Dalle dune del deserto alle anse del fiume calmo: viaggio on the road tra Mauritania e Senegal

Scritto da: dabi
dalle dune del deserto alle anse del fiume calmo: viaggio on the road tra mauritania e senegal

Mauritania o Senegal, questo è il dilemma! Lui, attratto dalla Mauritania. Lei, corteggia da tempo una crociera sul fiume Senegal. Che fare? Scontentiamo lei? oppure si delude lui? Una soluzione ci sarebbe. Come recita quel vecchio detto popolare? Prendere due piccioni con una fava! Ecco quindi come il viaggio combinato Mauritania e Senegal nasce da un compromesso, una mediazione, un punto di incontro, e certamente non scontenta nessuno.

Bene, scelta la destinazione, anzi le destinazioni, mettiamoci subito al lavoro e, per prima cosa, occorre verificare la fattibilità. È vero che i due Paesi sono confinanti, ma come si può passare dall’uno all’altro? Come attraversare il fiume Senegal, che ne segna il confine? Escluso il volo. Esistono due punti di frontiera: il ponte di Diama e il ponte di Rosso. Aggiudicato pertanto il trasferimento via terra. Segue la fase organizzativa vera e propria che richiede tempo, ricerche, contatti, selezione e scelta di un operatore locale cui affidare la realizzazione della parte di viaggio che interessa la Mauritania. Più semplice invece la prenotazione della crociera avendo già in archivio il contatto diretto  della compagnia di navigazione. Per la Mauritania, concordo un itinerario ad anello, di una decina di giorni, oltre il superamento della frontiera e il successivo trasferimento a Saint-Louis in Senegal. Anche se più difficile da raggiungere, scegliamo di attraversare il confine a Diama perché meno frequentato rispetto a Rosso e, inoltre, esente da episodi di corruzione e ingiustificati esborsi di denaro.

Spenderemo una notte a Saint-Louis, dove alternativamente ha inizio o fine la crociera. Nel nostro caso, seguiremo il percorso inverso. Si parte da Podor per tornare a Saint-Louis dopo una settimana. Riguardo ai voli la scelta è obbligata. Solo gli operativi Turkish Airlines, a dire il vero con un itinerario non esattamente logico, si conciliano con impegni che non possiamo cancellare o rinviare. A cose fatte, prenotazioni confermate, acconti pagati, biglietti aerei acquistati, si aggiunge Roberto, conosciuto in Ciad lo scorso novembre (2024) durante un viaggio di gruppo.

Come consuetudine, al termine di un’esperienza condivisa (con 16 notti in tenda nel deserto del Sahara) ci si scambiano indirizzi e contatti, ci si promette di rivedersi e tante altre belle iniziative, ma quasi sempre tutto finisce in aeroporto, con i saluti.

Roberto, invece, non è svanito nel nulla. La vigilia di Natale confessa una sua idea balzana, così la definisce. Che significa? Vorrebbe, a lui farebbe piacere, se possibile, unirsi a noi. Per noi va bene, ma è difficile – così sotto data – trovare ancora una cabina libera a bordo della Bou El Mogdad. Infatti non c’è alcuna disponibilità. Ci diamo comunque un time limit e quando stiamo ormai per desistere, a seguito di una rinuncia, ci viene proposta una cabina con bagno condiviso. Il resto è facile da organizzare, in pochi giorni tutto viene confermato e, giusto una settimana prima della partenza, si libera una cabina con bagno privato, per la quale basterà pagare la differenza direttamente in ufficio a Saint-Louis, insieme al saldo.

Diario di viaggio in Mauritania e Senegal

Giorno 1 – Arrivo a Nouakchott

La sera del 25 febbraio 2025 abbiamo appuntamento con Roberto a Istanbul, poi da lì si prosegue il viaggio insieme. Il volo per Nouakchott non è diretto, si fa uno scalo a Banjul in Gambia, e poi finalmente alle 9,00 del mattino atterriamo nella capitale della Mauritania.

Giorno 2 – Nouakchott

Troviamo Baba, che sarà nostra guida, all’esterno del terminal. Raggiunto l’hotel, prendiamo possesso delle camere, ma solo per depositare i bagagli. Il primo approccio con la polverosa città, purtroppo invasa da montagne di rifiuti, non è dei migliori, ma a onor del vero non possiamo sostenere di averla visitata in modo approfondito. Probabilmente non siamo neppure passati per il centro.

Ci dirigiamo verso il mercato dei dromedari. È impressionante, ce ne sono a migliaia. Il percorso che seguiamo è un dedalo di stretti passaggi tra quadrupedi gibbosi di tutte le dimensioni che qui vengono venduti o acquistati per diversi utilizzi: come cibo, per il trasporto di merci o per essere rivenduti. Si vedono dromedari a perdita d’occhio e nella massa di colore uniforme spiccano le lunghe tuniche blu dei cammellieri. Osservo scene bellissime: dromedari che, disposti a raggiera attorno a una vasca colma d’acqua, si abbeverano; decine di piccoli, dal pelo più chiaro, quasi bianco, radunati insieme; interi branchi, appartenenti a un unico padrone, legati uno all’altro che si muovono  all’unisono; dromedari seduti a terra o in piedi, immobili come statue. Dove si volge lo sguardo, ovunque ci sono animali e uomini blu. Scattiamo foto in ogni direzione, cogliendo primi piani, particolari, ma anche l’insieme di animali e uomini, senza badare al forte odore acre che emanano e alla eccessiva vicinanza, anche se ogni tanto mi sfiora il pensiero che potrebbero sferrare una terribile scalciata.

