Da Windsor alle bianche scogliere di Dover: 14 giorni on the road nel sud dell’Inghilterra

L’idea di tornare a Londra, dopo i giorni che vi avevamo trascorso nel 2023, ronzava in testa da un po’, ma volevamo anche tornare a fare un itinerario on the road come avevamo già fatto per Francia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Scozia. Avevo pronto un itinerario nel sud dell’Inghilterra, ed è stato facile adattarlo inserendoci la capitale e tagliandolo per condensare tutto in due settimane di ferie. Abbiamo impiegato i voucher regalo che avevamo a disposizione per circa 2.500 euro, utilizzandoli presso la nostra agenzia di viaggi per volo (con un bagaglio da 20 kg in stiva) e 7 notti di hotel a Londra. Abbiamo prenotato le altre sistemazioni con larghissimo anticipo utilizzando Booking.com, poi in successione i biglietti per le attrazioni più turistiche di Londra e infine pub e ristoranti, per evitare code e sorprese dell’ultimo minuto, ma non lasciando a garanzia la carta di credito, per sentirci liberi di modificare i nostri piani direttamente in loco. Costruire un itinerario personalizzato secondo i nostri gusti non è stato facile, la regione oggetto dei nostri desideri è densa di attrattive, e c’è voluto tanto tempo per affinare un itinerario quasi a prova di bomba. Per Londra, ho cercato di organizzare ogni giornata considerando zone e quartieri, e in alcuni casi ho sfruttato i percorsi delle singole linee della metro per ottimizzare i tempi e fare pochi cambi. Il risultato ci ha riservato emozioni, sorprese e tanta soddisfazione, regalandoci una vacanza su misura che si è rivelata davvero tra le più belle di sempre.
Indice dei contenuti
Diario di viaggio in Inghilterra
Giorno 1 – Covent Garden
Il nostro volo Ryanair da Bergamo Orio al Serio parte puntuale appena dopo le 10. Per il parcheggio coperto prenotato per tempo da casa, abbiamo pagato 189 euro per le due settimane in cui la macchina dovrà rimanere ferma.
Siamo partiti da Parma molto in anticipo per evitare il traffico e non rischiare di tardare al gate, ma in realtà l’attesa in aeroporto non è stata poi così lunga. Arriviamo a Stansted alle 11.25, recuperiamo la valigia che avevamo fatto mettere in stiva e prendiamo il comodissimo Stansted Express, che – in 40 minuti e con poco più di 30 sterline – ci porta nel cuore di Londra, alla stazione di Liverpool Street. Ricarichiamo le due Visitor Oyster Card che avevamo conservato dal nostro soggiorno del 2023 e prendiamo la metro, che in poche fermate ci conduce a pochi passi dal Thistle Bloomsbury Park Hotel, nel quartiere di Bloomsbury. Al nostro arrivo, l’impiegata della reception ci accoglie con gentilezza e prende in consegna la custodia con il vaccino in gocce che devo prendere ogni giorno, e che dev’essere tenuto in frigorifero. L’agenzia di viaggio aveva fatto domanda per questo piccolo servizio poco dopo la prenotazione del soggiorno, e in effetti la richiesta è stata recepita dall’hotel senza alcun problema. La camera è pronta, quindi saliamo e ci diamo una veloce rinfrescata. È un po’ meno spaziosa rispetto a quella in cui avevamo dormito due anni fa, ma in ogni caso trascorreremo poche ore in hotel e farà sicuramente al caso nostro. Usciamo e ci dirigiamo al Fishoria, dove la mia prenotazione ci risparmia una lunga attesa in una fila piuttosto consistente. Ordiniamo 2 porzioni di pesce fritto misto, ma alla fine 52 sterline sono un po’ troppe per un pranzo discreto con una pinta di birra e una bottiglia d’acqua.
Torniamo in camera a riposarci un po’, poi usciamo con calma verso le 5 e ci incamminiamo in direzione Covent Garden. La tappa intermedia è Neal’s Yard, celebrato soprattutto su Instagram. Vedremo se è davvero così fotogenico! Dista davvero pochissimo da Covent Garden, e devo dire che è abbastanza carino – è davvero poco più di un cortiletto, ma trovo più interessante la vicina Neal Street, pienissima di bei negozietti colorati, pub e ristoranti. Scattiamo qualche foto, più che altro è molto bello un murales tra Neal Street e Neal’s Yard in cui una Lady Diana in bianco e nero ha le sembianze di una Mary Poppins con la borsa di Harrods. Davide mi scatta una foto in cui sembra che il murales mi tenga sotto il suo ombrello, è davvero una piccola perla inaspettata.
Covent Garden, a pochi passi da qui, è affollato come sempre. C’è tanta gente, musica, mercatini, artisti di strada, pub e ristoranti in ogni dove. Facciamo una passeggiata tutto intorno, poi verso le 19.30 andiamo al pub The White Lion, che avevamo apprezzato nel 2023. Adesso è stato acquisito da una catena, e il menù si è uniformato ad uno standard piuttosto classico e consolidato. Ho voluto comunque prenotare qui perché è un bel pub d’epoca, e alla fine ceniamo bene con due porzioni di “sausages and mash” (salsicce e purè) e due belle pinte di birra. Il conto è di 49 sterline: non è basso, ma siamo comunque nel cuore di Londra. Siamo abbastanza soddisfatti, e riprendiamo il cammino per andarci a fare una bella notte di sonno in hotel.
Giorno 2 – Natural History Museum, Science Museum, Royal Albert Hall
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Come prima giornata piena di questa vacanza, quella di oggi si prospetta piuttosto intensa e piena di aspettative. Dopo una sostanziosa full English breakfast (e anche continentale!) in hotel a base di uova, salsicce, bacon, croissant e frutta fresca, prendiamo la metro fino alla stazione di South Kensington, dove percorriamo a piedi un lunghissimo corridoio che ci porta direttamente ad una delle strade più famose di Londra: quella dei musei, Exhibition Road. In pochi metri, troviamo infatti tre dei più bei musei della città. Il Victoria and Albert Museum, che ho visitato tanti anni fa durante il mio primo viaggio a Londra, il Museo di Storia Naturale e il Museo della Scienza. Sono proprio questi ultimi due l’obbiettivo della nostra mattinata in questo quartiere. L’accesso ad entrambi i musei è gratuito, ma per sicurezza ho preferito comunque prenotare l’ingresso da casa.
Arriviamo davanti al Natural History Museum ben prima dell’orario di apertura, ma approfittiamo del tempo libero per fare due passi intorno a questa bellissima e grandiosa costruzione neogotica e scattare le prime foto nel giardino esterno, prima di metterci in coda per l’ingresso nella nostra fila dedicata a chi possiede già il biglietto con l’orario di ingresso già prenotato. Alla prima occhiata, rimaniamo stupiti: la Central Hall ricorda davvero una immensa cattedrale medievale, e gli scheletri di grandi animali esposti in questo grande ambiente sono particolarmente impressionanti. La zona Blu, che visitiamo praticamente per intero, è dedicata a dinosauri, pesci, anfibi e rettili, invertebrati marini, mammiferi (bellissimo il panda Chi Chi!), e alla biologia umana; la zona verde, che percorriamo molto velocemente, accoglie uccelli, rettili, fossili marini, minerali e meteoriti; la zona arancione, con il Centro Darwin, è praticamente chiusa al pubblico (non ne conosco il motivo). Cerchiamo quindi la zona rossa, che analizza l’evoluzione della Terra e, dopo una miriade di passi alla ricerca del cartello giusto, riusciamo a trovare la scala mobile/tunnel rosso che pare voglia veramente portarci nel centro della terra. Qui arriviamo ad una sezione dedicata allo studio geologico del nostro pianeta, e sperimentiamo la stanza in cui è possibile rivivere, sia grazie alle immagini proiettate su alcuni schermi, sia per la ricostruzione dei movimenti tellurici veri e propri, un disastroso terremoto in Asia. L’esperienza è per fortuna molto breve, e – per me, decisamente da non ripetere. Siamo mediamente delusi dal Museo, l’allestimento è molto bello e la struttura è grandiosa, ma i contenuti sono più pensati per i più piccoli.
Siamo in anticipo sul programma, ma meglio così. Accediamo subito al vicino Science Museum grazie ai nostri biglietti gratuiti già ricevuti via e-mail (altrimenti avremmo dovuto fare comunque la procedura in loco, presumibilmente per un controllo numerico degli accessi) ed entriamo nella prima grande sala. Vicino all’ingresso, troviamo infatti la Energy Hall che, attraverso l’esposizione delle macchine che l’anno resa possibile, racconta la storia della rivoluzione industriale. Le macchine esposte sono corredate da esaurienti didascalie che, insieme alle tecniche di animazione presenti, ci permettono di capirne perfettamente il funzionamento. La sezione dedicata allo spazio è chiusa, ma non ci scoraggiamo e saliamo al terzo piano. E qui, la grande sorpresa: in questa zona sono esposti alianti, mongolfiere e vecchi aeroplani, come il Gipsy Moth, con cui Amy Johnson volò in Australia nel 1930, ma anche diversi aerei impiegati durante le due guerre mondiali. Al quarto e al quinto piano, facciamo una rapida ricognizione, dato che ormai siamo stanchi. Non possiamo comunque ammirare tutti gli oggetti che raccontano la storia della medicina e della veterinaria, dagli albori fino agli studi delle malattie più recenti.
In qualche modo, verso le 13.30 caracolliamo fuori dal museo, e prendiamo Exhibition Road. Il pub che avevo prenotato per le 13.30 e poi rimandato alle 14.30 è pienissimo, e ci chiedono di ritornare più tardi. Figuriamoci… la zona è piena di posti in cui possiamo farci un bel pranzetto, possiamo senza dubbio trovare una soluzione più immediata. Detto, fatto. A pochi metri dal pub, troviamo l’Oriental Canteen: sembra un posto un po’ dimesso, non c’è praticamente nessuno, il menù è economico ma invitante. Entriamo, ci accomodiamo ad un tavolo e in men che non si dica pranziamo lautamente con neanche 30 sterline a base di riso fritto con uova e noodles con gamberi e verdure. I bicchieri non sono contemplati in questo piccolo angolo d’oriente, ci scoliamo le nostre birre direttamente dalle bottigliette di vetro. Siamo oltremodo soddisfatti, al pub avremmo speso almeno 20 sterline in più mangiando la metà, e certamente non avremmo trovato piatti più gustosi di questi. Il cielo si è annuvolato, e iniziano a scendere le prime gocce di pioggia. Non ci facciamo scoraggiare, e ci incamminiamo verso la Royal Albert Hall, che volevo tanto vedere almeno da fuori. Simbolo iconico del patrimonio culturale di Londra, la costruzione si erge maestosa nel quartiere di South Kensington. Voluto dalla regina Vittoria per commemorare l’amato marito, il principe Alberto, l’edificio fu aperto al pubblico per la prima volta nel 1871. Da allora, ha ospitato una serie impressionante di eventi. La peculiare struttura a cupola e i dischi acustici appesi al soffitto hanno creato una sala davvero unica, capace di stupire anche solo all’esterno. Percorriamo il perimetro della Royal Albert Hall e ci troviamo di fronte al Memoriale del Principe Alberto, uno splendido insieme scultoreo che ricorda anch’esso l’Illuminato marito della Regina Vittoria.
Vorremmo andare ad Hyde Park, che non sarebbe neanche tanto distante, ma inizia a piovere insistentemente e quindi percorriamo buona parte dei Kensington Gardens, tenendoci più vicini alla fermata della metro rispetto ad Hyde Park, di cui comunque, alla fine, vediamo il pacifico laghetto. Siamo ormai stanchissimi, quindi rientriamo in hotel con la linea della metro Piccadilly e ci riposiamo un pochino prima di una bella cenetta al nostro adorato Master Wei Xi’An, che avevamo scoperto nel 2023 perché situato in una laterale a pochissimi metri dal nostro hotel. Anche stasera, i nostri amici dagli occhi a mandorla non ci deludono. Accediamo subito al nostro tavolino grazie alla nostra prenotazione (il ristorante è piccolo ed è sempre affollato), e ceniamo molto bene a base di biangbiang (pasta fatta a mano tipica della zona dello Xi’An, quella dell’Esercito di Terracotta – ricordano le nostre pappardelle) con verdure e manzo e riso fritto con le uova. Con due belle pinte di birra, il conto è di quasi 50 sterline, ma la qualità di ciò che abbiamo mangiato è davvero ottima. Il servizio è stato veloce ed efficiente come lo ricordavamo. Facciamo due passi per andare a vedere un ristorante in cui vorrei andare mercoledì sera, non l’ho prenotato perché dal sito non era possibile farlo. Al Canton Element, il menù esposto è invitante, i prezzi sono più che accessibili. Prenotiamo un tavolo per il 6 di agosto, speranzosi di aver fatto una buona scelta. Arriviamo fino al vicino supermercato Sainsbury, dove prendiamo un caffè e qualche gustoso biscotto al cioccolato. Poi a nanna, anche domani sarà una giornata intensa alla scoperta delle meraviglie di Londra.
Giorno 3 – Tower Bridge, Sky Garden
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Ho prenotato l’ingresso (16 sterline a testa) per il Tower Bridge per le 10.10, arriviamo in anticipo (nonostante la sosta fotografica alla Torre di Londra – visitata nel 2023 – che si staglia improvvisamente all’orizzonte all’uscita della metro) ma ci fanno comunque entrare. Dopo i controlli di sicurezza alle borse, iniziamo la lunga salita su per la prima torre: ci sarebbe anche l’ascensore, ma ci suggeriscono di prendere le scale perché ci sono cose interessanti da vedere. Indubbiamente, questa interminabile ascesa ci permette di vedere la struttura interna della torre del ponte simbolo di Londra. Arriviamo alla fine ansanti, ma all’uscita il panorama davanti ai nostri occhi e ai nostri piedi è quantomeno affascinante: il Tamigi scorre vivace e fa da scenografia alla vitalità di questa splendida città. Grazie a delle robuste lastre di vetro posizionate ai nostri piedi, possiamo vedere il traffico che scorre sul ponte. È qualcosa che mette alla prova le vertigini, ma è senz’altro una vista piuttosto inusuale. Visitiamo anche i locali in cui si possono ancora vedere i motori e le turbine che venivano usati per il funzionamento del ponte – non dimentichiamoci che la costruzione fu terminata nel 1894! È stata una visita interessante, magari non da quelle da urlo che ti emozionano, e forse che non valeva le 32 sterline spese, ma almeno ci siamo tolti la curiosità e abbiamo visto davvero da vicino uno dei simboli di Londra. Con un cambio di metro, raggiungiamo la stazione di Waterloo, a pochi passi dal Southbank Book Market, che si tiene tutti i giorni sotto uno dei ponti sul Tamigi. Anche in questo caso, avevo letto grandi cose su questo mercato del libro usato, ma oggi troviamo un paio di banchetti aperti con una varietà piuttosto ristretta di proposte. Sono molto delusa, e riprendiamo la metro per recarci nel quartiere Bank, uno dei più prestigiosi della città, quello della Borsa e dei colletti bianchi. La prima tappa in zona è il Leadenhall Market, che raggiungiamo dopo una breve camminata dalla fermata della metro. È celebre non solo per la sua architettura vittoriana, ma anche per essere stato il set di numerosi film, tra cui alcune scene di Harry Potter e la pietra filosofale. Lo percorriamo tutto, meravigliati dalla bellissima struttura che ci circonda, che lo rende senza ombra di dubbio una delle gemme architettoniche di Londra. Per i nostri gusti, però, ci sono un po’ troppi dandy in giro, per il pranzo cercavamo qualcosa di più rustico e penso proprio che il Borough Market, a circa un chilometro a piedi da qui, possa fare al caso nostro. Gambe in spalla, allora! Prima di arrivare al secondo mercato di oggi, strada facendo ci fermiamo presso i resti della chiesa di St. Dunstan in the East. La torre e il campanile, insieme alle mura nord e sud, sono le uniche parti ancora in piedi: il resto fu spazzato via nel 1941 da una bomba tedesca. Decidendo che fosse troppo complicato ricostruirla, la Chiesa anglicana fu costretta ad abbandonarla. Nel 1967 la City di Londra trasformò le rovine di St Dunstan in un parco pubblico, e la perdita della Chiesa divenne un guadagno per Londra. Gli alberi crescono attraverso le finestre e le viti si avvolgono attorno alle mura, regalando a ciò che ci circonda un’atmosfera particolare e molto rilassante. Ci sono un sacco di studenti e colletti bianchi in pausa pranzo all’ombra del verde: chi mangia, chi ascolta musica, chi legge un libro. Vorrei anch’io poter far pausa dal lavoro in un posto come questo!
Arriviamo nei pressi del Borough Market ormai stanchi e affamati. Poco prima del mercato, sulla destra, scorgiamo la bellissima facciata di quella che scopriamo essere la Southwark Cathedral. Non entriamo, ma scattiamo qualche bella foto. Il mercato, poco più avanti, è a dir poco gremito. La folla è impressionante, quasi in ogni bancarella ci sono file impressionanti. Riusciamo a malapena a capire quali siano i prodotti proposti e messi in bella vista, ma ciò che scorgiamo è senza dubbio molto invitante. Paella, panini, focacce, frutta fresca, carne, pesce, c’è davvero di tutto. Questo bellissimo e coloratissimo mercato coperto è – a ragion veduta – considerato “la dispensa di Londra”. Quello di Borough è infatti il mercato alimentare della città, un punto di riferimento per esperti del settore o aspiranti tali per la varietà di cibo e di prodotti biologici provenienti da tutto il mondo, anche cucinati e serviti sul momento. Mentre Davide si mette in fila per un panino, io mi compro un pezzo di focaccia e una fetta di cheesecake. Il panino di Davide, dal prezzo davvero folle, è enorme, e pieno di carne e verdura. Spesa totale per il pranzo di oggi (bottiglietta d’acqua – carissima! – inclusa): 22 sterline. Purtroppo, non riusciamo a trovare un angolino per sederci e mangiare con calma, c’è davvero tantissima gente e non possiamo fare altro che mangiare in piedi in un angolo vicino ad un pub.
