VIRGEN in Virgental – Il ritorno

VIRGEN in Virgental - Tirolo Orientale - Austria Dal 9 al 23 Agosto 2008 Ritorno a Virgen. Dopo le splendide impressioni dell’anno scorso, rieccoci qui decisi a sfruttare la nostra esperienza e ad affrontare quelle gite che per un motivo o per l’altro abbiamo tralasciato. Possibilmente con qualche contrattempo in meno… Sabato 9...
Scritto da: catcarlo
virgen in virgental  - il ritorno
Partenza il: 09/08/2008
Ritorno il: 23/08/2008
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
VIRGEN in Virgental – Tirolo Orientale – Austria Dal 9 al 23 Agosto 2008 Ritorno a Virgen. Dopo le splendide impressioni dell’anno scorso, rieccoci qui decisi a sfruttare la nostra esperienza e ad affrontare quelle gite che per un motivo o per l’altro abbiamo tralasciato. Possibilmente con qualche contrattempo in meno… Sabato 9 agosto A differenza del 2007, il bollino nero questa volta ci prende: del resto, noi insistiamo a partir per le vacanze nel giorno peggiore dell’anno, e mal ce ne incoglie. Nessun intoppo particolare, ma un viaggio lagnoso come pochi, stretti tra un numero indicibile di altre auto in movimento: la A4 è la solita tripla fila di lamiera in cui è necessario muoversi in maniera ultracircospetta, l’Autostrada del Brennero un budello che costringe ad una velocità di crociera sui novanta all’ora. Anche la Val Pusteria si rivela movimentata e così impieghiamo quasi sei ore (una di più di quelle teoriche) ad arrivare a Virgen. La giornata è soleggiata, anche se non bella come quella che ci ha ricevuto dodici mesi prima, e noi affrontiamo i conosciuti riti dell’arrivo. Pausa per la colazione da Joast in attesa che l’appartamento sia pronto, scaricamento delle valigie e di tutto quel che ci siamo portati dietro, sistemazione della mercanzia e frugale pasto.

A ravvivare il pomeriggio, il collasso delle doghe di una parte del letto matrimoniale. Probabilmente sistemate in modo errato durante le pulizie, cedono sotto il peso mio e di Diva, mentre Chiara occupa la parte restante del letto. Avvertito, il padrone di casa si produce in una sostituzione lampo, anche perché il nostro tentativo di rappezzo con lo scotch ottiene solo un risultato provvisorio e pericolante. L’incidente consente anche ai nostri ospiti di mostrarci le novità dell’annata: un’ampia sala comune dotata di giochi vari – calciobalilla e ping-pong su tutti – ed una sauna che, malgrado i buoni propositi non verrà mai usata.

Poi, è quasi obbligatorio il pellegrinaggio a Obermauern, con il quale concludiamo rallentando una giornata non leggera.

Domenica 10 agosto E’ un vecchio adagio quello che consiglia di affrontare la prima camminata in montagna in modo dolce: bisogna adattarsi alla nuova altitudine, le giunture vanno rimesse in moto a poco a poco, è necessario liberarsi delle fatiche del viaggio. A dire il vero ci sono anche i sostenitori dell’approccio brutale – spaccarsi le gambe subito per filare come treni poi – ma la teoria è appannaggio di pochi cultori ed in ogni caso è da praticarsi solo tra adulti consenzienti.

Visti il sole ed il cielo azzurro, non impieghiamo molto a scegliere come nostra meta la Valle di Gschlöss, il ricordo migliore dal punto di vista paesaggistico ed un impegno morbido per il fisico. Lasciato l’obolo al parcheggio presso la Casa dei Tauri di Matrei (1.512 m) – ancora quattro euro per ventiquattr’ore di sosta – ci avviamo lungo la strada che si addentra nella valle, insensibili alle proteste di Chiara che vuol salire con la carrozza a cavalli. L’unico fastidio è il sole che ci batte sulla schiena nel primo tratto allo scoperto: una volta inoltratici nel bosco la temperatura scende piacevolmente e la salita in leggera pendenza viene affrontata con tranquillità. Una volta scansati il taxi, il trenino e la carrozza a cavalli – più le auto di qualche valligiano, è pur sempre giorno di festa – abbiamo tutto il tempo di ammirare la fitta foresta di conifere attraversata da numerosi ruscelli e torrenti: tra questi uno forma una cascata non grande ma bella e che può essere comodamente ammirata dal ponte che la scavalca.

Una volta usciti dalla pineta, la vista è maestosa come la ricordiamo: il ghiacciaio del Grossvenediger si stacca dal verde dei prati e dal grigio delle rocce sottostanti e brilla contro lo sfondo di un cielo azzurro intenso. All’aprirsi della valle, Aussergschlöss è il solito, piccolo paese d’alpeggio fatto di casette di legno vicinissime una all’altra e costruite accanto a numerosissime sorgenti d’acqua. A differenza dell’anno passato, sono molte di più le baite aperte ed abitate, gran bel posto per passarci il fine settimana: uomini e donne si godono il sole, i primi intenti a discutere e a bere birra, le altre divise tra giornali e tintarella, mentre alcuni ragazzini giocano tutt’attorno. Nel piccolo laghetto nuotano vari pesci e la ruota del piccolo mulino funziona: sopra lo specchio d’acqua è tesa una teleferica giocattolo, che un bambino carica di terra a valle e un qualche meccanismo svuota, una volta giunta alla ‘stazione a monte’, alimentando con il contenuto una collinetta già consistente.

Da Aussergschlöss in avanti, la strada spiana definitivamente ed è possibile camminare tranquilli con il naso per aria per ammirare il paesaggio. Le svolte del percorso e le rocce che costellano l’ampio fondovalle creano sempre nuove prospettive tra il torrente, i pascoli e la possente quinta della montagna. Fotografando paesaggi e mucche al pascolo, giungiamo ad Innergschlöss in neppure un’ora: il minuscolo centro è sempre pulito ed ordinato, con le case ,disposte in parallelo lungo il fiume e la strada, ravvivate da balconi e davanzali fioriti. Non è neppure mezzogiorno e decidiamo di proseguire ancora una trentina di minuti fino a giungere al termine della valle.

La mulattiera è sempre in piano e l’unico problema è dato dalle innumerevoli cacche di mucca che siamo costretti ad evitare. La passeggiata è facilissima e, malgrado le lamentele di Chiara, giungiamo presto alla meta: di lì iniziano i sentieri che si inerpicano sul Grossvenediger. Attraversiamo il ponticello in legno che ci porta dalla riva sinistra a quella destra e ci accomodiamo su una panchina ad ammirare il panorama. Da dove ci troviamo, non è più possibile vedere il ghiacciaio perché le pareti di roccia sono troppo vicine, ma è splendido il colpo d’occhio dell’intera vallata e, sullo sfondo, del Gruppo della Cima di Granato e dello Schober.

Il posto è bello e c’è una gran pace – poche sono le persone presenti – ma anche lo stomaco vuole la sua parte e ci costringe a far ritorno Innergschlöss per pranzare alla Venedigerhaus. Il rifugio (o ristorante?) si è nel frattempo assai popolato e il timore di lungaggini come quelle dell’anno precedente è ben presente: per fortuna non è così – malgrado un cameriere non troppo cordiale – mentre la qualità del cibo si conferma alta.

Dopo pranzo, ce ne stiamo un po’ al sole – ma non troppo, non c’è una nuvola e i raggi scottano mica poco – mentre Chiara ammira i cavalli che trainano la carrozza, anch’essi in pausa pranzo. Quando ci riavviamo, verso le tre, il sole è nuovamente alle nostre spalle e fonte di scottature a spalle e polpacci, ma la luce pomeridiana è più netta e il verde e il grigio della valle assumono tutta una serie di sfumature prima assenti mentre i toni si fanno generalmente più caldi. Anche Aussergschlöss ne beneficia, rivelandosi ancor più affascinante che in mattinata. Solo quando ci infiliamo nel bosco, il sole concede una tregua ma il pedaggio da pagare è l’assenza del paesaggio. La discesa è veloce e presto siamo di nuovo alla Casa dei Tauri, dove Chiara fa a tempo a coccolare un altro cavallo prima che possiamo concederci la meritata levata degli scarponi.

Lunedì 11 agosto ‘Facilmente raggiungibile per bambini ed anziani’: mai frase contenuta in qualsiasi guida ai rifugi è stata più sottilmente ingannatoria. Leggendola, viene istintivo associarla all’idea di una passeggiata breve e non troppo faticosa: errore… Significa semplicemente che sul percorso non ci sono difficoltà eccessive – sentiero poco segnato, tratti esposti, gradoni da superare – mentre non c’è nessuna connessione con la lunghezza o la pendenza del tragitto. Insomma quattro ore di salita anche ripida, ma fatti su una mulattiera o altro comodo cammino, conducono comunque in un posto che è ‘facilmente raggiungibile per bambini ed anziani’. Basta saperlo… Il rifugio (o malga) Lassnitzen (1.900 m) fa parte della categoria: il perfido librettino riporta due ore per superare i seicento metri di dislivello da Praegraten, e la facilità sta tutta nell’ampia carrareccia – percorsa anche in auto da gestori e malgari – che conduce a destinazione.