L’ora di pranzo è passata da un pezzo, ci spostiamo quindi in spiaggia. Il vento soffia forte, sollevando turbini di sabbia. Tutto assume un colore grigiastro. Troviamo riparo sotto la tettoia di  rami di palma di un ristorantino che serve riso, pesci grigliati e patate fritte. Non c’è alcun dubbio che il pesce sia freschissimo. Proprio qui, su questa immensa spiaggia, osserviamo il rientro delle piroghe cariche di pesce appena pescato, con la gente che vi si affolla attorno per accaparrarsi quanto l’Oceano ha da offrire ogni giorno. Le pesanti barche colorate e decorate vengono poi estratte dall’acqua e trascinate a fatica sulla sabbia da una lunga catena umana che accompagna ogni sforzo con suoni gutturali. Questa cosa purtroppo mi fa pensare al passato e alla schiavitù. L’animato e affollato mercato del pesce è un altro luogo imperdibile. Pesci di ogni specie e dimensione  vengono ordinatamente disposti sui banchi, mentre le contrattazioni tra chi vende e chi compra si animano.

La giornata volge al termine, stanchi ma soddisfatti rientriamo in hotel. Cena e finalmente un letto comodo per recuperare le ore di sonno spese in viaggio.

Giorno 3 – Azoueiga

Riposati, ripuliti e dopo aver consumato una colazione degna di questo nome (baguette appena sfornate, frittelle, omelette, frutta fresca e centrifugati di frutta) siamo pronti a lasciare, senza troppi rimpianti, la città. Come concordato viaggiamo con due veicoli 4×4, rispettivi driver (Nagi e Mohammed) oltre  alla guida, Baba, che si occuperà anche della preparazione dei pasti. Roberto sceglie di viaggiare con Mohammed, prendendo posto al suo fianco. Ho scordato di dire che è un appassionato fotografo, dotato di 2 macchine fotografiche, dalle quali non si separa mai e che la postazione da lui scelta è quella che ritiene migliore per scatti da rubare mentre si viaggia. Io e consorte condividiamo il secondo fuoristrada con Baba e l’altro driver, Nagi.

Bene, si parte! Lungo la strada, per il primo tratto asfaltata, si affacciano solitari villaggi ciascuno con la  consueta sfilata di piccole botteghe colorate. Lasciato l’asfalto, seguiamo una pista e, tra una sosta e l’altra, arriviamo al cospetto delle imponenti dune di Azoueiga. Non è il nostro primo approccio con il deserto, ma ci sorprende, come se fosse la prima volta, la bellezza del luogo, la sua immensità, nonché la conformazione delle dune, con una luce particolare che ne esalta i colori.

Dopo una giornata spesa quasi interamente in viaggio, non vediamo l’ora di sgranchirci le gambe, la verticalità delle dune ci chiama. Tra l’altro si vedono nette tracce di chi sta risalendo a fatica o di chi è già sceso. Decidiamo però di non procedere diritti, in verticale, scegliamo un percorso più orizzontale, che si rivela comunque impegnativo. Avanziamo fino a un’altezza che riteniamo soddisfacente per contemplare e fotografare la sottostante distesa di sabbia punteggiata di palme e per attendere il tramonto.

Cena e tende maure di un campo fisso, per la prima notte sotto le stelle. Apro una parentesi sulle tende maure: decisamente spaziose, alte e comode. In genere in tessuto  bianco. All’interno, direttamente sulla sabbia, vengono stesi tappeti, vi si sta benissimo in piedi, ci si muove agevolmente, vi trovano spazio i materassi insieme a tutto il bagaglio. L’apertura è costituita da due lembi che all’occorrenza si sollevano. Senza dubbio più comode delle minuscole igloo che solitamente si utilizzano per i campi nel deserto.

Giorno 4 – Ichive Valley

Oggi seguiamo una pista molto impegnativa che attraversa paesaggi di vario tipo: terreno arido e brullo disseminato di rocce, sabbia, stretti canyon, montagne con la cima piatta che si osservano dall’alto del passo di Tifoujar. Non capisco esattamente come, dove, quando, ma dovremmo aver superato anche la Vallée Blanche.

Baba chiacchiera tantissimo con l’autista o al telefono, mentre con noi non è mai molto eloquente, sembra dare tutto per scontato. Ma in realtà come possiamo sapere esattamente dove ci troviamo e cosa stiamo vedendo? Per l’ora di pranzo raggiungiamo l’oasi di Terjit. Carina, con canali e pozze d’acqua. Nelle più profonde alcuni turisti fanno il bagno. Un rigoglioso palmeto ombreggia il tutto. Un numero imprecisato di tende bianche sono state allestite per consumare il pasto e per riposare al fresco. In una di queste ci viene servito il pranzo. Poi c’è qualche cosa che non quadra. La pausa ristoro sembra decisamente troppo lunga, nessuno si fa più vivo, è ormai tardo pomeriggio e dobbiamo ancora percorrere un tratto di pista prima di raggiungere la Ichive Valley, dove è previsto il pernottamento.

Cerco Baba, chiedo spiegazioni. C’è un primo dissapore perché vorrebbe dormissimo qui. Non accettiamo il cambio di programma, anche per timore delle zanzare. Ci spostiamo di pochi chilometri. Il campo viene allestito sul fondo sabbioso di uno wadi. Basse dune, acacie spinose e massi bruni fanno da argine. In attesa del tramonto camminiamo sopra le dune, scovando angoli di autentica bellezza. Valutiamo che questo luogo è decisamente più bello, più solitario e anche più salubre, dell’oasi, anche se non abbiamo la certezza di essere esattamente nella Ichive Valley e nonostante una delle due tende maure, questa volta di proprietà dell’organizzazione abbia un lato mancante. Cioè è  aperta e piuttosto lacera.