L’appuntamento allo Sky Garden, che tanto ho faticato a prenotare, è per le 15, quindi ci rimettiamo in cammino e arriviamo sotto il grattacielo con largo anticipo. C’è un vento terribile qui sotto, e provo a chiedere se sia possibile anticipare il nostro ingresso. Inutile, dobbiamo aspettare l’orario della prenotazione. Ci sediamo su una panchina e aspettiamo, intanto leggo qualche notizia su ciò che abbiamo visto oggi. Alle 15 proviamo a chiedere nuovamente alle guardie se possiamo entrare, ma veniamo mandati alla fine di una lunga fila di persone sul lato opposto rispetto all’entrata e a dove eravamo seduti. Averlo saputo prima… le mie flebili proteste servono a poco, comunque per fortuna la fila scorre molto velocemente e in men che non si dica siamo nell’ascensore che ci porta al 35° piano del 20 Fenchurch Street, il grattacielo della City conosciuto anche come Walkie-Talkie per la sua forma più stretta alla base e più larga in cima. Ed è proprio la parte superiore del palazzo a vetri che si sviluppa in altezza su tre piani, dal 35° al 37°, che è diventata una delle attrazioni più affascinanti di Londra, il celebre Sky Garden, i giardini pensili più alti della capitale britannica. Pensato come parco pubblico della City of London, si tratta di una combinazione di acciaio e vetro dalle pareti al tetto, che offre un panorama mozzafiato sul Tamigi e sulla City of London, trovandosi l’edificio a torreggiare, a poca distanza, su monumenti come il Tower Bridge e la Torre di Londra a Est, e il complesso di edifici della zona di Bank, dove si individuano costruzioni medievali come la Great Hall di Guildhall o alle sue spalle il Barbican. Altri enormi grattacieli sono alle spalle, visibili dal lato opposto all’ingresso del giardino, mentre la prima immagine che si coglie è quella dello Shard di Renzo Piano che occupa il campo visivo appena varcata la soglia. Alle estremità della grande terrazza inferiore partono due larghe rampe di scale che costeggiano due grandi aiuole verticali che accolgono una limitata varietà di piante mediterranee. Al centro di questo giardino, l’edificio a due elevazioni che contiene la brasserie e il ristorante, che non consideriamo neanche dopo aver adocchiato il prezzo esagerato di un caffè. Appena arrivati, ci mettiamo in fila per il bagno, che non si rivelerà molto pulito. Bisogna adattarsi, si sa, e la cosa più importante è il luogo in cui ci troviamo. Siamo letteralmente affascinati sia dalla struttura che dalla vista che il grattacielo ci regala. Scattiamo tantissime foto, e l’ora che abbiamo a disposizione con il nostro biglietto passa davvero in un lampo.
Alle 16, comunque, ho prenotato l’ingresso per un’altra galleria panoramica gratuita, il Lookout, a 400 metri da qui. Tardiamo solo di qualche minuto, ma gli addetti alla sicurezza non battono ciglio e raggiungiamo velocemente il 50° piano dell’8 Bishopsgate, uno dei grattacieli più alti della City di Londra. Se lo Sky Garden era molto affollato e rumoroso, qui regnano la pace e la tranquillità. Siamo praticamente da soli! Scattiamo tante foto e ci prendiamo un po’ di tempo per riposare e ammirare in silenzio il bellissimo panorama che si staglia davanti ai nostri occhi, dietro le immense vetrate di questo altissimo grattacielo. La calma che c’è qui ci fa apprezzare tutto anche di più rispetto allo Sky Garden, molto bello ma davvero troppo affollato. A quanto pare, i turisti non sono al corrente dell’esistenza del Lookout, e menomale! Le mie ricerche, se non altro, ci hanno regalato un bel posticino tranquillo, da dove possiamo scrutare Londra da un’altezza davvero importante. Poco prima delle 17, veniamo invitati ad uscire, la chiusura è imminente. Salutiamo il gentilissimo addetto che ci aveva accolto all’ingresso, e andiamo a prendere la metro che ci riporta in hotel. Da casa, non avevo prenotato nulla per cena, lasciandoci la scelta libera. Guardando su Google, avevo trovato – non lontano dal nostro albergo – un ristorantino giapponese che mi ispira molto; quindi, l’ho prenotato in anticipo nel pomeriggio,per essere sicura di trovare posto ed evitare l’attesa. Il Fushan Japanese Restaurant, in New Oxford Street, si è rivelato un’ottima soluzione: spendiamo 47.63 sterline per un set composto da ravioli di verdure, zuppa di miso e noodles ai frutti di mare, poi tentacoli di calamaro fritti, spaghettoni udon in brodo con carne di manzo e una bottiglia d’acqua. Usciamo molto soddisfatti, e facciamo ritorno in camera per una notte di meritato riposo.
Giorno 4 – Marylebone, Grant Museum of Zoology
La prima tappa di oggi è l’Imperial War Museum, che raggiungiamo con un solo cambio di metro dall’hotel. Questo museo, gratuito come tanti altri musei della città, fu inaugurato il 5 marzo 1917, quando ancora era in corso la Prima Guerra mondiale, per ricordare il duro lavoro e il sacrificio sia di coloro che combatterono che di chi lavorò sul fronte interno. Spostato nella sua sede odierna su Lambeth Road nel 1936, il museo non ha mai smesso di essere un punto di riferimento per il ricordo degli anni terribili vissuti in un mondo purtroppo spesso in guerra, e qui ne abbiamo trovato le tracce, che si trattasse delle guerre mondiali, dell’Olocausto, della guerra in Iraq, della guerra fredda o dell’attacco alle Torri Gemelle di New York. Non occorrendo nessuna prenotazione, siamo arrivati qui poco prima dell’apertura delle 10, e abbiamo iniziato il nostro percorso prima nelle sale in cui sono esposti molti cimeli delle prime due guerre mondiali (divise originali, aerei, camionette, bombe e cannoni, poi siamo passati all’enorme sezione dedicata all’Olocausto. Se le prime sale erano dedicate alla storia degli Ebrei e ai primi documenti emessi in seguito all’approvazione delle leggi razziali, verso la fine dell’esposizione, quando l’atmosfera e il sonoro si fanno più cupi, fanno la loro comparsa le divise e gli zoccoli degli internati nei campi di concentramento. E qui il cuore è come se si fermasse, indurito dalla crudeltà umana e intristito da tanta miseria. Le ultime teche ci raccontano dello smarrimento dei sopravvissuti ai campi di lavoro, della ricerca dei nazisti scappati dall’Europa e rifugiatisi in America Latina, di tante vite da ricostruire tenendo lontane le brutture ma non dimenticandole mai. Davvero da pelle d’oca.
Un po’ stanchi dalle fatiche dei giorni scorsi, passiamo velocemente nelle sale dove troviamo alcuni cimeli della storia più recente: in particolare, fotografiamo i resti di un telaio di una finestra di una delle due Torri Gemelle, volato via durante l’attentato del 2001. Anche qui, brividi per qualcosa che, per fortuna, abbiamo vissuto solo in diretta televisiva.
Riprendiamo la linea Bakerloo della metro e scendiamo in Baker Street: l’obbiettivo è il quartiere di Marylebone, che non abbiamo mai visitato, ma che ci risulta essere tra i più amati della città. La prima tappa è la statua di Sherlock Holmes, uno dei miei protagonisti letterari preferiti. Quest’opera, scolpita da John Doubleday, è stata inaugurata il 23 settembre 1999. Rappresentando il celebre detective con mantello Inverness e cappello Deerstalker, la statua si erge in Marylebone Road, proprio all’uscita della stazione della metro, vicino alla casa fittizia di Holmes al civico 221B e al museo a lui dedicato. Scattiamo qualche bella foto, poi ci mettiamo in marcia verso Marylebone High Street, il cuore di questo elegante e tranquillo quartiere londinese. Mentre camminiamo in direzione della prossima tappa, ammiriamo la bellezza di ciò che ci circonda: negozi eleganti, ristoranti, bar, fiori ai balconi e tanta tranquillità, nonostante siano le 11.30 del mattino e il tempo sia particolarmente clemente. Al centro del quartiere, arriviamo alla famosissima libreria Daunt Books. A partire da una ricostruzione dell’edificio precedente, una costruzione del tardo Settecento, la famiglia Edwards inaugurò il negozio tra il 1910 e il 1912, in perfetto stile Edoardiano. La facciata in mattoni rossi è caratterizzata da elementi in pietra in corrispondenza delle cornici e delle finestre. Potrebbe sembrare un bel palazzo simile a molti altri, ma è al suo interno che si nasconde la meraviglia: in un’ala del negozio, infatti, due lunghe balconate in quercia corrono per tutta la sua lunghezza, le pareti strabordanti di libri; il tutto è illuminato da una copertura interamente vetrata, che bagna la libreria di luce naturale. Leggo che la famiglia Edwards mantenne il negozio fino alla fine degli anni ’70 e, nel 1982, venne acquistato da Pharos Books. La Daunt Books ne prese il possesso, infine, nel 1990; un banchiere di nome James Daunt acquistò questo meraviglioso e ben conservato palazzo e lo trasformò in una delle librerie più belle di Londra. L’atmosfera non è tuttavia come mi aspettavo che fosse, se non altro non mi sembra calda, tutto è molto distaccato. Tantissimi libri, sì, bellissima struttura con tanto legno e belle vetrate, ma non so perché… non ci respiro la magia inebriante dei libri. Probabilmente è qualcosa di personale.
Dovevano esserci almeno due charity shops, nella stessa strada della libreria, ma troviamo solo un negozietto di Oxfam, in cui entriamo ed usciamo in pochi secondi. Amo moltissimo i negozi di beneficenza che ci sono qui nel Regno Unito, ci ho sempre trovato delle chicche meravigliose a dei prezzi davvero vantaggiosi. Mi rifarò prossimamente!
Ci mettiamo in marcia verso il ristorante che ho prenotato per pranzo, che dista da qui più di un chilometro. Fa abbastanza caldo, e siamo stremati. Ci arrendiamo, e chiamiamo un taxi con la app Free Now, già utilizzata in tante altre occasioni all’estero e in Italia. In meno di dieci minuti e con una spesa di 8 sterline, il taxi ci deposita davanti al ristorante Agrodolce, l’unico ristorante italiano che ho prenotato per questa vacanza. Oggi, io e Davide festeggiamo 20 anni insieme, quindi ho pensato che un piatto di pasta ben cucinato potesse essere un buon mezzo per celebrare un traguardo del genere, soprattutto dopo qualche giorno di astinenza da carboidrato italico. Veniamo accolti con gentilezza e ci accomodiamo al nostro tavolo. Ordiniamo una porzione di fiori di zucca ripieni, una gricia e una cacio e pepe. L’antipasto manca quasi totalmente del sapore forte dell’acciuga, ma i due primi piatti sono cucinati a mestiere. La cameriera, una siciliana di nome Caterina, ci racconta del primo ristorante Agrodolce aperto a Roma diversi anni fa, da cui sono stati presi i cuochi (andando in bagno li ho visti, non sono italiani! Ma cucinano molto bene) che ora lavorano in questo nuovo punto a Londra, inaugurato da pochi mesi. In effetti, non mi spiegavo il 30% di sconto che il ristorante offriva sulla app The Fork con cui ho prenotato il nostro pranzo di oggi (tra l’altro, le recensioni su Google erano molto positive), ma sapere che il ristorante ha solo pochi mesi di vita mi ha chiarito le idee. Con un caffè e una bottiglia d’acqua, il conto è di 42 sterline, già al netto dello sconto della app. Della serie, menomale che c’era la promo… ottima qualità, ma prezzi alti, seppur in linea con quanto offerto dalla capitale inglese se si parla di ristorazione ben fatta.
Mancano ancora due tappe nel programma del pomeriggio, ma siamo rinfrancati dal buon pranzo e possiamo riprendere la nostra strada. Il Grant Museum of Zoology, fondato nel 1828, fa parte dell’University College di Londra ed è l’unico museo zoologico universitario rimasto in città. Si tratta di un piccolo, affascinante museo, che ospita circa 67.000 esemplari zoologici. Molti campioni sono rari o molto rari. Inoltre, ci si possono trovare esemplari ormai estinti. Il nome del museo deriva da Robert E. Grant (1793-1874), influente professore di Anatomia Comparata e fondatore della collezione. Date le piccole dimensioni del museo, che si trova all’interno della stessa università in cui nel 2023 avevamo visitato il bellissimo Petrie Museum of Egyptology (una vera perla nascosta nei meandri di Londra), i campioni sono stipati ovunque, nelle belle vetrine vittoriane e anche in altre parti. La disposizione è fantasiosa, pratica e suggestiva, perché ci rimanda ad un’idea ormai obsoleta di spazio espositivo. Anche qui, ingresso gratuito e nessun obbligo di prenotazione. L’ambiente non è enorme ma non è soffocante, il soffitto è altissimo, e le teche sono piene di… di tutto di più! Insetti nei vetrini, mammiferi imbalsamati, rettili e anfibi conservati nei barattoli, il mondo animale è davanti ai nostri occhi, esattamente nello stesso stato in cui era nell’Ottocento per gli studiosi dell’epoca. Un valore inestimabile per una collezione ricchissima e insolita.
La stanchezza si fa sentire, ogni tanto ci viene qualche attacco di ridarella per qualche strano essere umano che ci ritroviamo attorno (a Londra c’è davvero di tutto! Ma è bella anche per questo, ognuno è libero di esprimersi come desidera). Percorriamo poco meno di un chilometro, tutto diritto, stavolta nel cuore del quartiere di Bloomsbury, tranquillo ed ordinato, per arrivare ad uno dei miei luoghi preferiti a Londra: l’Oxfam Bookshop di Bloomsbury Street, meta felice e teatro di splendidi acchiappi già nel 2023. E anche stavolta non si smentisce: con una manciata di sterline, mi accaparro due bellissimi libri fotografici sui Windsor (uno sui vestiti e i gioielli di Edoardo e Wallis nel loro esilio dorato a Parigi, l’altro è un libro fotografico di Andrew Morton – famoso per la biografia di Diana che fece scalpore negli anni Novanta – sulla vita della famiglia reale a Buckingham Palace). Adoro trovare certe perle nascoste tra questi scaffali vissuti e un po’ polverosi, soprattutto a questi prezzi e soprattutto sapendo che i fondi andranno comunque in beneficenza (speriamo).
Dopo un riposino in camera, arriviamo puntuali al Canton Element, dove ci attende una bella cenetta in stile cinese. Il ristorante è piccolo ma luminoso, con dei tavoli molto spaziosi. Spendiamo 46 sterline per due menù a 15.99 a base di calamari fritti, riso con anatra (buonissimo! Il piatto più buono della vacanza), involtini vietnamiti, riso Fujian con anatra, gamberi, calamari, funghi e verdure, una birra e una bottiglia d’acqua. Siamo davvero più che soddisfatti, ottimi piatti, ampissima scelta dal menù e prezzo onesto (per Londra). Due pinte di birra al pub The Enterprise, tra il ristorante e l’hotel, e siamo pronti per una notte di riposo.
Giorno 5 – Regent Street, Chinatown, British Museum
La mattina di oggi è dedicata alla Londra del lusso. Scendiamo dalla metro alla stazione di Oxford Circus, e poi, mentre percorriamo la bellissima Regent Street, ci fermiamo a guardare la grandiosa struttura in graticcio del grande magazzino Liberty, ancora chiuso. A breve distanza, arriviamo a Carnaby Street, che è stato il luogo fisico dove si è espresso nella maniera più completa quel fenomeno definito con il termine Swinging London. All’inizio della via, sulla nostra destra, notiamo subito una scultura in bronzo di John Lennon. L’opera raffigura l’iconico “Beatle” a grandezza naturale, mentre, rilassato, è seduto su una panchina con gli occhi chiusi e il viso rivolto verso il cielo. Davide mi scatta una foto, poi procediamo la nostra passeggiata guardando le vetrine dei negozi ancora chiusi (apriranno dopo le 10). Da qui alla zona delle “Arcades” (somiglianti ai passages parigini), la distanza è davvero breve. Royal e Piccadilly Arcade sono lussuose ma piuttosto corte, mentre Burlington Arcade è davvero meravigliosa. Nel 1815 tutto l’enorme edificio circostante era proprietà di un solo individuo, Lord George Cavendish. Aveva comprato Burlington House da un nipote, per l’enorme somma di 70.000 sterline, e si era subito messo all’opera per apportare importanti modifiche. Sul lato ovest c’era un bellissimo giardino, nel quale Lord Cavendish amava sostare, all’ombra di alberi frondosi, godendo del profumo di innumerevoli varietà di fiori. Il giardino confinava con uno vicolo stretto e malfamato, che collegava Piccadilly con la parallela Burlington Gardens. A dividere il paradiso terrestre di Lord Cavendish dalla stradina frequentata dalla plebe c’era soltanto un alto muro di mattoni, che però non era sufficiente a garantirgli la quiete. Capitava spesso, infatti, che nel giardino finissero torsoli di mele, gusci d’ostrica e persino bottiglie di vetro lanciati dai passanti. Un giorno, mentre il nobile era seduto su una panchina e si godeva il canto degli uccellini e il tepore del sole primaverile, fu colpito in testa da un gatto morto, scaraventato da chissà chi oltre il muro di cinta. Lord Cavendish, furioso, chiamò l’architetto e commissionò la distruzione del vicolo e la costruzione al suo posto di una lunga sfilza di negozi, che avrebbero dovuto vendere merce pregiata, principalmente gioielleria e accessori. Nacque così nel 1819 la Burlington Arcade, lunga 179 metri, uno dei primi centri commerciali mai realizzati. Fin dal giorno dell’inaugurazione la Burlington Arcade è sorvegliata dai beadles, che vestono ancora l’uniforme tradizionale con cappello a cilindro. Il loro compito, da due secoli, è sempre lo stesso: far rispettare il regolamento. Non si può cantare, andare di fretta e comportarsi in modo chiassoso. Inoltre, è proibito fischiettare perché un tempo il fischio poteva essere confuso con un segnale per gli scippatori per avvisarli della presenza di un beadle. C’è un solo uomo al mondo a cui è consentito farlo: Paul McCartney. La storia risale agli anni ’80: un giorno, mentre stava passeggiava fischiettando nella Burlington Arcade, Paul fu redarguito da un guardiano che non lo aveva evidentemente riconosciuto. Dopo essersi scusato, il beadle concesse un’esenzione vitalizia all’ex Beatle. Si cammina su uno spesso tappeto steso lungo tutta la galleria commerciale, piena di negozi che vendono gioielli, orologi, cimeli d’epoca, scarpe fatte a mano e su misura. C’è persino un tizio che si sta facendo pulire le scarpe da un lustrascarpe! Scoviamo un piccolissimo punto vendita di Ladureé, dove ho sempre sognato entrare. Davide decide di esaudire il mio desiderio, quindi ordiniamo due macaron per me e un croissant salato al formaggio per lui. Spendiamo 13 sterline, è davvero tanto, ma è tutto squisito, e sedere a quel tavolino con quei macaron favolosi è godurioso e magico.
