima, cielo terso e luce dorata. Mi risintonizzo con la città e faccio pace, avendo individuato le mie aspettative disattese. Dopo Las Vegas ho capito cosa avrei voluto vedere: il prototipo americano di downtown, grattacieli vetro e alluminio ed impronta metropolitana, invece ho trovato casette di legno colorate, villette basse e grattacieli nemmeno altissimi e di cemento opaco, niente o pochissimi scintillii. Volevo la “mia” America, con tutti i soldi spesi. Ma San Francisco è così, vivace, dinamica, strana e molto europea. Abbiamo percorso in macchina un tratto di strada lungo l’oceano, con alte dune sabbiose, pescatori in acqua (cosa farà quel metro in più) ragazzi e ragazze che correvano, in bici o a piedi. Lombard street, il presidio, con il Golden Gate avvolto nella nebbia. Parcheggio al Pier 39 a soli 10$ l’ora (un’ora sarà abbuonata dal ristorante) e cena al Fog Harbour, con antipasto di Clam Chowder ed un filetto di tonno (alto tipo fiorentina) con salsa di avocado e zenzero fresco stufato… da sballo.

Ritorno e nanna, domani cambia tutto: destinazione, tipo di vacanza, stato e lingua.

Anche la Patty in macchina apprezzava molto questa vacanza così itinerante, lei che mai avrebbe pensato di dover aprire e chiudere le valigie in pratica tutti i giorni o pochissimo meno. Ci dispiace che il tour dei parchi sia già finito, ci spiace lasciare gli Stati Uniti. Partiamo per il Messico molto contenti e grati della fortuna che abbiamo, ma con un fondo di malinconia, e cominciamo a capire cosa prova chi parla di mal d’Africa. Noi sperimentiamo questo per gli States. Ci siamo sentiti bene, siamo stati davvero bene, ci siamo sentiti liberi e non giudicati, in mezzo a gente gioviale, accogliente, simpatica e disponibile. Stiamo già parlando (non poco e molto seriamente) di come programmare il prossimo viaggio a stelle e strisce.

Cari Amici – avrei voluto scrivere cari lettori – ma non sarebbe giusto nei vostri confronti, non sarebbe stato giusto ridurvi al livello di semplici lettori, ma visto che avete avuto la bontà di leggerci sino ad ora, e magari di farvi qualche risata alle nostre spalle, che ne dite di suggerire un titolo a questo brogliaccio? Incisivo, spiritoso, che faccia capire che è divertente. Questa naturalmente è una brutta copia, che dovrò rivedere, alleggerendo parti troppo tediose ed aggiungendo scene che per motivi di tempo ho saltato.

Lunedì 27 giugno

San Francisco Intl Airport, una città. Un autentico labirinto, guidato e gestito alla perfezione. Troviamo con facilità l’area autonoleggi e l’air shuttle per il nostro imbarco. Meno gradevole il check-in Alaska Airlines, che ieri ha aperto il check elettronico all’ultimo minuto, poi non ha accettato i passaporti, poi ci ha fatto venire in aeroporto per dirci che con i passaporti il check-in si fa prima del volo l’indomani mattina… ancora una volta ci confrontiamo con unità di misura e dimensioni differenti a quelle abituali. Stiamo aspettando il nostro imbarco, fra meno di mezz’ora, poi mare a Los Cabos. La Patty è molto contenta e particolarmente dolce, bene, continuiamo così spensieratamente e sereni, mentre abbiamo comprato una prolunga per i selfie con il cellulare, rigorosamente cinese, a 10$ only. Ci stiamo muovendo bene, a nostro agio e siamo tranquilli… che Poggia.

San Jose del Cabo, dogana, bagagli tutto ok, rent a car… Ci danno una VW Gol che in Italia non esiste. Tutto quanto può essere azionato a manovella (a parte l’avviamento) lo è: vetri anteriori, sedili, radio senza cd, modello anni ’80, senza cappelliera, chiusura a chiave manuale con chiusura delle singole portiere mediante pirolino – tipo Fiat 850 anni ’70. Abbiate pietà per il gps, una specie di smartphone riadattato, dalla dubbia precisione e leggibilità… meno male che le strade messicane sono davvero poche, meno rischio di perdersi.