Giorno 5 – Chinguetti

Mentre lo Staff smonta il campo, ci incamminiamo percorrendo una porzione dello wadi. Le basse dune ricoperte di acacie e arbusti spinosi, i massi scuri sparsi un po’ ovunque, ci ricordano i paesaggi dell’Africa meridionale, l’Africa degli animali e i meravigliosi safari fotografici a caccia di essi. Qui, a parte impronte di piccoli uccelli, il passaggio di capre e dromedari, non si vedono altre tracce, ma si respira ugualmente aria di casa.

Il Continente Africa è stato, è, e sarà per sempre il nostro preferito. Nel frattempo i fuoristrada ci raggiungono e il viaggio prosegue su terreno desertico, pietraie e montagne, senza grandi variazioni fino all’oasi di Mhairith che vediamo dall’alto, infossata in una stretta valle, con le piccole case e capanne a ridosso di un fitto ed esteso palmeto. Pare che, per la raccolta dei datteri, durante la stagione estiva, l’oasi richiami oltre 3000 braccianti, provenienti da tutta la Mauritania. Oggi primo giorno di Ramadan. I due autisti aderiscono senza se e senza ma, invece la guida sembra possa non praticare il digiuno perché sta lavorando.

Ma anche i driver stanno lavorando! Vabbè, la cosa non ci riguarda. Non spetta a noi giudicare. Proseguendo il viaggio, osserviamo dall’alto l’imponente e affascinante spaccatura del Canyon di Amogjare, testimonianza di un interessante passato geologico. Visitiamo poi un sito di antiche pitture rupestri. In realtà rimangono ben visibili solo una giraffa, qualche bovino e poco altro. Giunti a Chinguetti, reclamiamo, ma solo per scherzare, la colazione che questa mattina non abbiamo potuto consumare per mancanza di pane. Succede così che, per assurdo, a mezzogiorno passato si fa colazione e poco dopo si pranza. Chinguetti: anticamente importante tappa lungo le rotte carovaniere, settima città santa dell’Islam, custode di antichi manoscritti, patrimonio UNESCO, con la sabbia del deserto che inesorabilmente avanza.

Un fascino antico e decadente che si assapora inoltrandosi nel labirinto di vicoli sabbiosi della città vecchia, con quel che resta delle case in argilla crollate, le mura in pietra, i cortili, la moschea con il minareto intatto, le biblioteche private che conservano, di generazione in generazione, preziosi manoscritti miniati. Tra i diversi volumi che ci vengono mostrati, ce n’è uno purtroppo molto rovinato, ma i crateri prodotti dalle tarme sembrano interessare solo parti di pagine non recanti scritte e illustrazioni. Quasi come se anche i piccoli e voraci  insetti conoscessero il valore e il limite inviolabile delle pregevoli scritture. A conclusione della giornata e della visita di Chinguetti, saliamo sull’alta duna che domina la città perduta, invasa e coperta dalla sabbia molti secoli fa.

Giorno 6 – Ouadane

Se ci si spoglia della frenesia e dell’impazienza che ci appartengono, che sono scolpite nel nostro DNA, si riesce a sopportare una partenza con qualche ora di ritardo. Baba, ha passato la notte a casa, con la moglie, lo stesso Mohammed, uno dei due driver. Quando, già molto tardi, tutti si ripresentano alla guesthouse, ci sono ancora parecchie faccende da sbrigare: lavare e sistemare le stoviglie, caricare imprecisata mercanzia, fare rifornimento di carburante presso l’unico distributore di Chinguetti, dove nel frattempo si è formata una lunga coda di auto.

Ci aiutano la Settimana Enigmistica e la temperatura ancora accettabile. Così, mentre c’è chi fa il pieno di benzina, c’è chi, come me, seduta al sole, fa scorta di vitamina D. Quando, verso mezzogiorno, siamo finalmente al completo e carichi di merce da consegnare a qualcuno a Ouadane, si parte. La pista è una fievole traccia nella sabbia chiara. Il deserto si estende all’infinito, interrotto solo da bassi cespugli che trattengono esigui cumuli di sabbia, alternati a boschetti di acacie spinose. Belli e incredibili gli alberi che crescono nella sabbia. Riecco il paesaggio africano che noi amiamo e che riporta la nostra mente, e anche il nostro cuore, molto più a Sud, tra l’abbondante fauna selvatica che a noi piace catturare con un obiettivo fotografico. Giunti al villaggio di Tenuchert, il caldo è insopportabile. Una provvidenziale tenda dotata di cuscini, materassi e tappeti fornisce un eccellente riparo. Siamo, come sempre, in ritardo, si pranza infatti quando gli altri ospiti hanno ormai finito da un pezzo.

Scambiamo qualche chiacchiera con il gruppo di italiani, scoprendo così che prendono parte a un viaggio organizzato da Oriana di Unitour, qui considerata una sorta di benefattrice per aver contribuito alla realizzazione di diversi progetti. Questo incontro casuale mi sorprende perché, tra i tanti, avevo chiesto anche a Oriana un programma di viaggio e una quotazione. La signora Dal Bosco mi era parsa disponibile, mi chiese di aver pazienza e di restare in standby per qualche settimana. Purtroppo non si fece più sentire. Ora penso: che peccato! In seguito, sotto un altro tendone, assistiamo al finale di una rappresentazione da parte di bimbi che danzano a suon di tamburo.

