Borneo, Komodo, Papua: primati, draghi e argonauti del Pacifico Occidentale

Un viaggio sulle tracce di oranghi, primati, draghi e tribù primitive... il tutto organizzato in completa autonomia
Scritto da: cimolais
borneo, komodo, papua: primati, draghi e argonauti del pacifico occidentale
Partenza il: 21/05/2013
Ritorno il: 07/06/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
Ciao a tutti, questo è il racconto del nostro viaggio tra Borneo, arcipelago di Komodo e Irian Jaya (Papua) dal 21 maggio al 07 giugno 2013 sulle tracce di oranghi, primati, draghi e tribù primitive; il tutto è stato organizzato in completa autonomia con il supporto di un’agenzia locale che ci ha fornito i giusti suggerimenti, appoggi per il disbrigo delle procedure burocratiche e contatti per il reperimento di guide e porters; il costo complessivo è stato di circa 7000 euro, tutto compreso per due persone.

Ciao a tutti, questo è il racconto del nostro viaggio tra Borneo, arcipelago di Komodo e Irian Jaya dal 21 maggio al 07 giugno 2013 sulle tracce di oranghi, primati, draghi e tribù primitive; il tutto è stato organizzato in completa autonomia con il supporto di un’agenzia locale che ci ha fornito i giusti suggerimenti, appoggi per il disbrigo delle procedure burocratiche e contatti per il reperimento di guide e porters; il costo complessivo è stato di circa 7000 euro, tutto compreso per due persone.

21-22 MAGGIO: VENEZIA-DOHA-JAKARTA

Pronti per la partenza! La ricerca dei voli su internet ha premiato Qatar Airways, una compagnia con cui abbiamo già volato altre volte e che ci ha sempre soddisfatto ampiamente, sia per la qualità dei servizi a bordo, che per la competitività delle tariffe.

Partiamo nel pomeriggio da Venezia alla volta di Doha, dove arriviamo attorno alle 23: l’aeroporto di Doha è un vero hub intercontinentale, molto trafficato ma estremamente efficiente e funzionale, in cui si viene indirizzati alla propria destinazione seguendo i pittogrammi in base al colore della boarding pass: per chi come noi ha un transfer di media-lunga attesa il colore di riferimento è il giallo.

A Doha ci sentiamo un po’ come a casa e raggiungiamo senza indugi la zona relax, uno spazio gratuito dedicato, con poltroncine reclinabili, coperte e cuscini, a cui si accede gratuitamente esibendo la boarding pass all’ingresso; se invece volete investire qualche decina di dollari c’è anche la possibilità di accedere all’Orix Lounge, una vasta sala di attesa dotata di comode poltrone, con open bar 24 ore al giorno e sicuramente più silenziosa del resto dell’aeroporto.

La notte trascorre tranquilla e, dopo l’immancabile colazione da Costa, ci avviamo al nostro gate per la partenza: l’aereo è pieno, in larga parte di indonesiani piuttosto indisciplinati che mettono a dura prova la pazienza delle hostess, ma trascorre senza noia grazie al sistema di entertainment di bordo che garantisce accesso ad un numero illimitato di film, giochi e programmi tv, spesso anche in lingua italiana.

Arriviamo puntuali alle 22 a Jakarta, dove sbrighiamo le procedure burocratiche relative al visto di ingresso in Indonesia (costo 25 USD), ritiriamo i nostri bagagli immersi in una specie di bolgia dantesca che costituirà il primo piccolo assaggio delle nostre vicissitudini aeroportuali in questo viaggio, e andiamo a fare la nanna nell’hotel dell’aeroporto, ubicato nel terminal degli arrivi internazionali. Domani infatti dovremo prendere il primo volo alle 7 per Pangkalan Bun, nostro approdo in Borneo, e non avrebbe avuto molto senso andare a dormire in città per poche ore. L’hotel è il tipico soggiorno da aeroporto, nulla di eccezionale, ma comodo, pulito e soprattutto vicino alle partenze.

23 MAGGIO: JAKARTA-PANGKALAN BUN-TANJUNG HARAPAN

Sveglia alle 5, colazione e pronti per iniziare l’avventura in Borneo; ci spostiamo in taxi al terminal dei voli domestici e andiamo al nostro check in: oggi voliamo con Kalstar, una delle numerose compagnie aeree indonesiane che svolgono decine di voli interni tra le mille isole, raggiungendo luoghi assolutamente sconosciuti e dai nomi impronunciabili. Le operazioni di imbarco ci regalano le prime perle da ricordare nell’enciclopedia dell’aviazione indonesiana: passiamo due controlli con metal detector in cui nessuno viene fermato nonostante suoni in continuazione, nei nostri zaini c’è il necessario per essere arrestati per terrorismo in un qualunque aeroporto europeo, ma qui nessuno pare interessato; arrivati al bancone del check in, consegniamo il nostro e-ticket ad un simpatico signore che improvvisamente sparisce con la nostra ricevuta e ricompare trafelato dopo un buon quarto d’ora dicendoci che non può stampare i nostri biglietti perché tutte le stampanti sono guaste e quindi ci lascerà un foglio compilato a mano da presentare alle hostess. Nell’attesa che vengano compilate queste benedette ricevute, osserviamo le operazioni di registrazione degli altri passeggeri: il concetto di bagaglio eccedente non è preso in considerazione e ognuno tenta di caricare a bordo almeno 3-4 colli, ma anche in questo caso, nessuno batte ciglio; l’unico caso in cui avviene una discussione è per impedire ad un ragazzo in ciabatte e costume da bagno di caricare nel bagaglio a mano una sega elettrica (giuro!).

Alla fine comunque tutto si aggiusta e partiamo in “quasi orario” per Pangkalan Bun, dove arriviamo dopo circa un’ora e mezza di volo: in aeroporto incontriamo Tina, la nostra guida, con cui andiamo in auto fino a Kumai dove ci imbarcheremo su un Klotok per navigare all’interno della foresta per i prossimi 4 giorni.

Il klotok è un’imbarcazione in legno, di diverse dimensioni e dai diversi possibili utilizzi, usata dalle popolazioni locali come mezzo di trasporto per persone e cose lungo il reticolo di fiumi che si addentrano nelle profondità della foresta; può essere usata anche come casa galleggiante, essendo dotata di copertura in legno, ponte, cucina nella stiva e potendo offrire alloggio per la notte; il nostro equipaggio è costituito da Tina, il capitano del Klotok, un mozzo di bordo ed un cuoco: si parte!

Ci muoveremo nel Kalimantan, la parte indonesiana del Borneo, che complessivamente costituisce la terza isola al mondo per grandezza e si estende sul territorio di tre stati: Indonesia, Malesia e Brunei. E’ un luogo mitico che non ha bisogno di molte presentazioni, un vero Paradiso terrestre in termini di biodiversità, con migliaia di specie endemiche vegetali, piante da fiore, alberi e diverse centinaia di mammiferi, rettili, anfibi e uccelli, molti dei quali vivono esclusivamente in quest’isola.

Tra i tanti, il simbolo per eccellenza è l’orangutan, unico primate di grossa taglia a vivere fuori dal continente africano e presente quasi esclusivamente in Borneo, con l’eccezione di alcuni piccoli gruppi nel nord di Sumatra.

La nostra navigazione procede addentrandoci sempre più nella foresta: il corso del fiume diventa progressivamente stretto, mentre gli alberi e gli arbusti si infittiscono creando una sorta di galleria verde naturale all’interno della quale ci muoviamo lentamente, ascoltando i suoni della natura; lungo il tragitto avvistiamo diversi volatili, tra cui alcuni esemplari incantevoli del coloratissimo kingfisher, con tonalità vivide che vanno dal giallo, al blu, al rosso.

Nel tragitto verso Tanjung Harapan incrociamo i primi gruppi di macachi e proboscis monkey (le scimmie nasute), altra specie presente solo qui in Borneo; ne incontreremo parecchie nei prossimi giorni, anche a breve distanza, e ci faranno spesso compagnia durante la notte saltando e litigando sulle cime degli alberi sopra la nostra barca. Decisamente più grandi dei macachi, come si evince facilmente dal nome si caratterizzano per un’eminente escrescenza carnosa sul volto che ricorda un enorme naso penzolante, e che le rende veramente buffe mentre saltano freneticamente da un ramo all’altro con un’agilità incredibile a vedersi.