Appena lasciata la macchina accanto al centro sportivo del paese, la strada si inoltra ripida nella foresta: la pendenza rimane notevole per tutto il lungo tratto che corre parallelo alla valle principale e i rari momenti di respiro sono dati dai pochi tornanti che spezzano di quando in quando la salita. Per nostra fortuna il sole è assai spesso coperto da una delle numerose nuvole in circolazione: già tra gli alberi la ventilazione è quasi inapprezzabile, un cielo sereno renderebbe la salita ancor più faticosa. Dopo oltre un’ora, si giunge ad un bivio: da una parte si scende verso Hinterbichl, dall’altra ci si inoltra nella Lasnitzen vera e propria, valle che si addentra nel gruppo del Lasoerling sulla destra orografica dell’Isel. La prima buona notizia è la presenza di una panchina, su cui ci sediamo – un po’ stretti – per mangiare qualcosina e recuperare un po’ di forze: la più bisognosa pare Chiara, che si convince a fatica a nutrirsi ma poi ne trarrà grande giovamento salendo veloce nella speranza di arrivare alla svelta al rifugio e alla wienerschnitzel. La seconda buona nuova è che il sentiero riprende a salire con meno ferocia, anzi il pendio si fa più dolce man mano che si prosegue.

Dopo altri trenta minuti circa, usciamo dal bosco: mentre si risale sul lato destro anche il panorama aiuta a distrarsi e proseguire. Di fronte, mentre il rifugio inizia a comparire di tanto in tanto, il già stretto bacino si va rimpicciolendo e, dove finiscono gli alberi, inizia una fitta prateria di un verde scuro che sale fino a lambire le rocce grigie che si spingono fino ai tremila metri: di certo, il Lasoerling è una montagna severa, ma, una volta passato il primo momento di soggezione, sa essere affascinante. Voltandosi indietro, la vista sul gruppo del Grossvenediger si fa lentamente più ampia: lo sguardo può risalire lungo la Maurertal e la Dorfertal, ammirare buona parte del ghiacciaio che incombe sulla valle di Virgen e spingersi fino alla cima posta a 3.667 metri. Resta ancora un’altra mezzora, quasi tutta in piano e allietata dalle numerose cascate e cascatelle che scendono dal fianco della montagna ed attraversano il sentiero. C’è tutto il tempo per scattare fotografie e rilassarsi un po’, anche se il rifugio che gioca a nascondino sembra allontanarsi beffardamente. La fine della fatica è ben accolta: la piccola costruzione ad un piano pare posta nel punto più adatto per ammirare pienamente il panorama sopra descritto, ma risulta assai poco affollata e, di conseguenza, molto tranquilla. Ci sistemiamo all’esterno per non precluderci la vista del paesaggio, malgrado la temperatura non sia caldissima: le nuvole restano alte ma il sole passa la maggior parte del tempo nascosto. Arriva subito una brutta notizia per Chiara: la wienerschnitzel non c’è, siamo costretti a rimediare con un abbondante kaiserschmarrn. Per ordinarlo c’è un po’ di tira e molla, con una certa incapacità a tradurre kompott e apfelmuss: la seconda è una purea di mele – e ci arriviamo anche grazie alla mimica del cameriere – il primo è più vago e si rivela essere costituito da prugne sciroppate. Entrambi buoni, e nella confusione Diva fa fuori l’uno e l’altra, costringendomi a pietirne una nuova dose (un euro). Al momento di pagare, il ragazzo che ci ha servito si siede vicino a noi per fare qualche chiacchiera: oramai sono le due e la clientela latita. Inizia così un complesso dialogo in anglo-italo-tedesco, da cui deduciamo che è favorevolmente impressionato dai miei balbettii germanici, ed anche stupito che in Italia si studi tedesco a scuola fuori dall’Alto Adige. Pare che i nostri connazionali siano i più refrattari ad esprimersi in una lingua straniera, anche le solite quattro parole d’inglese, con ordinazioni fatte indicando col dito e, si suppone, in modo pure casuale. Finito il siparietto, la discussione si concentra su montagne e sentieri, ed il ragazzo ci consiglia vivamente di percorrere quello che conduce al Rifugio Bergersee. Si tratta di un percorso quasi pianeggiante che riporta verso la valle di Virgen e, per un lungo tratto, è un balcone panoramico sulle montagne circostanti. Purtroppo ci vogliono quasi due ore, è ormai tardi e Chiara si oppone con fermezza: la notizia ci consente di capire il perché al rifugio ci sia poca gente, in fondo è un punto di passaggio per un percorso circolare. In ogni caso è un gran bel posto, che ha nel suo essere selvaggio uno dei suoi punti di forza, oltre alla vista non trascurabile: per fare tutto il giro è necessario mettersi in cammino ben prima delle dieci, nostra ora di partenza.

A metà pomeriggio, ci avviamo verso valle, per una discesa che si rivela infinita, un po’ perché è lunga sul serio, un po’ per la stanchezza ed un po’ perchè Chiara decide di affrontarla con il freno a mano tirato. L’ultima mezzora è una tortura fatta di continue frenate e polpacci doloranti, che la successiva sosta al bar ad Obermauern riesce solo parzialmente a far dimenticare.

Martedì 12 agosto Al risveglio, ci attende una giornata molto simile a quella che l’ha preceduta. Ma soprattutto c’è Chiara che si trascina penosamente una gamba sostenendo di aver un dolore tale alla caviglia da non poter neppure appoggiare il piede. La lamentela è tale che siamo costretti a tagliare la testa al toro.

Il dubbio è infatti se andare lo stesso visto che le previsioni per i giorni successivi sono negative, oppure concedere comunque il turno di pausa per recuperare dopo la fatica del giorno precedente.

Costretti così al riposo, ci adattiamo fra il guardare le Olimpiadi, fare un po’ di compiti e preparare gli gnocchi con le patate austriache di cui ci siamo già abbondantemente riforniti. Mentre io e Diva sistemiamo per il pranzo, le bambine scendono a giocare nella sala comune, tanto per far passare il tempo: e qui, durante una partita a calciobalilla, Giulia finisce per scoprire il bluff di Chiara. La tapina, dimentica della sua presunta infermità, si mette ad esultare per un gol ballando e saltellando felice in punta di piedi.

Mercoledì 13 agosto Previsioni confermata e giornata nuvolosa. Memori dell’anno prima, che con un clima simile Lienz si era rivelata più benigna, ci dirigiamo nella vicina cittadina – e così è anche l’occasione per cavarsi il dente… All’arrivo, Lienz ci accoglie con molte nuvole e il solito numero spropositato di persone, tanto che anche il parcheggio della stazione è quasi pieno. Ci aspettiamo la ressa dal momento che, alla rotonda che incrocia la strada proveniente dall’Italia, abbiamo visto una bella fila di automobili in attesa di immettersi. Ma ormai ci siamo e, anche per evitare l’esaurimento nervoso, seguiamo una condotta diversa dall’anno prima. Mentre le donne si infilano da H&M, io decido di andarmene a zonzo, armato di macchina fotografica e di pazienza.

La prima sosta è per la chiesa dei francescani, nella piazza… La chiesa in sè non è male, ma neppure nulla di eccezionale: come struttura ricorda un po’ il gotico di Obermauern seppur con qualche inserto barocco. Meno di Obermauern ha le pareti che qui sono state completamente imbiancate, e solo qua e là i restauri hanno consentito agli antichi affreschi di emergere.

Sempre in tema di restauri, anche il vicino chiostro pare appena risistemato. Ampie arcate circondano un piccolo giardinetto che ha al centro una statua del santo, mentre il largo porticato coperto è decorato da dipinti e ritratti dei priori del convento: le pitture sono un po’ cupe e intristiscono in una certa misura il luogo.

All’uscita, mi dirigo verso l’Isel e vago per il parco posto sulla sponda sinistra. Tutto molto bello e ordinato, peccato che, tra le nubi e le piante frondose, si respiri un’atmosfera quasi autunnale. Un’occhiata per osservare tre ragazze che chiacchierano – scherzano? – con un barbone e poi si riparte verso la parrocchiale di St. Andrae. Un paio di vicoli ciechi conducono in zone residenziali di lucida nettezza nordica – strade pulite, automobili ridotte al minimo, prati ampi verdi e ben curati, tendine alla finestra – poi giungo finalmente alla chiesa, seppur dalla parte dell’abside. Prima di entrare, c’è il tempo per dare un’occhiata alle cappelle del cimitero ricavate nel muro di cinta: la visita all’interno è breve, il luogo è interessante ma l’abbiamo già visitato solo un anno prima.

Quando esco è mezzogiorno e inizia a piovere. Mi rifugio sotto al portico che, davanti alla parrocchiale, chiude la cinta: qui sono elencati i valligiani del Tirolo Occidentale che persero la vita nelle due guerre mondiali (per la prima, anche quelli della Pusteria ora italiana): c’è tutto il tempo per riflettere sul macello della cosiddetta Grande Guerra e per il numero sorprendentemente alto di tirolesi nelle truppe del Terzo Reich. Abbandonata l’idea della visita alla cappella dedicata ai caduti ed affrescata dal pittore Albin Egger-Lienz – un po’ per ignavia, ma la vista di molte sue opere un paio di giorni dopo mi convince di avere evitato un po’ d’angoscia – e visto che la pioggia, invece di fermarsi, pare cadere più copiosa, decido di scendere: cappuccio in testa e camminata a filo di muro, l’esperienza si rivela meno peggio di quanto si potesse ipotizzare.

All’attraversamento del fiume, una scena inattesa. Dai sassi del letto, quattro ragazzi vestiti di tutto punto – dai caschetti protettivi alle mute da sub – si divertono a tuffarsi nelle acque gonfie ed impetuose armati solo di camere d’aria. Attività divertente, non si può negarlo, ma visto il clima e la temperatura non certo tropicale dell’Isel vien da pensare che si poteva scegliere un momento migliore. La sosta per osservarli e cercare di immortalarli consente di arrivare quasi all’una, l’ora dell’appuntamento.