Si riparte per Ouadane. Qui ci indirizziamo subito verso il nostro alloggio. A differenza della guesthouse di Chinguetti, molto caratteristica e carina, questa di Ouadane, con stanze decisamente piccole e neppure tanto pulite, è piuttosto squallida. Non è questione di non sapersi adattare, ma – in rapporto al prezzo pagato – non ci siamo proprio. Cerco di farmene una ragione, mi dico è solo per questa notte, domani mattina ce ne andremo. Usciamo, abbiamo ancora un sito da visitare. Mi riferisco a Guelb el Richat, la struttura di Richat, l’occhio del Sahara. Serie di cerchi concentrici, con un diametro di circa 40 km. Non è ancora del tutto svelato il mistero della sua formazione, è comunque escluso che sia il risultato della caduta di un meteorite.

Ci arrampichiamo sul primo anello. Da lontano si vede il secondo, solo una piccola porzione, poi più nulla. Sarebbe interessante avvicinarci, con le auto, all’ultimo cerchio e al centro della struttura. Purtroppo non c’è tempo, paghiamo così pegno per il ritardo di questa mattina. Non sappiamo e non sapremo se l’avvicinamento sarebbe stato utile per vedere qualche cosa di più. È tuttavia risaputo che l’insieme dei cerchi è ben visibile dall’alto e anche dallo Spazio. Piove per qualche minuto. Fenomeno che nel deserto capita molto di rado.

Giorno 7 – Ben Amera

Anche la colazione si rivela deludente, anzi peggio, mi ritrovo in bocca un grosso pezzo di vetro che probabilmente se ne stava zitto e buono nella marmellata, in attesa di fare danni. Stendiamo un pietoso velo su questa accommodation! Prima di partire, visitiamo la suggestiva e antica Ouadane. Città carovaniera, classificata patrimonio UNESCO, costruita in posizione elevata su una collina, circondata da mura, in parte crollate e ricostruite. Da quel che resta della antica città se ne percepisce l’importanza storica e culturale. Percorrere i suoi vicoli e, soprattutto, la Rue de 40 Savants non ci lascia certo indifferenti.

Non comprendiamo, o forse si, uno strano traffico di passeggeri che torniamo a recuperare in un punto preciso della città nuova. Sta di fatto che tre giovani backpacker viaggeranno sul secondo fuoristrada, insieme a Mohammed e Roberto, fino alla città di Atar. Nulla in contrario, se almeno ce lo avessero chiesto e soprattutto, secondo noi, il passaggio doveva essere offerto gratuitamente, non dietro generoso compenso. Anche oggi, per varie ragioni, abbiamo cumulato un discreto ritardo, ma siamo finalmente pronti a ripartire. Atar, con il traffico e la vitalità di una qualsiasi cittadina africana, ci fa rimpiangere il deserto e il silenzio, ma non rinunciamo a visitare il mercato dove siamo protagonisti di un simpatico episodio che sembra d’altri tempi.

Da un venditore di tè e spezie, acquistiamo il karkadè. Per arrivare a pesarne mezzo etto, il commerciante pone su un piatto della bilancia una manciata di petali secchi e sull’altro piatto due pacchetti di qualche altro infuso da 25 grammi ciascuno, quindi aggiunge o toglie karkadè fino a che i due piatti sono perfettamente allineati. Ci ha molto divertito la trattativa. Anche la complessa  operazione di pesatura è stata spassosa. È vero che, pur non parlando la stessa lingua, ci si intende sempre. Segue un’altra proficua contrattazione all’interno della bottega di un fabbro dove acquistiamo, per un prezzo congruo, un bel coltello. Si pranza, strada facendo, all’ombra di un grande albero. Ritroviamo in seguito la sabbia e la solitudine del deserto.

In lontananza corre una catena di montagne dalla cima piatta. Superiamo piccoli villaggi arroventati dal sole. Viaggiamo in parallelo ai binari dell’unica ferrovia della Mauritania, lunga circa 700 km, nella speranza di vedere il treno più lungo e più pesante del mondo che, nei suoi 200 o più vagoni, trasporta minerali di ferro. La linea ferroviaria, attiva dal 1963, attraversando il deserto collega le miniere di Zouerate con la città portuale di Nouadhibou, sulla costa Atlantica. Siamo fortunati, il treno sta arrivando. Un puntino nero si avvicina lentamente Sono emozionata e felice, tenevo tanto a questa opportunità. Ci posizioniamo accanto ai binari,  aspettando che si materializzi il primo locomotore, seguito da altri e poi tutti i vagoni. Il treno è lungo dai 2 ai 3 chilometri. Non finisce mai! Più che soddisfatta, scatto l’ultima foto alla sua coda, all’ultimo dei vagoni che si allontana e scopre i binari.

Il viaggio termina, per oggi, ai piedi di Ben Amera. Secondo monolite al mondo per grandezza dopo il più famoso e visitato Uluru, in Australia. Ben Amera non è soltanto una meraviglia naturale che si eleva dal deserto per alcune centinaia di metri. A questa imponente roccia è inoltre legata la leggenda di un adulterio. Osservando con più attenzione, accanto al monolite c’è una roccia più piccola, Aisha, e altre formazioni ancora più piccole, i suoi bambini. Non c’è momento migliore, ovvero la calda luce che precede il tramonto, per apprezzare maggiormente il colosso di roccia che assume un bellissimo color arancio, mentre il cielo blu e terso si riempie di sfumature rosa, rosso e arancio. Questo è uno dei momenti e dei luoghi che mi emozionano tantissimo e che da solo vale il viaggio. Il campo viene montato nella parte concava di una duna barcana che dovrebbe ripararci dal vento. Purtroppo per Roberto, con la tenda aperta, non sarà una notte tranquilla.

Non è servito a granché l’improvvisato e precario sistema di chiusura. Abbiamo utilizzato corda, mollette, asciugamani e una coperta nel tentativo di rimpiazzare il lato mancante, ma ahimè, la monumentale opera ingegneristica non ha retto e a un certo punto della notte è addirittura crollata l’intera tenda, che lo stoico compagno di viaggio, sfidando il vento, ha rimontato. Se questo non è spirito di adattamento! Il cielo notturno, totalmente privo di illuminazione e pieno di milioni di stelle, comunque è una meraviglia.