Attorno all’ora di pranzo arriviamo al meeting point per l’escursione di oggi, proprio mentre si scatena un nubifragio di dimensioni bibliche, preavvisato da un rumore tipo atterraggio di un elicottero: raramente in vita mia ho visto una pioggia tanto intensa ma da queste parti è la normalità; per fortuna dura solo un’oretta e, quando partiamo a piedi, scendono solo poche gocce rinfrescanti. Il clima è piuttosto ostile: 35° e 85% di umidità, non l’ideale per un allegra passeggiata nella foresta, ma sarà una costante di questi giorni.

Appena entrati nella boscaglia veniamo assaliti da una nuvola di zanzare e altri insetti, ma siamo coperti tipo palombaro e unti a puntino di repellente ultra potente; nulla possiamo contro un paio di sanguisughe che ci piombano sul kway non si sa bene da dove, ma le cacciamo con l’ausilio di un ramo.

Finalmente avvistiamo gli oranghi: alcuni sono sulla cima degli alberi, altri al suolo e ci guardano con curiosità; proprio un anno fa eravamo in Rwanda ad osservare i gorilla e ci viene spontaneo ragionare su analogie e differenze tra le due specie: gli oranghi, dal caratteristico pelo lungo e fulvo, sono più piccoli rispetto ai gorilla, in particolare se confrontiamo il maschio dominante con il silver back, ma sembrano più agili e frenetici, specialmente quando salgono e si dondolano tra i rami, assumendo alcune caratteristiche posizioni appesi con i quattro arti; inoltre vivono tendenzialmente soli, a differenza dei gorilla che vivono in comunità.

Rimaniamo in ricerca ed osservazione per un paio d’ore e, dopo aver avvistato numerosi esemplari, in particolare attorno alle feeding station, ritorniamo sulla barca per sostare in un luogo sicuro: qui viene buio attorno alle 18 e per quell’ora occorre aver attraccato e messo in sicurezza la barca in una zona tranquilla.

Ceniamo nell’oscurità a lume di candela e andiamo a nanna sotto una provvidenziale zanzariera per un sonno ristoratore.

24 MAGGIO: TANJUNG HARAPAN-PONDOK TANGGUI-CAMP LEAKEY

Sveglia alle prime luci del sole, colazione a bordo in tipico indonesian style, e motori in azione verso Pondok Tanggui, all’interno del Tanjung Puting National Park. Il parco, fondato nel 1970, è stato il primo luogo in Indonesia deputato alla conservazione degli orangutan e contiene alcuni centri di riabilitazione dove gli oranghi vengono classificati, monitorati ed eventualmente curati in caso di problemi prima di essere reintrodotti allo stato selvaggio.

Ci spostiamo dal corso principale del fiume ed entriamo in un canale secondario, ancora più stretto, dove l’acqua diventa incredibilmente cristallina dandoci l’opportunità di vedere nitidamente nel profondo: la barca a fatica passa nell’intricata rete di mangrovie, arbusti, palme e piante acquatiche che talvolta ci costringono a manovre ardite, ma poco dopo raggiungiamo Pondok Tanggui per l’escursione mattutina.

Anche qui avvistiamo diversi oranghi e, con il contributo del ranger impariamo a riconoscere il significato dei diversi versi che emettono e a distinguere quelli provenienti da altre specie di primati presenti nella foresta; in particolare ci imbattiamo in una femmina piuttosto aggressiva e minacciosa perché porta con sé sulla schiena un piccolo di pochi mesi: ci posizioniamo alla giusta distanza per non innervosirla oltre e scattiamo alcune foto memorabili del piccolo che fa capolino oltre la testa della mamma… magnifico!

Ritorniamo sulla barca e ci spostiamo, attorno all’ora di pranzo, verso la meta pomeridiana: Camp Leakey, un centro studi molto avanzato a cui fanno riferimento biologi e studenti che vengono qui per osservare le specie presenti. E’ stato fondato nel 1971 da Birutè Galdikas, primatologa canadese tuttora vivente e considerata la maggior esperta mondiale sulla vita degli orangutan, una sorta di alter ego di Dian Fossey per quanto riguarda i gorilla del Virunga, anch’essa folgorata dall’amore e dalla passione per questi straordinari animali, al punto di lasciarsi alle spalle la propria vita per studiarli a fondo.

L’escursione attorno a Camp Leakey è la più ricca di avvistamenti: oltre a numerosi orangutan, tra cui l’enorme maschio dominante di nome Tom, osserviamo diverse red tail monkeys e alcuni gibboni, uno dei quali ci diletta con evoluzioni degne del miglior funambolo al mondo, rimbalzando da un ramo all’altro ad una velocità pazzesca. Tina riconosce al primo sguardo ogni singolo orango e li chiama per nome, cosa ai miei occhi incredibile dal momento che mi pare impossibile distinguerli, ma evidentemente non è così: in particolare richiama la nostra attenzione a non avvicinare Punjo, una femmina piuttosto aggressiva che qualche settimana prima ha morso alla gamba un turista troppo spregiudicato… buono a sapersi.

Nel tardo pomeriggio ritorniamo alla barca e ci spostiamo un po’ per trascorrere la notte: ci sistemiamo in un’ansa del canale e di lì a poco veniamo circondati da qualche decina di proboscis monkeys che riempiono tutti gli alberi circostanti: fanno un baccano pazzesco e non riesco a capire se giocano o litigano, ma certo non stanno ferme un attimo e continuano a “punzecchiarsi” reciprocamente: ci godiamo lo spettacolo, fatto di salti, rincorse, scaramucce e urla a ciclo continuo fino a quando l’oscurità ci impedisce di vedere.

Altra cena a lume di candela, sempre con il sottofondo delle nostre amiche che anche al buio si danno un gran daffare, e nanna.

25 MAGGIO: CAMP LEAKEY-PESALAT-CAMP LEAKEY

Sveglia all’alba e pronti per la nuova giornata che incomincia con un imprevisto: qualche decina di metri avanti a noi, nella direzione opposta a quella dove dovremmo andare, il canale è completamente ostruito da un’isolotto di terra, palme e mangrovie che si è staccato dal resto della foresta ed ha chiuso il passaggio; alcuni pescatori, a bordo di minuscole barchette, stanno tentando di spaccare le piante a colpi di machete per liberare il passaggio ma l’impresa pare disperata. D’intesa con il capitano decidiamo di dare una mano, cercando con la nostra grossa barca di spingere al margine l’isolotto per poterlo poi legare con delle corde ad un argine. Non è per nulla semplice ma alla fine, non senza qualche rischio per gli impavidi pescatori, riusciamo nell’intento e liberiamo il canale.

Il primo appuntamento della mattina è a Pesalat dove faremo un trekking di circa 3-4 ore nella foresta con una guida locale per osservare la fauna e conoscere le specie vegetali che i nativi Dajak utilizzavano, ed in parte utilizzano ancora, nel quotidiano e nella medicina tradizionale.

I Dajak sono suddivisi in numerose tribù e sparsi in diverse zone del Borneo, anche qui nella parte sud del Kalimantan dove i gruppi principali sono i Bakumpai e i Bukit: sono i discendenti dei leggendari tagliatori di teste del Borneo, su cui tanto si è scritto e romanzato.

L’escursione è molto interessante e poco faticosa, nonostante il caldo sempre infernale ed il terreno fangoso e spesso scivoloso, e ci permette di avvistare specie fino ad ora inconsuete come piccoli rettili, un paradise tree snake, diversi uccelli e alcune piante carnivore particolarmente grandi che ricordano, dimensioni a parte, quelle che si possono anche trovare nei negozi di casa nostra.

La nostra guida, Umar, conosce molto bene le piante e gli arbusti della foresta e spesso ci fermiamo per osservare le specie e per individuarne l’utilizzo: ovviamente non parla inglese ma Tina provvede alla traduzione in tempo reale. E’ sorprendente apprendere, come peraltro in molte altre società primitive, quante piante vengano utilizzate e con scopi molto differenti tra loro e riflettere su quanto sia straordinario che popolazioni prive di qualunque conoscenza scientifica abbiano individuato e consolidato l’uso di piante a scopo medicinale, basandosi evidentemente su altri fattori non facili da individuare: pasak bumi contro la febbre malarica, kujang baku per i dolori articolari ed ossei, ketepeng per il mal di denti, memberutan per disinfettare ferite, e tanti altri ancora.