Attraversiamo la strada ed entriamo nel famosissimo negozio di Fortnum & Mason, che – a dir la verità – mi piace ancora più di quel “carrozzone” un po’ pacchiano di Harrods. Qui il lusso ha un tono molto fine ed elegante, con la merce esposta in modo discreto lasciando spazio anche agli arredi e ai lampadari. I gadget iconici del marchio hanno un bellissimo color Tiffany, i prezzi sono pazzeschi ma il target dei clienti di un negozio come questo può permettersi senza dubbio di spendere centinaia di sterline per un cestino da picnic completo di stoviglie e posate per organizzare un evento sull’erba nella campagna inglese o ad Hyde Park. Dopo aver curiosato tra i libri di cucina (in una teca sono esposti alcuni esemplari di fine Ottocento davvero molto affascinanti), approfittiamo delle toilette, riscendiamo in strada, percorriamo pochi metri e ci infiliamo da Hatchards. Fondata da John Hatchard nel 1797, Hatchards è considerata la libreria più antica di Londra ancora in attività. Non so perché, ma stavolta, non appena entrata, ho sentito il calore dei libri che mi avvolgeva in un abbraccio. John Hatchard non era un libraio qualsiasi: la sua libreria divenne presto un punto d’incontro per pensatori, scrittori, politici e membri dell’élite vittoriana. Nel tempo, Hatchards ha servito generazioni di lettori illustri, tra cui Oscar Wilde, Lord Byron, Winston Churchill e moltissimi membri della Famiglia Reale. Oggi la libreria conserva tutto il suo fascino d’epoca, ma con uno spirito accogliente e aggiornato. Uno degli elementi che rendono Hatchards a Londra così unica è il suo storico rapporto con la monarchia. La libreria vanta ben tre Royal Warrant, ovvero riconoscimenti ufficiali come fornitori della Famiglia Reale britannica, e ovviamente fa bene a vantarsene. Appeso al muro sopra la cassa, prima dell’uscita, c’è un bel ritratto fotografico di Re Carlo con la Regina Camilla, mentre la Regina Elisabetta ha un angolo dedicato alla sua memoria nella prima sala a sinistra subito dopo l’entrata. Al centro del negozio, una bella scalinata conduce ai piani superiori, ma è al piano terra che trovo la bellissima sezione dedicata ai libri sui Reali d’Inghilterra. Scovo un piccolo libro sui Windsor e il loro impegno durante la Seconda Guerra Mondiale, il prezzo non è eccessivo e le dimensioni del volume sono comunque contenute. Ci prendiamo un po’ di tempo per vagare tra gli scaffali, poi riprendiamo il nostro cammino. Prossima tappa: Chinatown, che dista da qui poco meno di 600 metri.
Lungo la strada, entriamo da Assouline, un paradiso di libri di alta gamma (maneggiabili solamente infilandosi un paio di guanti bianchi), mobili di pregio e oggetti d’arte. Molto bello, ma davvero too much. Entriamo anche all’Hard Rock Cafè, dove ci facciamo scattare una foto e poi fotografiamo a nostra volta alcuni cimeli degli Oasis messi in mostra in alcune teche vicino all’entrata: fortunatamente, la recente reunion dei fratelli Gallagher con tanto di tour nelle maggiori città inglesi ha fatto resuscitare il brit rock di qualche anno fa, riesumando capolavori che i giovani ascoltatori di musica attuale possono finalmente imparare a conoscere.
Chinatown è davvero a due passi. Alla prima panetteria cinese, ci fermiamo e compriamo due panini con il ripieno di maiale (la macchina per confezionare i dolci a forma di pesce e ripieno di crema è ancora spenta). Spendiamo 5 sterline in totale, e usciamo in strada per gustarci i nostri acquisti che, in realtà ci sorprendono, e non poco. Pensavamo di mangiare qualcosa di salato, ma il gusto è dolce. È come mangiare un dessert con il ripieno di maiale! Che cosa strana, buona, non eccezionale, ma comunque commestibile. In un supermercato cinese che vende la qualunque, mi prendo una bottiglietta di acqua Perrier, al sorprendente prezzo di una sterlina (quando invece in giro per Londra ci vogliono almeno 4 sterline). Nella zona si contano più di 70 ristoranti, 50 negozi e una dozzina di pub e bar. Percorriamo il quartiere cinese in lungo e in largo, poi ci sediamo in Leicester Square, davanti alla statua di Harry Potter. C’è tantissima gente in giro, il cielo è un po’ nuvoloso ma la temperatura è gradevole.
Arriviamo a Cecil Court dopo una passeggiata di 400 metri. Ho letto grandi cose di questa stradina, a quanto pare è il paradiso dei lettori. Soprannominata Bookseller’s Row, Cecil Court è costituito da una ventina di librerie di seconda mano e di antiquari. All’interno dei negozi si trova di tutto, da libri rari e prime edizioni a vecchi francobolli, mappe, poster e banconote. Si pensa che sia la strada che ha ispirato Diagon Alley di Harry Potter, ma a me qualche dubbio sta venendo… sì, è carina, ma non è niente di trascendentale, e non tutti i negozi sono aperti. In un negozio di antiquariato, London Medal Company, riesco a scovare per Davide un bel libro sugli aerei Spitfire, e dentro è tutto un paradiso di divise e medaglie, ma anche di antiche fotografie della famiglia reale inglese e cimeli di epoche lontane.
Lungo la via, troviamo una targa che mostra quale fu la casa temporanea di Wolfgang Amadeus Mozart mentre era in tournée in Europa all’età di otto anni. Entro anche nel famoso negozio dedicato a tutto ciò che riguarda Alice nel Paese delle Meraviglie, “Alice through the looking glass”, preso d’assalto da lettori grandi e piccoli, tutti concentrati in questo minuscolo negozio. Un po’ delusi, ci incamminiamo verso Charing Cross Road, dove – in Cranbourne Street, troviamo l’Agatha Christie Memorial. La scultura ha la forma di un libro in bronzo alto circa 2,5 metri dove è raffigurato il volto di Agatha Christie, mentre sui lati si trovano le figura di Hercule Poirot e Miss Marple. Era doveroso rendere omaggio ad una delle mie scrittrici preferite! Charing Cross Road, la via dei librai, è a 170 metri. Entriamo in due librerie antiquarie, Any Amount of Books e Henry Pordes, ma nessuna delle due ci impressiona più di tanto.
Siamo in anticipo sul programma, ma meglio così. Abbiamo il tempo di tornare con la metro in albergo, alleggerire le borse, fare una puntata in bagno e presentarci al British Museum, prenotato per le 15.30. Il museo è davvero a due passi dal nostro hotel. Arrivati davanti al cancello, una brutta sorpresa: nei giorni scorsi, a quest’ora, le file erano praticamente inesistenti. Oggi, invece, veniamo spediti alla fine di una fila immensa che arriva fino a Montague Street, nonostante i nostri biglietti prenotati… ci armiamo di santa pazienza, e riusciamo comunque ad entrare nel museo dopo un’attesa di circa 15 minuti. Dopo una veloce puntatina fotografica alla biblioteca, prendiamo l’ascensore per visitare i reperti di Sutton Hoo, che desidero vedere da tantissimo tempo ma che ho sempre sacrificato in favore dell’impressionante sezione egizia del British Museum. Dopo alcune sale strapiene di gente, ecco finalmente il primo elmo, non lontano dagli scacchi dell’isola di Lewis (un set medievale di scacchi intagliato in avorio di tricheco, scoperto sull’isola di Lewis nelle Ebridi Esterne, in Scozia. Questi pezzi, risalenti al XII secolo, sono famosi per la loro dettagliata fattura e rappresentano figure umane con espressioni vivaci, oltre a pezzi più semplici come i pedoni). Una meraviglia.
Ci troviamo davanti al corredo funerario di una nave-tomba pagana scoperta nel 1939 nella contea del Suffolk, nell’Inghilterra sudorientale. La nave, dalla eccezionale lunghezza di 27 metri, era stata tirata in secca da una scarpata del fiume Deben verso il cimitero, in direzione dell’estuario. Il corredo funerario venne immediatamente identificato come regale, in base alla sola quantità e alla qualità delle insegne d’oro e granati; la successiva datazione delle monete merovinge presenti nella sepoltura sembra confermare l’ipotesi che si tratti della sepoltura di uno dei re guerrieri dell’Anglia orientale del 7° secolo. Si è pensato inoltre che alcuni manufatti cristiani rinvenuti in questa sepoltura pagana costituiscano una conferma dell’identificazione del personaggio sepolto in Redwald (morto nel 624/625), re dell’Anglia orientale, il bretwalda (capo supremo dei Bretoni) dal lungo regno. Egli fu il primo sovrano inglese a ricevere il battesimo cristiano e fu anche ricordato da Beda per aver tentato di servire, fino alla sua morte, sia il Dio dei cristiani sia gli antichi dei. Del corredo fa parte anche un completo equipaggiamento militare, compresi frammenti di cotta di maglia, un martello-ascia di ferro, lance, i resti di un elmo da parata e un grande scudo circolare. È stato anche possibile restaurare i frammenti dell’elmo, considerato uno straordinario esempio di perizia nella lavorazione del metallo. La calotta venne forgiata da un unico pezzo di ferro; a essa furono aggiunte le protezioni per le orecchie, la protezione del collo e una maschera ovale per il volto, completa di naso, sopracciglia, baffi e bocca in bronzo dorato. L’elmo venne rivestito da sottili lamine di bronzo su cui erano incisi quattro diversi motivi: due con intreccio animalistico e due con scene a carattere figurativo, tratte dalla mitologia germanica e scandinava.Mentre gran parte dei gioielli d’oro sembra essere produzione di una stessa bottega, gli oggetti d’argento depositati nella tomba sono tutti ritenuti opera di botteghe del Mediterraneo orientale, i quali forse raggiunsero l’Anglia tramite la Gallia merovingia.
Si tratta di qualcosa davvero unico al mondo, che in tanti non conoscono – è certamente più famosa la Stele di Rosetta, presa d’assalto all’entrata del museo! Siamo in pochi ad aggirarci attorno a queste meraviglie, che risplendono ancora ai nostri occhi dopo secoli di storia. Dopo la sezione dedicata all’Inghilterra medievale, facciamo una rapida incursione nelle sale dove sono esposti meravigliosi reperti appartenenti alla civiltà etrusca. Scatto moltissime foto, andrei avanti per ore. Davide è stremato, e mi abbandona per andarsi a riposare in camera, lasciandomi libera di godermi le sale successive, tutte dedicate al mio adorato mondo dell’Antico Egitto. E qui, davvero non ce n’è più per nessuno.
Dopo le meraviglie di Sutton Hoo, i tabernacoli etruschi, i busti degli imperatori romani, gli elmi dei gladiatori, eccoli – finalmente. Una quantità spropositata di sarcofaghi egizi, splendidamente decorati con dei colori ancora vivissimi, come se non avessero risentito del trascorrere dei secoli. Lo splendore dell’oro, l’intensità del verde eterno che richiama la divinità di Osiride, le ali delle dee che proteggono la mummia del defunto accompagnandolo nel suo cammino verso l’eternità, tutto parla di una civiltà che non può non incantare ancora, dopo tanti secoli dalle prime scoperte archeologiche. C’è tantissima gente, una folla costante che pare non scemare mai. Il cellulare ormai scotta, non so neanche più quante foto ho scattato. Mi costringo a spostarmi, ma solo perché – intanto che sono qui! – voglio andare a vedere anche le parti dedicate a Stonehenge (non tantissimi reperti, purtroppo) e all’antica Grecia, e la sezione degli Assiri, per poi salutare l’imponente statua del mio amato Ramses II che guarda dall’alto della sua maestosità i visitatori del British attraverso i secoli, e continuerà a farlo per l’eternità.
Gli ultimi sforzi sono dedicati alla libreria del museo, il tasto dolente della visita. Inutile, non resisto, alla fine esco con la shopper di tela del museo, un libro fotografico su Re Carlo II e un libro fotografico sui reperti di Sutton Hoo e le scoperte archeologiche relative all’Inghilterra medievale.
Mi spaparanzo per un po’ in camera a riposare, ma decidiamo comunque di scendere in anticipo al pub vicino all’hotel. Mentre aspettiamo che si liberi il tavolo che ho prenotato al pub The Swan, Davide sorseggia una birra fresca, poi ordiniamo un hamburger, un macaroni and cheese (praticamente pasta al forno con formaggio e condimento tipo besciamella) e una porzione di patatine. Con tre pinte di birra, in totale sono circa 58 sterline. Mi addormento stanchissima ma felice della meravigliosa giornata trascorsa tra centinaia di meraviglie, in attesa di scoprire cosa avrà in serbo per noi la città per i nostri prossimi giorni di vacanza.
Giorno 6 – British Library, Regent’s Canal
Vista la stanchezza accumulata nei giorni precedenti, oggi cerchiamo di prendercela molto comoda, sperando di non affaticarci ulteriormente. Ho preparato il programma già prevedendo un po’ di fiacca verso la fine della settimana e il soggiorno a Londra, ho preferito concentrare le attività più stancanti nei primi giorni per avere poi la possibilità di riposarci un po’ prima di intraprendere l’itinerario in auto per il resto della vacanza.
Facciamo colazione con molta calma, prendiamo la metro e in una sola fermata siamo già alla stazione di King’s Cross. Mentre vado in cerca del punto in cui è stata ricostruita il Binario 9 e ¾ di Harry Potter, Davide si sposta verso la vicina St. Pancras Station per trovare l’ufficio dove domenica dovremo andare a ritirare l’auto a noleggio per i prossimi giorni. Non mi è difficile scovare la “piattaforma magica”: seguo le indicazioni a seconda del numero di binari, poi vedo una folla enorme raggruppata nello stesso punto. Voilà! Trovata! Il Binario 9 e ¾ è uno dei luoghi più iconici dell’universo di Harry Potter. Nella saga di libri creata da J.K. Rowling, rappresenta il passaggio segreto per il mondo magico. È da qui che gli studenti partono a bordo dell’Hogwarts Express per raggiungere la celebre scuola di magia. Mi sposto sul fianco al di fuori della fila, riservata a chi vuole farsi scattare una foto dal fotografo indossando la sciarpa di Grifondoro in dotazione della postazione. Praticamente, si tratta di un’installazione con un carrello di valigie per metà incastrato nel muro, come se si stesse attraversando il portale magico per Hogwarts. Anche da qui riesco a scattare qualche foto e a farmi qualche selfie, nel brevissimo intervallo tra una foto e l’altra del fotografo. C’è almeno un’ora di fila, se dovessi aspettare di arrivare davanti perderemmo davvero troppo tempo.
Mi infilo nel negozio ufficiale di Harry Potter proprio di fianco al Binario 9 e ¾, e subito rimango basita: a parte la musichetta del film, è tutto arredato in stile HP: in alto, le lettere volanti di Hogwarts, le valigie, le tuniche di Grifondoro, ragni, gufi, dolciumi, la Burrobirra… sembra davvero di essere dentro ai libri della Rowling!
Vorrei prendermi il pelouche di Edvige, la piccola civetta di Harry Potter, ma alla cassa c’è una fila impressionante, quindi rinuncio ed esco, riprendendo il cammino con Davide, che ha individuato la compagnia di noleggio dell’auto a St. Pancras.
Ci mettiamo in marcia – prima, però, vorremmo trovare il tunnel a led di cui ho letto in rete. Si trova dentro alla stazione di King’s Cross, ma sembra sia pensato apposta per stupire: luci che cambiano tonalità, giochi di colore lungo tutta la parete e un’atmosfera da installazione artistica. Non ci sono indicazioni, proviamo a cercare con Google Maps, che ci guida in un punto dove non troviamo nulla. Provo a chiedere indicazioni in stazione, ma niente da fare. Dopo qualche tentativo a vuoto, mentre stiamo per abbandonare la ricerca, torniamo sui nostri passi con Google e Davide lo scova. Ma che delusione! Il tunnel è molto corto, e non è che l’illuminazione sia poi così spettacolare… della serie, mai fidarsi troppo delle guide e di internet!