Dall’aeroporto a La Paz sono oltre 200 km ed arriviamo alle 7.30 p.m. l’albergo è stupendo, la camera è una suite enorme (meno di 50€ al giorno con colazione) – ma il tragitto, e quanto abbiamo visto ci rendono conto dell’estrema povertà del posto. Qualche mucca, pecore ossute che fingono di brucare l’erba che non c’è sui bordi delle strade polverose e sassose, che ogni tanto diventano ponti che scavalcano sabbia o pietraie, non ostante i cartelli ci vogliano far credere di superare fiumi. Il paesaggio è caratterizzato da cactus e saguari, ma la struttura è più collinosa che montana o rocciosa, e non assomiglia per niente agli scenari dell’Arizona o dello Utah. Le poche e basse case, le botteghe sgangherate ai lati della strada richiamano la memoria di scenari indiani, negli slum di Bombay. Solo La Paz, spuntata all’improvviso dopo una lunghissima strada deserta di vegetazione e di auto, cerca di ostentare un qualche benessere che gli abitanti e le molte auto malridotte smentiscono impietosamente. Il lungomare è bello, con ristoranti e negozi, ma tutto pare (forse siamo troppo stanchi per giudicare) un po’ sottotono, come triste. A cena prendiamo due T-bone, tre birre (quando diciamo tre intendiamo sempre bottiglietta piccola) con due contorni ed un mega margarita per finire: totale 47$. Aspettiamo domani per vedere il mar de Cortez, buenas noche.

Martedì 28 giugno

Sesto piano, terrazzo panoramico sul mare, colazione a base di succo di ananas, caffè, omelette e macedonia di melone ed altra frutta succosissima. Partiamo bene e leggeri. Il caldo, ma soprattutto l’umidità mi fanno sentire bisogno di liquidi e frutta. Caldo tropicale con umidità milanese, mi sento le gambe di gomma. Giornata strana, gira male e non riusciamo a combinare nulla. Riesco a malapena a sistemare la sim telefonica di AT&T Mexico al costo di 12$ scarsi con traffico per 15 giorni. I messicani stanno al genere umano come il bradipo sta al film l’era glaciale, ma sono meno simpatici.

Domani cercheremo di visitare la spiaggia di El Tecolote, da cui vorremmo prenotare l’escursione in barca all’isola di Espiritu Santu, dove si fa il bagno con le foche. Questa spiaggia è data come la più bella di La Paz, e le foto che abbiamo visto sono davvero molto intriganti.

Dato il bilancio odierno, domani non può che essere migliore.

Mercoledì 29 giugno

Ciao Enzo, avevi ragione tu: Messico e nuvole, e tanta flemma. Al ristorante si saluta così: buenas tardes, por favor no picante, poi si parla del resto. Giornata notevolmente migliore, meno stanchi, più in sintonia col posto, ci dirigiamo in centro, diamo un’occhiata in giro, e sebbene La Paz sia una città molto grande – la capitale della Baja California Sur – la povertà è sovrana e le strade che non contengono hotel od attrazioni turistiche lo testimoniano. Ciò non ostante non si spegne il sorriso della gente che incontriamo, pronta a salutare se appena appena scorgono un sorriso sulle nostre facce. Entriamo nella cattedrale, molto raccolta e modesta, qualche donna assorta in ginocchio, rimaniamo in silenzio e recitiamo una preghiera per uscire nel caldo della strada che alterna case ad un solo piano coloratissime a vecchi edifici diroccati e stinti, in mezzo ai quali la spianata che resta di un vecchio edificio raso al suolo mostra con orgoglio un cartello PARKING che anni or sono ha certamente goduto di migliori fortune. Troppo caldo, ci avviamo al mare, playa del Tecolote, la più bella a detta di tutti. E bella lo è davvero, lunga, diritta, bianchissima, abbagliante, ti butta in faccia con noncuranza un mare smeraldo dai toni caraibici. È emozione, gioia, la consapevolezza di essere in una delle più belle marine messicane. Tentiamo un bagno, ma l’acqua non è calda come ci aspettavamo. Il bagno lo faremo domani, dalla barca con cui andremo per un’escursione di 6 ore lungo la costa sino all’isola di Espiritu Santo. Dalla barca si entra a tuffo, e sentì il freddo una sola volta, se entri piano piano, ed oggi anch’io e non solo la Patty ero scettico, va a finire che non entri più. Ciringuito con tetto in foglie di palma, birra, margarita, insalata di tonno (ottima) meno di 12$ con tortillas croccanti e sottili, tipo pane carasau, accompagnate da una collezione di salsine minacciosamente rosse che ci siamo ben guardati dal provare.