Tra una cosa e l’altra, son trascorse più di un paio d’ore dal momento in cui ci siamo lasciati, eppure faccio ancora a tempo ad andare a recuperare gli ombrelli in macchina, tornare, entrare nel negozio, sollecitare le operazioni e fare la fila alla cassa prima che tutto sia finito. Portata a termine l’impresa, finalmente andiamo a mangiare dirigendoci sicuri all’Adlerstuberl, ma è destino che ci sia da attendere ancora: il locale è affollato in ogni ordine di posti, al chiuso o all’aperto che siano.

Inganniamo l’attesa con una visita in farmacia, dove tra l’abbozzo d’italiano di chi ci serve e il nostro discorsetto preparato sul vocabolario, riusciamo ad acquistare senza troppi intoppi non solo una siringa, ma anche una ‘soluzione fisiologica’ e pure una ‘soluzione vaginale’. Beandoci di tale successo, e con lo stomaco in fondo agli stivali, torniamo al ristorante che nel frattempo si è un po’ svuotato (sono quasi le due…). Solita ottima cucina, fatta di piatti generosi ed ottimamente preparati, innaffiata da una birra cruda – a ‘produzione propria’ – molto buona. Unica nota semistonata, un cameriere con un’evidente allergia agli italiani: come dargli torto, vista la numerosa e rumorosa compagnia che divideva con noi la stanza? Atteggiamento casinista, ordinazioni solo e soltanto in italiano, cortesia ridotta ai minimi termini: duole dirlo, ma si trattava di nostri corregionali… Con una tale sequela di perdite di tempo, il pomeriggio quasi non esiste: l’acquisto di qualche altro regalo, un gelato nella Hauptplatz per le bambine ed è ora di ripartire. L’aspetto veramente positivo sta nel sole che comincia a vincere il suo duello con le nuvole: ne approfittiamo per una sosta allo Schloss Bruck, il castello che, da un’altura posta in direzione di Matrei, sovrasta la cittadina. Ci limitiamo ad una visita al parco, perché l’ora è tarda e non vale più la pena entrare. Per giungere alla base della costruzione, si sale un dolce pendio attraversato a zig-zag da un largo sentiero, mentre altri meno ampi seguono percorsi più diretti. Erba verdissima, grandi piante centenarie ed un piccolo percorso illustrato che descrive la nascita del fortilizio: decidiamo di perfezionare la visita nella prima giornata di pioggia.

Giovedì 14 agosto Dopo due giorni di riposo forzato, la bella giornata ci consente di tornare per sentieri. Decidiamo di cambiare versante e la meta prescelta è il rifugio Nilljoch: posto accanto all’omonimo passo allo sbocco della valle di Nill, è in posizione panoramica praticamente sopra Obermauern. Per non andarci ad infilare nella stretta stradina che da Wallhorn porta al parcheggio Boden sopra a Praegraten, ed anche per scegliere un nuovo percorso, partiamo da un altro parcheggio, chiamato Budam, raggiungibile brevemente da Obermauern. Anche qui, la carreggiata non è larga ma il percorso è più breve: ad un certo punto, prima di un tornante, c’è uno spiazzo sulla sinistra ed un cartello in legno di dubbia leggibilità che indica quello come l’ultimo luogo dove lasciare la macchina. Ci infiliamo nell’unico posto rimasto disponibile – le nostre partenze dopo le nove di mattina ci mettono sempre in difficoltà in materia – e ci prepariamo senza troppo badare ai messaggi disseminati sul tabellone, pure in legno, che affianca il parcheggio.

Il primo tratto della salita è sulla strada asfaltata e non è faticoso, finchè si giunge a due fattorie che affittano anche appartamenti: posto tranquillo e panoramico, ma un po’ troppo isolato. A questo punto, inizia lo sterrato ed aumenta la pendenza che, dopo una ventina di minuti, diventa all’improvviso severa mentre il percorso si restringe ad un sentiero che si inerpica con uno stretto zigzagare su per il dorso della montagna. La meta si intravede sopra le nostre teste, ma non c’è troppo tempo per guardarsi in giro: sotto un sole che picchia sulla schiena, è necessario procedere con lentezza su una salita impegnativa che solo dopo trenta minuti offre un momento di riposo con una panchina posta appena prima di inoltrarsi in pineta. Qui, anche per regolarizzare respiro e battito cardiaco, attacchiamo bottone con due coppie di tedeschi sulla sessantina che ci descrivono il giro che hanno in mente: una volta giunti al rifugio, contano di proseguire per la Gottschaunalm e poi scendere da lì verso Obermauern. Bello, ma per farlo si sarebbe dovuto lasciare l’auto in paese, salendo poi a piedi il tratto di strada da noi fatto in macchina (a meno di avere due auto, ovviamente…) Sul sentiero, apre la strada Chiara che sale di buona lena anche perché l’impegno pare scacciarle la noia: in alcuni tratti costa fatica starle dietro. Non si fa a tempo a gioirne che Giulia va in crisi: è incappata in una di quelle giornate in cui le gambe si rifiutano ostinatamente di proseguire, vuote e senza energie. E’ una condizione a cui non si può sfuggire, e serve veramente poco nutrirsi o riposare: ogni passo costituisce una fatica insopportabile mentre la respirazione diviene subito affannata, fino a mozzare il fiato. Un calvario di cui è difficile dimenticarsi: e chi può cancellare l’Alpe di Siusi da Campitello, dovevo avere nove anni, la Bettaforca sopra Champoluc, dodici, e soprattutto l’estenuante giro del Sassolungo in compagnia di Pezzini, anno 1987, con la salita al Rifugio Vicenza sofferta per ogni metro. Così, non ci resta che adattarci, cercando di percorrere tratti brevi e concedere pause più consistenti. La salita attraverso il bosco si rivela faticosa come il tratto che l’ha preceduta, unico sollievo l’ombra che consente di spremere qualche goccia di sudore in meno. Radici da scavalcare, tornanti stretti, fila indiana obbligatoria e neppure una fonte d’acqua: non un sesto grado, ma si capisce perché, questa volta, il sentiero non è per ‘bambini ed anziani’.

E’ gia trascorsa più di un’ora e mezza quando giungiamo sotto alla nostra meta: tanta è la voglia di finire che ignoriamo il sentiero che procede verso una salita più dolce e ci arrampichiamo per l’ultimo, ripido tratto. Il premio per tanta fatica è… che il rifugio è chiuso: arriviamo dal retro, una finestra sbarrata e il camino senza fumo fanno nascere un sospetto che, girando l’angolo, viene confermato. Un piccolo cartello avvisa che per mangiare si può proseguire per venti minuti fino alla Schmiedler Alm (2.050 m), chi volesse dormire dovrebbe sciropparsi le due ore e mezza fino al rifugio Bonn-Matreier. Immediata è la crisi di sconforto, che non ci lascia ammirare come dovremmo il panorama che si gode dall’ampia terrazza: la valle di Virgen si stende sotto di noi e le i gruppi del Lasoerling e del Venediger la sovrastano imponenti. Le alternative sono due: fermarsi comunque, dividendoci la frutta e il cioccolato che ci siamo portati, oppure proseguire verso la malga, nella speranza di trovare un pasto caldo. La contrattazione riguarda soprattutto Giulia e la sua crisi: alla fine decide eroicamente di proseguire, anche per riuscire a riempirsi lo stomaco decentemente. Percorriamo così l’ultimo dislivello, e per fortuna che numerose nuvole filtrano ormai la luce solare: la pineta è finita e il sentiero risale attraverso i prati. Chiara va in avanscoperta e, giunta a destinazione, comunica che si mangia, il che aiuta anche Giulia ad arrivare, anche se le sono necessarie un paio di soste.

La malga è posta ai limiti dell’ampia insenatura erbosa che conclude la Nilltal. Risalendo con lo sguardo, si segue il sentiero che risale la valle, passando accanto ad insediamenti posti ancora più in alto, e continua poi, con destinazione il rifugio sopra citato; a corona, svettano imponenti rilievi di roccia grigia fra cui spiccano il Rauhkopf e il Sailkopf, che si spingono ben oltre i tremila metri. La costruzione è circondata da un ampio prato recintato in cui sono disposti alcuni tavoli, ma l’aria fresca e il sole che gioca a nascondino, oltre alla stanchezza, ci consigliano di entrare: veniamo sistemati nella minuscola sala per gli ospiti. E qui, a dispetto della fame, iniziano i problemi.

Una malga è una malga, e il menù è fatto più per una merenda (sostanziosa) che per un pranzo. Unico piatto caldo è la zuppa con i wurstel: la chiediamo, pregando di togliere i salsicciotti, e ci portano una zuppiera gigantesca colma di un brodo in cui starebbe in piedi un cucchiaio. Ci gettiamo un po’ tutti, meno Giulia che storce il naso di fronte al vago sentore di wurstel. Così riscaldati, possiamo passare ai panini, unica altra portata della casa: grandi fette di pane guarnite di salumi o di carne pressata – non riusciamo a stabilire se cruda – che richiedono impegno per essere terminati. Lo speck, peraltro buonissimo, resta lì e i giovani e gentilissimi gestori ce lo incartano in modo che lo possiamo portare a valle: malgrado alcune difficoltà di comunicazione tra il mio tedesco scarso e il loro a volte difficilmente intelligibile, si rivelano molto cortesi, offrendoci anche una grappa alla fine di un pasto particolarmente risparmioso.