Se non altro, mentre cercavamo il tunnel, siamo incappati nell’altissimo edificio dove si trovano gli uffici di Google: scattiamo qualche foto, invidiando chi lavora qui sia per l’azienda in sé sia per la bellezza del quartiere in cui ci si trova. Tutto intorno è curato, pulito, in ordine, ci sono giardinetti, fontane, zone ombreggiate, bar e ristoranti. Tutto è costruito per viverci bene, e questa è una caratteristica peculiare dell’intero Regno Unito. Ordine, sicurezza, pulizia, bellezza e fruibilità per una vita migliore. Basterebbe così poco per sistemare un po’ la nostra Italia e migliorarla un pochino! Ci fermiamo a fare qualche foto dell’esterno della stazione di St. Pancras, così particolare e imponente, poi riprendiamo la nostra strada fino alla British Library. Principale biblioteca nazionale del Regno Unito, la sua collezione include oltre 150 milioni di documenti tra manoscritti, mappe, giornali, periodici, stampe e disegni, spartiti e contratti, oltre che libri stampati. Questo immenso patrimonio di sapere è conservato in tre siti diversi, il più noto dei quali è la sede di St Pancras, proprio dove ci troviamo ora: si tratta del più vasto edificio pubblico costruito nel Regno Unito nel Ventesimo secolo, per il quale sono stati impiegati 10 milioni di mattoni e 180.000 tonnellate di cemento. Tra i tesori della British Library spiccano la Magna Charta, una raccolta di appunti di Leonardo da Vinci, manoscritti dei Beatles, documenti originali dell’epoca Tudor. È tutto questo – e anche di più – ciò che ci troviamo davanti quando entriamo nella galleria dei tesori della biblioteca, visitabile gratuitamente. È possibile scattare foto, l’importante è che non si usi il flash. È vero che i tesori sono dentro a delle teche oppure dietro a dei vetri, ma è meglio non rischiare di danneggiarli in nessun modo. Appena entrati, mi entusiasmo subito davanti agli appunti di Leonardo, di cui so tutto. È strabiliante avere davanti agli occhi i suoi schizzi, i suoi numeri, le misurazioni – il suo genio è ancora qui. C’è anche uno scritto originale di Michelangelo, dall’altra parte, una poesia – ma nella gara immaginaria di oggi, qui alla British Library, tra i due quello che vince è certamente il mio Leonardo Da Vinci. Manifesta superiorità.
Continuo il giro della galleria quasi in trance, passando dai Beatles a Jane Austen, da Shakespeare a Chaucer, passando per la Magna Charta e Oscar Wilde. C’è persino una ricetta medica scritta per curare uno dei mali di cui soffriva Enrico VIII! La storia qui parla in prima persona, ed è affascinante trovarsi tutti questi tesori a pochi centimetri dagli occhi.
Pausa toilette e siamo pronti per ripartire alla volta del Tamigi. Mentre aspettiamo che si faccia mezzogiorno, decidiamo di esplorare i dintorni – passeggiamo senza meta tra i negozi di Coal Drops Yard, un luogo incantevole che è stato riqualificato davvero con cura. Sa ancora di rivoluzione industriale, ed è strabiliante il risultato del restauro e del recupero dei magazzini di carbone costruiti in età vittoriana. Le coperture erano vecchie e pericolanti, e dovevano essere cambiate. Per questo hanno immaginato di unire i due tetti per fare un solo fulcro, il cuore del progetto, che ha come ispirazione le vecchie piazze, i vecchi mercati delle città inglesi, in cui un edificio adibito a mercato era rialzato rispetto alla piazza e diventava per questo il fulcro della vita pubblica. Poi si è passati alla ristrutturazione delle strutture già esistenti, ripristinando con specifici, mirati e molto minimali interventi il vecchio splendore di Coal Drop Yard. Le due strutture antiche sono state ottimizzate per l’attività commerciale. Infatti, la maggior parte delle attività commerciali è messa sulla strada principale a due livelli, cui su può accedere dal piano terra del luogo centrale o dai due viadotti posti vicino ai due edifici. Mi infilo in un bellissimo – ed enorme! – negozio di vestiti usati, che riconferma quanto il “second hand” o, come va di moda dire ora, il “pre-loved” sia per gli inglesi una cosa naturale, come andare a comprare il latte. E anche questo è certamente positivo, sia dal punto di vista etico che da quello economico (a questo si ricollega anche la presenza capillare, in tutto il paese, dei charity shops, dove il riuso ha scopo benefico).
Nell’adiacente Granary Square, è tutto un paradiso per i bambini, ma anche per gli adulti. A sinistra, verso il Regent’s Canal, c’è una gradinata già affollata di persone sdraiate su morbidi cuscini davanti ad uno schermo cinematografico ancora spento (più tardi, vedremo che verrà proiettato un cartone animato Disney, parte del palinsesto estivo che intrattiene tutti da mattina a sera). A destra, invece, la piazza diventa una specie di “piscina-fontana”, dato che dal pavimento escono zampilli d’acqua ad intensità variabile, che sono la gioia per i bambini che ci giocano felici. I genitori li osservano dalle panchine vicine, io mi accomodo lì a guardare i bimbi mentre Davide va a prendersi un caffè nel chiosco qui vicino. Si sta benissimo, qui, sembra di essere in un modo parallelo rispetto a ciò a cui siamo abituati. Verso le 12, scendiamo direttamente all’altezza del canale, in attesa dell’apertura delle porte di Word on the Water, l’unica libreria galleggiante di Londra, indicata dai più come un “must see” qui a Londra. Appena viene dato l’ok per salire sul barcone, entro e inizio la mia esplorazione. Ci sono tanti libri, per lo più nuovi (gli usati sono davvero pochi), certamente l’ambientazione è particolare, ma sinceramente mi aspettavo di più. Ancora una volta, ciò che viene osannato mi delude. Ma pazienza, se non altro abbiamo avuto l’opportunità di visitare una parte della città che non conoscevamo e che ci ha stupito molto positivamente.
Torniamo indietro verso King’s Cross e verso gli uffici di Google, poco lontano da lì si trova il ristorante coreano dove ho prenotato per pranzo, il Kimchee. Il locale è a dir poco enorme, e – mentre vado in bagno, vedo che la cucina è immensa, ordinatissima e pulitissima. Le premesse sono ottime, ma ahimè va a finire che spendiamo 56 sterline per dei piatti che o sanno troppo di soya, oppure hanno poco sapore. Abbiamo ordinato sushi con verdure e carne di manzo, carne di manzo con brodo e riso al vapore, spaghetti udon con pesce misto e una bottiglia d’acqua, ma non siamo comunque molto soddisfatti. Il servizio, tra l’altro, è piuttosto anonimo e freddo. Peccato, ma ci rifaremo presto con i nostri amici cinesi.
Riprendiamo la linea Northern della metro, e arriviamo fino alla Battersea Power Station, il luogo del cuore di Davide qui a Londra. Eravamo già stati qui nel 2023 perché attirati dalla celebre copertina di un album dei Pink Floyd dove compariva proprio questo sito, ma la visita dal vivo ci aveva letteralmente entusiasmati, quindi abbiamo deciso di ritornarci per passarci ancora qualche ora. Anche in questo caso, si tratta di una riqualificazione davvero di qualità. La centrale termoelettrica più grande d’Inghilterra fu costruita in due battute. Il primo edificio con due ciminiere fu edificato tra il 1929 e il 1935, mentre la seconda costruzione è datata tra il 1937 e il 1955. L’unione dei due edifici dà vita all’edificio attuale con 4 ciminiere. La Battersea Power Station è stata la prima di una lunga serie di centrali a carbone costruite in Inghilterra nel secolo scorso. Chiusa nei primi anni ’80, la Battersea Power Station era praticamente abbandonata e inutilizzata. Ma dopo oltre 30 anni, e diversi milioni di sterline, la Battersea Power Station è ora aperta al pubblico, come centro commerciale e soprattutto come sede di eventi che intrattengono durante tutto l’anno. Il nuovo quartiere nato dopo la riqualificazione è lussuoso, ma c’è anche da dire che tutti possono usufruire degli ampi spazi aperti che danno sul fiume, su un bel prato curato dove prendere una sdraio e godersi qualche ora di relax. Entriamo dentro al centro commerciale, facciamo una puntata in una delle numerosissime toilette, e poi cerchiamo la libreria che tanto avevamo apprezzato due anni fa. Anche quest’anno non ci delude: l’offerta di libri dedicati a Londra è davvero molto varia, Davide prende un libro sull’architettura della città, e io scovo – tra i libri in sconto fino al 70%, un piccolo libretto rosa che racconta curiosità e pettegolezzi sui Windsor. Ci riforniamo di segnalibri come ricordo della nostra visita, paghiamo e torniamo fuori, per scattare altre foto al quartiere e goderci un po’ di frescura all’ombra, con il Tamigi a fare da sfondo sotto un cielo blu terso e senza nuvole.
Mentre sfogliavo una guida sulle librerie di Londra, al Battersea Bookshop, sono incappata in una pagina dedicata ad una libreria dell’usato gestita da Amnesty International. Sembra interessante, e tra l’altro è proprio vicinissima ad una stazione della metro appartenente alla stessa linea su cui ci troviamo. Con mezz’ora di viaggio dovremmo arrivare in tempo prima della chiusura, e infatti entriamo in libreria con un discreto margine. La libreria si trova nel quartiere di Kentish Town, poco lontano da Camden Town, visitata nel 2023. Ad una prima occhiata, notiamo subito che i due quartieri si assomigliano molto, hanno la stessa aria decadente ma anche insolita e affascinante, anche se Kentish Town, fortunatamente, è molto meno affollata e rumorosa. A pochi metri dalla stazione della metro, sulla destra, ecco la libreria. The Amnesty Bookshop è piccolo, ma pieno di libri e con una varietà impressionante di titoli per ogni categoria proposta. Ovviamente, mi fiondo sui libri di archeologia e di storia, e scovo – per poche sterline – un libretto del British Museum sui reperti di Sutton Hoo (che tanto ho apprezzato ieri) e un bel libro fotografico (scritto da Robert Lacey, biografo dei reali) che mette a confronto la serie televisiva The Crown e la vera vita della famiglia Windsor. Usciamo poco prima dell’orario di chiusura e ci riposiamo un po’ in camera prima di cena.
Quando mercoledì sera abbiamo finito la nostra gustosa cena al Canton Element, abbiamo prenotato direttamente con la cameriera un tavolo per stasera, non volendo sacrificare il Master Wei Xi’An sotto l’hotel per l’ultima sera a Londra. Anche stavolta, il Canton Element non ci delude: con 46 sterline ceniamo davvero molto bene a base di costine di maiale fritte in sale e pepe, ravioli di maiale grigliati, riso con anatra, riso con manzo in salsa d’ostrica e due birre piccole. Una chiusura di giornata perfetta a coronamento di una giornata davvero magnifica.
Giorno 7 – Westminster Abbey, Chiswick
Grandi aspettative per oggi! È il nostro ultimo giorno a Londra, ma sono particolarmente galvanizzata perché per oggi ho prenotato la visita a Westminster Abbey, teatro di gioie e dolori dei miei carissimi Windsor e pietra miliare nella storia della città e della Nazione. Il biglietto d’ingresso non è per niente economico (30 sterline a testa), ma spero che l’abbazia valga ogni singola sterlina spesa. Ho preferito prenotare da casa con largo anticipo per scegliere la data e l’ora d’ingresso ed evitare le lunghe code che avevo visto nel 2023. Con un cambio di linea, arriviamo velocemente alla stazione di St. James’ Park, a pochi metri dall’abbazia, che si staglia imponente davanti a noi, sotto un cielo azzurro intenso striato da qualche nuvola bianca.
Dal 1066 l’Abbazia di Westminster, dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità, è la sede dell’incoronazione dei monarchi britannici, luogo di sepoltura di reali ed eminenti personalità della storia britannica, nonché il luogo dove si tengono gli eventi nazionali più importanti: tra questi, la solenne cerimonia funebre di Elisabetta II, ma nel passato recente anche matrimonio reale dei duchi di Cambridge, William e Kate, e ancor prima il triste funerale di Diana, Principessa del Galles. Ho prenotato l’ingresso per le 10.00, ma ci viene consentito l’accesso anche con più di mezz’ora d’anticipo. Contenti di aver evitato attesa e fila, entriamo in quello che è davvero un grande tesoro per tutta l’umanità. L’impressione dell’imponenza avuta all’esterno si amplia già dai nostri primi passi, ancora prima di ritirare le nostre audioguide digitali. Ci sono già tanti visitatori, ma l’abbazia è talmente immensa che ci sentiamo piccoli davanti a tanta magnificenza. Sono contenta che sia possibile scattare foto, anche se la memoria del telefono e della scheda potrebbero anche non essere in grado di contenere tutto ciò che vorrei immortalare. Non c’è un centimetro, in questa abbazia, che non sia decorato, che non abbia un significato. Vetrate istoriate, rosoni, archi, sculture, tombe, lastre, persino il pavimento è meraviglioso. Ci sono alcune tombe che vedono il defunto rappresentato come dal vivo in sculture a colori dal realismo sorprendente, con i vestiti dell’epoca in cui visse che ci parlano ancora della sua quotidianità. La tomba del milite ignoto, incorniciata da vivaci papaveri rossi, è una macchia di colore che non fa che arricchire tutto ciò che è intorno a noi. Il coro, a cui accediamo dopo aver attraversato un imponente altare, è strabiliante perché è ancora più bello rispetto a quanto visto in tv. I seggi in legno, il pavimento in marmo bianco e nero, gli stendardi: tutto parla di grandezza, di storia, di secoli che hanno visto eventi e persone capaci di cambiare le sorti di una nazione o del mondo intero. Più avanti, l’altare dove fu incoronato Carlo III nel 2023, con un pavimento che da solo potrebbe essere già Patrimonio dell’Umanità, con minuscole tessere colorate a costruire un mosaico complesso e meravigliosamente armonico e prezioso. Ai lati, le cappelle e le tombe: una prima cappella dedicata alla Vergine Maria, antichissima, ma splendida nella sua semplicità che profuma di secoli di storia. La tomba di Eleonora di Castiglia è grande e impreziosita da ricami in pietra che stupiscono per la loro complessità. Ci mettiamo in fila per vedere la tomba della grande Elisabetta I, sepolta insieme a sua sorella Maria la Sanguinaria (scommetto che non saranno state tanto felici di trovarsi nella stessa tomba, dopo tutto quello che hanno combinato in vita), poi passiamo velocemente davanti alla tomba di Maria Stuarda e a quella di Edoardo III, in cui le piccole statue dei figli adornano tutto un lato della tomba del padre monarca. Nell’angolo dei poeti, tanti cenotafi, ma anche alcune tombe “occupate”:
Robert Browning, Geoffrey Chaucer, Charles Dickens, Rudyard Kipling sono tra i nomi più famosi. Siamo alla fine della visita, anche se mancano ancora alcune chicche. Il chiostro, più avanti, è molto affascinante, e – vicino ad un’antica cappella, facciamo una foto a quella che è “la porta più antica d’Inghilterra”, costruita molto probabilmente nel 1050, all’epoca di Edoardo il Confessore. L’ultima chicca prima di uscire è la Sedia dell’Incoronazione, protetta da uno spesso vetro ma preziosissima ai nostri occhi, sia in termini di datazione che per il significato che riveste. Usciamo dall’abbazia ancora affascinati da tanta meraviglia, io sono anche un po’ tristi perché so che non tornerò mai più qui, e ci lascio un pezzettino di cuore. Fuori, il cielo è azzurro terso, la temperatura si è alzata. Facciamo un rapido passaggio al negozio di souvenir dell’abbazia, ma sono brava e non compro nulla, anche se non resisto e indosso per una foto una corona da vero sovrano inglese.
La linea District della metro ci porta a Chiswick, un quartiere ad ovest di Londra, che ho scelto per concludere la mattinata in tranquillità, lontani dal caos del centro città. Ci arriviamo dopo una mezz’oretta di viaggio. Il quartiere ci appare subito molto tranquillo, la strada principale è su un viale alberato e poco trafficato, pieno di negozietti e ristoranti. Tra i primi esercizi in cui ci imbattiamo, una sfilza di charity shop assolutamente irresistibili. Per fortuna, solo nel primo trovo qualcosa di assolutamente imperdibile: un bel libro fotografico sulla vita della Regina Madre (la madre di Elisabetta II) e un libro, sempre fotografico, sull’incoronazione di Elisabetta II. Con una manciata di sterline, mi porto via due perle che valgono mille volte i souvenir standard in vendita a prezzi folli nelle strade di Londra, e che raccontano ciò che significa l’incoronazione di un sovrano dentro alla meravigliosa Westminster Abbey.
Il pub The Lamb, prenotato da casa, ci aspetta per pranzo. Il giardino esterno è sulla via principale, noi ci entriamo da un vicoletto poco lontano da Chiswick High Road. La titolare, una vivace signora bionda scozzese, ci accoglie molto cordialmente e si scusa per l’invasione di decine di donne urlanti che festeggiano qui l’addio al nubilato di una sposa piuttosto rumorosa. Per fortuna, l’orda di galline starnazzanti si scola velocemente qualche bottiglia di prosecco (senza mangiare) e abbandona il pub in tempi piuttosto rapidi, non avendo prenotato spero si siano rese conto di non essere poi tanto benvenute. Pranziamo discretamente con 50 sterline per un fritto misto per due persone e due belle pinte di birra. Dato che siamo piuttosto stanchi, decidiamo di fare un salto veloce alla libreria Foster Books, poco distante dal pub: è carina, i libri usati (alcuni anche molto antichi) sono impilati ovunque e stipati a fatica in tutti gli scaffali. Per fortuna non trovo niente che sia strettamente indispensabile, quindi usciamo e ci dirigiamo verso la stazione della metro, accorciando di molto il programma della giornata. Siamo già contenti di ciò che abbiamo visto oggi, e sinceramente abbiamo bisogno di riposare. Quindi cancelliamo sia la visita alla Casa Mosaico di Carrie Reichardt e a Thurnam Green qui a Chiswick, e anche il Sir John Soane’s Museum a Londra.