Ritornando abbiamo fatto una piccola digressione per playa Balandra, che è meno famosa ma a nostro avviso ancor più bella. Piccola graziosa e varia. Quasi perfettamente circolare, alterna sui quasi 300 gradi del cerchio sabbia finissima bianca a rocce che al livello del mare formano piccole grotte. Dalla piccola apertura sull’oceano si possono fa escursioni in kayak, dove anche fuori l’acqua rimane calma. L’acqua è sempre molto bassa, è il mare della Patty, e la sabbia rilucente conferisce un effetto piscina, come se un photoshoppista avesse deciso di spremere il mouse saturando a dismisura i toni di acqua e smeraldo. Abbiamo visto piccole razze guizzare all’improvviso e fuggire come frecce spaventate dai piedi dei bagnanti. Le piccole razze vengono praticamente a riva per scaldarsi, e qualche volta vengono addirittura – specie al mattino presto – urtate dai primi bagnanti. In qualche raro caso potrebbero causare piccoli tagli con il loro aculeo caudale. Alle spalle della battigia, separato da una lingua di sabbia, si è creato uno stagno salmastro, un piccolo esercito di mangrovie tiene la posizione creando un nuovo ecosistema.

Doccia fresca e fuori nello stesso ristorante di ieri. Stesse ostriche, conchiglie gratinate, tipo fasolari, ma più grandi, squisite, con bottiglia di ottimo vino bianco, che per via del clima emana un profumo ed un aroma molto intenso e fruttato. Dopo 29 giorni gustiamo molto volentieri del vino, che qui è oggettivamente abbordabile, 25$ una bottiglia. Il cameriere che solo a poco prima ci parlava in spagnolo, decide che siamo americani ed inventa uno strano idioma, lo Spanglish, un incerto mix di spanish ed english… Habla como comes! Nanna, domani uscita in barca e nuotata con le foche, non poteva certo mancare un vecchio tricheco come me.

Giovedì 30 giugno

Oggi giornata stupenda – che noia direte voi – ma è così. Dopo tanto deserto, vegetazione strana ed animali inaspettati, faremo un’intera giornata sul mare, e che mare. Abbiamo scelto questo tour alla Isla de Spiritu Santo attratti dai leoni marini, senza aver capito che in realtà si tratta di un parco marino protetto. L’isola è lunga venti km e larga otto, disabitata, deserta, roccia nuda dove solo il saguaro e qualche sparuto cespuglio trova possibilità di vita. A seconda del fondale però, molte specie animali sono diventate stanziali o ricorrenti. È il caso della balena azzurra e della megattera, che vengono a marzo per partorire nelle acque riparate e calde della Baja California. Navighiamo in acque fonde, e vediamo uno spettacolo sorprendente: la danza delle mante. La Manta Raya, the Sting Ray, la razza gigante danza, corre, si slancia leggera in aria per ricadere beata in acqua, in un carosello di giocosità, danza d’amore forse, e di bellezza e armonia. Il rumore del potente 150 cv. Yamaha della lancia fa sì che lo spettacolo abbia fine. Continuando andiamo a costeggiare un tratto di costa abitato da uccelli spazzini, grossi uccelli neri che mangiano ogni tipo di resto organico.

Finalmente arriviamo alla punta nord, abitata dai leoni marini, qui detti anche “lupi di mare”. Costeggiando a due/tre metri dalla costa scoscesa vediamo una colonia vastissima di questi mammiferi, che da poco hanno partorito. Impressionante il numero e la bellezza di questi cuccioli, dal pelo setoso, nero e lucidissimo, con le madri dalla pelliccia dorata quando asciugata al sole, e con i grandi maschi alfa dalla mole imponente (oltre 600 kg) e dal mantello grigio.

Abbiamo 90 minuti per un bagno indimenticabile. Pinne e maschere con snorkel, due indicazioni brevissime e via tutti in acqua. Questi simpatici e socievoli animali (i leoni marini, non i bagnanti) sono estremamente territoriali e protettivi nei confronti dei cuccioli. Difendono il loro spazio da possibili invasioni tanto quanto la prole, per cui l’ordine di squadra è: non toccare né aggrapparsi alle rocce, appartengono a loro; non nuotare direttamente verso di essi, è una possibile minaccia; non cercare di toccarli, il loro musetto sorridente ospita robuste mandibole dotate di denti affilatissimi (sono carnivori). Minuti uno e siamo tutti in acqua.