Una volta usciti, ci fermiamo per qualche tempo ad uno dei tavoli esterni per rilassarci ancora un attimo, fare fotografie, ammirare il paesaggio ed alcuni contadini che tagliano il fieno su di un ripidissimo pendio duecento metri sopra le nostre teste. La discesa poi non presenta particolari problemi, benché assai ripida: Giulia si è ormai ripresa e Chiara, malgrado il timore, la affronta con buona sportività. Parlando del più e del meno, giungiamo infine all’auto: dando un’occhiata più attenta, vediamo un cartello che annuncia la chiusura del rifugio Nilljoch per l’intera stagione estiva. Non si può dire che fosse nascosto… Venerdì 15 agosto Giornata bruttissima, con nuvole basse, pioggia battente e vento freddo. Dopo una mattinata trascorsa in casa fra il tran-tran e le lamentele (perché bisogna fare i compiti in un giorno di festa?), al pomeriggio decidiamo per la visita allo Schloss Bruck. Ci avviamo nel primo pomeriggio sotto un diluvio che solo verso Lienz cala un po’ di intensità: la luce continua invece a rimanere assai flebile, come quella che ci ha costretto a tenere la luce accesa in casa per tutto il giorno.

Il piccolo parcheggio di fianco al castello è pieno, ma un’auto decide di lasciare libero un posto al nostro arrivo – non ci siamo fidati a lasciare la macchina alla base e salire a piedi perché il tempo si mantiene pessimo. Superata la breve fila all’ingresso e lasciati, obbligatoriamente, gli ingombri in guardaroba, attraversiamo il piccolo cortile ed iniziamo la visita: scopriamo subito che gli antichi ambienti sono stati del tutto svuotati dagli arredi e che l’imponente struttura è ora, soprattutto, uno spazio espositivo.

Visitiamo così per prima una mostra dedicata alla Cina attraverso i secoli. E’ una di quelle visite che richiederebbe la lettura dei numerosi cartelli esplicativi, che raccontano il grande paese attraverso la sua storia e le tradizioni delle varie regioni. Dopo un po’ decidiamo di lasciare stare – anche perché l’italiano latita un po’ – e di limitarci ad ammirare gli oggetti esposti. Antichi rotoli di preghiera, piccole statue votive, oggetti di vita quotidiana e curiosi capi di abbigliamento soprattutto femminili (con una certa prevalenza di strumenti di tortura in forma di copricapo o acconciatura). Le ultime stanze son invece occupate dalla descrizione del teatro tradizionale in quattro o cinque zone della Cina: qualche costume, molte maschere, raccolte di foto ed anche alcune videoproiezioni: interessante l’osservazione di un’idea di spettacolo, normalmente di strada, così diversa dalla nostra, ma dopo un po’ l’attenzione comincia inevitabilmente a vacillare.

Saliamo al piano di sopra e veniamo risvegliati dalla mostra permanente di Albin Egger-Lienz. Nelle stanze si snoda un’esposizione di una trentina di opere del pittore che di Lienz è stato quasi figlio adottivo, a cui sono state aggiunte alcune tele di un paio di suoi maestri. Si comincia dai quadri della giovinezza e si finisce con alcune grandi opere della maturità: da un figurativismo bello ma un po’ calligrafico a scene popolate di omoni possenti, quasi dovessero decorare il Foro Italico. In tutte, serpeggia una sensazione di tristezza cupa ed opprimente: non solo la folla sanguinaria di ‘La croce’, ma anche i paesaggi alpini o gli interni contadini – pure se illuminati dal sole – danno una vaga sensazione lovecraftiana. Non parliamo poi delle opere dedicate alla Grande Guerra, dove sono palpabili la disperazione e l’inutilità della carneficina.

Riprendiamo a respirare, e torniamo ad essere vicini allo spirito di un castello, visitando la piccola cappellina gotica. E’ talmente minuscola che non si riesce ad entrare più di dieci per volta, ma l’afflusso è discreto e c’è tempo per guardarla bene. A due piani e arredata al minimo con oggetti in legno e un altare in pietra, la cappella deve il suo fascino alle pareti completamente affrescate con storie sacre e motivi decorativi: risalenti al cinquecento, i dipinti hanno dei bei colori vivaci che si impongono anche se l’ambiente non è molto illuminato.

Il ritorno al passato si completa una volta arrivati alla base del mastio. Da qui, le scale poste su due lati opposti conducono verso l’alto: dopo aver salito quattro rampe fatte di gradini stretti e ripidi (con tutti i problemi di precedenze che si possono immaginare) giungiamo all’altezza del cammino di ronda che è anche il punto più alto del castello. Un giro completo consente di dominare con lo sguardo tutto il bacino dell’Isel: il fiume, Lienz, le montagne che la circondano. Il cielo oscuro rende il paesaggio cupo, e solo alcuni squarci verso ovest consentono ai raggi di un sole in fase calante di tagliare la vallata con una lama di luce. Sono però solo momenti, poi le nubi si richiudono mentre la pioggia continua a cadere. Ci industriamo comunque a fare alcune foto e ci tratterremmo anche di più se Chiara non insistesse per scendere.

Mettendo ogni cura per evitare ruzzoloni, pensiamo sia ora di avviarci all’uscita quando sulla destra scorgiamo le sale del museo romano. A tempi dell’impero, Lienz era già un centro importante per la regione e reperti vengono trovati in continuazione quando si scava il terreno. Quelli qui conservati non sono molti – gli altri sono nei pressi degli scavi dell’antica Aguntum – ma abbastanza interessanti e si potrebbe sostare ancora, se la stanchezza non fosse diffusa in alcuni elementi del gruppo. Così, dopo una breve sosta al negozietto e al bar annessi al castello, ce ne torniamo a Virgen mentre la temperatura prende a calare.

Sabato 16 agosto La mattina ci attende con la stessa faccia scura del giorno precedente: l’unica differenza è che, a furia di temperature sempre più basse, è arrivata anche la neve. Quando, tra uno scorrere di nuvolaglia e l’altro, si riescono ad intravedere le montagne circostanti, si può notare che dai duemila metri in su il paesaggio è imbiancato. Siamo rassegnati ad un’altra giornata in casa, ma, andando a far provviste sotto una pioggia gelida e sferzante, cominciamo a scorgere alcuni squarci di sereno che già attorno al mezzogiorno paiono averla vinta sulle nubi. Quando, dopo aver mangiato, arriviamo al parcheggio Stroden, il bel tempo la fa ormai da padrone anche se l’aria si mantiene frizzante.

La passeggiata fino alle malghe Pebell e Islitzer non è certo trascendentale, ma rispetto alle previsioni della mattinata è un guadagno pieno. Risaliamo lentamente la strada in leggera pendenza, perdendo tempo qua e là a fotografare l’Isel che ci scorre accanto gonfio e rumoroso. In meno di mezzora – più velocemente di quanto ci ricordassimo – giungiamo a destinazione. Il pianoro su cui si trovano le due costruzioni è ancora per un bel tratto illuminato da un sole piacevole, mentre nelle zone in ombra c’è un freschino che entra nelle ossa. Purtroppo, in una di queste è piazzato il piccolo recinto di animali annesso all’Islitzer: Chiara vi si dirige decisa e, se stesse per lei, vi passerebbe il resto del pomeriggio a far le coccole e dare da mangiare a conigli ed altre piccole bestiole.

Solo dopo un certo tira e molla, riusciamo ad andare a far merenda alla Pebell, attendendo pazientemente che si liberi un tavolo ancora al sole. Una volta rifocillati e scattata qualche foto, mentre il cielo si fa del tutto sereno, torniamo verso la macchina non senza una breve discussione se prendere la carrozza a cavalli o meno. Solo la promessa che faremo il tragitto nei giorni seguenti sblocca la situazione e possiamo finalmente partire: sul percorso incontriamo numerose persone – soprattutto valligiani, in auto ma anche appiedati – che si stanno recando alla malga Pebell per la cena: il ristorante è ottimo, i prezzi non sono eccessivi e poi è sabato sera.

Domenica 17 agosto Dopo la passeggiata del giorno precedente, la mattinata più che discreta ci consente di tornare a far sul serio: decidiamo così di arrivare alla Malga Berger le cui luci possiamo scorgere tutte le sere ai piedi dell’omonima cima. Per l’imbocco del sentiero, è necessario scendere prima a Niedermauern e poi risalire ad un insieme di quattro fattorie impropriamente chiamato Berg: si trova alla stessa altezza della strada che conduce a Praegraten ma sul versante opposto (il destro).

Come al solito, piazziamo l’auto in uno degli ultimi posti rimasti: sono già le dieci, ma in ogni caso non ci stanno più di una decina di auto. Ci avviamo lungo un’ampia strada forestale dalla pendenza mite: fa caldo e non gira molta aria, ma è uno sforzo sopportabile. Chiara inizia subito a lamentarsi, invidiando la teleferica che conduce sino alla nostra meta ma riservata ai malgari. Per distrarla, le facciamo notare i numerosi frutti di bosco – soprattutto lamponi – che crescono ai bordi: le mille soste dei primi minuti vengono diradate solo con la promessa di raccogliere le bacche durante la discesa. Il percorso sale sul fianco della vallata, ogni tanto c’è un tornante e d’improvviso si aprono squarci di panorama verso Praegraten e le montagne che la sovrastano: il cielo si mantiene abbastanza azzurro e il paesaggio si lascia ammirare placidamente, con un bel contrasto di verdi e grigi ed il bianco del ghiacciaio sullo sfondo.