Facciamo un sonnellino in camera, e per le 20 siamo al nostro fido Master Wei Xi’An sotto l’hotel per la nostra ultima cena a Londra. Grazie alla prenotazione che avevo fatto da casa, scavalchiamo la gente in fila in attesa che un tavolo si liberi, il ristorante – con pochi posti a sedere – è pieno sia dentro che fuori. Ce la caviamo con appena meno di 40 sterline per una porzione di costine di maiale fritte sale e pepe, un piatto di pappardelle cinesi biang biang con manzo e uno di tagliolini con ragù cinese di maiale e verdure. La birra Kobra costa ben 7 sterline a pinta, quindi per stavolta passiamo e chiediamo solo acqua ghiacciata (la portano sempre, è gratuita). Le pietanze sono stratosferiche, il Master Wei ci mancherà davvero tanto.
Era da giorni che volevamo provare il pub “The Queens Larder” di fianco al ristorante cinese, sul lato opposto della strada rispetto al pub “The Swan” dove abbiamo cenato qualche sera fa. Il barista è burbero, comunque ci sediamo fuori sulle panche a sorseggiarci due pinte di birra (per più di 12 sterline in totale!), per festeggiare – anche se mestamente – la nostra ultima sera a Londra.
Giorno 8 – Canterbury, Sandwich
La colazione, oggi, è un po’ triste: abbiamo davvero amato questi giorni a Londra, e partire è un po’ come morire… menomale che ci aspettano altri giorni di vacanza alla scoperta dell’Inghilterra del Sud e di altri tesori!
Dopo l’ultima lauta colazione in hotel, lasciamo le valigie in camera e ci sediamo un po’ al fresco su una panchina del vicino Russell Square Garden. Verso le 10, rientriamo in hotel, ritiriamo i bagagli in camera e riconsegniamo le chiavi. Dopo appena una fermata di metropolitana, arriviamo agli uffici della Enterprise, per ritirare l’auto a noleggio (assicurazione inclusa, per un totale di 600 euro, con restituzione del mezzo all’aeroporto di Stansted) per il nostro viaggio itinerante nel Sud. Alle 11, siamo già in strada, ma uscire da Londra non è facile come uscire da Edimburgo (l’anno scorso ci abbiamo messo pochissimo!). In teoria, dovremmo arrivare a Canterbury in un’ora e mezza, ma – tra il traffico e il navigatore che ci fa sbagliare strada in un incrocio prima di uscire da Londra e in mezzo al caos più totale di auto che non si ferma nemmeno la domenica – arriviamo nella cittadina con un’ora di ritardo. Per fortuna, avevo prenotato il pranzo in un pub sulla via principale, quindi non dobbiamo neanche perdere tempo a cercare qualcosa che ci ispira. Mentre percorriamo la strada principale, scorgiamo già la bellissima Cattedrale, ma siamo stanchi e affamati e rimandiamo a più tardi la passeggiata nel centro storico. Al The Lady Luck, con poco meno di 27 sterline pranziamo discretamente con due baguette farcite con contorno di ottime patate fritte, e ci rinfreschiamo con due mezze pinte di birra. Rinfrancati e riposati, andiamo alla scoperta di Canterbury. La popolarità di questa cittadina medievale, che oggi conta circa 55.000 abitanti, è dovuta soprattutto alla magnifica Cattedrale, una delle più belle chiese d’Europa e principale sede vescovile della Chiesa d’Inghilterra, dichiarata Patrimonio dell’Umanità.
Nel 597 Agostino da Canterbury scelse Canterbury come sedeper la conversione dei pagani al Cristianesimo, e da allora la chiesa è meta di pellegrinaggi. La famosa Via Francigena, che collega Canterbury a Roma, ha il suo chilometro zero proprio accanto al portico sud della Cattedrale. Dopo la spesa ingente per i biglietti di Westminster Abbey, abbiamo deciso di non aggiungere altri ingressi costosi, quindi vedremo la Cattedrale solo dall’esterno. Purtroppo, non è possibile accedere al cortile della chiesa quando questa è ancora aperta per le visite, ma l’addetto agli ingressi ci suggerisce di entrare nell’adiacente museo della cattedrale, salire le scale e scattare qualche foto direttamente dalle finestre che danno proprio sulla Cattedrale di Canterbury. Un ottimo consiglio, che accettiamo al volo per immortalare questa meraviglia gotica da un’angolazione pressoché perfetta. La nostra passeggiata nel centro storico include anche Butter Market eMercery Lane, arricchite da splendide case a graticcio. Arriviamo fino alla Crooked House, una casa sbilenca, diventata meta di curiosi anche grazie a una celebre citazione dickensiana: “Una casa molto vecchia sporgente sulla stradapiegata in avanti, nel tentativo di vedere chi sta passando sullo stretto pavimento sottostante”. Oggi la Crooked House, situata al numero 28 di Palace Street, ospita un negozio di libri usati venduti a scopo benefico, dove ovviamente devo assolutamente entrare. Non trovo niente di interessante, prendo un segnalibro come ricordo e poi esco per scattare qualche foto a questo curioso (e antico) edificio. Torniamo all’auto, che avevamo parcheggiato lungo la strada prima di arrivare nel centro storico. Abbiamo pagato la sosta con la carta di credito grazie ad una comodissima app consigliata sul parcometro, così anche stavolta non abbiamo avuto la necessità di dover cambiare i nostri euro (per questa vacanza, non ci siamo procurati le sterline, scegliendo di evitare i contanti).
Da qui a Sandwich ci sono poco più di 20 chilometri, che percorriamo in tranquillità, su belle stradine di campagna. Arriviamo in mezz’ora di strada e parcheggiamo nel centro della cittadina, che è praticamente deserto. Anche i negozi sono chiusi, è domenica e in giro si trova solo qualche turista. Facciamo due passi per vedere le antiche case a graticcio e le stradine medievali, poi torniamo velocemente all’auto per raggiungere, ad una decina di chilometri da qui, il luogo dove pernotteremo. Arriviamo alla Private Double en-suite Room at the Groves dopo un groviglio di strade secondarie, che abbiamo dovuto prendere perché la strada principale era interrotta. L’accoglienza è gentile ed amichevole, Jonathan ed Emily sono molto simpatici e la camera che abbiamo affittato per la notte è piccola ma completa di tutto (anche del frigo per il mio vaccino). Il bagno è davvero microscopico, ma ha anche la doccia ed è pulito.
Paghiamo il dovuto per la notte e per la colazione (in totale circa 100 euro – abbiamo indicato su un moduletto prestampato cosa vorremmo mangiare domani mattina), poi ci rimettiamo in macchina per andare al ristorante che ho prenotato da casa, e che anche Emily ci ha suggerito.
L’81 Beach Street è un bel ristorante sul mare a Deal, a due chilometri dal nostro alloggio. Parcheggiamo l’auto nel parcheggio di fronte all’entrata, e veniamo fatti accomodare al piano superiore dell’edificio, proprio accanto ad una finestra vista mare. Davide ordina un filetto di orata con verdure e una pinta di birra, io decido per un piatto di suprema di pollo con asparagi e risotto ai funghi – così recita il menù. Chiedo anche una mezza pinta di birra e dell’acqua ghiacciata. Le birre arrivano subito, ma per il resto l’attesa è piuttosto lunga. Ci porgono le loro scuse, i piatti arrivano dopo quasi un’ora. Ed è la delusione quasi totale. Se l’orata è accettabile, le verdure sono insipide, ma la vera debacle è nel piatto che ho ordinato io: il pollo è asciutto come il deserto del Sahara, gli asparagi sono crudi, e il risotto non è risotto. È farro, che naviga in un’acquetta pressoché insapore che è tutto il contrario di come dovrebbe essere la mantecatura di un risotto. Sono due piatti che costano più di 20 sterline l’uno, abbiamo fame e mangiamo comunque tutto. La sala nel frattempo si è riempita, e l’ambiente si è fatto rumoroso. Gli altri ospiti, inglesi e americani, sono piuttosto ridanciani e non si curano molto del baccano che fanno. Sono arrivati soltanto i nostri due piatti, gli altri stanno solo bevendo e ridendo. Mah… Decidiamo di scendere e pagare il conto senza prendere altro. Il cameriere-titolare ci porge il conto anticipandoci che ha già tolto le bevande per scusarsi dell’attesa. Un gran bel gesto, che accettiamo ringraziandolo. Con il telefono in mano e pronta a pagare il conto che mi ha appena consegnato, gli suggerisco molto garbatamente di cambiare il nome del piatto, perché non era risotto, ma farro ai funghi. Lui è costernato, e mi chiede conferma della bontà del piatto. Al mio diniego, si scusa e mi prende il conto che ho tra le mani, dicendo che non pagheremo la nostra cena al suo ristorante. Siamo sorpresissimi, e gli diciamo che comunque – avendo mangiato –avremmo voluto pagare. Insiste, e noi usciamo dal ristorante con una cena da circa 60 sterline offerta dal ristoratore. Fuori, ci chiediamo quale possa essere stato il motivo del suo gesto più che onesto e, guardando su Google, troviamo probabilmente la risposta: negli ultimi giorni, ha ricevuto alcune recensioni molto negative per i tempi lunghi e per alcuni piatti sbagliati. Ci viene da pensare che, per evitare di aggravare la situazione incassando un’ulteriore recensione negativa, abbia voluto omaggiarci della cena cercando di salvare il salvabile. Un comportamento del genere è comunque onestissimo, e spero che ci siano solamente stati problemi temporanei in cucina, così che altri clienti possano in futuro fare onore alla cucina del ristorante.
Dopo due passi sul lungomare, torniamo in auto alla nostra camera per un buon sonno ristoratore.
Giorno 9 – Dover, Rye
La mattinata è splendida, la colazione (servita in camera sul tavolo ribaltabile, con sedie pieghevoli pronte all’uso) è più che discreta. Salutiamo Emily promettendole un’ottima recensione su Google e puntiamo la rotta verso Dover e le sue bianche scogliere. Parcheggiamo prima nel parcheggio in alto per visitare le scogliere. È ancora presto e il parcheggio è vuoto, così possiamo scegliere il posto più comodo e iniziare il breve tragitto in salita.
Le scogliere bianche prendono il loro nome dal colore bianco del gesso e sono una vera e propria meraviglia della natura, oltre a rappresentare la porta d’ingresso all’Inghilterra se si arriva via mare lungo il Canale della Manica. Le scogliere sono abbastanza alte, anche se non imponenti come quelle viste in Irlanda e in Scozia. Siamo proprio sopra una di queste, quindi non è che si possa vedere poi molto. Il panorama non è di quelli da meraviglia totale, per cui decidiamo di proseguire il nostro itinerario di oggi e vedere più avanti altre scogliere bianche che dovrebbero essere molto più spettacolari. Unica nota positiva: il castello di Dover, molto imponente, ma che ovviamente costa una fucilata e decidiamo di non andare a visitare. Prima di andare a prendere l’auto, ci fermiamo alle toilette, e di fianco troviamo una piccola libreria dell’usato a scopo benefico, per la manutenzione del sito e delle scogliere. Ci entro più che volentieri, e trovo un bel libro fotografico sulla Principessa Diana. Non avendo contanti per pagarlo, aspettiamo i pochi minuti che mancano alle 10 per entrare nel negozio di souvenir per pagare con la carta di credito; intanto sfoglio il libro e leggo i passi più interessanti. Quando si aprono le porte del negozio, a sinistra vedo tanti libri stipati in una bella libreria d’angolo. Vado a controllare e trovo un libro meraviglioso, scritto da Andrew Morton, sul matrimonio tra il Principe William e Catherine Middleton. Faccio il cambio con il libro che avevo scelto fuori, prendo qualche cartolina e pago tutto in cassa. Davide ormai è rassegnato, e inizia a chiedersi come potrò infilare tutti i libri nei bagagli, avendo solo pochi chili di margine con la valigia da 20 chili da mettere in stiva. Io sono fiduciosa, e soprattutto soddisfattissima dell’acquisto. Scendiamo con l’auto a Dover, e parcheggiamo appena prima del centro. Non c’è tanta gente in giro, ma è meglio così. Volevamo andare a visitare la Roman Painted House (gratuita), ma – a sorpresa – il museo è chiuso. Torniamo verso il centro e puntiamo sul lungomare e sulla Marina, un luogo molto rilassante. Ci fermiamo ad un chiosco per un caffè per Davide, e ci sediamo per un po’ di fronte al mare.
Dall’altra parte, il castello di Dover ci osserva maestoso dall’alto della sua collina. Per pranzo, non abbiamo una gran fame, e soprattutto non abbiamo molta voglia di spendere le solite 50 sterline per qualcosa che non ci entusiasmerà più di tanto. Ritorniamo verso il centro, e ci infiliamo in un grande pub, The Eight Bells, in cui troviamo delle promo interessanti valide fino al pomeriggio. Il conto finale è di 22 sterline per fish and chips, pasta Alfredo (altra crisi di astinenza da carboidrato italico), una birra grande e una piccola, tutto più che discreto. Prima di lasciare Dover, faccio un salto in un bel charity shop poco lontano dal pub, e spendo ben 2.20 sterline per una bella maglietta in cotone in stile marinaresco (nuovissima) e una rivista illustrata che celebrava i 95 anni della Regina Elisabetta II. Che affaroni!
Oggi pomeriggio ci aspettano un bel po’ di chilometri in auto, quindi riprendiamo la nostra strada e percorriamo i 60 chilometri circa che ci separano da Rye. Un tempo, questa cittadina era circondata d’acqua su tre lati, con un’unica porta in pietra che collegava il villaggio alla terraferma quando c’era l’alta marea. Church Square, vicino a cui parcheggiamo a pagamento, costeggia la chiesa (sosta brevissima) ed è composta di una fila di basse casette a graticcio dalle porte piccine e passaggi stretti, così antiche e apparentemente delicate che fa quasi paura toccarle. Da lì, la distanza per arrivare su Mermaid Street è breve. Questa volta ciò che ho letto a casa non mi ha tradito: è una stradina piena di carattere, fatta di ciottoli muschiosi e fiancheggiata sia da case a graticcio asimmetriche che da quelle georgiane. Riprendiamo l’auto per percorrere altri 60 chilometri per arrivare fino a Beachy Head e alle Seven Sisters Cliffs. Se Beachy Head – a prima vista – è una mezza delusione, con un panorama che per lo più prevede un faro in mezzo al mare e le scogliere bianche (ma non entusiasmanti), quello che Davide intravede dallo specchietto retrovisore dell’auto mentre scendiamo verso la tappa successiva è molto più sorprendente. Torniamo indietro, parcheggiamo lungo la strada vicino ad un parcometro non più funzionante (ormai siamo anche stufi di pagare ogni volta delle tariffe esagerate il parcheggio per rimanere magari anche meno di un’ora) e ci incamminiamo su per la collina. Con la linga penzoloni ed ansimanti, lo spettacolo davanti ai nostri occhi e sotto i nostri piedi è di quelli davvero da urlo: il mare blu davanti agli occhi fino all’infinito, a destra la costa frastagliata nella foschia, ma a sinistra le imponenti scogliere bianche che si gettano nel mare con il faro bianco e rosso a poca distanza dalla costa. In più, il verde della collina erbosa a fare da contrasto con tutto questo. Adesso ci siamo, queste sì che sono scogliere degne di tale nome!
Scattiamo qualche foto, faccio anche una videochiamata ai miei suoceri per mostrare cotanta meraviglia paesaggistica, poi con calma scendiamo dalla collina per far ritorno all’auto. Siamo contentissimi e sollevati, sarebbe stato un peccato fare tanta strada per rimanere tanto delusi… _Ma non è ancora finita. Pochi chilometri più avanti, ci aspettano le Seven Sisters Cliffs, che si presentano davanti a noi a pochi passi da un parcheggio gremito di auto. Davide va a sinistra per vedere le scogliere da una prospettiva leggermente sopraelevata, io vado a destra, all’altezza della spiaggia di sassi, da dove le “sorelle” pare si buttino in mare. Il nome “Sette Sorelle” è legato al fatto che le scogliere sono costituite da sette distinte colline adagiate una a fianco all’altra. Tuttavia, le origini precise del nome sono sconosciute. Una storia popolare racconta che ai marinai, quando vedevano apparire in lontananza le falesie, sembrava di scorgere un gruppo di sette suore, i cui veli erano appunto le bianche scogliere. Un’altra leggenda lega l’origine del loro nome alle Pleiadi, le mitiche sette figlie di Atlante che vennero trasformate in stelle.
Pur non essendo famose come le bianche scogliere di Dover, le Seven Sisters sono probabilmente le più belle scogliere di gesso d’Inghilterra. Infatti, le scogliere di Dover sono uno spettacolo difficile da vedere senza avventurarsi in barca; inoltre, la cresta tende ad avere un’altezza piuttosto uniforme. Le Seven Sisters, al contrario, possono essere viste nella loro interezza da terra, e noi ora ne abbiamo conferma diretta. Con il collo un po’ bruciacchiato, risaliamo in auto. Adesso è la volta di Brighton, dove soggiorneremo stasera e domani. I 25 chilometri che ci separano dalla città non sembrano molti, ma il traffico ci impedisce di arrivare in meno di un’ora di tempo.