Un grosso maschio è pigramente disteso sul fondale a non più di tre metri di profondità, un cucciolotto non più lungo di sessanta centimetri mi punta dritto e velocissimo, con occhietti curiosi e furbi, rallenta appena ed a meno di un metro svolta rapidissimo a 90 gradi alla mia destra sotto gli occhi della mamma. Un altro, molto più grosso lento lento mi sfila ad un paio di metri. Gli altri a distanza poco maggiore, pigri e consapevoli che noi non siamo una minaccia, e soprattutto che loro hanno l’elemento naturale, l’agilità, la forza e il numero. Continuiamo con la nostra guida e mi sembra di nuotare in un acquario senza fine. Pesci di ogni tipo e dimensione. Branchi simili a orate, ma molto più grandi, altri di forma vagamente rettangolare con gli angoli molto arrotondati, dalla livrea blu cobalto, striscia bianca e cosa arancio vivo o giallo evidenziatore. Acqua cristallina e non freddissima, sebbene oceano, che ospita ogni forma di vita e di colore. Enormi banchi di corallo color caffellatte, interrotti da brevi tratti di corallo bianco, corallo morto, toccato da bagnanti irresponsabili o urtato da ancore. Questo è il bagno della mia vita, dopo un ventennio di Sardegna, un’uscita indimenticabile. Approdiamo per uno spuntino in spiaggia, su una spiaggia quasi identica a quella del “principe” fra Cala di Volpe e Romazzino in costa Smeralda, eccezione fatta per le pareti scoscese ai margini e la macchia mediterranea rimpiazzata dai saguari ed altre cactacee. La spiaggia di conchiglie bianchissima ed il mare verde smeraldo ricordano l’isola di Spargi. Siamo solo noi e la vita.

Domani andremo al Cabo, Cabo San Lucas, e sarà l’ultima avventura.

Venerdì 1 luglio / 2 luglio

El Cabo, buen retiro di mafiosi internazionali, affaristi senza scrupoli ed arrivisti in carriera, è una Porto Cervo dorata in mezzo ad un mare di povertà estrema. Come un enorme led acceso in un deposito di lampadine guaste. In realtà, basta andare verso Sunset Beach uscendo non più di un chilometro per incontrare il vero volto della città.

El Cabo, di giorno ti accoglie e ti sorprende con le sue aiuole di cactus, strelitzie ed agavi intervallate da prati inglesi, dove l’occhio scorre da un edificio all’altro, tutti simili, nelle varie gradazioni dei colori delle terre, siena bruciato, cacao, beige, zabaione; per inciampare in piccole basse costruzioni quadrate dai colori più assurdi: cobalto, oltremare, giallo acceso, rossi a volontà e tutte le sfumature di arancio e verde acido. Tutti ugualmente saturi, tutti ugualmente pieni, vivi, con una carica propria che trasmette la positività, la vitalità e l’energia degli abitanti.

Il porto è un altro mondo, la ricchezza si ostenta in piedi, l’unità di misura di lunghezza dei natanti, tutti uguali, con l’equipaggio in divisa che sembra camminare nell’atelier di una sartoria, con radar, plotter, parabordi immacolati, tender che da soli sarebbero gommoni extra lusso, arredamenti sofisticati sul ponte poppiero e persone svogliate impegnate nell’ozio. Le barche di caratura più modesta e normale sono quelle che offrono gite ai numerosi turisti a basso reddito. Però il mare ha un suo codice, noblesse oblige, e persino gli animali si adeguano al rigoroso cazzeggio che tanto lusso impone, per questo anche “Pancho” il leone marino della baia sguazza pigramente in giro per il porto con reale e composta indolenza. Lui, la sua compagna ed i loro due cuccioli non cacciano più, le barche al ritorno gettano loro parte del pescato. Noi abbiamo visto Pancho salire sullo specchio di poppa di un grosso cabinato per farsi dignitosamente imboccare da chi a bordo, per il divertimento di tutti.

Quando la sera scende sul Cabo si respira un’aria del tutto differente. Il porto apparecchia, ed i locali accendono luci, torce, bracieri e BBQ, mostrando menù invariabilmente uguali. Hanno materia prima di assoluta qualità ed a prezzi più che accessibili, ma povero pesce, la prima volta lo uccidono togliendolo dall’acqua, poi lo ammazzano con cotture esagerate. Hanno gamberoni e aragoste a profusione, che con grande impegno trasformano in gomma incommestibile. Non li cuociono, li vulcanizzano con almeno 15 minuti di griglia, salvo poi aggiungere le salse più incredibili, peperoncino e cipolla. Tempo e fiato sprecati il tentativo di chiedere o pretendere cotture abbreviate. Basta pesce, per quanto freschissimo e di qualità, da domani torneremo alla carne, anche qui più che eccellente.