Al rientro sostiamo in un piccolo museo dove vengono illustrate storia dell’area e tradizioni locali e ritorniamo per pranzare sul klotoc.

Nel pomeriggio torniamo a Camp Leakey per un’altra escursione: c’è molta gente rispetto ad ieri (ieri abbiamo incontrato 5-6 persone in tutto), soprattutto indonesiani in gita, e la cosa certamente renderà meno facile avvistare wildlife: Tina ci ricorda che oggi è sabato ed è abbastanza consueto che ci sia affollamento di gitanti locali nei fine settimana.

L’escursione ricalca a grandi linee quella del giorno precedente, permettendoci comunque un discreto numero di avvistamenti, anche se gli indonesiani paiono più interessati a scattare foto a noi piuttosto che agli oranghi: la cosa, per certi versi, è inquietante e non vorrei che qualcuno mi chiedesse anche di iniziare a fare uhh uhh e a battermi il petto, ma si tratta in realtà di un’innocente curiosità verso gli occidentali, che qui si vedono raramente; soprattutto le ragazze chiedono di farsi fotografare con noi, e accettiamo divertiti da questa strana situazione.

Al rientro in barca mi imbatto in un enorme varano acquatico che si merita una serie di foto, se non altro perché costituisce un buon antipasto per quello che ci aspetterà tra pochi giorni; la serata trascorre tranquilla, sempre in compagnia delle proboscis monkeys, e dopo un’ottima cena ce ne andiamo a nanna.

26 MAGGIO: CAMP LEAKEY-PANGKALAN BUN- DENPASAR

Oggi si rientra a Kumai per chiudere la nostra esperienza in Borneo, memorabile e ricca di immagini che non scorderemo facilmente. La navigazione procede lenta, a ritroso rispetto al nostro itinerario iniziale e ci permette di immergerci ancora un po’ nella magnifica biodiversità del Borneo: sulle sponde è tutto un fiorire di suoni, rumori ed attività, tra scimmie, uccelli e piccoli mammiferi, in un verde smagliante dalle tonalità intense.

In circa 3-4 ore di navigazione arriviamo a Kumai, dove ci congediamo dall’equipaggio, direi perfetto in ogni aspetto a parte la non conoscenza dell’inglese che ha limitato un po’ le conversazioni, e raggiungiamo l’aeroporto di Pangkalan Bun, pronti ad aprire un altro capitolo dell’enciclopedia dell’aviazione indonesiana.

Il nostro itinerario prevede un volo per Surabaya con Trigana Air e il successivo cambio per Denpasar con Garuda Indonesia: il motto con cui Tina ci ha preso in giro per tutta la mattinata è stato “Trigana Air, always in delay”, il che non costituisce un buon biglietto da visita ma noi cerchiamo di essere ottimisti e ci avviamo al check in; prima sorpresa: c’è un black out all’aeroporto, quindi non funziona nulla, né i computer, né le bilance pesa bagagli, né i metal detector… evvai!! Iniziamo alla grande! Dopo qualche tempo torna la corrente e riusciamo a prendere i nostri biglietti, anche se le bilance continuano a non funzionare e vedo caricare pacchi che probabilmente peseranno circa 50 kg, ma evito di pensarci; il metal detector non funziona e non c’è nemmeno l’addetto, quindi entriamo felici nella sala d’aspetto in attesa di notizie.

Non si muove una foglia per circa un’ora, mentre la sala di aspetto si riempie fino all’inverosimile: siamo già oltre l’orario di partenza e la pista è ancora deserta, quando in rapida successione atterrano 3 aerei, uno di Kalstar e gli altri due di Trigana; la folla si anima improvvisamente e tutti si accalcano verso la porta di uscita, cosa che per emulazione facciamo anche noi, mossi più che altro da una specie di istinto primordiale.

Lo speaker annuncia qualcosa in indonesiano e le porte si aprono con un solo timido ragazzo che cerca di frapporsi tra la folla e la pista: noi veniamo catapultati fuori insieme a tutti gli altri e cerchiamo una faccia amica a cui chiedere quale aereo prendere; finalmente troviamo qualcuno che ci indirizza su quello giusto, un catorcio imbarazzante che mi fa rispolverare le preghiere che ho imparato in gioventù dai Salesiani, e partiamo alla volta di Surabaya.

In arrivo ci rechiamo al recupero bagagli per fare il nuovo check in: sembra facile, ma non lo è; il monitor segnala che i bagagli del nostro volo dovrebbero arrivare sul nastro 4 ma per un tempo interminabile non arriva nulla; mentre lottiamo contro i pensieri più nefasti vediamo un fattorino che corre urlando “Trigana, Trigana” ed indicando un altro nastro, al lato opposto della sala: tutti ci fiondiamo al nuovo nastro e recuperiamo le valigie. Avevamo oltre 2 ore per il cambio ma ne abbiamo già consumate parecchie e quindi corriamo verso il check in di Garuda, che ovviamente è posto lontanissimo rispetto a dove siamo e ci imbarchiamo giusto in tempo per il decollo: finalmente un volo ed un aereo decente, Garuda è assolutamente un’ottima compagnia che non ha nulla a che fare con le altre che abbiamo frequentato in questo viaggio.

Arriviamo a Denpasar ad ora di cena, giusto in tempo per andare in hotel, mangiare e fare la nanna: domani si parte per Komodo.

27 MAGGIO DENPASAR-LABUAN BAJO-RINCA

Sveglia presto per una passeggiata sulla spiaggia di Kuta tra decine di turisti e surfisti già pronti a sfidare le onde, colazione e ritorno all’aeroporto per volare verso Flores, nostra prossima meta.

L’aeroporto di Bali-Denpasar è un hub intercontinentale che riceve centinaia di migliaia di turisti all’anno ed è dotato di tutti i comfort tipici dei grandi aeroporti; il terminal dei voli nazionali però è decisamente bruttino e sottotono rispetto alla parte internazionale.

Il check in di Lion Air si svolge questa volta con rapidità e senza particolari note di colore, fatto che ci sorprende visto ciò a cui eravamo abituati ma, prima di partire, raccogliamo l’ennesima perla: passiamo il gate, prendiamo l’autobus che ci porta all’aereo, saliamo a bordo, e trovo il mio posto occupato da una simpatica signora dai tratti scandinavi; le faccio notare la cosa, lei guarda il biglietto e conferma che ha quel posto… certo, ma per un aereo che va a Jakarta! Come abbia fatto a sedersi sull’aereo sbagliato passando 3-4 controlli, sfugge alle mie capacità cognitive, ma ormai non mi stupisco più di nulla: io mi siedo e lei scappa urlando nella speranza di recuperare l’aereo giusto.

Il volo dura circa un’ora e mezza e arriviamo a metà mattina a Labuan Bajo, sull’isola di Flores, il punto di approdo per Rinca e Komodo: nei prossimi tre giorni ci muoveremo in barca, con modalità simili a quelle utilizzate in Borneo, visitando le isole e facendo snorkeling e diving.

Flores è un’isola molto grande dove vivono oltre un milione di persone in diverse cittadine, e Labuan Bayo è il centro più importante, oltre che turistico.

Incontriamo Paul, la nostra nuova guida, andiamo al porto dove troviamo ad attenderci una barca in tutto simile al klotoc del Borneo, e partiamo in mare aperto.

Lo spettacolo è incredibile: fin dalla partenza dal porto vediamo, a perdita d’occhio, decine di piccole isolette dalla caratteristica forma tondeggiante e collinare, ricche di vegetazione e di fiori multicolori, ed immerse in un mare limpido e cristallino.

Spesso si intravedono piccoli villaggi di pescatori, ubicati nelle anse e costituiti da palafitte adagiate sulla battigia, anche in isolette remote e microscopiche.

La traversata è tranquilla e nel primo pomeriggio, proprio mentre inizia a piovere in modo copioso, arriviamo a Rinca, una delle isole in cui vive il leggendario drago di Komodo, il più grande varano terrestre, che può raggiungere i 3 metri di lunghezza e 60 kg di peso, correndo ad oltre 20 km/h ed avendo un olfatto in grado di percepire l’odore del sangue a kilometri di distanza.