Giorno 8 – Nouadhibou

La notte è risultata particolarmente fredda. Ci svegliamo all’alba. Il sole sorge, ma trovandoci all’ombra del gigantesco massiccio roccioso, ora di colore bruno, non riusciamo a beneficiare del suo tepore. Ci muoviamo presto, oggi infatti ci aspetta un lungo percorso, fino alla costa Atlantica. Prima fermata quasi subito, alla stazione che porta lo stesso nome del monolite che, sempre molto spettacolare, fotografiamo da un’altra angolazione. Inoltre, esattamente qui e ora, è fermo in sosta il trenino turistico, Le Train du Desert, destinato ai soli passeggeri. Parliamo con alcuni di loro, fanno parte di un gruppo di turisti francesi, che descrivono il convoglio come un treno degli anni ‘60 (di fabbricazione italiana) invecchiato male. Lo ritengono inoltre molto lento, rumoroso e parecchio costoso se prenotato dall’Europa. Insomma non si percepisce nessun entusiasmo. A me comunque spiace di non averne saputo nulla prima d’ora.

Riprendiamo il viaggio, seguendo sempre il percorso della ferrovia e oltrepassando piccole e solitarie stazioni. Non si tratta di stazioni come le intendiamo noi, bensì di polverosi villaggi con poche squadrate costruzioni, generalmente abitazioni o minuscoli shop. Per il resto c’è solo deserto. Terreno piatto, desolato, radi arbusti secchi, qualche pietra scura, vagoni arrugginiti abbandonati, carovane di dromedari e pastori con le tuniche blu. Rivediamo e fotografiamo ancora una volta, con rinnovato piacere, il lunghissimo treno Iron Ore, con la potente locomotiva, i vagoni cisterna e i carrelli vuoti poiché rispetto a ieri sta viaggiando in direzione opposta. Da Nouadhibou verso la zona di Zouerate. La lunga giornata termina a Nouadhibou, con un buon hotel e una cena a base di pesce.

Giorno 9 – Parco del Banc d’Arguin

Nouadhibou sorge su una stretta e lunga penisola divisa tra Mauritania (a oriente) e Sahara Occidentale. Pochi chilometri a sud della città si trovano la stazione terminale del treno del ferro e l’attrezzato porto dove migliaia di tonnellate di minerale vengono scaricate e trasferite su navi mercantili per la successiva esportazione. Percorriamo la penisola fino alla sua estremità meridionale. Visto lo squallore che ci accompagna per tutto il tragitto – cantieri per la costruzione di un nuovo porto e altre infrastrutture, raffinerie, depositi di petrolio e brutture varie – dubitiamo che Cap Blanc possa essere un bel posto. Dobbiamo inoltre fermarci presso i numerosi check-point, presidiati da militari, dove ogni volta vanno consegnate le fotocopie dei nostri passaporti.

Controlli di questo tipo  sono stati una costante dell’intero viaggio. Senza esagerare, Baba ha distribuito pacchi di fotocopie. Non ne abbiamo ancora compreso il senso, viste le precarie postazioni militari nei luoghi più isolati e l’assenza di dispositivi informatici. Pare che tali procedure siano fondamentali per la nostra sicurezza. Concludiamo che forse è meglio non farsi troppe domande.

Cap Blanc, malgrado la nostra diffidenza, è davvero un luogo speciale. Un faro costruito su un’imponente falesia segna la fine della penisola. Ai piedi della falesia, una lunga spiaggia di sabbia chiara e una laguna dove stazionano migliaia di uccelli. Trovato il sentiero per scendere alla spiaggia, ha inizio il documentario. Stormi di uccelli, più precisamente sterne, si sollevano in volo a ogni nostro passo. È meraviglioso osservare il movimento dei volatili accompagnato dal frullare di migliaia di ali. Piccole dune ricoperte di ciuffi d’erba ci guidano verso il mare dal bel colore azzurro. Le inconfondibili buche di grossi granchi gialli tappezzano il suolo. Dispiace lasciare questo piccolo angolo di paradiso, ma il viaggio deve proseguire.

Si ripassa da Nouadhibou per poi imboccare la strada che attraversa il Parco del Banc d’Arguin. La prima sosta è a Cap Tafarit. Un promontorio roccioso si protende nel mare, un relitto giace  abbandonato sulla spiaggia, triste testimonianza del tentativo fallito di alcuni migranti di trovare vita migliore, sulla sabbia una fila di tende bianche in probabile attesa di qualche turista che vi alloggi e, purtroppo, nascosta, ma neppure troppo, una discarica. Montagne di rifiuti abbandonati denunciano che da troppo tempo ormai questa conca parzialmente celata dalle dune viene utilizzata in modo sconsiderato. Vedere tale scempio è una sofferenza. Torno in spiaggia a respirare il profumo dell’oceano per togliermi da sotto il naso il putrido odore della discarica.

Riprendiamo il viaggio nel polveroso nulla fino al villaggio di pescatori di Iwik. Ci fermiamo presso un agglomerato di casette di legno di un bel colore turchese, circondato da rete metallica e filo spinato. Le casette esternamente sono molto carine, dentro un po’ meno, ma poco importa. Un letto e una doccia sono tutto ciò che serve. Purtroppo qui scopriamo che, secondo la guida, il meglio del parco non è contemplato nel nostro programma. Affermazione non vera. Non ci posso credere! Sogno da anni di visitare questo parco, di correre con i fuoristrada sulla battigia, di osservare i milioni di uccelli migratori che in questo periodo affollano il Banc d’Arguin.