La tranquilla passeggiata – incontriamo sì e no quattro persone – prosegue per poco più di mezzora, poi, mentre la strada prosegue il suo cammino verso il nulla (almeno questo è ciò che sostiene la cartina), un’imperiosa freccia rossa invita a deviare ed a… salire. Davanti a noi si erge un pendio brullo, forse a causa di un incendio, e ripidissimo, che per cento, centocinquanta metri si inerpica con una pendenza ben superiore ai quaranticque gradi. Su di esso, una traccia di sentiero fatta di terra e ghiaia che dapprima sale proprio dritta, e solo nel tratto conclusivo si concede qualche stretto zig-zag. Va bene che sulla mappa, il percorso taglia le linee di costa, ma così pare esagerato. Scacciata l’immagine di Jerry Calà davanti alle scale in ‘Vado a vivere da solo’ (‘Excalibur!’) – va bene, perdono, non lo faccio più – ci avviamo, passettino dopo passettino, con la scomoda presenza di un retropensiero su come potrebbe essere dover scendere passando da lì. Tra incoraggiamenti e polpacci che vanno a fuoco, raggiungiamo finalmente il limitare del bosco: da qui in poi l’ascesa diventa meno furibonda, anche se la pendenza resta significativa e l’arrampicata in mezzo alle piante implica il consueto scavalcamento di rami e radici, a cui si aggiunge un terreno scivoloso per le piogge dei giorni precedenti. Unica consolazione l’ombra, che addolcisce lo sforzo, ma tra gli alberi fitti non c’è possibilità di vedere altro che i propri piedi e la strada da percorrere.

Finita la pineta, finita la salita. Ancora un paio di svolte sotto i piloni di una seggiovia beffardamente fuori servizio e si arriva al cancello che delimita il terreno della malga. La Bergeralm è una grossa costruzione, appoggiata al pendio della montagna: a piano terra la stalla – al nostro arrivo le vacche escono per andare al pascolo – e sopra i tre piani abitati. Di fianco c’è una costruzione più piccola, che pare all’apparenza chiusa e deserta. Affamati, ci sistemiamo sulla terrazza che, al primo piano, conduce all’ingresso della malga: solita ricerca difficoltosa nel menù ridotto all’osso e scelta inevitabile su backerbsensuppe (palline di pane fritte e poi servite nel brodo) e kasierschmarrn. Di sicuro, la cucina peggiore- o quantomeno svogliata – trovata in due anni di Virgen, tanto che il kaiserschmarrn, come dice Chiara, sembra solo una frittata. Chissà se è sempre così, o se è perché la signora che funge da cameriera, alla richiesta di prammatica circa la wienerschnitzel, risponde acida ‘questa è una malga, non un rifugio’.

Da dove siamo, la vista spazia sulla bassa valle di Virgen, in direzione di Matrei. Il paese è ben visibile sotto di noi – c’è un po’ di foschia ma la giornata si mantiene buona – e non è un’impresa individuare la casa in cui alloggiamo. Per godere di un maggiore panorama, torniamo brevemente sui nostri passi: su una collinetta libera dagli alberi troviamo il posto ideale, un balcone naturale per poter ammirare anche la parte alta della valle e le montagne che la circondano. E’ necessario però piazzare il campo in una gobba del terreno, unico modo per ottenere riparo dal vento freddo che soffia fastidioso.

Quando è ora di tornare, una scelta si impone: scendere per la ripida via seguita durante la salita oppure fare un giro più largo, passando per la Marcher-alm. Malgrado Chiara si voglia esibire in discesa, optiamo per la seconda soluzione anche se il nuovo sentiero non faccia, al primo sguardo, una gran impressione. Oltrepassata la malga Berger, lo imbocchiamo e l’impressione di precarietà è confermata: il cammino è complicato dal terreno bagnato ed è attraversato da una miriade di corsi d’acqua che portano a valle la pioggia dei giorni precedenti. Proseguiamo tra un tratto infangato ed una pozzanghera, tenendoci in bilico sui sassi per sorpassare i torrentelli. Il momento più critico è quando ci si materializza davanti una piccola frana, con un albero sradicato che sbarra il sentiero: lo scavalcamento ed i successivi tre o quattro passi in bilico sono origine di qualche brivido e dell’entusiasmo di Chiara, a suo agio nella parte di Indiana Jones. Superato l’ostacolo, il percorso diviene più tranquillo, anche se è sempre stretto ed in costa ad un pendio abbastanza ripido, con l’aggiunta delle solite radici da scavalcare. Immersi nel verde, camminiamo ancora per circa mezzora, tra piante, arbusti e fiori selvatici: raggiungiamo il fondo di un piccolo valloncello e poi, quasi giunti alla malga, ritorniamo a calpestare una strada forestale.

Il luogo è disabitato. Sono in costruzione un rifugio abbastanza ampio ed una stazione a monte di un impianto di risalita, ma pare quasi che i lavori siano abbandonati. Certo è che, sul pendio sottostante, gli alberi sono stati abbattuti, ma il tratto non è così lungo da poter ipotizzare una pista completa. Ci avviamo sul terreno disboscato, che scende in maniera non eccessiva: una flebile traccia battuta si distingue con poche variazioni di direzione attraverso macchie di fiori e soprattutto gruppi di funghi che, come durante tutta la giornata, si rivelano essere numerosissimi. Alla fine, si torna sulla strada forestale e ci tocca scegliere: proseguire su quest’ultima o infilarci nella scorciatoia che attraversa il bosco. Scegliamo la prima – l’altra è praticamente in picchiata – e il percorso si rivela un po’ lungo: pendenza molto ridotta ed amplissime svolte. Ne approfittiamo per soddisfare la promessa della mattina, e Chiara può quasi riempire una bottiglietta di lamponi ed altri frutti di bosco. La discesa pare infinita, anche perché fatta in completa solitudine; l’unica, rumorosa, compagnia è offerta da due giovanotti locali in moto da cross, per i quali pare che la strada sia proprietà privata.

Schivatili opportunamente, giungiamo finalmente dalla parte opposta di Berg quando sono ormai un paio d’ore che camminiamo. Per tornare alla macchina, è necessario percorrere un breve tratto di strada asfaltata che costeggia un paio di fattorie dove si sta tagliando l’erba nei prati: l’animo contadino di Diva ne deduce che il giorno dopo ci sarà il sole (altrimenti l’erba come asciuga?).

Lunedì 18 agosto Per una grande giornata ci vuole una grande gita. Come letto nell’erba il pomeriggio precedente, il nuovo giorno ci regala un bel cielo sereno ed una temperatura mite: l’ideale per affrontare la camminata più lunga che ci siamo prefissi, quella che dal parcheggio Stroden conduce – tempo stimato tre ore ma ‘facilmente raggiungibile per bambini ed anziani’ – al Rifugio Clara (2.100 m).

Lasciamo l’auto un po’ prima del nostro solito, saranno le nove e mezza, e subito si palesa il primo ostacolo: il progetto di affrontare il tratto fino alla malga Pebell con la carrozza a cavalli si infrange contro la mancanza della stessa. Vista la poca clientela nell’ora mattutina probabilmente le corse iniziano più tardi, ma c’è da farlo capire a Chiara che – tanto per cambiare – si pianta sui blocchi di partenza: si riparte solo con l’assicurazione che al ritorno il trasporto animale sarà nostro.

Saliamo così al piccolo trotto, tanto per scaldare il motore: il sole splende sempre pulito ma il cammino è quasi del tutto in ombra e la prima, minima difficoltà è presto superata. Da Pebell in avanti inizia la salita, con il superamento della parte più a valle delle cascate Umball. Lasciamo subito l’idea della strada e affrontiamo il sentiero attrezzato lungo il fiume, un po’ per ammirare il corso delle acque ribollente e fascinoso, un po’ per rendere il tragitto più vario e contribuire a distrarre Chiara.

In circa un’ora complessiva, giungiamo al pianoro che era stato il nostro punto d’arrivo nel 2007. In cielo cominciano a scorgersi alcune nubi, ma sono alte e si limitano a contribuire, con il loro bianco su sfondo azzurro, ad una scenografia che si fa forte del verde brillante dei prati irrigatissimi dalle piogge dei giorni precedenti.

Proseguiamo quasi senza fermarci perché ci attende il momento più faticoso dell’intera camminata. Il superamento del dislivello che corrisponde al tratto a monte delle cascate è affidato ad una strada che risale nel bosco, abbastanza discosta dall’Isel. Ripidi tratti rettilinei si alternano ad alcuni tornanti che consentono di respirare: qualche passaggio è abbastanza severo, anche perché il fondo costituito da sassi sporgenti, radici e ghiaia scivolosa non sempre consente un appoggio sicuro. Saliamo lenti e con qualche pausa per far rifiatare soprattutto Diva e Chiara finchè giungiamo ad un nuovo allargamento della valle, sui cui è disegnato un breve tratto discretamente pianeggiante. La sosta questa volta è d’obbligo ed è sfruttata anche per buttare qualcosa nello stomaco, visto che, ad un conto spannometrico, non abbiamo superato di molto la metà percorso. Il successivo percorso senza asperità aiuta a sciogliere i muscoli e conduce ad un ponte che scavalca l’Isel. L’attraversamento ci porta sul versante sinistro della valle e, allo stesso tempo, permette di ammirare il torrente che finalmente può allargare il suo letto spumeggiando fra le rocce. Tre o quattro ampi tornanti costituiscono l’ultima, non impegnativa salita della giornata e conducono ad un piccolo rifugio , che altro non è che una casettina dagli accessi sprangati e con una sedia sfondata accanto all’ingresso: unica decorazione, la targa che – mendacemente – sostiene che il rifugio Clara è a trenta minuti.

La posizione è, però, a dir poco strategica: per capirlo, basta accomodarsi sul gradino che conduce all’ingresso della piccola costruzione e guardarsi attorno. A sinistra si allarga la valle appena percorsa, attraversata dalle acque del torrente e con sullo sfondo le scure pareti di abeti dei primi contrafforti del Lasoerling. A destra, in uno spazio ben più stretto, prosegue la risalita lungo il corso dell’Isel: due pendii ricoperti di erba verdissima si contrappongono mentre sullo sfondo iniziano a stagliarsi le rocce e i ghiacci del Grossvenediger. Da qui in avanti, il sentiero prosegue praticamente in piano sul lato sinistro della valle, ma quel che resta da percorrere si rivela non breve e, specie verso la fine, la speranza di veder spuntare il rifugio dietro l’ennesima rientranza della montagna è più volte frustrata, conducendo ad un passo dall’esasperazione.