Pur non attaccando deliberatamente, come la maggior parte degli animali a sangue freddo, in determinate circostanze può essere molto pericoloso ed aggressivo, essendo dotato di un morso particolarmente forte e di una saliva estremamente tossica che porta rapidamente alla setticemia: nelle scorse settimane ci sono state due aggressioni a ranger e non sono rari casi simili, pertanto occorre seguire alcune norme di comportamento per non avere problemi: in particolare ci colpisce il fatto che l’ingresso al parco è sconsigliato alle donne con ciclo mestruale, fatto probabilmente legato al potente olfatto del drago.

La nostra escursione si compie sotto la pioggia e ci permette di avvistarne alcuni, anche da vicino, oltre ad un paio di bufali selvatici e alcuni deer. In particolare vediamo un piccolo di 2-3 mesi sopra un ramo di un albero, pochi metri sopra di noi, osservazione decisamente inusuale: alla schiusa delle uova, anche parecchie decine per volta, la madre torna per divorare i piccoli e i pochi che riescono a fuggire in tempo si rifugiano sugli alberi, dove rimangono per diversi mesi nascosti, in attesa di avere le forze e le dimensioni minime per giocarsi la partita al suolo.

Chiuso il giro, rientriamo in barca rapidamente perché le condizioni meteo sono negative e non vogliamo bagnarci più del necessario e ci muoviamo alla volta di Komodo. Il programma prevede di navigare circa 2-3 ore e di ormeggiare la barca in un’ansa nei pressi dell’isola di Komodo, per essere pronti all’alba per entrare nel parco per il nuovo trekking.

Il mare è mosso e le correnti piuttosto forti, ma la nostra bagnarola mantiene un equilibrio invidiabile, destreggiandosi agile tra le onde fino alla nostra meta, che raggiungiamo quando è già buio pesto.

Mentre ci accingiamo a cenare, noto nell’oscurità alcune barche che si avvicinano, apparentemente provenienti dal nulla: la cosa mi fa strizzare perché sono chiaramente diretti verso di noi e siamo in mezzo al mare senza nessun’altro visibile; esterno le mie preoccupazioni a Paul che mi rassicura dicendo che si tratta di pescatori che stanno venendo a venderci i loro prodotti. Da dove arrivino e come facciano a muoversi nel buio mi è del tutto ignoto ma tant’è: in pochi minuti veniamo abbordati e, per chiudere pacificamente la questione, compriamo qualche cianfrusaglia fino a quando se ne vanno. Finalmente possiamo cenare e dopo una lunga chiacchierata con Paul che, tra le mille cose, ci illustra il tariffario in vigore a Flores per comprarsi una buona moglie, andiamo a nanna.

28 MAGGIO: KOMODO – BIDADARI – KALONG ISLAND

Oggi esploreremo l’isola di Komodo con due trekking: il primo è il tradizionale loop di circa un’ora che parte dalla ranger station e che viene proposto a tutti i turisti per osservare il drago, il secondo (che abbiamo prenotato e pagato a parte rispetto all’ingresso al parco) è un’ascesa di circa 4 ore che porta al Baron Hill, uno dei punti più alti di Komodo, dove furono ritrovati i resti del barone svizzero Rudolf Von Reding, ucciso e mangiato dai draghi.

Il tempo è bello e tutto acquista luce e colore sotto il sole caldo: il primo loop è quasi completamente pianeggiante, con una breve ascesa nella parte finale, e si snoda attorno alla ranger station passando nel fitto della foresta. Avvistiamo diversi draghi, uno enorme anche sulla spiaggia non appena sbarcati, decisamente più attivi di ieri in virtù del tempo migliore; scattiamo diverse foto e facciamo alcuni filmati, mantenendo sempre le giuste precauzioni.

Ritornati alla base, ci riposiamo un attimo e conosciamo il ranger che ci accompagnerà nella seconda escursione: non pare felicissimo della scarpinata che lo attende, ma pare sia l’unico presente che conosce bene la zona in cui dobbiamo andare, quindi non ha alternative.

Esaurite le spiegazioni di rito, partiamo: la camminata è estremamente gratificante, con una seconda parte piuttosto faticosa in ascesa verso la Baron Hill, ma permette alcune viste mozzafiato a 360° sull’isola e sull’arcipelago circostante; raggiungiamo la vetta da cui si gode un punto di osservazione unico che si estende a perdita d’occhio e ci riposiamo all’ombra prima di riprendere la discesa.

Tornati alla base, ci imbarchiamo e ci spostiamo a Bidadari, un’ansa incantevole con un mare cristallino ed una spiaggia di sabbia bianchissima, dove poter fare snorkeling.

Komodo, se a molti ricorda prettamente il drago, è in realtà un polo turistico in forte espansione per lo snorkeling, il diving e altre attività legate al subacqueo: sempre più turisti vengono qui per fare immersioni e per osservare la barriera corallina incontaminata di queste parti.

Nel pomeriggio ci spostiamo verso Kalong Island, un’isola costituita interamente da mangrovie, che ospita diverse decine di migliaia di volpi volanti, ovvero gli enormi pipistrelli erbivori che al calar del sole si alzano in volo contemporaneamente, per dirigersi su Flores alla ricerca di cibo.

Questa incredibile migrazione avviene ogni sera attorno alle 18 e, quindi, ormeggiamo puntuali la barca a pochi metri dalle sponde dell’isola in attesa dell’evento.

Allo scoccare dell’ora, come mossi da una sveglia collettiva, all’unisono iniziano ad emergere dalle mangrovie; non ci sono parole per dare l’idea di quello che accade: in pochi minuti, decine di migliaia di pipistrelli, delle dimensioni di un gabbiano, coprono il cielo passando a pochi metri dalle nostre teste in una lunga processione sul mare che li porterà verso Flores; lo spettacolo dura almeno mezzora, un’eternità ininterrotta di migliaia di volatili che continuano ad emergere dalle piante, pazzesco.

Esaurita la migrazione e con l’arrivo del buio, ceniamo e dopo la solita illuminante chiacchierata con Paul, andiamo a nanna.

29 MAGGIO: KALONG ISLAND- LABUAN BAJO-DIVING

Alle prime luci dell’alba partiamo per Labuan Bajo dove dobbiamo arrivare per le 8.00, orario in cui abbiamo appuntamento con una dive agency locale per una giornata dedicata allo snorkeling e al diving.

Io non amo questo genere di cose ma Nadia invece le apprezza moltissimo e quindi ben volentieri mi godrò una giornata di relax, tutta sole e mare, in attesa delle sue immersioni.

Arriviamo puntuali al porto e ci rechiamo alla sede della nostra agenzia, che abbiamo contattato su internet e che si mostra subito precisa ed affidabile, facciamo il briefing e proviamo le attrezzature insieme agli altri compagni di avventura e siamo pronti per salpare un’altra volta.

La compagnia è varia ed apprezzabile: una coppia olandese, due giramondo americani di Seattle e uno strano orientale con la maglietta di Timor Est che fuma una ventina di sigarette nel solo tragitto di andata.

La giornata prevede due immersioni e due sessioni di snorkeling in luoghi diversi all’interno dell’arcipelago: ci muoviamo per circa un paio d’ore ma perdiamo l’orientamento nel dedalo di isole ed isolette che si vedono a perdita d’occhio; durante il tragitto concordiamo con gli istruttori le modalità per compiere le immersioni in sicurezza visto che domani avremo un volo, seppur breve.

Ci fermiamo nei pressi dell’isola di Sebayur Kecyl; la giornata e le immersioni sono assolutamente fantastiche: la barriera corallina incontaminata ospita una biodiversità unica e si avvistano con facilità, anche dal pelo dell’acqua, un’infinità di pesci coloratissimi e di altre creature marine tipiche di questi mari; il top lo raggiungiamo nel vedere una grossa tartaruga che placida emerge dalle profondità e nuota a pochi metri da noi.

Nel tardo pomeriggio rientriamo a Labuan Bajo, dove facciamo una passeggiata prima che diventi buio e poi andiamo a fare la nanna al Green Hill, un hotel apprezzabile posto a poca distanza dal porto.