L’hotel che abbiamo scelto, il Best Western Princes Marine Hotel, è proprio sul lungomare. Quando arriviamo, non troviamo un posto libero tra quelli riservati all’hotel, quindi lasciamo temporaneamente l’auto sulla strada e procediamo con il check in. Paghiamo circa 350 euro per il soggiorno di due notti con colazione all’inglese inclusa, poi saliamo in camera per rinfrescarci brevemente prima di cena. La camera e il bagno sono spaziosi e puliti, ci sono due letti separati ma sono molto ampi e comodi.
Quando scendiamo, vedo che un cliente sta lasciando il parcheggio, e mi fiondo per tenere il posto a Davide che può così sistemare la “nostra” Opel Mokka senza più doverla spostare fino a mercoledì mattina. Siamo decisamente lontani dal centro, e il fatto di aver prenotato un posto per cena ci solleva un po’ lo spirito, visto che ormai siamo stanchi e affamati. Il pub The Stirling Arms è di tipo tradizionale, ed è scozzese. Ceniamo molto bene con due pinte di birra, un hamburger con patatine e un piatto con pollo, salsa allo zafferano, acciughe marinate, capperi e olive – bisognerebbe mandare qui lo chef dell’81 Beach Street per insegnargli a cucinare il pollo in modo gustoso e davvero molto originale. Torneremo qui anche domani sera, ci siamo trovati davvero molto bene! L’ultima passeggiata fino all’hotel, e poi una bella notte di sonno.
Giorno 10 – Brighton
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La colazione in hotel non è molto varia – a buffet c’è poca scelta a livello di pasticceria, frutta e affettati, ordiniamo anche uova in camicia, salsiccia e bacon che arrivano tristi in un piatto praticamente mezzo vuoto. La qualità non è scadente, per fortuna, ma si poteva far qualcosa per rendere un po’ più appetitoso un pasto per cui abbiamo pagato davvero una cifra esagerata (17 sterline a testa per ogni colazione). Anche il servizio è spento e sbadato. Pazienza, la cosa importante è passare una bella giornata in questa bella cittadina di mare.
Davide consulta Google per l’orario dell’autobus che passa davanti all’hotel, e che – per 5.20 sterline in due – ci deposita direttamente nel centro di Brighton, dopo un tragitto di una quindicina di minuti. Il 700 Coastliner si è rivelato proprio un’ottima soluzione – tra l’altro, sedendoci nei sedili al piano più alto del bus abbiamo visto il panorama del lungomare e poi della città, nemmeno se fossimo arrivati comodamente in taxi… Scendiamo in Portland Street e da lì ci spostiamo subito verso The Lanes, il quartiere medievale dei pescatori, il cui nome significa letteralmente “vicoli”. Negozietti di ogni tipo, soprattutto gioiellerie, pub storici, ristoranti e posticini per una pausa caffè o per un thè, gremiscono i vicoli creando un’atmosfera da piccolo villaggio. Passeggiamo per un po’ tra questi stretti vicoletti, e intanto prenotiamo su internet il ristorante Donatello per il pranzo di oggi. A poca distanza, l’imponente Royal Pavilion, con il suo stile orientale che sembra trasportarti nel lontano Est del mondo. Peccato che buona parte della struttura sia ricoperta da ponteggi, ci sono molti lavori in corso e non si riesce a vedere bene l’intera costruzione di questo originalissimo palazzo.
A nord di The Lanes, si trova il quartiere di North Laine, dove i colori dei murales riempiono le strade. La street art nascosta nelle viette secondarie e le facciate vivaci di pub e negozi hanno decisamente magnetizzato i nostri sguardi. Ci sono negozi di ogni genere, soprattutto dell’usato. Il top è stata la scoperta del mercatino coperto più grande che abbia mai visto, lo Snoopers Paradise, in Kensington Gardens Street, una delle vie più animate del quartiere, insieme a Bond Street, Gardner Street, Syndey Street e Gloucester Road. Entri in questo negozio e non sai più se e quando ne uscirai, né quanti soldi avrai speso. C’è davvero di tutto, non sai da che parte guardare. Ci proviamo qualche cappello, ci rimiriamo allo specchio con buffissimi occhiali da sole anni Sessanta e Settanta. Usciamo dopo un’ora con una borsa contenente i nostri acquisti. Davide ha preso un libro fotografico e due paia di occhiali da sole, io ho scelto una cartolina d’epoca di Brighton e un sottobicchiere con la Regina Elisabetta II ritratta da giovane e poi in occasione del suo ultimo giubileo. Il pranzo al ristorante italiano Donatello si è rivelato una buona scelta, soprattutto per soddisfare quella crisi di astinenza da carboidrato italico che ogni tanto si fa viva. Con 29 sterline pranziamo più che discretamente a base di cocktail di gamberi, spaghetti pomodoro e vongole, e insalata nizzarda. Ci sacrifichiamo e beviamo l’acqua con ghiaccio, non abbiamo la minima intenzione di spendere almeno 7 sterline per bere una birra italiana che a casa pagheremmo meno della metà. Il servizio è stato cortese e veloce, quasi tutti i camerieri erano italiani, come i proprietari. Siamo molto vicini al mare, così raggiungiamo il Brighton Palace Pier in pochissimi minuti.
La spiaggia libera è fatta di ciottoli, ed è molto affollata in questa bella giornata estiva. Pare quasi di essere a Rimini! Il Brighton Pier, meraviglioso molo di epoca vittoriana, è diventato un’icona della città. È stato aperto nel 1899 come prolungamento della passeggiata sul lungomare e come spazio per il divertimento. Si tratta di una sorta di città nella città: ci sono molti chioschi che vendono sfiziosità, come gelati, crepes, hamburger e fish and chips, da gustare sulle panchine o sulle sdraio; ci sono anche ristoranti, bar e una sala giochi enorme. In fondo al pontile, il famoso luna park. Davide va a fare qualche foto alle giostre, io mi gusto un bel frullato al cioccolato all’ombra del pontile. Davide mi raggiunge e decide di prendersi anche lui un milkshake: sembra di essere tornati bambini, al mare, senza pensieri, se non quello di godersi una giornata di sole. Decidiamo di incamminarci verso la fermata dell’autobus poco prima che il cielo si ingrigisca e cali una fitta foschia, siamo stati davvero fortunati! E la fortuna continua anche più avanti, perché riusciamo a prendere al volo il 700 Coastliner, che paghiamo solamente 2 sterline (non ho capito se è stato un errore dell’autista oppure se ci sono differenze di prezzo a seconda della destinazione o della fascia oraria). Ci accomodiamo e ci godiamo il riposo durante il tragitto. Ci riposiamo un po’ in camera e poi torniamo al pub The Stirling Arms per la nostra ultima cenetta a Brighton: il conto è di 49 sterline per due pinte di birra, e due ottimi piatti di fish and chips.
La notte in albergo è tranquilla, e dormiamo sereni in attesa delle nuove scoperte che ci riserverà la giornata di domani.
Giorno 11 – Fishbourne, Salisbury
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Dopo aver fatto colazione e caricato i bagagli in macchina, ci prendiamo qualche minuto per fare qualche foto alla spiaggia di fronte all’hotel, dove troviamo tantissime cabine colorate che ci riportano indietro nel tempo, a quando si faceva tanta vita da spiaggia e la cabina diventava un po’ una seconda casa. Queste cabine, che qui si chiamano “huts”, sono tutte colorate, e creano un bel contrasto contro il cielo e il mare, che oggi sono un po’ plumbei per un clima non propriamente estivo. Sembra il mare d’inverno, una fotografia in bianco e nero che improvvisamente si accende dei colori delle cabine per regalarci una vista d’insieme piuttosto insolita ma estremamente piacevole.
La prima tappa di oggi crea davvero molta aspettativa. In poco meno di un’ora, raggiungiamo Fishbourne (vicino a Chichester, nel West Sussex) e il suo Roman Palace, per il cui ingresso ho già pagato 13.95 sterline a testa. Mi aspetto davvero molto da questo sito archeologico sconosciuto ai più. Ho visto foto molto promettenti, quindi sono curiosissima e in trepida attesa di vedere cosa ci aspetta non appena varcata la porta d’ingresso. Devo dire, però, che già all’esterno le premesse sono quelle giuste: sulla sinistra, abbiamo intravisto un cartello che indica la presenza di una libreria con libri di seconda mano. Evviva! Mi riservo di farci un salto prima di ripartire. Il piccolo museo all’entrata ci presenta gli scavi e l’epoca di datazione dei reperti. Il grande palazzo romano di Fishbourne venne edificato nel I secolo d.c., circa trenta anni dopo la conquista romana della Britannia, sul sito di un accampamento usato dai romani per i rifornimenti durante l’invasione iniziata nel 43 dall’imperatore Claudio. Il palazzo era rettangolare ed era circondato, come era nell’uso romano, da giardini dal disegno simmetrico, la parte nord dei quali è stata ricostruita. Nel II e III secolo ci furono estese modifiche, con molti dei mosaici originali in bianco e nero ricoperti da più sofisticati mosaici colorati. Altre modifiche erano in corso quando il palazzo subì un grave incendio attorno all’anno 280 d.c., a seguito del quale venne abbandonato.
Anche se gli abitanti del posto conoscevano già l’esistenza di resti romani nella zona, fu solo nel 1960 che l’archeologo Barry Cunliffe iniziò uno scavo sistematico nel sito, scoperto per caso da Aubrey Barrett, un ingegnere impegnato nella posa di un acquedotto. Per comprenderne le dimensioni, viene paragonato alla Domus Aurea di Nerone a Roma (che occupava 2,5 kmq, 80 ettari con i giardini) o la villa di Piazza Armerina in Sicilia (occupava 3,5 kmq senza i giardini), per cui il conto non è facile. La pianta invece somiglierebbe nell’organizzazione a quella della Domus Flavia nel Palazzo di Domiziano sul Palatino a Roma. Fishbourne è di gran lunga la più grande residenza romana a nord delle Alpi, superando, con i suoi 150 metri di lato, anche Buckingham Palace. Il sito attuale incorpora gran parte dei resti visibili, inclusa un’intera ala del palazzo. Devo dire che, dopo un primo timido approccio al museo, Fishbourne si è rivelata una vera splendida sorpresa. Appena varcata la prima soglia, gli scavi ci hanno regalato una visuale meravigliosa su una distesa davvero sorprendente di mosaici ancora molto ben conservati. Figure geometriche, vegetali, nodi marini, intrecci armoniosi, persino uno scheletro umano. Ma la grande sorpresa è stato il grandioso mosaico che vede al centro Cupido che cavalca un delfino. Le figure sono rese in maniera magistrale, ma ciò che stupisce sono le dimensioni del mosaico e i colori delle tessere, ancora visibili nonostante il trascorrere dei secoli. Sembra quasi che l’artista che lo ha prodotto lo abbia finito pochi giorni fa, che le sue mani abbiano appena posato l’ultima tessera a comporre una vera e propria opera d’arte. Non so quante foto ho scattato, sarei rimasta ore ad ammirare questi tesori inaspettati.
Usciamo per fare una passeggiata nei giardini, che sono stati ripiantumati utilizzando piante del periodo romano. Fuori c’è persino un antico triclinio soavemente progettato nella tranquillità del verde, sormontato da un’invitante struttura lignea da cui scendono dei tralci di vite. Ah, i romani sì che sapevano vivere la vita! Rientriamo verso i mosaici dopo una rapida puntata nel piccolo deposito dove è stata ricostruita la vita agreste degli antichi romani, scattiamo qualche altra foto e poi usciamo dal museo. Faccio un salto alla libreria con i libri usati (in vendita a favore del museo!), ma ne esco fortunatamente indenne.
Il cielo è grigio, il clima non è dei migliori. Decidiamo di saltare la visita ad Old Sarum (collina-fortezza che fu il primo nucleo abitativo della cittadina, datazione tra l’età del ferro e l’Alto Medioevo) e di goderci con calma Salisbury. Riusciamo a trovare un posto per l’auto solamente nel parcheggio coperto a pagamento di un centro commerciale a poca distanza dalla Cattedrale, che avevamo scorto in lontananza ben prima di arrivare in città.
La Cattedrale, il nostro primo obbiettivo, è un magnifico esempio del primo gotico inglese ed è dedicata alla Beata Vergine Maria, con il nome di Cathedral Church of the Blessed Virgin Mary. Questa bellissima chiesa è stata costruita tra il 1220 e il 1258, in soli 38 anni. È davvero imponente, ed è sovrastata dalla guglia, alta 123 metri, la più alta di tutta l’Inghilterra e visibile a molti chilometri di distanza. La torre e la guglia furono aggiunte alla cattedrale nella metà del XIV secolo, causando tra l’altro non pochi problemi di staticità. La cattedrale è sicuramente l’elemento di maggior interesse storico della città, anche se decidiamo di visitarla solo all’esterno (tra l’altro cade anche qualche goccia di pioggia, ma resistiamo stoici anche senza aprire l’ombrello). Siamo molto affascinati da questa meravigliosa struttura gotica, con tanto di gargoyle, e scattiamo moltissime foto. Anche il centro della cittadina è molto interessante, con il suo aspetto medievale che ci riporta indietro nel tempo. Per pranzo, decidiamo di affidarci alla catena Kokoro, che promette gustosi piatti asiatici a prezzi più che onesti. Mai scelta fu tanto azzeccata. Spendiamo 23 sterline per due ravioli fritti con pollo, due enormi ciotole di noodles rispettivamente con gamberi fritti e con pollo fritto, una bottiglia di Coca Cola e una di acqua frizzante. Sazi e soddisfatti, torniamo all’auto dopo aver controllato il menù del pub che ho prenotato per stasera, che però non mi convince fino in fondo. Ci penseremo più tardi.
The Old House Guest House, che abbiamo scelto per il nostro pernottamento, è appena fuori dal centro di Salisbury. Sistemiamo l’auto nel cortiletto interno della casa, e suoniamo il campanello. Ci apre la porta un’arzilla vecchietta che mi ricorda tanto Miss Marple, dallo splendido accento inglese e dai meravigliosi capelli bianchi come la neve. Ci dà il suo benvenuto e ci mostra la bellissima camera che ci ha riservato. È spaziosa, luminosa, arredata con mobili d’epoca e decorata con deliziosi ninnoli tipicamente british (anche due tazze da tè che celebrano il giubileo della Regina). Il bagno è spazioso e pulitissimo, ma anche moderno, con tanto di doccia walk-in e sciacquone automatico. C’è persino un cortiletto interno in condivisione con la camera di fianco. Avevo dimenticato di far mettere in frigorifero il vaccino, così esco in cerca della nostra Miss Marple, che trovo in cucina intenta a prendere il tè con il marito, che assomiglia al Principe Filippo. Accettano la mia richiesta con prontezza e gentilezza, e li lascio continuare il loro piccolo rituale quotidiano. Nel tragitto per raggiungere la cucina, ho attraversato un paio di salotti, davvero stupefacenti: riccamente arredati e decorati, sono in pieno stile inglese, con la loro opulenza. Ci sono tanti libri d’arte, soprammobili e quadri. Compiliamo il modulo con le nostre richieste per la colazione di domani e lo lasciamo all’ingresso, come ci è stato chiesto di fare al nostro arrivo.
Dopo un bel riposino, siamo pronti per cena – abbiamo prenotato in un altro pub, il George and Dragon, nel centro storico di Salisbury, che si rivelerà una buona soluzione. Ceniamo più che discretamente per poco meno di 43 sterline, con due pinte di birra, costine di maiale con mais, verza e patatine, calamari sale e pepe, involtini primavera di anatra. Prima di tornare all’auto, che abbiamo lasciato gratuitamente in strada, facciamo un salto veloce a fare qualche foto alla Cattedrale, che di notte è ancora più affascinante. Le luci risplendono dorate contro il buio, in giro non c’è praticamente nessuno, e siamo soli davanti a questa meraviglia gotica. Un’atmosfera irreale e davvero unica, per un’occasione imperdibile. Rientriamo alla nostra Guest House per un buon sonno ristoratore, in attesa di scoprire le meraviglie che la regione dei Cotswolds ci regalerà a partire da domani.
Giorno 11 – Cotswolds
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A colazione, la nostra Miss Marple ci accoglie in uno dei suoi salotti, dove ha apparecchiato tutti i tavoli e i tavolini con un trionfo di servizi di porcellana bianca e blu, gli stessi che sono in bella mostra nelle madie e sulle mensole di legno.
Ci intrattiene con la sua piacevole conversazione inglese informandosi circa le tappe rimanenti della nostra vacanza. Le chiedo se fosse possibile acquistare almeno una delle tazze che abbiamo in camera, quelle del Giubileo della Regina. Lei si informa presso il figlio, che sta spadellando le nostre colazioni in cucina e che è il vero titolare della Guest House, ma purtroppo le tazze sono della suocera e non si toccano. Miss Marple mi suggerisce di provare a vedere nei charity shops, anche lei ne è un’accanita sostenitrice. Ci perdiamo in chiacchiere mentre aspettiamo la colazione, che arriva abbastanza velocemente al nostro tavolo: ben servita, golosa e succulenta, senz’altro una delle migliori della vacanza.
Finiamo di preparare i bagagli, paghiamo il conto (154 euro, colazione inclusa), carichiamo tutto in auto e siamo pronti per raggiungere i tanto agognati Cotswolds. La prima tappa, tanto voluta da Davide, è l’Haynes Motor Museum di Yeovil, che raggiungiamo in poco meno di un’ora di viaggio. Il biglietto ha un prezzo piuttosto salato (quasi 24 sterline a testa), non siamo riusciti ad acquistare gli ingressi su internet (ci sarebbe stato uno sconticino del 10%, ma il pagamento veniva continuamente rifiutato per entrambe le nostre carte di credito) e non ci sono altre scorciatoie se non pagare la tariffa intera. Speriamo che ne valga la pena, ma siamo abbastanza fiduciosi.