Dopo neppure cinque minuti di cammino, attraversiamo un piccolo nevaio che ha invaso il sentiero originale: niente di particolarmente complicato, a parte che la traccia da seguire è leggermente in diagonale e consiglia prudenza. Sotto di noi, favorita da una posizione molto ombreggiata dovuta alla poca distanza fra i due pendii contrapposti, la neve è ancora copiosa e l’Isel vi ha scavato profonde gallerie per farsi strada verso le cascate. Tornati coi piedi sulla terra, ci avviamo lungo un percorso che, largo non più di un paio di spanne, taglia a metà un piano inclinato attorno agli ottanta gradi. Distesa di erba a sinistra e a destra, e qualche difficoltà a dare le precedenze quando si incontra qualcuno che procede nel senso opposto.

A circa metà strada, un’idea di sentiero appena visibile si tuffa in discesa verso il torrente e poi, forse ancor più vaga, risale la …Tal, che ci si spalanca davanti verdissima mentre l’acqua che l’attraversa confluisce nell’alveo principale: proseguendo si raggiunge l’alta via del Lasoerling che si profila sullo sfondo con le sue tonalità scure. Infine, dopo oltre un’ora ed un paio di tratti di corda fissa (forse superflua, un po’ esposto e nulla più) dietro l’ennesima piega della montagna compare la bassa struttura del rifugio, dominata dall’imponente mole del Rotspitze che ci ha accompagnato lungo tutto l’ultimo tratto di cammino. La cima si erge quasi verticale di fronte a noi, roccia tanto scura da essere quasi nera su cui spicca la vasta lingua di neve che dalla cima scende per parecchie centinaia di metri. Alcune nuvole le danzano attorno senza però coprirla e l’occhio può correre senza impedimenti anche sulle altre cime del Grossvenediger visibili nella vallata.

I numerosi tavoli disposti nello spazio, abbastanza ampio, tra il rifugio ed il torrente soni già tutti occupati, e poi l’impossibilità di mettersi all’ombra – non c’è traccia di ombrelloni – ci convince ad entrare. La costruzione è ad un piano solo, completamente dipinta di bianco eccetto una parte di facciata decorata con tronchi a vista, e non si discosta più di tanto da quella nata all’atto della fondazione oltre un secolo fa. L’interno, arredato completamente in legno, ci viene incontro con una profonda oscurità, accentuata dal sole brillante che c’è fuori. Fa anche un po’ fresco, ma ci abbattiamo comunque su un tavolo con vista sulla cucina, dove cerchiamo di recuperare un po’ di forze. Il menù è per forza di cose ridotto – i rifornimenti non devono essere facili per un rifugio raggiungibile solo a piedi – ma, inaspettatamente, riusciamo ad avere una bistecca impanata che è quanto di più vicino ad una wienerschnitzel potremo mai mangiare durante l’intera vacanza. Solo Diva si lamenta per il grosso canederlo – a suo dire insapore – che ha ordinato, ma la fame è tanta e non è il caso di fare troppo gli schizzinosi. Terminato di pranzare, ci spostiamo all’esterno. Il cielo si è ora definitivamente pulito ed un bel sole rende vivace il panorama. Tra una spalmatura di crema anti-scottature e l’altra, le bambine si divertono con le due altalene del piccolo parco giochi, mentre noi ci guardiamo attorno. Con le spalle al rifugio, alla nostra destra la valle prosegue sempre più stretta fino a raggiungere le sorgenti dell’Isel: nel tratto visibile, il sentiero resta in dolce pendenza e qualche magone si agita per non potersi ancor più addentrare nel cuore del Grossvenediger. Davanti a noi si erge una ripida parete erbosa che pare condurre alla base del Rotspitze, su cui d’un tratto si avvia una specie di Hulk Hogan locale che, a grandi falcate, la risale senza apparente sforzo per sparire velocemente dalla vista. A sinistra, infine, si allarga lentamente il tratto che abbiamo risalito e qui, dando le spalle al ghiacciaio, dominano numerose tonalità di verde e di grigio. Insomma, sarebbe tutto perfetto se non fosse per la petulante presenza di tre italiani sulla sessantina – tra Parma e Reggio la probabile origine – che distrurbano il relax vantando se stessi e le loro imprese di montagna con la stessa logica dei pescatori che si vantano di aver preso un pesce grosso così.

Visto che all’andata abbiamo trottato per tre ore abbondanti, riprendiamo il cammino verso valle che non sono neppure le tre. La regola del pomeriggio più bello della mattina si conferma anche qui e la luce, col passare del tempo, si fa sempre più calda, esaltando i colori e rendendo più profondi i chiaroscuri. Così sono mille le soste, specie nel primo tratto pianeggiante, per poter scattare tutte le foto necessarie a documentare l’incanto oltre ai numerosissimi e coloratissimi fiori che rallegrano il ripido prato. Le fermate, sempre un po’ in bilico, sono necessarie anche per far passare sia chi arriva da dietro a velocità doppia, sia chi si sta ancora dirigendo al rifugio: di questi, le ultime due le incrociamo dopo oltre un’ora di cammino, e non possiamo non stupirci degli stivali indossati dall’una e i tacchi su cui si barcamena l’altra.

Appena prima ci siamo fermati a ristorarci con l’acqua di un’ampia e rigogliosa cascata la cui acqua si butta nell’Isel quando questo non ha ancora allargato il proprio percorso, però al piccolo rifugio soprattutto Chiara richiede una sosta, prima della sua nemica discesa. Abbiamo così il tempo di ammirare la piccola utilitaria 4×4 con cui qualche ardimentoso è riuscito ad arrivare fino a lì.

Poi iniziamo a scendere, prima al piccolo trotto e quindi, una volta giunti al tratto più ripido, tutto sommato di buon passo e senza troppi problemi. Assieme alla luminosità, col passare dei minuti muta anche l’aspetto del fiume che aumenta lentamente la portata, diventando sempre più rumoroso e spumeggiante. Quando giungiamo nel tratto a valle delle cascate e decidiamo di scendere nuovamente lungo il sentiero attrezzato, scopriamo delle Umballabfaelle notevolmente diverse da quelle che avevamo conosciuto nelle nostre visite mattutine: l’aumentata massa d’acqua scende rombando con una violenza che innalza sottili cortine di vapore animate dalla luce del sole che, come un riflettore, le illumina alle spalle. L’effetto è aumentato dall’ombra che è ormai scesa sulla riva che percorriamo, creando un contrasto forte e affascinante.

Dopo una meritata sosta alla Malga Pebell, partecipiamo all’assalto alla diligenza. Vale a dire, alla carrozza con i cavalli, che oramai è giunta alle ultime corse della giornata. Non appena il veicolo si affaccia sul pianoro, si muove una piccola folla, fra cui si distingue un gruppetto di Italiani che si pianta di traverso chiedendo se qualcuno ha prenotato. Alla fine, la carrozza si rivela più spaziosa del previsto, un’altra ne arriva a rinforzo e tutti i pretendenti riescono a salire a bordo. Noi ci piazziamo assieme ai nostri connazionali e, tra l’agitarsi di questi, la puzza che ammorba l’aria e la fatica che il povero cavallo fa nei tratti più ripidi, l’umile estensore di queste note rimpiange ben presto di non aver proseguito a piedi, come i muscoli ormai caldi e le gambe che giravano da sole avevano consigliato. L’aspetto positivo è che la spesa è veramente contenuta e, essendo l’ultima corsa, veniamo trasportati fino al parcheggio ormai svuotato di auto.

Nel corso del pomeriggio, il cielo si è pulito del tutto: la fermata a Virgen per controllare le previsioni ci conferma che l’indomani è prevista una bella giornata: prenotiamo così il taxi per il Rifugio Wetterkreuz, con una telefonata in tedesco un po’ basic ma apparentemente efficace.

Martedì 19 agosto Previsioni confermate: cielo azzurro e sole splendente. Unico problema, l’orario di partenza. L’aver telefonato un po’ tardi non ci ha consentito di trovar posto prima delle undici. Ci avviamo perciò con calma verso il punto d’incontro, piazzato all’entrata del parcheggio sotterraneo e di fronte alla panetteria Joast. Con precisione teutonica, all’orario stabilito arrivano due mezzi tipo Transit con una decina di posti a testa. L’autista del primo ci borbotta qualcosa di non molto chiaro riguardo alla prenotazione, per non sapere né leggere né scrivere rispondiamo di sì e ci accomodiamo a bordo assieme ad una famiglia tedesca (o austriaca, vallo a sapere…). Quando tutto è pronto, ci avviamo verso Niedermauern e da lì imbocchiamo una strada forestale larga appena per far passare il nostro mezzo e corredata da un numero infinito di cunette e dossi. Mentre i nostri compagni di viaggio discorrono con il giovane guidatore, noi ci dividiamo tra l’ammirare lo strapiombo su cui si inerpica la pineta ora da una parte ora dall’altra della vettura e l’evitare di dar testate contro il soffitto ad ogni sobbalzo amplificato dagli ammortizzatori. Il giro nel frullatore dura circa mezzora, lo stomaco di Chiara resiste distratto dalla novità, poi possiamo scendere accanto al rifugio Wetterkreuz (2.106 m).