30 MAGGIO LABUAN BAJO – DENPASAR BALI

Oggi “giornata libera” a Bali in attesa del volo per Papua che partirà a mezzanotte di stasera; abbiamo fatto una ricerca su internet per trovare una guida disponibile a farci fare un tour di una giornata in cui vedere i principali siti dell’isola raggiungibili nel tempo che avevamo a disposizione. Il risultato è stato molto soddisfacente: ci siamo avvalsi di Wirta, un free lance molto professionale e preciso che, tra l’altro, parla anche un buon italiano, avendo vissuto in passato per qualche anno in Italia.

Prima però dobbiamo raccogliere la consueta perla sull’aviazione nell’aeroporto di Labuan Bajo: durante il check-in mi accorgo che, per usare un eufemismo, c’è una scarsa corrispondenza tra la stampa dei biglietti e il posizionamento delle ricevute sui bagagli da stiva; la procedura prevede infatti che i ticket vengano stampati da un addetto e le ricevute per i bagagli da un altro, in teoria in contemporanea, ma di fatto assolutamente no. Come sempre, ci sono passeggeri che tentano di caricare 3-4 colli, tra valigie, scatoloni di cartone, sacchi della spazzatura zeppi di ogni ben di Dio e questo crea un po’ di confusione agli addetti che, per tagliare la testa al toro, attaccano i biglietti al primo bagaglio che gli capita tra le mani. Per farla breve, quando arriva il nostro turno, aguzzo la vista e vedo che le mie ricevute stanno finendo su un altro bagaglio… orrore! Inizio ad agitarmi come se mi fossi rovesciato una bottiglia di acido cloridrico sui pantaloni, fino a quando riesco a sistemare la situazione e, finalmente rasserenato, mi avvio alla sala d’aspetto.

Il volo peraltro è tranquillo ed arriviamo a Bali per le 10, dove troviamo Wirta pronto ad aspettarci; il programma della giornata è molto intenso, come piace a noi, e prevede, rispetto a quanto concordato, una variazione per assistere ad un rito funebre indù che, a detta di Wirta, rappresenta una cerimonia unica, per nulla triste e quasi di festa, che vale la pena vedere.

Lungo il tragitto Wirta ci spiega i precetti del credo indù e le tradizioni che vengono rispettate dai fedeli nel loro percorso di fede; onestamente mi sento un po’ a disagio a curiosare al funerale di uno sconosciuto ma, giunti sul posto, ci rendiamo conto che il clima è in effetti quello di una festa: un sacco di gente beve, mangia, scatta fotografie e sembra divertirsi un sacco.

Il corpo verrà posto dentro un enorme statua di legno a forma di drago e cremato insieme ad una serie infinita di doni che i parenti hanno portato come offerta votiva; dopo qualche minuto arriva il maestoso corteo con molte persone vestite in abiti tradizionali, suonatori di percussioni e decine di donne che portano in testa cestini pieni di frutta e altri doni: rimaniamo ad osservare la funzione, molto lunga e lenta nel procedere dei rituali, fino al momento della cremazione.

Ci spostiamo quindi al Goa Gajah, la grotta dell’elefante, eretta in onore di Ganesha, il figlio del Dio Shiva. Ganesha, rappresentato nell’iconografia come un uomo con la testa di elefante (la leggenda narra che Shiva, dopo aver ucciso il figlio per errore, cercò la testa di una creatura con il capo rivolto a nord per poterlo resuscitare, e trovò solamente un elefante), è una divinità amata e invocata, poiché è il Signore del buon auspicio che dona prosperità e fortuna, e ovunque si vedono templi a lui dedicati.

Dalla grotta parte un sentiero che costeggia il fiume e si perde all’interno di una foresta lussureggiante ricca di piante grasse e fiori coloratissimi; lo percorriamo per circa un’ora fino a giungere al Relife di Jeh Pulu, una serie di bassorilievi lunghi circa 10 metri ed alti circa 2, veramente molto belli, che rappresentano scene di vita quotidiana.

Proseguiamo la nostra passeggiata tra le risaie fino a ricongiungerci con il luogo dove avevamo lasciato l’auto e ci rechiamo al Tempio della Purificazione: il Tirta Empul, dove ci sono le sorgenti sacre indù e dove i fedeli vengono a fare il bagno per purificarsi dai peccati.

Il tempio è magnifico, ricco di bassorilievi, altari lignei e statue decorate con affreschi in oro; nelle vasche decine di fedeli stanno procedendo al rito della purificazione e, ovviamente, ci teniamo a rispettosa distanza osservando la scena.

Esaurita la visita e dribblato un mercatino ricco di cianfrusaglie e di venditori molto insistenti, ci rechiamo alle terrazze di riso, alcune colline coltivate a risaia anche su pendii molto acclivi, in un’ordinata sequenza di terrazzamenti che donano al paesaggio un’aria molto affascinante; siamo quasi al tramonto e il colpo d’occhio, con il sole che si specchia nelle risaie, è magnifico. Passeggiamo tra le risaie ed incontriamo un simpatico vecchietto che ci vuole vendere un cappello tipico fatto intrecciando foglie di bamboo: è veramente carino e non resisto alla tentazione di comprarlo.

Si fa buio e quindi ci rechiamo all’ultimo appuntamento della giornata, fissato per le 19: abbiamo prenotato a teatro un’esibizione della tipica danza Kecak, dove decine di figuranti in costumi e maschere tipiche balinesi mettono in scena il mito del Ramayama e della lotta tra il principe Rama e il Re del Male Lanka.

La trama tutto sommato è un dettaglio, perché si rimane rapiti e catturati dall’aspetto visivo e dal movimento quasi ipnotico di decine di uomini seduti a cerchio attorno al cuore della rappresentazione, che si battono il petto ed emettono suoni ritmati cacofonici senza smettere mai per oltre un’ora, che sembrano farli cadere in trance; direi eccezionale, da non perdere se potete inserirlo nella vostra sosta a Bali.

Concluso lo spettacolo, torniamo all’aeroporto e salutiamo Wirta ringraziandolo per la gran bella giornata trascorsa insieme.

31 MAGGIO DENPASAR-JAYAPURA-WAMENA

Alle 22 siamo in aeroporto per il check-in, pronti per la partenza fissata alle 00.10; le operazioni sono rapide ed efficienti e il volo Garuda per Jayapura è estremamente confortevole e puntuale, con cibo a volontà ed entertainment personalizzato che definire sorprendente è poco: non mi aspettavo tanto su un volo interno per Papua, ma Garuda si conferma una compagnia di assoluto livello internazionale.

Per entrare a Papua non è sufficiente il visto indonesiano valido nel resto dello stato, ma occorre un ulteriore autorizzazione, molto dettagliata con l’esatto itinerario percorso e i territori attraversati, che si chiama Surat Jalan e che viene richiesto alla polizia di Papua; ricordatevene bene prima di avventurarvi per l’isola.

Arriviamo a Jayapura alle 8.30 di mattina, dove abbiamo una connessione alle 9.30 con un volo interno di Trigana Air (always in delay) per Wamena, la porta di accesso alla valle del Baliem; ci rechiamo speranzosi al nuovo check-in e riceviamo una doccia che definire gelida è poco: in un inglese più che stentato, un ragazzo ci informa che a Wamena si è appena schiantato un aereo cargo in fase di atterraggio e quindi l’aeroporto è chiuso e non si sa se riaprirà entro la giornata di oggi.

Per fortuna abbiamo incontrato il nostro riferimento dell’agenzia, che ci aiuta a capire qualcosa di più, ma le notizie sono comunque pessime; ci trasferiamo nella sala d’attesa, completamente zeppa di gente, cercando di mantenere un buon umore nonostante tutto. A Papua esistono poche ed inaffidabili strade, quindi molte località (come Wamena) sono raggiungibili solo per via aerea: per ossequiare il detto “mal comune, mezzo gaudio” noto che non c’è un solo volo in orario, con ritardi che vanno da un minimo di 40-50 minuti ad un massimo di 3 ore; i voli per Wamena ovviamente sono fuori concorso.

Nel pomeriggio si sparge la voce che l’aeroporto è ritornato in funzione, ma che solo pochi voli decolleranno in giornata e quindi una parte di passeggeri partirà solo domani: con una trattativa complessa e non perfettamente regolare riusciamo ad accaparrarci due posti e cerchiamo di recuperare le nostre valigie, che nel frattempo sono finite chissà dove; le carichiamo direttamente noi sul velivolo e partiamo attorno alle 15.30 su un ATR 42 che merita almeno un paio di rosari per arrivare sani a destinazione.