Nasce una sgradevole discussione e, per quel che mi riguarda, questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Fino ad ora ho cercato, a volte un po’ più, altre un po’ meno, di trovare una giustificazione a ogni stranezza (possiamo anche dire pecca) di Baba, ma quest’ultima è imperdonabile. Non mi resta che sperare che l’escursione in barca all’isola di Tidra, in programma per domani, della durata di 5/6 ore, possa almeno in parte compensare la grandissima delusione e spegnere la mia rabbia. Un meraviglioso tramonto infuocato, il più bello in assoluto di questo viaggio, rasserena un poco gli animi.

Giorno 10 – Nouakchott 

A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina! Non ricordo chi pronunciò questa frase, ma quanto è veritiera. L’escursione in barca a vela, con i pescatori, viene drasticamente amputata e ridotta a poco più di un’ora. Ne veniamo a conoscenza solo mentre ci stiamo imbarcando. Ormai è inutile protestare, non c’è più nulla che si possa fare, spero che arrivi presto domani per salutare definitivamente Baba e goderci serenamente la seconda parte di viaggio. L’escursione è penosa, ci fermiamo pochi minuti dopo essere partiti di fronte a un insignificante banco di sabbia grigia. Non si vede nessun volatile, mentre ciascuno di noi ingoia l’amaro boccone in silenzio. Dopo meno di un’ora chiediamo di rientrare e di porre fine a questo strazio. Viaggiamo poi su una pista piatta, lontana dal mare, avvicinandoci talvolta a spiagge deturpate dai rifiuti.

Non è ciò che immaginavo pensando al parco nazionale, paradiso ornitologico e patrimonio UNESCO. Ma tutto questo era, È, un centinaio di chilometri più a nord. Mi viene seriamente da piangere al pensiero di quanto abbiamo perso. Pranziamo nei pressi di uno stagno dove finalmente si vedono stormi di uccelli che, di tanto in tanto, spiccano il volo. Arrivo a Nouakchott nel tardo pomeriggio. L’hotel Le Berger è più carino rispetto a quello della prima notte. A ben pensarci avrebbe dovuto essere questo l’hotel della prima notte, ma è inutile farsi troppe domande. Ormai tutta la faccenda è da riferire e discutere con il titolare dell’agenzia locale.

Giorno 11 – Saint-Louis

Puntiamo verso sud, su strada asfaltata, superando piccoli e poveri villaggi, fermandoci al segnale di ALT intimato da militari e gendarmi, più o meno bruschi, dei diversi check-point. Il Parco Diawling non è altro che una strada sterrata, piena di buche, che corre tra stagni e vegetazione. Si vedono pochi uccelli e solo qualche facocero. Le due dogane, quella mauritana e quella senegalese, non richiedono procedure complesse e neppure molto tempo. Si transita sopra la diga, si alza un’ultima sbarra e siamo ufficialmente entrati in Senegal.

Grazie all’abbondante presenza di acqua (del fiume Senegal) c’è più vegetazione, ci sono campi coltivati e immense serre. Le case possono chiamarsi tali. Ci sono segnali inequivocabili di civilizzazione, di maggior prosperità. Saint-Louis, più precisamente l’hotel La Residence, è il nostro punto di arrivo. Pranziamo per l’ultima volta insieme a Baba che subito dopo salutiamo senza troppo slancio, con la certezza che la Mauritania è un bel Paese e una grande amarezza perché non ci è stato concesso di goderne appieno.

La cittadina di Saint-Louis è distribuita in parte su un’isola, dalla forma allungata, alla foce del fiume Senegal e in parte su una penisola che corre parallela e che sta tra il fiume e l’oceano. La prima è collegata alla terraferma da un lungo scenografico ponte metallico e alla penisola da un secondo ponte. Il passato coloniale di Saint-Louis è evidente negli edifici color pastello con i balconi in ferro battuto, alcuni fatiscenti, altri recuperati con ottimi risultati. La città, tra le altre cose, è stata anche base dell’Aeropostale e Antoine de Saint-Exupéry (autore del celebre libro Il piccolo principe) uno dei suoi piloti.

Percorrendone il centro, i viali alberati con gli edifici ristrutturati, e gli stretti vicoli periferici, con le case in rovina dove uomini, animali e rifiuti convivono strettamente, il divario tra benessere e degrado è molto stridente. Saint-Louis è attraente e inquietante allo stesso tempo. Sulla riva del fiume e sulla spiaggia vediamo bimbi magri che giocano a pallone, pescatori che riordinano le reti, donne che puliscono i pesci e centinaia di piroghe in legno con elaborati decori colorati. Cena e notte in hotel.

Giorno 12 – Saint-Louis e imbarco sulla nave

Approfittiamo della mattinata libera per visitare un interessante museo della fotografia, museo diffuso in otto diversi edifici coloniali. Dove oltre alle bellissime foto  si apprezzano anche gli ambienti di un tempo. Tra tutte le esposizioni, mi colpisce molto una sala dedicata a una serie di fotografie di stazioni ferroviarie africane, ora fatiscenti. Leggo le frasi, i pensieri, i timori, le speranze, incisi sul pavimento, di chi partiva da quelle stazioni verso l’Europa per combattere una guerra di altri. Mi trovo così a riflettere sulle colonie, sull’egoismo, l’indifferenza nei confronti di popoli dei quali si sono invasi i territori, sfruttandone le risorse, che sono stati spediti in guerra, al pari di carne da macello.