Si tratta della più grande collezione inglese di auto e moto, con un’esposizione di più di 300 veicoli. La sala che mi colpisce di più è la Red Room, che ospita più di 40 autovetture rosse (incluse una Alfa Romeo 6C 1750 Gran Turismo del 1930 e una Lamborghini Countach LP400S del 1981). Veramente spettacolare, anche se il bello – almeno per Davide, deve ancora venire. Sa già che dovrà cercare una sala in particolare, e – quando ci arriviamo – la gioia è immensa. Si tratta della sala dedicata alla scuderia F1 Williams, dove sono in mostra le auto di Nigel Mansell e quella di Damon Hill, la stessa che guidava Ayrton Senna il tragico giorno del suo incidente. Capisco che non sarà una visita breve, quindi mi accomodo su una panchina poco distante e aspetto che Davide scatti le foto e legga tutti i pannelli esplicativi. Nel frattempo, sfoglio il libro di seconda mano che abbiamo scovato in una saletta di passaggio tra una sezione e l’altra – anche qui, vengono esposti un bel po’ di libri (ovviamente quasi tutti riguardano il mondo dell’automobile e della motocicletta) usati a dei prezzi molto interessanti, il cui ricavato andrà al museo per il mantenimento e la manutenzione delle auto e della struttura. Davide ha trovato un bel libro fotografico, in buone condizioni, per sole 4 sterline, e l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Dopo una mezz’oretta, Davide emerge dalla Sala Williams e terminiamo la visita di questo universo parallelo. Il negozio del museo ha dei prezzi davvero esagerati, quindi usciamo con il libro di seconda mano, una cartolina e la guida ricordo di ciò che abbiamo visto. Arriviamo al vicino Sparkford Inn, il pub che avevo prenotato da casa, un po’ in anticipo, ma il locale è praticamente deserto e non ci sono problemi di sorta. Pranziamo discretamente con circa 26 sterline (macaroni and cheese, baguette con carne arrosto, una mezza pinta di birra e acqua ghiacciata).
Arriviamo a Castle Combe, il primo villaggio dei Cotswolds del nostro itinerario, dopo circa un’ora e venti. Per arrivarci, abbiamo attraversato altri bellissimi villaggi e qualche ponte in pietra (per l’attraversamento di uno in particolare ci è stato richiesto il pagamento di un pedaggio di 1 sterlina e 20 centesimi…). Troviamo miracolosamente parcheggio (gratuito, non ci sono parcometri nei paraggi) lungo la strada, di fronte ai bagni pubblici). Attraversiamo un bellissimo ponticello all’ombra di un grande salice piangente ed entriamo nel mondo quasi fatato dei Cotswolds.
Castle Combe si rivela essere il villaggio medievale inglese per antonomasia, fermo nel tempo: le sue case sono state create con le tipiche pietre color miele delle Cotswolds e nessun nuovo edificio è stato costruito dal 1600 in poi. Le abitazioni sono tutte protette, alla stregua di monumenti, da una serie di rigide regole edilizie che hanno permesso di preservarne l’atmosfera medievale. Il villaggio ha conosciuto un periodo di grande splendore nel Medioevo, come importante centro industriale per la produzione e distribuzione della lana. Questa atmosfera sospesa nel tempo ha fatto sì che diversi registi si innamorassero di lei, tanto è vero che il villaggio è stato set di diversi film, uno fra tanti War Horse di Steven Spielberg (come apprendiamo dalle notizie esposte nella chiesetta locale).L’unico tratto di cemento che troviamo qui è la stradina che attraversa il villaggio; tutto il resto è costruito con sassi, ghiaia, ciottoli. Anche le abitazioni sono costruite interamente in pietra, dai muri ai tetti.
A parte le case, ci sono un paio di tradizionali sale da tè, un pub, la Chiesa di Sant’Andrea, risalente al XIII secolo (conserva uno dei più antichi orologi astronomici ancora funzionanti del Regno Unito),e la croce del mercato, che un tempo serviva ad indicare la piazza principale. Il castello medievale, da cui il villaggio prende il nome, era situato a 500 metri a nord del villaggio, ma oggi non esiste più. Nonostante ci siano molti turisti, l’atmosfera non è chiassosa, è tutto molto tranquillo e pacifico, come se il tempo scorresse placido come le acque del ruscello che scorre sotto il ponticello in pietra all’inizio del villaggio. Scattiamo diverse foto, siamo molto soddisfatti di questo bell’inizio in questa regione tanto osannata – ora ne capiamo la ragione.
Ci rimettiamo in macchina per affrontare l’ultimo tragitto che ci attende in questa giornata. Per arrivare a Burford impieghiamo poco più di un’ora, ma non c’è tanto traffico e arriviamo senza problemi al piccolo parcheggio del pub che ci ospiterà per due notti, il The Royal Oak. L’accoglienza è cortese e simpatica, camera e bagno sono abbastanza spaziosi, il mobilio è un po’ obsoleto. Al nostro arrivo, con le spiegazioni di rito ci viene chiesto il pagamento del nostro soggiorno (262 euro, colazione inclusa). Ci riposiamo un po’ prima di cena, poi usciamo in direzione del The Cotswolds Arms, il pub dove ho prenotato per stasera. Il villaggio di Burford è molto tranquillo, sulla via principale ci sono un sacco di negozi e pasticcerie (chiudono tutti alle 17) e l’atmosfera è silenziosa e rilassata. Il pub è piuttosto affollato, menomale che avevo prenotato da casa! Veniamo fatti accomodare e ordiniamo una porzione di fish and chips (totalmente insipido), una pie (involucro di pasta frolla ripieno di spezzatino di carne cotto a lungo dentro una salsa alla birra – un piatto tipico inglese), una mezza pinta e una pinta di birra. Il conto è di 54 sterline, non poco – mi scoccia soprattutto per il pesce. Ho fatto presente la totale assenza di sale, ma mi è stato risposto in modo poco gentile che il piatto viene appositamente salato poco – poco?? Per niente… Anche la pasta frolla della pie è pressoché insapore.
Rinunciamo al dessert, che costerebbe 9 sterline, non vorremmo prendere un’altra fregatura. Rientriamo in camera per un buon sonno ristoratore, nell’attesa di scoprire altre meraviglie in questa magnifica regione.
Giorno 12 – Bibury, Bourton-on-the-Water
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La colazione al pub è molto gustosa, partiamo ben sazi per la prima tappa di oggi. Ieri ho eliminato Bampton dal programma, ci volevo tornare per rivedere la biblioteca con il merchandising legato alle scene di Downton Abbey girate nel villaggio ma ho letto che a Ferragosto il servizio pubblico non è attivo. Andiamo direttamente a Bibury, è presto e speriamo di non trovare la massa di turisti ad invadere le stradine di questa famosa destinazione turistica.
Sulla strada, dove il parcheggio è gratuito, non c’è un posto libero. L’unica soluzione è il parcheggio a pagamento appena fuori dal centro, che però ci costa ben 8 sterline (è vero che si può lasciare lì la macchina tutto il giorno, però è davvero un prezzo folle). Non cominciamo benissimo, è un furto legalizzato. In più, scopriamo che in realtà c’è ben poco da vedere… Nonostante Bibury sia spesso descritto come il borgo più bello dell’Inghilterra, la vera attrattiva è Arlington Row, una fila di antiche case di tessitori risalenti al XVI secolo, perfettamente conservate e rappresentative dello stile architettonico tradizionale dei Cotswolds. Ci prendiamo il tempo per scattare le foto alle casette, al ruscello e al ponte, ma finisce tutto lì. Andiamo a vedere la chiesa, ma non è davvero niente di speciale (nota: anche qui ci sono libri e dvd di seconda mano in vendita per beneficenza). Mentre torniamo all’auto, un elegante cigno solitario ci saluta passando rapido sulle fresche acque che costeggiano la strada principale. Certamente Bibury è pittoresca e pacifica, ma un passaggio di un’ora è più che sufficiente – sinceramente abbiamo preferito la meno famosa Castle Combe, visitata ieri. Maledicendo il turismo di massa, le guide e i siti che spediscono i turisti negli stessi posti anche sin troppo “instagrammabili”, saliamo in auto in mezzo al caos in cui a quest’ora è già immerso il parcheggio. Regaliamo il nostro biglietto già pagato ad una famiglia italiana che riesce a prendere il nostro posto, almeno facciamo una buona azione… che ci viene ripagata a brevissimo.
Uscendo dal parcheggio, avremmo dovuto girare a destra, ma c’è troppa confusione e Davide gira a sinistra. Il navigatore ricalcola l’itinerario e ci porta su una stradina di campagna pressoché deserta. Dopo pochi chilometri, passiamo oltre un cancello aperto e intravediamo la scritta “The Classic Motor Hub”. Davide fa una retromarcia velocissima, ed entriamo nel cortile di una delle sorprese più belle di questa vacanza. Ci sono tantissime auto d’epoca in bella mostra, e anche i due garage che intravediamo sono zeppi di bellissime auto. Si tratta di una concessionaria di auto storiche, che ovviamente apre le sue porte per mostrare a tutti ciò che può offrire. Mentre Davide osserva incantato cotanta bellezza motoristica, io mi rifugio nel negozio di souvenir, dove scovo un bel calendario fotografico 2026 dei Cotswolds. Faccio un giro e poi raggiungo Davide, che è ancora nel primo garage a scattare foto e a passare ai raggi x le macchine che più gli interessano. I bagni sono pulitissimi e ne approfittiamo per un rapido passaggio. Accompagno Davide nel negozio, e acquistiamo un’interessante rivista con bellissime foto e studi di auto storiche. Davide rimarrebbe qui tutto il giorno, ma fortunatamente dobbiamo riprendere il nostro itinerario. Non avremmo mai pensato di poter trovare una chicca del genere in aperta campagna, e senza nessun cartello pubblicitario ad indicarlo… sono queste sorprese le cose belle dei viaggi, ci entusiasmano molto più di qualsiasi altra cosa.
La prossima tappa è Bourton-on-the-Water, che fortunatamente si annuncia sin da subito molto diverso da Bibury. Appena arrivati non riusciamo a trovare posto se non davanti al supermercato nel pieno centro cittadino, dove però c’è un limite di sosta di 30 minuti, pena una multa da 100 sterline. Entriamo nel supermercato e ci riforniamo di acqua, poi ci posizioniamo in prossimità del parcheggio libero in strada e – al momento giusto, Davide intercetta un Suv che sta per ripartire. Io mi piazzo per tenere il posto, e Davide va a prendere l’auto per posteggiarla finalmente in tutto sicurezza. Abbiamo evitato una multa e soprattutto un altro salasso da spese di parcheggio (sicuramente ci sarà un parcheggio a pagamento anche qui, da qualche parte).
Bourton-on-the-Water è attraversata dal fiume Windrush, il che regala un’atmosfera davvero idilliaca: è tutto un susseguirsi di piccoli ponti di pietra sul basso fiume in uno scenario di locande, pub e sale da tè antiche costruite in mattoni. Oggi ricorre l’ottantesimo anniversario della Vittoria sul Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, per cui è dappertutto un tripudio di bei papaveri rossi e bandiere dispiegate al vento, a simboleggiare il sacrificio di tanti per la sconfitta dei regimi totalitari. Ci sono tanti bei negozietti qui intorno, facciamo un giretto veloce per acquistare qualche ricordino e poi cerchiamo i due charity shops che vediamo indicati su Google. Fortunatamente non trovo nulla, però ci piace molto passeggiare in questo piccolo villaggio colorato! Per pranzo, decidiamo di ripiegare su un paio di frullati al cioccolato e un bel bicchierone pieno di pezzettini di delizioso brownie: la pasticceria che abbiamo scovato è molto ben fornita, ed è tutto ottimo. Siamo ancora sazi dalla colazione di stamattina, e preferiamo goderci la cena di stasera al pub presso cui alloggiamo. Prima di tornare all’auto (che può rimanere nelle righe bianche per tre ore), passeggiamo senza meta verso la parte interna del villaggio, dove troviamo un meraviglioso negozio di antiquariato che dobbiamo assolutamente visitare. Il negozio straripa di oggetti di ogni possibile categoria immaginabile, ma la cosa più sorprendente è un’intera sezione dedicata ai Reali d’Inghilterra. Qui ci sono tante ceramiche decorate che celebrano nascite, matrimoni, fidanzamenti e giubilei, ma in fondo trovo anche una piletta di libri che mi tentano moltissimo. Trovo un magnifico libro che venne stampato nel 1953 come ricordo dell’Incoronazione di Elisabetta II: costa solo 8 sterline, non è molto pesante e può trovare senz’altro spazio in uno dei nostri bagagli. Non posso assolutamente lasciarlo qui! Davide alza gli occhi al cielo, ma c’è poco da fare… Al cuor non si comanda.
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In una ventina di minuti, arriviamo a Broadway – altro villaggio tipico dei Cotswolds, che decidiamo di attraversare lentamente in auto. Il villaggio deve il suo nome alla “broad way” (strada larga) che attraversa il borgo, un tempo parte di una delle principali rotte commerciali tra Londra e il Galles.Questo passato commerciale è ancora visibile nelle sue ampie strade. Le case storiche, costruite con la caratteristica pietra calcarea delle Cotswolds, conferiscono al villaggio un fascino inconfondibile, che non ci stancheremmo mai di osservare. La principale attrazione di di Broadway, comunque, si trova a circa 6 chilometri dal centro del villaggio: si tratta della Broadway Tower, una torre di osservazione neogotica situata sulla seconda collina più alta delle Cotswolds, protagonista della nostra prossima tappa. Costruita nel 1798, la torre offre una vista mozzafiato che si estende fino a 16 contee nei giorni più limpidi. Èalta 20 metri, è stata costruita in stile gotico e fungeva più che altro da follia decorativa. Nella Seconda Guerra Mondiale, servì come punto di osservazione, infatti anche qui troviamo tracce evidenti della celebrazione dell’importante anniversario di cui la Nazione è protagonista. Non avendo intenzione di salire sulla torre né di vederne l’interno o i sotterranei, non acquistiamo il biglietto e parcheggiamo l’auto lungo la strada sterrata che precede il parcheggio privato per i visitatori. Approfittiamo solo delle toilette, poi ci incamminiamo lungo il prato che conduce all’imponente costruzione, dallo stile molto particolare, che si staglia orgogliosa all’orizzonte, con un bel cielo azzurro a fare da contrasto. Scattiamo molte foto e risaliamo in macchina contenti di questo bel pomeriggio.
Siamo sicuramente in tempo per trovare il negozio di Diddly Squat Farm (un programma che Davide segue su Amazon Prime) ancora aperto, ci arriviamo in meno di mezz’ora di auto. C’è talmente tanta gente che i parcheggiatori smistano le auto e indicano i posti auto ancora liberi. Facciamo qualche minuto di fila, poi entriamo nel minuscolo negozio di prodotti della fattoria protagonista del programma tv. Compriamo due pacchetti di patatine biologiche e un milkshake alla fragola, poi all’uscita Davide si gusta una bella birra fresca proveniente dal birrificio del signor Clarkson, la Hawkstone Brewery. Il frullato sa poco di fragola e tanto di buon latte fresco, la birra è un bel ristoro dopo un po’ di chilometri percorsi tra le colline dei Cotswolds. Lasciamo i nostri nomi scritti ad imperitura memoria sul muro che ricorda il programma che ha reso tanto celebre la fattoria, poi siamo pronti per ripartire e tornare a Burford, che raggiungiamo in meno di mezz’ora. La chiesa, davvero monumentale, è chiusa per un evento privato, quindi puntiamo al pub, dove stasera ceneremo – mi pareva una cosa quasi dovuta, quindi ho prenotato un tavolo qui per festeggiare la nostra ultima sera in questa regione. Vorrei evitare di mangiare altro pesce fritto con patatine, e devo dire che al pub mi accontentano preparandomi la versione per adulti di un piatto che sarebbe presente solo nel menù per bambini (alla fine ho chiesto solo un piatto di macaroni and cheese, ma ho apprezzato la cortesia nel volermi accontentare). Il conto è di poco meno di 50 sterline (incluso un hamburger e due pinte di birra), ma saliamo in camera soddisfatti ma un po’ tristi per la nostra vacanza che ormai è davvero agli sgoccioli.
Giorno 13 – Windsor
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È praticamente l’ultimo giorno di vacanza, l’umore non è dei più allegri, ma la giornata di oggi ha certamente in serbo per noi qualche altra meraviglia. Dopo una bella colazione lasciamo il pub e ci fiondiamo in auto: dovremo essere a Windsor per le 11, per quell’ora ho prenotato l’ingresso al castello. Sogno di andarci da tantissimo tempo, le aspettative sono alle stelle e non riesco più a contenere la smania per questo desiderio che sta per avverarsi. Arriviamo a Windsor dopo poco più di un’ora d’auto, trascorsa per lo più su una veloce autostrada neanche tanto trafficata. Questa del Castello di Windsor non è per niente un’esperienza low cost, anzi. Se i biglietti ci sono costati 31 sterline a testa, il parcheggio a pagamento (in strada non è possibile parcheggiare, non essendo residenti dotati di apposito permesso) per 5 ore ci costa ben 22 sterline. Un salasso. Ma ormai non battiamo più ciglio (o quasi).
Il castello domina il paesaggio già dal parcheggio, siamo praticamente sotto la collina che ci conduce direttamente all’oggetto dei miei desideri. Il Castello di Windsor venne fatto costruire da Guglielmo il Conquistatore nel 1066 come avamposto per la sua armata di stanza a Londra, e ancora oggi conserva le stesse mura difensive di un millennio fa. Oltre a queste, dell’antica conformazione rimane ben poco. Il castello ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, con molte richieste da parte dei sovrani per ampliamenti e per la costruzione di edifici che rispecchiano i secoli a seguire.