La cosa buffa è che il volo dura solo 45 minuti, tanto occorre da Jayapura a Wamena, salvo imprevisti ovviamente.

Finalmente arriviamo a destinazione! Definirlo aeroporto sarebbe inesatto: si tratta infatti di una lingua di asfalto, con una baracca di legno tipo quella dove mio nonno teneva gli attrezzi per l’orto, che funge da gate di arrivo, check in, e qualunque altra cosa occorra.

Incontriamo Hermane, la nostra preziosa guida per i prossimi giorni, ma ormai non c’è tempo per fare nulla, se non un giro (peraltro molto istruttivo) nel mercato di Wamena, dove centinaia di persone acquistano e vendono frutta, verdura, animali (vivi e morti) in una frenesia inarrestabile: ci perdiamo tra le montagne di ananas, banane, patate dolci, pomodori, spinaci e assaporiamo il primo contatto vero con Papua.

Rientrati in hotel, dobbiamo concordare con Hermane i dettagli per i prossimi giorni: ci attende un trekking di 4 giorni all’interno della Valle del Baliem e pertanto è opportuno verificare bene tutto e condividere le regole del gioco.

Papua è ricoperta in larga parte di una foresta fittissima in cui vivono diverse tribù, alcune delle quali venute a contatto con il mondo esterno da poche decine di anni e quindi, pur nel lento avanzare della cosiddetta modernità, mantengono abitudini e stili di vita proprie di una società primitiva, caso praticamente unico al mondo; anche negli scorsi anni ci sono stati contatti con tribù mai viste prima ed è possibile che nelle zone più remote vivano gruppi ancora non conosciuti.

Progettare e realizzare un viaggio da queste parti non è semplice e occorre avere un’approfondita conoscenza dei fatti ed i giusti contatti: nella valle vivono Dani, Yali e Lani, mentre andando verso sud nelle pianure paludose si incontrano principalmente i territori di Korowai, Kombai e Asmat.

Il nostro progetto iniziale prevedeva di venire in contatto con Dani, Yali e Korowai, ma nella realizzazione pratica, per una serie di ragioni e non senza rammarico, abbiamo dovuto demandare la visita ai Korowai ad una prossima occasione: per la cronaca, i Korowai sono una popolazione seminomade di cacciatori-raccoglitori, non particolarmente amichevole, che costruisce piccole abitazioni sulla cima degli alberi e vive quindi parte del tempo non al suolo ma sulle piante, una cosa sicuramente unica; il loro territorio è prevalentemente paludoso e non si trovano facilmente guide e portatori affidabili disposti ad inoltrarsi in quell’ambiente ostile: la realizzazione di un progetto del genere richiede quindi tempo e riferimenti più precisi di quello che avevamo a disposizione, e ben difficilmente si può gestire senza essere già sul posto.

Dopo il lungo brefieng, ceniamo ed andiamo a nanna, pronti per la partenza di domani.

01 GIUGNO: TREKKING BALIEM VALLEY

Si parte! Alle 8.30 incontriamo davanti all’hotel Hermane e il nostro team di portatori composto da 5 persone: tutti parlano solamente la lingua Dani, ma Hermane farà da tramite per tutte le necessità; ci muoviamo in fuoristrada per circa un’ora, uscendo da Wamena fino a quando la strada termina in una specie di enorme frana alluvionale e da lì, zaino in spalla partiamo per l’avventura: davanti a noi si estende a perdita d’occhio un’intricata foresta verde che sale e scende lungo le pendici di diverse montagne.

Il sentiero è spesso ripido e alterna tratti con ciottolato ad altri fangosi e scivolosi su cui non è facile mantenere l’equilibrio: è impressionante notare come i nostri portatori, quasi tutti scalzi o con calzature di fortuna, si muovano con agilità e stabilità anche su tratti ripidi e pericolosamente esposti sui fianchi delle montagne, fatto che accumunerà nei giorni successivi tutte le persone che incontreremo.

Dopo un paio d’ore di cammino ci imbattiamo in un attraversamento su un torrente reso gonfio dalle piogge: il ponte costruito per passare è crollato e ci tocca attraversare l’acqua a piedi in mezzo alla corrente che, seppur non travolgente, non è poca cosa: proviamo a saltare tra un sasso e l’altro ma inevitabilmente finiamo con i piedi a mollo prima di giungere all’altra sponda: poco male.

Nel primo pomeriggio inizia a piovere ma fortunatamente smette nel giro di una mezzoretta permettendoci di camminare senza ulteriori intoppi dentro un paesaggio incontaminato, dove solo la natura selvaggia è padrona e la presenza dell’uomo è tanto discreta da sembrare invisibile.

Man mano che ci addentriamo nella valle iniziamo ad incontrare qualche uomo o donna che cammina in direzione opposta alla nostra: le donne sono in genere vestite con una gonnellina di frasche o con altri vestiti e portano legata alla testa una borsa di cordame tipica (il “su”) in cui mettono di tutto, inclusi i bambini, mentre buona parte degli uomini è nuda, con un copricapo di piume in testa e solo la “coteca” addosso, ovvero un astuccio di zucca di circa 30-40 cm in cui inseriscono il pene.

Incrociare gli sguardi con loro mi riempie di emozione: sembra di entrare in contatto con una dimensione ancestrale, con esseri umani provenienti da un’altra dimensione e da un’altra epoca, che vivono in una sorta di realtà parallela rispetto alla nostra, e per molti versi ancora sconosciuta.

La valle del Baliem è lunga circa 60 km e larga 15, e si estende lungo il corso del fiume omonimo, che la attraversa interamente con un fitto reticolo di affluenti; all’interno vivono principalmente tre etnie, con affinità e differenze: Dani, Lani e Yali; dall’aspetto fisico simile (a parte gli Yali che sono pigmei), sono, come detto, generalmente nudi, portano un copricapo di piume in testa e spesso un semianello fatto con denti di maiale conficcato nel naso.

Tutti, chi più chi meno, hanno praticato nel tempo forme di cannibalismo rituale secondo i precetti delle rispettive culture tradizionali; oggi, tali pratiche, sono ufficialmente proibite e perseguite in caso di scoperta, ma non vi è certezza che sia un fenomeno completamente scomparso, anzi in alcuni casi parrebbe che non lo sia affatto ma, in questo caso, entriamo nel campo delle ipotesi e quindi è inutile andare oltre: sicuramente è un tema di cui non parlano affatto volentieri.

Dopo diverse ore di cammino arriviamo presso il villaggio di Kilise, dove troviamo ospitalità presso una capanna tradizionale Dani messaci a disposizione dalla comunità: le capanne sono fatte di legno e paglia, di forma circolare e dal soffitto molto basso; hanno un grosso buco al centro dove viene costantemente tenuto acceso il fuoco per scaldarsi e cucinare (siamo a 2000 m e la notte fa freddo) e una porticina di ingresso microscopica in cui fatico a passare; superfluo dire che all’interno è completamente buio.

Prima che venga sera andiamo con Hermane a fare un giro nel villaggio ed entriamo in contatto con alcune famiglie intente nelle operazioni di vita comune: incontriamo una donna senza dita e scopriamo che è usanza Dani tagliarsi uno o più dita quando muore una persona cara, come manifestazione di dolore: le dita vengono gettate nel fuoco della cremazione insieme al defunto per mantenere un contatto anche nella vita ultraterrena; nei giorni successivi incontreremo diverse donne e anche qualche uomo senza dita e sempre per questa ragione.

Con l’arrivo del buio tutto cessa di esistere e anche noi dobbiamo, a lume di torcia elettrica, riprendere la nostra dimora, cenare ed andare a nanna.

02 GIUGNO: TREKKING BALIEM VALLEY

Sveglia alle prime luci dell’alba, colazione e partenza per la seconda giornata. Partiamo immediatamente sotto un bel sole che ci permette di ammirare in tutta la sua maestosa bellezza il panorama che ci circonda: montagne, gole, fiumi, torrenti, tutti incastonati in verdissime foreste da cui spuntano come funghi, qua e là, piccole capanne.