C’è tempo per visitare anche il museo dell’Aeropostale, con tante mappe, fotografie, manifesti, documenti d’archivio e riproduzioni di aerei. Dopo pranzo si parte per Podor. Il trasferimento, con un minibus dai posti stretti e scomodi, richiede ben tre ore di autentica sofferenza. Infine ci imbarchiamo sulla Bou El Mogdad che ospita pochi passeggeri, perlopiù francesi.

Si sta per concretizzare un desiderio che coltivavo da tempo e sono certa che gusterò ogni attimo di questa crociera africana. Si verifica una incredibile coincidenza. Una di quelle cose che neppure se ci si accorda riescono così bene. Una donna magra e ricciolina mi ricorda una persona conosciuta anni fa durante un tour della Sicilia. La osservo, mi chiedo è lei? non è lei? ma no, non può essere! Però, forse si! Non resisto, la curiosità è troppa, domando: ma tu sei Mariantonietta? Ebbene sì, è proprio lei, in compagnia di un’amica. Baci e abbracci, grande stupore per l’inaspettato incontro. Il gruppo degli italiani (siamo solo noi 5) si compone con naturalezza, così come il tavolo degli italiani.

Giorni 13 a 17 – Crociera sul fiume Senegal

Le giornate scorrono al ritmo tranquillo della navigazione tra ambienti naturali. Il fiume Senegal oltre a dividere la Mauritania, con la sua sponda più arida e desertica, dal più fertile Senegal, offre paesaggi incantevoli e spaccati di vita quotidiana: bimbi che giocano, si tuffano in acqua, nuotano, uomini che si lavano, solitari pescatori sulle piroghe, donne che lavano e battono i panni multicolori, contadini che lavorano fazzoletti di terra, bagnano minuscoli orti, accudiscono gli animali. Un’umanità silenziosa, che osserviamo altrettanto silenziosamente, che talvolta agita le mani in segno di saluto.

La vecchia Bou ha una lunga storia: costruita nei cantieri olandesi nel 1950, per 20 anni è stata utilizzata per il trasporto di merci, passeggeri, pacchi, posta, facendo la spola tra Saint-Louis e una cittadina del Mali. Viene poi adibita al solo trasporto di passeggeri, ma navigherà per lungo tempo lontano dal Senegal, in diversi altri Passi dell’Africa occidentale. Nel 2005, grazie al desiderio di Jean-Jacques Bancal (nato a Saint-Louis, discendente di una importante famiglia) di riportarla “a casa”, la Bou El Mogdad, con il contributo di alcuni soci, viene acquistata, ristrutturata e da allora naviga con regolarità da Saint-Louis a Podor e viceversa. La sua atmosfera d’altri tempi sembra trasudare dai legni scricchiolanti delle cabine, dei ponti, dei pavimenti, anche i vecchi poster contribuiscono al suo fascino.

Tutta la Crew, dalla direttrice ai camerieri, è molto amichevole, il cibo ottimo, il servizio bar offre ininterrottamente bevande, cocktail, alcolici, superalcolici, caffè, aperitivi. Il programma delle escursioni è molto vario e interessante. Ma c’è anche il tempo, e gli spazi adeguati, per leggere, scrivere, giocare a carte o semplicemente per sdraiarsi al sole o per osservare il paesaggio che scorre lentamente. Dopo il viaggio in Mauritania, spesso faticoso, non c’è esperienza migliore di questa crociera per un giusto recupero fisico. Le escursioni sono ben distribuite nell’arco della settimana e delle giornate. Cito, tra queste, una bella camminata fino a un villaggio di capanne di paglia, alcune con i pomodori posti a seccare sul tetto. 

Di grande soddisfazione l’interazione con i bimbi, prima timidi e poi sempre più curiosi che ti prendono per mano, per la maglietta, non chiedono nulla, vogliono solo stabilire un contatto fisico, guardarti, ridere, giocare, farsi fotografare, alcuni con il naso attaccato all’obiettivo, riconoscersi nel display della macchina fotografica, ripetere il loro e il tuo nome. Se poi riesci a chiamarli pronunciando bene i loro nomi è una festa. Un piccolino piange, forse spaventato, la sorellina poco più grande lo carica sulla schiena e lo incoraggia dolcemente a non aver paura. Tante effusioni spontanee, scene comiche e deliziose allo stesso tempo. Addio, stupende e innocenti creature con le faccine nere, sporche di terra o rigate di muco, gli occhioni scuri e lucenti, i sorrisi che ti si stampano nella mente. Spiace davvero lasciarvi!

Dall’efficiente Staff viene organizzato un picnic a base di pesce, riso e manioca, all’ombra di un boschetto di alberi di mango, da consumare seduti su tappeti e stuoie stesi a terra. Altro pasto servito in riva al fiume, questa volta con tavoli, sedie e lampade, è una cena. Il menu prevede montone farcito e arrostito. Prima della distribuzione delle porzioni, alla bestia –  lasciata intera – viene scucita la pancia verificandosi così una pioggia di cous cous. La serata termina con uno spettacolo di suoni e danze che coinvolge anche tutto il personale di bordo. Non c’è nulla da fare, gli africani nel canto e nella danza hanno una marcia in più. Sono bravissimi!

Nella località di Richard Toll (il giardino di Richard) si visita una vasta piantagione di canna da zucchero, dove vengono provocati incendi controllati per facilitarne la raccolta. Questa escursione termina ammirando le rovine de La folie du Baron Roger, castello del XIX secolo pensato come una piccola Versailles africana. A bordo, tra le altre cose, assistiamo alle complesse manovre per il superamento della chiusa di Diama. La nave si infila in uno stretto canale, si procede quindi allo svuotamento dell’acqua fino a pareggiarne il livello con l’acqua che sta oltre lo sbarramento. Si aprono infine le pesanti paratie e l’imbarcazione scivola dall’altra parte rasentando i bordi del canale.