La notte del 20 novembre 1992 (l’Annus Horribilis di Elisabetta II), un devastante incendio, causato da un contatto tra una tenda e un faretto, danneggiò pesantemente circa un quinto dell’intero castello. I lavori di restauro svolti nei cinque anni successivi furono i più grandi mai realizzati nel Regno Unito e riuscirono a riportare il Castello di Windsor al suo antico splendore. Il Castello di Windsor è la più grande e antica fortificazione ancora operativa in Europa: non è mai stata abbandonata e non ha mai cambiato il suo uso fin dalla fondazione. La distanza tra il cancello principale e quello sul retro è davvero impressionante: ben 2.65 miglia! Si dice che, all’interno della fortezza, ci siano ben 300 camini e 400 orologi. Il castello è stato aperto al pubblico a partire dal 1845, grazie alla volontà della Regina Vittoria e del consorte Alberto che, particolarmente affezionati alla struttura e al loro popolo, decisero di rendere gli appartamenti visitabili ai loro sudditi.
Grazie ai nostri biglietti prepagati, entriamo quasi mezz’ora prima e senza dover fare nessuna fila. Per prima cosa, facciamo tappa alle toilettes, che a quest’ora saranno sicuramente linde e scintillanti (e così è davvero).
Dopo un primo atrio che illustra la cronologia dei regnanti sul trono inglese da Guglielmo il Conquistatore in poi, ritiriamo le nostre audioguide e saliamo verso il castello vero e proprio. La prima cosa che ci balza all’occhio è la presenza, dalla prima collina e poi sul prato che scende fino alla Cappella di San Giorgio e all’uscita, di tantissimi figuranti vestiti da soldati, soldatesse e guardie della Seconda Guerra Mondiale. Poi un cannone, un’auto militare e una camionetta. Non so se l’allestimento sia dovuto al fatto che l’anniversario della vittoria sul Giappone è appena stato celebrato, in ogni caso sembra tutto molto curato ed interessante. Ah, se fossero qui i nostri amici Gabriella e Pierluigi, appassionati collezionisti di tutto ciò che è legato alle due guerre mondiali… probabilmente non se ne andrebbero mai più! Scattiamo qualche foto, ma ci riserviamo di osservare meglio tutto dopo la nostra visita alla Cappella. I turisti sono momentaneamente distratti dal cambio della guardia, quindi approfittiamo del momento per accedere alla cappella. Torneremo poi sui nostri passi per visitare gli Appartamenti di Stato e studiare meglio i figuranti in divisa. Sono emozionata già sulla porta, non vedo l’ora di entrare. La St George’s Chapel è un imponente esempio di architettura gotica inglese e sin da subito notiamo i suoi interni riccamente decorati. Qui sono sepolti dieci monarchi inglesi (tra cui Enrico VIII, la sua amata Jane Seymour, la Regina Elisabetta II e il Principe Filippo) e hanno avuto luogo le nozze tra il Prince Harry e la moglie Meghan Markle. Fu proprio questa cappella a portare la fortuna di Windsor e del suo Castello. Quando Re Enrico VI, famoso per la sua bontà, venne seppellito a Windsor, si creò un vero e proprio pellegrinaggio dal Regno Unito alla sua tomba. Sembra che parte del rapido sviluppo di Windsor dipenda da questo periodo, quando pub e locande erano necessari per dare alloggio ai pellegrini. Anche noi, oggi, è un po’ come se fossimo in pellegrinaggio: sta per avverarsi uno dei miei più grandi desideri, quando entro non sto più nella pelle.
Divieti di fotografare e girare video ovunque, ma ero già preparata. È davvero un gran peccato, ma il divieto è un segno di rispetto – questa è comunque pur sempre una chiesa ed anche il luogo di sepoltura di tantissimi regnanti ed aristocratici. Poco dopo il nostro ingresso, mi emoziono ascoltando l’audioguida raccontare la triste storia di Carlotta Augusta di Hannover, morta di parto (di un figlio morto) a 21 anni ed unica erede al trono: infatti, se fosse sopravvissuta a suo nonno, re Giorgio III, e a suo padre, sarebbe diventata regina del Regno Unito. Richard Croft, uno dei tre ostetrici che assistettero la principessa durante il parto, non resse al senso di colpa causato dallo sfortunato evento e, il 13 febbraio del 1818, si suicidò sparandosi un colpo di pistola alla tempia. La morte di Carlotta scatenò un tremendo lutto tra i britannici, che l’avevano vista come un segno di speranza e un contrasto sia con l’impopolarità di suo padre che con la pazzia di suo nonno. Furono i sudditi a pagare di tasca propria l’elaborata scultura che è davanti ai miei occhi, ad imperitura memoria di questa sfortunata ragazza. Poiché era stata l’unica dei nipoti legittimi di re Giorgio III, ci furono delle pressioni considerevoli sui figli celibi del re affinché trovassero moglie. Il quarto figlio maschio di Giorgio III, il principe Edoardo, alla fine generò un’erede, Vittoria, che nacque diciotto mesi dopo la morte di Carlotta, e che fu una delle più grandi regine nella storia della Gran Bretagna. A pochi metri da questa imponente opera d’arte, in cui la defunta si trasforma da mortale ad angelo alato, la tomba discreta dei nonni di Elisabetta II: Giorgio V e Maria di Teck (tra l’altro resi in modo molto veritiero nella scultura che li raffigura affiancati l’uno all’altra). Percorro la navata est, ho già perso Davide, ma ci ritroveremo sicuramente più avanti. Arrivo in un soffio ad una coda di persone che avanzano lentamente, e – da un cartello posto accanto all’inizio della fila –capisco il motivo. C’è la tomba di Elisabetta II. Il cuore inizia a battere più forte, sono davvero vicina alla più grande monarca della storia britannica dell’ultimo secolo. Quando arrivo davanti alla cappella commemorativa di Giorgio VI, il padre di Elisabetta, sono quasi commossa, e anche la signora che è di guardia davanti all’ingresso della piccola cappella mi guarda in modo strano e mi fa cenno di procedere velocemente. Non ho visto quasi niente, è tutto abbastanza buio, e vedo bene solo la lapide sul pavimento con i quattro nomi: Re Giorgio VI, sua moglie Elisabetta, la Regina Elisabetta II e Filippo di Edimburgo. Faccio qualche passo in avanti, ma poi torno indietro: voglio rivedere meglio ciò che è possibile vedere, non mi ricapiterà mai più di tornare qui. Mi posiziono qualche passo indietro rispetto alla fila che scorre davanti alla porta della cappella, in ogni caso riesco a vedere lo stesso qualcosa anche da qui e rimango qualche minuto in silenzioso raccoglimento davanti al nome di Elisabetta. Mi sforzo di proseguire, e cerco di vedere il più possibile di questo luogo assolutamente meraviglioso, sia per la ricchezza delle decorazioni e la maestosità della costruzione, sia per il valore storico che lo contraddistingue. Come Westminster Abbey, anche la Cappella di San Giorgio non ha un centimetro quadrato libero: forse il pavimento è più semplice rispetto a quello dell’abbazia londinese, ma bisogna comunque tenere in considerazione le lastre di marmo che lo occupano per buona parte della superficie. Il soffitto, poi, è qualcosa di assolutamente splendido, con la sua foresta di archi e losanghe intrecciate a costruire un insieme maestoso che sa di infinito e di secoli di storia. L’altare e le vetrate risplendono di eternità grazie all’oro e ai colori vivaci che li contraddistinguono, ma quando si arriva al coro… beh, lì davvero non ce n’è più per nessuno. La meraviglia è totale, ti colpisce come un pugno allo stomaco e ti fa rimanere lì a bocca aperta, con il naso all’insu. Oltre al fatto di trovarmi in un mausoleo reale (al centro della stanza, una grande lapide nera sul pavimento indica la tomba di Enrico VIII, sepolto con la sua terza moglie, la più amata, Jane Seymour, e la sepoltura di Carlo I), è tutto ciò che mi circonda a lasciarmi senza fiato. Il legno dei banchi e degli stalli è scuro, e spicca sui vivi colori degli stendardi che decorano ogni posto del coro. Al di sopra di molti di queste insegne, si vedono tante corone diverse. L’audioguida non spiega più di tanto, ed è un vero peccato. Faccio un paio di giri ma si fa fatica perché c’è tanta gente.
Nell’ambiente di fianco al coro, dopo aver ammirato l’enorme spada del Re Edoardo III, ritrovo Davide, e insieme torniamo a fare un altro giro nel coro, che ha colpito tantissimo entrambi ma che non abbiamo ancora potuto osservare bene a causa della calca. Siamo fortunati perché c’è meno confusione, e – mentre osserviamo le corone e gli stendardi, un (anziano) membro del personale addetto alla cappella ci chiede se abbiamo bisogno di qualche informazione. Colgo la palla al balzo, e gli chiedo il significato delle corone. Ci spiega, in un inglese dalla cadenza elegante e molto ben comprensibile, che corone e stendardi servivano a riconoscere ogni occupante del seggio, quando al castello arrivavano teste coronate straniere. Si possono vedere le corone che rappresentano la monarchia di paesi come la Spagna, l’Olanda, la Norvegia, e ovviamente non mancano gli stalli riservati al Re, che è anche capo dell’Ordine della Giarrettiera, alla Regina Consorte, al Principe di Galles, al Duca di Edimburgo ed altre importanti figure della monarchia inglese. Se lo stallo è destinato ad un uomo, allora questo è decorato con una spada. Se invece una donna dovrà occupare quel posto, troviamo solo la corona ma non la spada. Approfittando della squisita cortesia della nostra temporanea guida turistica, gli chiedo il motivo della sepoltura dei nonni di Elisabetta II al di fuori della cappella di Giorgio VI. Il nostro erudito nuovo amico si lancia in un notevole spiegone, facendoci presente che il padre della Regina Elisabetta II aveva chiesto di essere seppellito sottoterra, e non sopra come era accaduto per i propri genitori, Giorgio V e Maria di Teck. Fu così che Elisabetta commissionò una cappella nella cappella, facendo sì che potesse diventare la dimora eterna per sé, suo marito e i suoi genitori (la sorella Margaret, deceduta prima della Regina Madre, fu cremata, e le ceneri furono poi messe nella tomba dei suoi genitori). Ringraziamo per tanta dovizia di particolari e tanta conoscenza, usciamo dal coro e procediamo verso l’uscita, non prima di aver ammirato una bellissima porta rossa (The Gilebertus Door), una delle poche parti rimaste della prima cappella del Castello di Windsor. Attualmente, è da questa porta in particolare che il monarca, con la sua famiglia, entra nella Cappella per partecipare alla Messa.
Usciamo entusiasti dalla Cappella, scattiamo qualche foto nel chiostro, facciamo una puntata veloce al negozio di souvenir, dove acquisto la guida ricordo, e proseguiamo la nostra visita partendo dall’ambientazione in stile Seconda Guerra Mondiale. Per lo più, i figuranti sono over 60, tutti in divisa, e ognuno alle prese con oggetti originali dell’epoca. C’è chi canta le canzoni degli anni Trenta e Quaranta, chi insegna ai bambini il saluto militare, chi maneggia le armi che furono impiegate durante il conflitto bellico. Sotto un gazebo a parte, trovo le stesse divise che vennero indossate da Elisabetta e Margaret in tempo di guerra, quando anche la Famiglia Reale si era impegnata ad aiutare la Nazione. Ci sono anche diverse foto delle due Principesse ognuna con la propria divisa. È tutto molto credibile, sembra di essere stati catapultati indietro nel tempo. Mi commuovo quando trovo un figurante che assomiglia tantissimo al mio adorato nonno Peppe. Chiedo a Davide di scattarmi una foto insieme a lui, che comunque accetta di buon grado (forse guardandomi in modo un po’ strano, vedendomi inspiegabilmente commossa). Risaliamo la collina e ci dirigiamo verso gli States Apartments. Saltiamo la coda infinita per la Queen Mary’s Dolls House, una casa delle bambole che riproduce nei minimi dettagli una casa vittoriana aristocratica, con luce e acqua corrente funzionanti. La casa venne regalata da Re Giorgio V all’amata moglie Mary, appassionata di case delle bambole (e nonna della Regina Elisabetta II). Gli States Apartments comprendono quelle sale che vengono utilizzate per incontrare i capi del governo e intrattenere gli ufficiali. Qui si sono susseguiti 39 monarchi, ognuno dei quali ha arredato gli appartamenti reali con la propria impronta, aggiungendo man mano dipinti e beni di lusso dal valore inestimabile. La Waterloo Chamber è a dir poco stupefacente. Fu costruita per celebrare la sconfitta di Napoleone (tra l’altro, più avanti, riuscirò a scovare il proiettile che uccise l’Ammiraglio Nelson) e pare proprio che tanta gloria sia stata trasportata qui, in questa sala enorme e lussuosissima, tra quadri e boiserie preziosissimi che sorprendono ad ogni passo. Vaghiamo per tantissime stanze, incluse la Sala del Trono e quella in cui possiamo vedere le insegne dell’Ordine della Giarrettiera. In tutte le stanze, sono conservate opere d’arte dal valore inestimabile, tra cui quelle di Holbein, Rembrandt, Rubens e Canaletto. Finalmente vedo dal vivo i famosi ritratti di Enrico VIII (Holbein) e della giovane principessa Elisabetta I (Scrots). Percorriamo chilometri all’interno di queste stanze infinite, respirando storia e magnificenza. All’uscita, ci aspetta la discreta apertura di un cancello al passaggio di un piccolo plotone di guardie reali. Riconsegniamo le audioguide ed usciamo dalle mura del castello. Sono un po’ triste, ma ho ancora negli occhi le meraviglie inaspettate che questa splendida visita mi hanno regalato. Dico addio al Castello, e raggiungo Davide che sta cercando il ristorante Kokoro di Windsor. Anche per oggi, abbiamo deciso di evitare spese eccessive e fritti al pub (ne avevo prenotato uno da casa, ubicato proprio di fronte al castello) e, facendo qualche ricerca, ho visto che Kokoro, lo stesso da cui avevamo pranzato a Salisbury pochi giorni fa, ha anche un punto proprio qui nel centro di Windsor. Lo troviamo velocemente, e in pochi minuti siamo già seduti a gustarci le nostre due enormi scodelle di riso con pollo teriyaki e i ravioli di maiale fritti (con due bottigliette d’acqua, la spesa totale è di 27 sterline). Più che soddisfatti, proseguiamo lungo la commercialissima – e affollata – Peascod Street. Davide guarda le vetrine degli orologiai, io mi fiondo dentro ad un paio di charity shops ed emergo con l’ultimo acquisto: un bel libro fotografico del Principe William. Onde evitare altri acquisti, torniamo all’auto e salutiamo Windsor un po’ dispiaciuti. Ci separano dalla nostra partenza ormai poche ore, e sappiamo già che niente potrà superare lo splendore che abbiamo visto oggi.
A 15 chilometri di distanza, ci fermiamo a Cookham, un piccolo villaggio caratterizzato da cottage e case pittoresche sulle rive del Tamigi nella contea del Berkshire. Ci fermiamo per berci una pinta di birra fresca, poi risaliamo in auto passando davanti al pub Bell and Dragon, risalente al 1417 e ubicato sulla via principale a pochi passi dal Tamigi.
Attraversiamo le cittadine di Old Amersham e Amersham non scendendo nemmeno dall’auto, dirigendoci direttamente al pub dove soggiorneremo per la nostra ultima notte in Inghilterra, il White Hart. L’accoglienza è gentile, camera e bagno sono spaziosi e facilmente raggiungibili dal parcheggio riservato ai clienti del pub (è d’obbligo la registrazione della targa dell’auto al bancone del bar). Decidiamo di rimanere qui anche per cena, e – dopo una breve incursione al supermercato di fronte e un riposino in camera, siamo pronti per la nostra ultima serata di vacanza.
Nonostante il menù del giorno lo proponga tra gli special, il risotto è finito, quindi ripiego su un filetto di pesce e capesante con riso basmati (al posto del risotto, se non altro è riso e non sono patatine fritte). Semplice, ma buono e sano. Davide ordina l’ultimo fish and chips, poi ci concediamo una super coppa di gelato cioccolato e vaniglia con panna e caramello salato. Con due birre il conto è di poco più di 50 sterline, ma siamo mediamente soddisfatti, a parte il servizio distratto e un po’ approssimativo di una inesperta cameriera colombiana.
Prepariamo buona parte dei bagagli e andiamo a letto presto per la nostra ultima notte in terra britannica.
Giorno 14 – Rientro in Italia
Giornata tristissima, anche se la nostra ultima colazione è molto appetitosa e diversa dal solito (uova in camicia con salsa allo yoghurt, crostino di pane con salmone scozzese e hash brown, la tipica frittata di patate che avevamo imparato ad apprezzare sin dai tempi della nostra prima vacanza in Irlanda).
Arriviamo al punto di riconsegna dell’auto a noleggio dopo poco più di un’ora di viaggio, poi prendiamo la navetta che ci porta direttamente all’aeroporto di Stansted. Qui i controlli prima dei gate sono molto più severi, ma li passiamo con tranquillità e poi attendiamo con calma che ci venga comunicato il numero del gate, mentre guardiamo con nostalgia le foto che abbiamo scattato nelle ultime due settimane. Il nostro volo Ryanair parte con una ventina di minuti di ritardo, ma a Bergamo sbrighiamo in fretta la procedura di controllo del passaporto e raccogliamo al volo la valigia dal nastro trasportatore, arrivando a Parma verso le 19.15.
2.000 foto scattate, 211.000 passi a piedi, 1.000 km percorsi in auto, tante meraviglie apprezzate con gli occhi e con il cuore, sorrisi e risate, sorprese e conferme in due settimane trascorse in un Paese capace di accogliere i turisti con gentilezza ed educazione, che ha saputo farci apprezzare un patrimonio dalle tante sfaccettature che difficilmente dimenticheremo. Goodbye, England. God save the King.