A metà mattina affrontiamo il passaggio su un ponte sospeso sul Baliem River: da lontano non sembra malaccio, ma appena arriviamo in prossimità ci accorgiamo immediatamente che le assi sono inclinate di almeno 30°, ne mancano alcune, e il tutto oscilla già da solo in modo preoccupante. Sotto ci sono almeno 15 metri prima del fiume, quindi non è esattamente una passeggiata ma non ci sono alternative e ci facciamo il giusto coraggio per passare. Confesso che, almeno per me, non è stato il massimo della serenità, perché l’oscillazione era veramente forte e le assi in sbieco non aiutavano a mantenere il sangue freddo, ma alla fine, un passo dopo l’altro arriviamo dall’altra parte e proseguiamo.

Siamo ormai molto lontani da qualunque centro abitato ed infatti incontriamo meno persone di ieri, anche se vediamo sempre all’orizzonte piccoli villaggi sparsi.

Dopo aver attraversato un torrente su una serie di tronchi d’albero, ci fermiamo per riposare e mangiare; in poco tempo, si materializzano dalla foresta alcuni uomini nudi che ci osservano incuriositi e, dopo aver scambiato quattro chiacchiere con i nostri portatori, ci sorridono e si avvicinano per stringerci la mano: anche loro saranno contenti di aver incontrato questi due strani tizi affannati e con gli scarponi ai piedi.

Dopo pranzo e dopo il nostro incontro, ripartiamo su un lungo pendio piuttosto impegnativo e scivoloso che ci porta ad una forcella, che scollina in una valle incantevole: per la stanchezza e per la bellezza del paesaggio mi fermo a scattare numerose foto, fatto che permette al nostro gruppo di ricompattarsi visto che Hermane ed un portatore erano rimasti indietro.

Camminiamo ancora un’oretta e arriviamo alla nostra meta odierna: il villaggio di Syokosimo.

Appena arrivati, ci buttiamo nel fiume per un bagno (con sapone) perché il livello igienico si sta avvicinando al punto di non ritorno.

Come ieri, prima che venga buio andiamo a visitare il villaggio e incontriamo diverse persone: entriamo in casa di un uomo, che ci accoglie per mostrarci la sua dimora, offrirci alcune patate dolci come segno di benvenuto e ci illustra la sua tecnica di accensione del fuoco. La modalità è una variante del classico principio dello sfregamento fra legnetti, utilizzando però un pezzo di legno ed una foglia secca sopra la paglia da scaldare: incredibile a vedersi, ma filmato per trasmetterlo ai posteri, in circa 50 secondi (secondo il timer della telecamera) l’innesco arde e, con una sapiente gestione dell’aria e del soffio, in meno di due minuti il tizzone prende fuoco ed è pronto all’utilizzo… pazzesco!

Anche quest’uomo è senza due dita e ci racconta della recente perdita di un figlio, motivo per cui ha deciso di procedere all’amputazione: da lui procedo all’acquisto di una “coteca”, il mio personale astuccio penico che indosserò nelle prossime serate di gala a Conegliano. Mi spiega come devo legarlo per evitare di perderlo strada facendo, ma non sono sicuro di aver capito bene il meccanismo.

Riesco, con il prezioso contributo di Hermane, a convincere un altro uomo a vendermi un’ascia tradizionale, costituita da una pietra affilata di selce legata ad un bastone.

Si fa buio, e come sempre tutto si ferma: cena e nanna per recuperare le forze dopo una giornata lunga e faticosa.

03 GIUGNO: TREKKING BALIEM VALLEY

Oggi apriamo con un imprevisto: la notte ha piovuto incessantemente, e Hermane ci informa che un tratto che dovevamo fare, sarà sicuramente inagibile per via delle precipitazioni torrenziali, e quindi dovremo fare una variazione di itinerario; l’altra questione di cui preoccuparsi è il reperimento dell’acqua: infatti abbiamo terminato l’acqua che ci eravamo portati da Wamena ed ora, per i prossimi due giorni, dobbiamo recuperarla dai torrenti e bollirla per sterilizzarla e disinfettarla: madre Natura ci fornirà il necessario, ma dovremo maneggiare con cura.

Partiamo su un dolce sali-scendi che ci porta all’ennesimo ponte sospeso, questa volta fatto di rami e liane ma misteriosamente stabile rispetto al precedente: non ci avrei scommesso un centesimo ma in realtà potrebbe fungere da progetto pilota per lo stretto di Messina perché è assolutamente immobile e perfettamente diritto. Attraversiamo senza indugi e ci inerpichiamo su un crinale piuttosto ripido dove incontriamo un uomo che mi vuole vendere a tutti i costi un fossile (che acquisto per ragioni di buona creanza); ci troviamo in un altopiano, a circa 2300 m di altezza, completamente disseminato di piantagioni di patate dolci, dall’aspetto ordinato e con molte persone che lavorano i campi: non posseggono attrezzi, né utensili in ferro ma utilizzano in larga parte quelle pietre di selce acuminate e legate su pezzi di legno a motivo di ascia o di mazza: ricordano i reperti archeologici che si vedono comunemente nei musei paleontologici, ma in realtà sono di uso comune.

Continuiamo la tappa odierna tra campi coltivati e piccoli villaggi sparsi, attirando sempre la curiosità della gente, che talvolta scappa e talvolta si avvicina sorridendo per guardarci da vicino e scattiamo alcune foto in un villaggio ad uomini e donne vestiti (o svestiti per meglio dire) secondo la tradizione; incontriamo un uomo con una lancia, probabilmente diretto a caccia: è lunghissima, direi almeno 2,5 metri e molto pesante; a fatica riesco a tenerla in mano e ad impugnarla in modo orizzontale e stabile, e sicuramente non sarei in grado di utilizzarla come arma, ma lui invece la gestisce con il massimo della naturalezza, come se fosse un fuscello.

Nel pomeriggio, dopo diverse ore di camminata arriviamo ad Hugem, il nostro villaggio per la notte: facciamo un breve giro ma, complice una pioggia insistente che ha iniziato a cadere, non incontriamo quasi nessuno e quindi ci rintaniamo nella nostra capanna.

Ceniamo e andiamo a nanna, pronti per l’ultima tappa del trekking.

04 GIUGNO: TREKKING BALIEM VALLEY

Oggi rientreremo a Wamena con circa 5-6 ore di cammino: il percorso è più semplice di quello dei giorni precedenti, in gran parte in discesa su un ciottolato comodo e poco scivoloso; solo un tratto, a picco nella foresta e a margine di un torrente piuttosto impetuoso, presenta qualche difficoltà e qualche scivolone, ma senza nessuna conseguenza; dai 2300 m della partenza dobbiamo infatti scendere ai circa 1800 m di Wamena.

Incontriamo più persone, probabilmente perché ci stiamo avvicinando al centro abitato, incrociamo gli sguardi e ci salutiamo con il tipico saluto Dani (soree), catturando sorrisi e occhi curiosi, che trasmettono sempre un mix di serenità e dolcezza, assolutamente in contrasto con i tratti somatici piuttosto duri che caratterizzano spesso i volti dei nativi.

Attraversiamo un lungo ponte sospeso, stabile e sicuro, e compiamo l’ultimo tratto di sentiero che ci riporta al nostro punto di partenza, dove ci aspetta l’auto per rientrare a Wamena.

Ci complimentiamo con Hermane e i porters, stringendoci le mani e abbracciandoci al termine di questa bella avventura e torniamo verso il centro della città, dove arriviamo a metà pomeriggio.

Siamo molto stanchi e Wamena non merita grandi attenzioni, a parte la zona del mercato che abbiamo visitato il primo giorno e che è piuttosto interessante, quindi decidiamo di rilassarci in hotel e fare finalmente una lunga doccia ristoratrice: la stanza sgangherata del Baliem Pilamo mi sembra la suite imperiale del più lussuoso hotel di Dubai e, dopo la doccia, mi sdraio sul letto sbilenco con una soddisfazione quasi mai provata prima.