Visitiamo un colorato mercato. Ogni banco sembra un’opera d’arte. Frutta e verdura vengono disposte per tipo, per colore, in piccole piramidi. Se poi si aggiungono gli abiti colorati delle venditrici, il quadro è perfetto. Facciamo inoltre visita a una scuola, a lezioni già terminate. Il preside ci fa accomodare nel cortile, descrive programmi scolastici, progetti, successi, difficoltà e molto altro. Sarà che fa un gran caldo, sarà che l’uomo parla a lungo e ha un tono di voce monocorde, sarà che ci tocca poi la traduzione integrale in inglese da parte di Aliou (Excursion Guide) al quale non abbiamo mai osato dire che comprendiamo meglio i dialoghi in francese. Che dire? Molto interessante, ma forse la visita andrebbe un po’ tagliata. Apro una parentesi su Aliou. Bell’uomo, pozzo di conoscenza, dalla disponibilità infinita. Guida che accompagna ogni escursione, simpatico, mai avaro nelle spiegazioni in più lingue.

Non so come e perché, per les italiens, così ci chiama, traduce qualsiasi cosa in inglese, dal menu alle istruzioni di bordo, dal programma giornaliero delle escursioni a ogni tipo di informazione e spiegazione. È molto professionale, serio, tanto che non abbiamo mai osato confessare che per noi è meglio comprensibile il francese, lingua ufficiale del Senegal e anche sulla Bou. Succede così che, a volte, le spiegazioni vanno un po’ troppo per le lunghe, ci toccano due volte, prima in francese per tutti e poi in inglese solamente per noi e un paio di altri passeggeri. Mi sento terribilmente in colpa nell’ammetterlo, ma finisce che ci si perde e la mente segue altri pensieri.

Nel calendario delle escursioni è inclusa una visita a Dagana. La cittadina, con le case color ocra che si affacciano sul fiume, conserva un Forte del periodo coloniale, ora trasformato in hotel, immerso in un giardino di palme e con una immensa piscina vista fiume. Qui, al tramonto, a bordo piscina, ci viene servita una squisita bibita a base di frutta e non occorre molta fantasia per immaginare l’agiata vita del passato coloniale.

Ed eccomi a tentare di descrivere l’ultima straordinaria escursione, il gran finale, nel Parco Nazionale di Djoudj. Una delle riserve ornitologiche più importanti al mondo. Patrimonio UNESCO. Capolinea e luogo di ripartenza per milioni di uccelli migratori che, dall’Europa, attraversano il deserto per svernare qui. Il Parco si visita in barca, navigando in ambiente costituito da  canali, lagune, banchi di sabbia, isole e zone semi umide. Diversi stormi di anatre si sollevano in volo oscurando il cielo. Le aquile pescatrici abbandonano i rami degli alberi più alti per tuffarsi in acqua, con infallibile precisione, ai danni di una preda. Le egrette e le egrette giganti, bianche, che colonizzando ogni cespuglio, sembrano bellissimi addobbi natalizi.

I pellicani, presenti a migliaia, nuotano, pescano sott’acqua, ne escono con il becco rigonfio e poi ci sono quelli che, ammassati, affollano un isolotto e poi ancora gli Ibis, i cormorani, i piccoli jacana che camminano sull’acqua. E ancora aironi bianchi e cenerini, i trampolieri con le lunghe zampe. Tanti uccelli da far girare la testa. Ho citato solo quelli che conosciamo, ma sono presenti in questo paradiso acquatico circa 400 specie di volatili. I pochi facoceri che si avvistano passano in secondo piano, quasi inosservati. A conclusione della crociera, per chi vuole fare acquisti, si visita un centro artigianale.

È previsto anche un tour in calesse di Saint-Louis che, onestamente, mi procura imbarazzo soprattutto transitando nella zona più povera, dove animali, vecchi, bambini, donne, uomini, panni stesi, rifiuti, odore di pesce, puzza di marcio sono un tutt’uno. Pochi isolati, un ponte e la povertà sembra svanire. I forti contrasti di questa cittadina si riconfermano.

Giorno 18 – Dakar e rientro in Italia

Colazione, saluti affettuosi e, con l’ultimo definitivo sbarco, termina una bella esperienza. Prima del trasferimento in aeroporto a Dakar c’è sufficiente tempo per una passeggiata lungo il fiume, dove la vecchia e distinta Bou El Mogdad è ormeggiata. Guardiamo già carichi di nostalgia la nostra cabina che tra qualche ora ospiterà altri passeggeri.

Proseguendo la camminata, attratti dalle insegne di una galleria d’arte e accettando l’invito di uno scultore, visitiamo il suo atelier. L’artista è davvero bravo, crea sculture in legno molto belle e originali. Non è facile scegliere, ma alla fine, tra le tante, acquistiamo una graziosa donnina stilizzata che reca sulle spalle un bilanciere. Da ultimo visitiamo un bel museo, distribuito sui diversi piani di un edificio coloniale, che espone importanti pezzi della cultura africana. Tra maschere, suppellettili, oggetti preziosi, utensili, statue, pietre, sfila tutta l’Africa.

Dalla terrazza panoramica diamo un ultimo sguardo al fiume, alle centinaia di piroghe colorate, al cielo terso. Il viaggio verso l’aeroporto dura 4 ore abbondanti. Oltre i finestrini del taxi scorrono ordinati villaggi, colorati banchetti di frutta e ortaggi, palme, baobab, un paio di cittadine, giardini, palazzi, case, casette, biciclette, carretti, auto, moto e la variopinta folla africana. Si conclude così, con la lunga sequenza di immagini, un altro indimenticabile viaggio nella nostra amata Africa.

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