Fuori dal porto è tutt’altra musica, almeno 2.000 watt per locale, ciascuno dei quali ospita (ore 21.30 circa) in ordine sparso di età attempate baiadere in cerca di piaceri notturni alternate a giovanissime ragazze impegnate il lap dance, per ora ancora poco s-vestite, le dimensioni delle natiche non sembrano invece obbedire al alcuna regola e sono equamente rappresentate. Tra bicchieri di margaritas, al cui confronto la tazza da colazione sfigurerebbe, l’operazione sballo è in pieno decollo, e le luci colorate dei locali sfidano le rosse e blu della polizia presente in grande quantità ed armata fino ai denti e con giubbotto antiproiettile, non si sa se a scopo preventivo o se in attesa di grane abituali. Domani giornata in barca, El Arco e la costa ci attendono.

Attesa breve, eccoci a bordo di un improbabile ex galeone pirata che ha sostituito le nobili vele con più utili tendalini parasole abdicando al motore a scoppio. La ciurma, uscita da una nottata in maschera, manda non stop disco music anni ’70 e serve cocktail a ruota libera (hanno aperto il free bar) che gli americani mostrano di apprezzare molto. Lupo di mare (io) e foca marittima (la Patty) si godono il paesaggio dell’Arco, simbolo del Cabo, la punta che unisce o separa il Pacifico con il mar di Cortez. Esclusa ogni navigazione al di là del capo, onde troppo forti. Lo spettacolo è affascinante sia per la bellezza dei colori, che per il senso di possenza che la natura trasmette. Schiuma bianca in perenne movimento nasce da quelle rocce color ocra scuro che al tramonto si trasforma in senape e tabacco. Il resto della giornata è riservato al bagno, con attrezzatura snorkel di bordo.

Rientro, doccia, ricerca di Sunset Beach con esito positivo però… è un villaggio privato, o meglio un enorme campo golf con annessi. Qualcuno ha deciso di sequestrare chilometri di costa ed entroterra per di trasformarlo in un club privato, che trasuda ricchezza sin dalle pietre che lastricano il viale d’accesso.

Ci consoliamo con una Rib Eye eccellentemente cucinata – medium very rear – seminiamo qualche passo sul porto con le sue luci e nanna. Nel frattempo abbiamo saputo del risultato calcistico della nostra italia (no, non è un errore, la “i” è volutamente minuscola) che come noto è distante dai miei pensieri. Continuerò a pagare le stesse tasse che pagavo prima e mi viene da pensare che sarà come sempre impossibile contare il numero delle bandiere italiane a finestre e balconi per la nazionale, mentre a San Francisco il 4 luglio noi partiremo per rientrare a casa, e vedremo molte più bandiere americane. Noi ci limitiamo a tifare la nazionale, loro festeggiano la Nazione.

Vabbè non siamo tutti uguali.

Stamattina cerchiamo e troviamo un accesso sull’oceano “sunset side”. El Cabo, Diamante Golf Club, un paradiso per gli occhi e lo spirito. Deserto, dune alte, cactus e green. Un campo da sogno con lo sfondo dell’oceano che fa da contrasto col suo cobalto ultramarino al verde dei prati ed ai toni pallidi dei gialli delle dune. Lo sterrato che arriva alle dune ci mostra enormi cactus imbiancati dalla polvere sottilissima mossa dalle ruote dei pochi mezzi che arrivano fin li. La strada, per quanto sterrata è regolare e compatta, solo un po’ di tole ondulee che non presenta né problemi né difficoltà. Questa sera torneremo per il tramonto dopo l’escursione pomeridiana per mare all’arco e ad una spiagge tra raggiungibile solo via mare. Al termine del tour ti lasciano su una spiaggia, ed all’ora convenuta passano a riprenderti, o almeno spero. In realtà sarà un giro raso costa, ma senza accesso a spiagge, per via della marea e delle onde, la piccola lancia guidata con maestria da un enorme messicano bonaccione, entra ed esce nelle grotte incurante delle onde e delle correnti. Abilità, 100 cavalli all’elica ed una lancia tutta per noi, costo 10 us$ cad.

Domani San Jose del Cabo, destinazione San Francisco e rientro.

Questa vacanza ci ha convinto delle nostre capacità organizzative, ci sentiamo pronti ad andare ovunque, ed è già una decisione. Prende sempre più corpo il progetto USA 2017 con meta Yellowstone e poi si vedrà…

To be continued… seguiranno considerazioni finali a casa o strada facendo.



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