Dobbiamo metabolizzare l’incredibile mix di emozioni, immagini, suoni e colori che abbiamo assorbito in questi giorni: è difficile esprimere a parole cosa significa essere immersi in una realtà così particolare senza peccare di retorica o senza dare l’impressione di raccontare favole o di esagerare; certamente Papua è un luogo unico, dove si ritorna, volente o nolente, ad una dimensione ancestrale e preistorica che non ha uguali al mondo, che ci mette a confronto con quella che è la natura essenziale dell’uomo non contaminato (o contaminato in minima parte) dai frutti virtuosi o viziosi del progresso nelle sue infinite forme; vedere uomini fermi allo stadio evolutivo dell’età della pietra o dell’età del ferro, completamente nudi, è una sensazione strana ma incredibilmente forte per quello che comunica allo spirito, e porta inevitabilmente ad una serie di riflessioni. Onestamente credo che sia una meta del tutto sconsigliata a chiunque non sia consapevole e molto motivato ma, per contro, imperdibile per chi cerca questo tipo di situazioni ed emozioni.

Passiamo qualche ora a riflettere, confrontarci e riguardare le foto e i filmati che abbiamo raccolto in questi giorni, rivivendo con intensità ogni singolo attimo del percorso.

Ceniamo al ristorante dell’hotel e andiamo a nanna presto per un lungo sonno ristoratore.

O5 GIUGNO WAMENA-JAYAPURA-SENTANI LAKE

Sveglia presto e via all’aeroporto (la famosa baracca degli attrezzi) per il volo Trigana previsto in partenza alle 7.30: siamo preparati a qualunque cosa, quindi non ci stupiamo per nulla che alle 7.30 non ci sia traccia dell’aereo. Alle 9.30 però iniziamo a dare qualche piccolo segno di nervosismo, anche perché, nel frattempo, si è radunata una folla evidentemente superiore alla capienza dell’aereo e non è molto chiaro come andrà a finire.

Per non sbagliare ci piazziamo davanti alla porta che, in teoria, da accesso alla pista e attendiamo: verso le 9.45 atterra un aereo e notiamo che un muletto raccoglie un bancale dove sono ammassati i bagagli: buon segno!

In pochi minuti siamo imbarcati ma, sorpresa, ci dicono che i bagagli verranno caricati su un volo successivo in partenza tra circa mezzora (ma perché?); non sono in condizioni di affrontare una discussione in indonesiano stretto e quindi ci avviamo a testa bassa al nostro posto.

In 45 minuti arriviamo a Jayapura, dove incontriamo Ruslan, la nostra guida di oggi, che non vede l’ora di partire per il giro che avevamo concordato, ma dobbiamo frenare i suoi bollenti spiriti perché ci tocca attendere i bagagli, di cui non c’è nessuna traccia.

L’attesa dura circa un’ora, fino al punto in cui misteriosamente si materializzano senza preavviso su un nastro trasportatore, non so se direttamente teletrasportati da Wamena o se con altri mezzi a me sconosciuti.

Finalmente partiamo alla volta del Sentani Lake, apportando alcune modifiche al programma perché abbiamo comunque 3 ore di ritardo rispetto alle previsioni; il Sentani è il più grande lago di Papua, incastonato tra montagne verdi e rigogliose, con alcune isole al suo interno, in cui vivono le tribù dell’etnia Asei.

Raggiungiamo un molo e ci imbarchiamo su una piccola barchetta a motore che cavalca lo specchio calmo e limpido del lago in direzione delle isole, poste quasi al centro geometrico del lago. Sbarchiamo e ci avviamo a piedi all’interno dell’isola più grande fino ad incontrare il primo villaggio degli Asei: sono principalmente pescatori e si muovono su imbarcazioni ricavate scavando tronchi di albero, molto simili ai mokoro che si possono vedere nell’Africa sub sahariana. Sull’isola è quasi impossibile coltivare perché ci sono pendii molto ripidi e il terreno non è particolarmente propizio, quindi il pesce costituisce la maggior parte della dieta degli Asei, reperito tramite uscite in canoa e con il posizionamento di reti e trappole stanziali sulla riva.

Sono anche produttori molto apprezzati di opere d’arte tradizionali, ricavate da un sottile strato di corteccia, tirata ed essiccata fino diventare del tutto simile ad una tela da pittore e poi utilizzata in tal senso con colori ricavati dall’immersione in acqua di fiori e piante: i temi sono soprattutto tribali, legati alla pesca e ai pesci, ma vi sono anche apprezzabili riproduzioni della foresta e degli uccelli del paradiso.

Siamo appassionati di arte tradizionale e quindi non manchiamo di fare incetta di alcune “tele” veramente splendide che, una volta a casa, provvederemo ad incorniciare e ad appendere.

Nel pomeriggio rientriamo sulla terraferma e ci spostiamo a Jayapura dove abbiamo appuntamento al museo etnografico dell’università; la visita è una sorpresa enorme: in tutta onestà, non mi aspettavo molto ma invece è un museo assolutamente fantastico che raccoglie una serie notevole di oggetti e di reperti provenienti dalle diverse tribù di Papua: Dani, Yali, Lani, Korowai, Asmat e altri ancora.

Ci sono lance, scudi, totem e idoli di diverse dimensioni, maschere, asce e oggetti di uso comune di legno e pietra, tra cui un enorme feticcio alto oltre 6 metri e ricavato da un unico tronco intero, veramente impressionante. La nostra guida è un professore dell’università che insegna antropologia e ci fornisce con entusiasmo una marea di informazioni su usi e costumi delle popolazioni locali in un ottimo inglese: starei ad ascoltarlo per ore; direi che si tratta di una tappa obbligata che serve a mettere a fuoco e a sistematizzare quanto visto sul campo, allargando molto la sfera delle proprie conoscenze.

Esaurita la visita al museo ci spostiamo per gli acquisti all’Hamadi Art Market, il mercato di Jayapura, dove vi sono una serie di negozi e botteghe artigianali che contengono pezzi unici ed originali, provenienti sia da Papua che dalla Nuova Guinea. Sono fortemente motivato ad implementare la mia personale collezione di maschere lignee e trovo enorme soddisfazione e pane per i miei denti: c’è solo l’imbarazzo della scelta e, se non fosse per le oggettive difficoltà di trasporto in aereo, dilapiderei qui il mio patrimonio.

Passo comunque un paio d’ore a perdermi in questi piccoli musei a cielo aperto, dove le cianfrusaglie sono veramente poche in confronto ai pezzi interessanti e devo, mio malgrado, fare delle scelte per non esagerare con gli acquisti: chiudo con due maschere Asmat e un idolo Korowai.

Dopo la sbornia d’arte, andiamo in hotel per la cena e la nanna… domani si rientra a casa.

06-07 GIUGNO: JAYAPURA-JAKARTA-DOHA-VENEZIA

Game over; l’avventura è finita, come doveroso si rientra a casa. Dopo colazione andiamo all’aeroporto per il volo Garuda delle 9.30 per Jakarta; anche qui si conferma l’ottima impressione di Garuda, nettamente superiore a tutte le altre compagnie aeree indonesiane per qualità del servizio e puntualità inappuntabile.

A Jakarta abbiamo alcune ore di sosta che cerchiamo di trascorrere tra un negozio e l’altro, anche se l’aeroporto non è particolarmente ricco di possibilità da questo punto di vista; all’ora prevista facciamo il check-in con Qatar e rientriamo a casa, via Doha, verso Venezia.

Si chiude un viaggio direi memorabile, in cui abbiamo visto luoghi ed ambienti molto diversi ma sempre estremamente interessanti: l’Indonesia è un paese talmente vasto e vario che merita sicuramente altre visite, poiché è impossibile esaurire in modo esaustivo tutto ciò che c’è da vedere in un viaggio solo.

Avevamo delle priorità, in linea con i nostri gusti ed interessi, e le abbiamo soddisfatte, ma certamente torneremo; la stessa Papua merita ampiamente di essere rivista, fosse solo per il paradiso naturale di Raja Ampat, assoluto Eldorado del diving a livello planetario (e in quel caso anche con un nuovo trekking verso altre zone, Korowai su tutti), senza scomodare Sumatra, Giava e Sulawesi che sono comunque ricchi di spunti importanti.

Sicuramente occorre essere molto motivati, consapevoli di ciò che ci attende, preparati ed organizzati al meglio, specialmente a Papua non si può lasciare nulla al caso, ma i ricordi e le emozioni portate a casa ci hanno ripagato di qualunque fatica e disagio.

That’s all folks, sperando di non avervi annoiato vi salutiamo… ciao ciao a tutti!

Francesco e Nadia



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