L’essere il capolinea del servizio di taxi e solo un posto di passaggio non lo aiuta. Il fabbricato è vecchio – sia come concezione, sia come costruzione – e pare bisognoso di una buona manutenzione: infissi scoloriti e copertura in legno annerita e qua e là sbrecciata. E’ un peccato, perché la posizione è veramente molto bella: si può non solo ammirare l’intera valle di Virgen (con la parziale ostruzione, verso monte, del Bergerkogel) e le montagne che la circondano, ma anche i gruppi che dominano Matrei – Cima di Granato, Schober – e quello del Grossglockner, la cui cima, per una volta, è libera dalla consueta nuvolaglia. Il tutto immerso nella luce pulita di una giornata che non ha ancora conosciuto una nuvola.

L’unico problema è che, tra viaggio e spalmatura di creme solari, si è fatto quasi mezzogiorno e ci resta ancora da percorrere tutto il sentiero che conduce al rifugio Zupalsee (2.350 m): di certo non una camminata impossibile, ma, vista l’ora, i raggi del sole si fanno sentire – siamo completamente allo scoperto – e lo stomaco di qualcuno brontola. Quasi tutto il dislivello viene coperto nei primi trenta minuti: si inizia con un tratto di strada che sale sul fianco di un dosso, poi, dopo aver superato un cancello in legno, si percorre la cresta di quello successivo, ampia ed erbosa. Qui giunti, una breve discesa, abbastanza ripida da togliere il fiato al ritorno, conduce all’ennesimo sentiero tagliato a metà di un pendio ripido: resta soltanto una lunga passeggiata praticamente in piano, ma l’ampiezza del percorso è molto maggiore di quella verso il Rifugio Clara.

La direzione porta a risalire il lato sinistro della Virgental, inoltrandosi verso il cuore del Lasoerling: cambia anche il paesaggio, e la vista è costituita soprattutto dal Grossvenediger e dalle altre montagne che chiudono la valle di Virgen. Il pendio che, nel primo tratto, è erboso, diventa costellato di rocce, figlie di numerose frane, dopo aver girato attorno ad un ampio promontorio che fa anche da balcone panoramico. Da qui in poi, inizia a vedersi la destinazione e l’avvicinamento si fa, come al solito in questi casi, più faticoso almeno dal punto di vista psicologico. L’effetto Sisifo si va ad aggiungere al calore ed al riflesso sulle rocce ma, in circa un’ora e un quarto complessiva, riusciamo ad arrivare al rifugio. Mentre ci si avvicina, torna a farla da padrona l’erba, ed infatti numerose sono le vacche al pascolo, malgrado molte pendenze non siano certo dolci. Più di tutto, resta l’impressione di un capanno degli attrezzi costruito sul lato opposto della valle, in un tratto di strapiombo che pare essere sui sessanta gradi. Il sentiero si addentra nel Lasoerling e perciò a dominare sono il verde dei prati e le sfumature grigie delle rocce. Il bel sole ravviva però i colori, e le piogge dei giorni precedenti favoriscono la vivacità dei manti erbosi così che l’impatto è meno severo rispetto a quello ricevuto il giorno del rifugio Lassnitzen. Ad alleggerire le impressioni anche la mancanza di alberi, che,vista l’altezza, si limitano a costituire fitte pinete che però si stendono ai nostri piedi.

Il rifugio ha la struttura completamente in legno ed è di un bel colore marrone chiaro che si armonizza col paesaggio. E’ piazzato in posizione strategica, sul piccolo pianoro che contiene il piccolo lago attorno al quale si addensano le mucche intente a pascolare. L’inquadratura del lago, del rifugio e, come quinta, delle montagne del lato sinistro della valle è uno dei manifesti della Virgental e, dopo averla vista dal vivo in una giornata serena, c’è poco da discutere sulla scelta. Anche noi ci sbizzarriamo con la macchina fotografica nella combinazione dei tre elementi – lago, rifugio, montagne – ma non prima di esserci sfamati.

C’è abbastanza gente, ma troviamo posto ad un tavolone sotto la veranda d’ingresso. Mangiamo bene, ma con prezzi leggermene più alti che altrove: probabilmente si paga anche la vista, oltre alla popolarità della destinazione. Numerosi sono gli avventori che proseguono verso il successivo rifugio Lasoerling, con ogni probabilità per pernottarvi, come del resto tutti coloro che incontriamo sulla via del ritorno passeranno la notte accanto allo Zupalsee. L’alta via del Lasoerling, una volta saliti in quota, non presenta difficoltà particolari e, confidando in qualche giorno di bel tempo, si può organizzare un’escursione in alta montagna lontana dal turismo trafficato, ricca di splendidi paesaggi e belle emozioni.

Finito di mangiare, ci avviamo lungo la sponda del lago, dribblando cacche bovine e piccoli trabocchetti creati da minimi affluenti quasi sotterranei. Giunti dalla parte opposta rispetto al rifugio, stabiliamo un fugace campo, per godere di un breve momento di riposo e della vista da cartolina di cui sopra. Il pianoro è veramente piccolo: subito alle nostre spalle, il terreno comincia a salire, anche se rimane verde ancora per un bel pezzo prima che le rocce prendano il sopravvento. Non facciamo a tempo a sistemare le giacche a vento per combattere l’umidità del suolo che Chiara chiede di andare in bagno, il che equivale tornare al rifugio: e sì che, prima di lasciare quest’ultimo, è stata più volte interpellata in merito alla necessità di una sosta ai servizi. C’è poco più del tempo per andare e tornare, inclusa qualche sosta per ammirare animali, e poi tocca ripartire: l’ultimo taxi che scende è alle sedici e trenta e non vogliamo ripetere l’esperienza di Goldried nel 2007. Una buona provvista d’acqua e via, mentre i colori caldi del pomeriggio cominciano a prendere il sopravvento.

A questo punto, dovrei ripetere che, man mano che si avvicina il tramonto, le tinte si fanno più calde e tutto il panorama assume un aspetto ancor più affascinante. Siccome l’ho già fatto un numero imprecisato di volte, voglia il lettore darlo per implicito: i miei scarsi mezzi narrativi hanno oramai terminato la scorta di varianti sul tema. E’ comunque una camminata assai piacevole quella che affrontiamo, e più volte ci voltiamo indietro per ammirare quanto già visto in mattinata sotto una nuova luce. E, quasi incredibile, davanti a noi il Grossglockner è ancora sgombro di nubi, a parte una nuvoletta che gironzola attorno alla cima senza coprirla. Il sole è caldo, ma soffia una brezza che ne mitiga assai gli effetti e raggiungiamo il Wetterkreuz senza problemi o ritardi: anzi, siamo discretamente in anticipo sull’orario di partenza.

Ce ne stiamo a far rilassare i muscoli delle gambe, osservando chi arriva e verificandone il numero con il numero dei posti dei taxi. Qualcuno prosegue a piedi verso Virgen – due nostri connazionali giovani e forti – mentre una compagnia di cinque o sei persone si piazza nel rifugio per passarvi la notte: è tutto uno stendere di indumenti sudati e scarponi roventi, poi ci si sistema ad aspettare la cena leggendo o ammirando il paesaggio dalle numerose panchine disposte tutt’attorno. Quando arrivano i taxi, ovviamente, il numero di persone da far salire è quello giusto, e così si può partire per un’ultima avventura.

Se pensavamo di essere stati sballottati durante la salita è perché non avevamo ancora visto niente. Al posto di guida, invece del ragazzo che rallentava prima di ogni avvallamento troppo pronunciato, si piazza un ‘vecchietto’ (come Chiara lo ha etichettato quasi subito) che, senza pensarci due volte, si getta a capofitto nella discesa. Nessuna frenata preventiva, accelerazioni nei rari casi di rettilineo superiore ai dieci metri, un paio di scorciatoie nel bosco ed in notevole pendenza: venticinque minuti di ballonzolamento impazzito, qualche botta fra di noi che siamo stipati sull’ultimo sedile, ma anche un grande divertimento, da parte delle bambine ma non solo. Non c’è neppure il tempo per preoccuparsi degli strapiombi che ci circondano, tanto i nostri occhi sono incollati sulla strada – anche se strada è parola un po’ grossa – alla ricerca di buche di cui riuscire ad anticipare l’effetto. Scendiamo davanti a Joast felici ma un po’ suonati, e così ci dimentichiamo di ringraziare l’autista per il coinvolgente viaggio sull’ottovolante: ci limitiamo a ritirare gli zaini e ad avviarci verso casa lungo le strade tranquille di Virgen.

Mercoledì 20 agosto Dopo giornate così intense, la sosta è d’obbligo. Malgrado il tempo non sia male – non pulitissimo ma prevalentemente soleggiato – ce ne stiamo quasi sempre in casa e le uscite sono limitate alla spesa e ad una visita al bar. Un po’ di compiti, un po’ di giochi nella sala comune, qualche ora sul balcone a godersi il sole: nient’altro da tramandare ai posteri.

Giovedì 21 agosto Dopo la pausa, ritorniamo a camminare in una giornata che sarà caratterizzata da qualche pasticcio di troppo. La nostra meta è la malga Zunig, che sta a 1.846 m e, detta così, parrebbe una stupidata. Solo in apparenza, perché la realtà è che bisogna scendere a Matrei per poi leggermente risalire nella frazione di …, ma i metri di dislivello restano in ogni caso oltre i seicento. La giornata non è granchè, le nubi sono basse e spesse e, anche se le previsioni propendono generalmente per il bello, non paiono intenzionate a sollevarsi in breve tempo. Però il tempo sta per scadere, ed allora decidiamo di partire.

