L’oro rosso di Calabria non è il peperoncino: la storia del Codice Purpureo di Rossano, un antico manoscritto dalla storia millenaria
Si parla spesso, e, nella nostra rubrica, abbiamo già avuto modo di parlarne, del fascino nascosto della Calabria, una regione che si sveste lentamente, lasciando nascoste, non di rado e con riservatezza, le sue attrattive storiche e gastronomiche. In termini culinari, si sa, quando si parla dell’oro rosso di Calabria non c’è spazio per l’immaginazione: peperoncino, o, al massimo, se proprio vogliamo spingerci al limite, ‘nduja, il celebre insaccato spalmabile a base di carne di maiale e, appunto, peperoncino. Oggi, però, l’oro rosso di Calabria lo vogliamo osservare e intendere da un altro punto di vista; quello storico, e, nello specifico, librario. Voliamo con il cuore e con la mente nella frazione di Rossano – fra l’altro, luogo di produzione dell’oro nero, la liquirizia –, per conoscere più da vicino uno dei manoscritti più belli, antichi ed importanti che la storia umana ricordi: il Codex Rossanensis, altresì noto come Codice Purpureo.
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Codice perché si tratta di un manoscritto in pergamena, purpureo perché i suoi 188 fogli sono interamente tinti di colore purpureo; la porpora in questione, non quella derivata dal celebre mollusco, il murice, è di origine vegetale, estratta dall’oricello. Cosa, però, rende questo esemplare così unico? Per capirlo, dobbiamo guardare al suo contenuto e alla sua storia, abbastanza travagliata e, al contempo, molto affascinante.
Contenuto esclusivo e decorazioni in oro e argento
Uno scorcio su Rossano, parte del comune di Rossano-Corigliano in Calabria
Riconosciuto e incluso, a partire dal 2015, nella lista UNESCO del Registro della memoria mondiale, il Codice di Rossano è uno dei pochi codici purpurei giunti sino a noi, e uno fra i sette codici miniati orientali esistenti al mondo.
Il suo contenuto è di gran pregio, tanto quanto lo sono le decorazioni che lo impreziosiscono: il codice contiene infatti i testi dei vangeli di Marco e Matteo – poiché gli altri due, Luca e Giovanni, sono andati perduti –; la scrittura impiegata, la maiuscola onciale – in uso fra i secoli III e VIII – e la lingua che lo compone, il greco bizantino, ne fanno l’unico fra i quattro esemplari di questo tipo, che, uniti agli altri tre, scritti in siriaco, formano appunto l’insieme dei sette codici orientali miniati esistenti al mondo.
Alla porpora si aggiungono, poi, l’oro e l’argento, materiali di pregio con il cui il testo evangelico è redatto; a conclusione di questo capolavoro della manifattura, e, possiamo dirlo, dell’artigianato, 14 miniature che immortalano i momenti più significativi della vita e della Passione di Gesù: dalla Resurrezione di Lazzaro all’Ultima Cena, passando per una delle raffigurazioni più antiche e preziose della figura di Ponzio Pilato.
Il viaggio e il ritrovamento del Codice
Il Codice di Rossano potrebbe provenire da Costantinopoli, l’attuale Istanbul
L’oro rosso di Rossano, però – e ora abbiamo chiarito che non ci riferiamo al peperoncino –, non è sempre stato in Calabria. Il periodo di realizzazione del Codice purpureo oscilla fra i secoli IV e VII, anche se il secolo più accreditato è il VI. Le maestranze che diedero vita a questa formidabile opera d’arte operarono in Asia Minore, molto probabilmente ad Antiochia di Siria, o in altri grandi e importanti centri commerciali e culturali dell’epoca: Efeso, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto. Fu grazie a una non identificata comunità di monaci greco-orientali che il manoscritto giunse in Calabria, e, soprattutto, si salvò.
Il motivo principale del “trasloco” del Codice dalla Siria alla Calabria fu, infatti, la crisi iconoclasta; senza addentrarci troppo nell’argomento, un movimento nato e sviluppatosi in seno all’Impero Bizantino nell’VIII secolo che prevedeva la distruzione di qualsiasi immagine sacra o rappresentazione religiosa. Durante questo periodo, molti manufatti e capolavori dell’arte bizantina, e, in generale, orientale, andarono del tutto distrutti. Buoni esempi artistici di quel periodo, ad oggi, si conservano a Roma e in alcune aree meridionali del Bel Paese.
Possibile, dunque, che i monaci in fuga verso il sud Italia abbiano portato con sé anche il manoscritto purpureo; non è un caso, fra l’altro, che, già a partire dal VII secolo, Rossano costituì uno dei centri più vivaci ed importanti della comunità greca della penisola.
Rimasto nel dimenticatoio per secoli, l’oro rosso di Rossano rivide la luce solo alla metà del XIX secolo, quando fu ritrovato, nel 1864, all’interno della Cattedrale di Maria Santissima Acheropita di Rossano; successivamente, nel 1879, due studiosi tedeschi, Von Gebhardt e Adolf Harnack, compirono un viaggio dalla Germania al sud Italia per studiare approfonditamente il codice, analizzandone il contenuto e la manifattura.
Una storia antica e travagliata dunque, fatta di viaggi, fughe, bellezze e lunghi silenzi; ad oggi, grazie ai restauri, ai continui monitoraggi, nonché, alla creazione di un luogo ad hoc, il Museo diocesano e del Codex – in cui, agli occhi degli esperti, non sfugge alcun particolare per la conservazione (in primis, la temperatura) –, il manoscritto è visibile al pubblico, e, soprattutto, al sicuro!