Gli accessi sono due: una strada forestale, che inizia al terminare di un tratto asfaltato, ed un sentiero che attraversa il bosco prima di confluire nella strada suddetta. Come in altri casi, la carrozzabile sale con la dovuta calma, mentre il sentiero pare più impegnativo. Con il doppio scopo di evitare le insidie del sottobosco umido e di imboccare un percorso più facile e meno aperto alle recriminazioni, scegliamo la via semplice. E qui nasce il primo problema: all’imbocco del sentiero, c’è il parcheggio Guggenberg – di lì parte anche l’itinerario per la malga Arnitz, non è molto grande ma qualche posto c’è ancora – dove inizia la strada bianca no. Siamo i soli decisi a passar di lì: per fortuna che gli anziani padroni della fattoria piazzata nei pressi ci consentono di parcheggiare l’auto accanto ad un fienile. Se stesse per loro, potremmo anche salire con la macchina – in effetti non ci sono sbarramenti – ma decidiamo che non è proprio il caso: siamo lì per salire a piedi, e poi ricordiamo bene la strada bianca di due giorni prima.

Tra indecisioni e tira e molla, ci avviamo in ritardo e, nella confusione, la macchina fotografica resta in macchina: così finisce che della giornata restano solo tre fotografie fatte al nostro ritorno e che riprendono parte della fattoria e la conca di Matrei.

Non è che per il primo tratto ci sia molto da immortalare: saliamo attraverso una fitta pineta e, in aggiunta, siamo subito avvolti dalle nuvole che, in un certo senso, ci riportano a casa in mezzo alla nebbia. Come atteso, la salita non è eccezionale, a parte un paio di tratti un po’ più in pendenza, ma inevitabilmente è più lunga, con una serie di ampi tornanti che a volte paiono allontanarsi in maniera ingiustificata dalla giusta direzione. L’avanzata è inframmezzata dalle soste di Chiara a caccia di frutti di bosco e dalla necessità di far passare un paio di auto che risalgono da valle: però l’allenamento dei giorni precedenti fa sentire i suoi benefici effetti e la camminata, benché in solitaria e, per lunghi tratti, nella penombra è piacevole. Ci colpisce molto il gran numero di piante malate che possiamo osservare: una rete sottile e soffocante si stende sui rami facendoli infine ingiallire e causando la morte dell’albero. Ci sono i segni della lotta contro la malattia: molti abeti sono stati tagliati e rimpiazzati con nuove piantine: peccato che anche molte di queste ultime siano già state contagiate.

Dopo un paio d’ore di buon passo – in ogni caso più lenti di quanto ci avesse pronosticato la settantenne contadina alla partenza – giungiamo alla nostra meta. Per fortuna, la malga si palesa solo ad un paio di tornanti dall’arrivo, quando ci affacciamo sull’ampia radura che la circonda, e così vederla e terminare la fatica è tutt’uno. Il panorama lascia ancora a desiderare e il sole resta coperto dalle nubi che vanno e vengono a mezz’altezza, mentre più in alto si intuisce il cielo azzurro. I tavoli e le panche sistemati di fronte al rifugio sono per la maggior parte pieni, ma riusciamo a trovare posto in uno piazzato accanto al muro e all’entrata: consente di godere del sole quando fa il piacere di mettere fuori i raggi e protegge dall’aria fresca che comunque soffia.

Ci serve una simpatica signora sulla sessantina e mangiamo più che discretamente per un prezzo veramente minimo. Tanto per provare qualcosa di nuovo, rivolgiamo la nostra attenzione al Leberkaese, servito in copiosissima quantità in un piatto comprendente anche un uovo al burro ed una montagna di patate al forno. Con un’attenzione appena maggiore al tedesco, si sarebbe potuto tradurre correttamente ‘pasticcio di fegato’ invece andiamo un po’ alla cieca, con la sola rassicurazione che si tratti di un piatto di carne. Ovviamente Giulia si blocca un po’, anche se il sapore è gustoso ed affumicato, però le porzioni sono talmente abbondanti che nessuno resta con la fame. Le dimensioni delle portate sono uno dei ricordi più nitidi: chi, agli altri tavoli ha ordinato il kaiserschmarrn o l’omelette ai mirtilli non ce la fa a finirli, e se li porta a valle in un bel fagotto di carta argentata.

Potrebbe parere strano che ci sia differenza tra kaiserschmarrn e omelette ai mirtilli, eppure è così. Il primo viene servito a ‘brandelli’ di pasta, è decorato con uvetta e non è obbligatorio che sia guarnito con marmellata di mirtilli: come già visto, viene servito anche con mousse di mele o altre varianti di frutta. La seconda è una vera e propria frittata, anche se fatta con gli stessi ingredienti, piegata in due e farcita con la confettura: una vivanda altra tre o quattro dita ed estesa quanto mezzo piatto (ma di un piatto austriaco, monoportata e perciò grande…).

Mentre mangiamo e concludiamo il tutto con un paio di grappe, osserviamo il via vai. Molti proseguono verso il lago Zunig, ed altri vanno o vengono dalla malga Arnitz, che si raggiunge su un sentiero senza troppe difficoltà – l’altezza è simile, 1.848 metri – in poco più di un’ora. A dire il vero, siamo anche tentati, per poi prendere il sentiero che scende da quest’ultima malga ed in qualche modo si riunisce alla nostra strada circa a metà costa: in questo modo non sarebbe neppure necessario arrivare a Guggenberg e poi risalire verso la nostra auto. L’idea non è però accolta con il giusto entusiasmo, anche perché tra una cosa e l’altra si è ormai fatto abbastanza tardi e tutto il giro finirebbe per portarci via l’intero pomeriggio.

Con il passare delle ore, le nuvole hanno iniziato ad alzarsi e, prima che ci avviamo sulla via del ritorno, il panorama comincia a mostrarsi. Dalla malga si dovrebbe vedere anche il Grossglockner, ed infatti i primi contrafforti del massiccio diventano via via più chiari, mentre la cima resta sempre inaccessibile ai nostri occhi. Abbastanza bene invece si possono ammirare soprattutto le montagne che circondano Matrei, anche se una costante foschia tende ad appiattire la vista, togliendo brillantezza ai colori.

Ben concentrati, ci guardiamo attorno per qualche tempo, anche perché la mancanza della macchina fotografica ora si fa sentire. Infine intraprendiamo la via del ritorno e di buon passo scendiamo in un tempo che solo una settimana prima non ci saremmo mai immaginato: anche Chiara ha preso un po’ di confidenza con la discesa e le fermate, più che alle lamentele, sono dovute ai frutti di bosco da cogliere ed assaggiare. Una volta arrivati, non possiamo far altro che ringraziare ancora una volta i nostri gentili ospiti, scattare il paio di foto di cui sopra e avviarci verso Virgen mentre il sole, secondo tradizione, fa capolino sempre più insistente.

Venerdì 22 agosto Ultimo giorno. La giornata non è trascendentale, ma le nubi sono alte, le cime sgombre e abbastanza spesso occhieggia il sole. Sarebbe da sfruttare, ma una rivolta della base costringe a scendere a più miti consigli. Rinviamo dunque la visita al rifugio Essener-Rostocker – circa due ore e mezza, ma ‘facilmente raggiungibile per bambini ed anziani’ – al prossimo soggiorno a Virgen e ci limitiamo alla breve passeggiata sino alla malga Stoan.

Il sentiero è lo stesso: versiamo l’ultimo obolo al parcheggio Stroden dopo Praegraten e, lasciata la macchina, ci avviamo dalla parte opposta rispetto alla strada che conduce alle cascate di Umball. Quasi subito, sulla sinistra inizia la Dorfertal: la strada forestale, ampia, sale in modo appena percettibile sulla destra del torrente. Dopo cinque minuti, passiamo accanto ad una casa in legno in cui si affittano appartamenti: posizione suggestiva, ma la costruzione è un po’ tagliata fuori dal mondo e le montagne attorno parrebbero non assicurarle un gran numero di ore di sole.

Altri dieci minuti e siamo già a destinazione: attraversiamo il corso d’acqua su un ponte di legno, passiamo una di quelle recinzioni per bestiame blandamente elettriche e possiamo entrare nell’ampio spazio – circondato da una palizzata di legno e disseminato di numerosi tavoli – di fronte alla malga. Anche qui, come anche la Pebell e la Islitzer, più che di malga si tratta di un ristorante e, visto che ormai è mezzogiorno passato, cerchiamo un posto non troppo al sole e non troppo all’ombra e ci accomodiamo.

Un’ultima occhiata al sentiero che prosegue verso l’ Essener-Rostocker per poi mettere il naso nel menù. Dopo un po’ di tira e molla soprattutto da parte di Giulia – che ci mette una vita per ordinare un piatto di gnocchetti spadellati al formaggio, serviti su un padellino e con, come unica nota negativa, l’eccesso di formaggio – riusciamo a farci servire, scoprendo così che le foto appetitose, piazzate come pubblicità a Stroden, non mentivano. Chiara passa l’attesa accanto alle gabbie dei conigli e dei porcellini d’India piazzate in un angolo: le va ancor meglio quando, dopo pranzo, questi ultimi vengono tolti dalla prigionia e distribuiti fra i bambini ospiti per un po’ di coccole e qualche filo d’erba da sgranocchiare.

Finita l’ora d’aria degli animaletti, sostiamo ancora un attimo e poi ci avviamo sulla breve via del ritorno: tra noi e le valigie da finire resta solo un’ultima sosta da Joast.

Sabato 23 agosto Lasciamo Virgen che è ancora buio, arriviamo in autostrada a Bressanone che sono le sette, ma il viaggio fino ad Affi si rivela comunque uno strazio. Velocità di crociera sugli ottanta all’ora, strappi continui con accelerazioni ed improvvisi rallentamenti. Non c’è niente da fare, meglio mettersi il cuore in pace: viaggiare in questo sabato d’agosto ha un prezzo da pagare.



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