Nel cuore dell’Asia c’è uno straordinario deserto da scoprire tra canyon, laghi salati e montagne di tiramisù
La storia del Mangystau risale a milioni di anni fa, in un’epoca in cui i continenti si spostavano e vasti mari si formavano. Gli spettacoli naturali della regione sono stati forgiati dalla Tetide, un oceano che separava il mondo in due grandi blocchi continentali: la Laurasia a nord (che comprendeva il Nord America, l’Europa e l’Asia) e il Gondwana a sud (comprendente l’Africa, l’India, l’Australia, l’Antartide, il Sud America, l’Italia e parte del Medio Oriente), lungo un periodo che ha attraversato la Terra per un miliardo di anni. Oggi, osservando da vicino gli strati fondanti delle stupefacenti formazioni calcaree di Boszhira e delle Shomanay Mountains, si scoprono misteriosi motivi e disegni che un tempo erano la vita marina di Tetide. Resti di ricci di mare e conchiglie, facilmente ritrovabili a oltre 200 chilometri dal Mar Caspio, e fossili come denti di squalo preistorici e ossa di ittiosauri, rimandano all’era mesozoica. Un viaggio nel Mangystau kazako è un’avventura alla scoperta delle formazioni che il mare ha lasciato ritraendosi, plasmando e facendo emergere gole, anfiteatri, cuspidi e cattedrali di roccia nella distesa sconfinata della steppa eurasiatica.
Indice dei contenuti
Mangystau, diario di viaggio
Viaggio organizzato da Walden Viaggiapiedi di Firenze, che propone trekking di gruppo in tutto il mondo, privilegiando destinazioni e percorsi che hanno un interesse naturalistico e paesaggistico. Siamo in 13 nel gruppo, provenienti da tutta Italia, dal Veneto alla Sicilia, più la guida Simone Depau, sardo. L’appoggio locale è con il tour operator Eduard Yarakhmedov, specialista in tour in jeep nella regione del Mangystau, e il suo gruppo di assistenti. Si dorme in tenda perché la zona dove stiamo andando è completamente priva di strutture ricettive (e speriamo che rimanga tale ancora a lungo), per preservare questi luoghi dalla contaminazione dei turisti. Insediamenti umani quasi inesistenti: nel deserto kazako del Mangystau, è più facile imbattersi in un cammello o in uno scorpione che in un altro essere umano. La natura regna incontrastata.
Domenica 31 marzo, necropoli e canyon
Arriviamo a Aktau, il cui nome significa montagne bianche, città sulle rive del Mar Caspio che è la capitale della regione di Mangystau, dopo un volo notturno con scalo a Istanbul. Fuori dall’aeroporto ci sono già le jeep pronte per partire. Dopo le formalità doganali siamo già a bordo, nell’alba ovattata della steppa. Colpisce subito l’immensità di questo territorio senza confini, piatto e uniforme, uguale a se stesso per migliaia di chilometri. Non c’è un albero, una siepe, un rilievo, salvo le rare case dei contadini e qualche cammello che si intravede lontano nella nebbiolina del mattino.
Ci dirigiamo verso nord, costeggiando più o meno il mar Caspio, fino alla prima destinazione che è il canyon di Zhygylgan (Terra Caduta in kazako), 110 km a nord di Aktau, una distesa accecante di rocce taglienti che affaccia sul mar Caspio. Il gruppo di trekkers, in cui mi sono indegnamente intrufolato, si fionda subito lungo il sentiero che conduce al mare: nessuno sembra sentire la stanchezza del viaggio notturno appena terminato. Ci incamminiamo lungo sentieri terrosi tra scogliere affilate e montagne venate di stratificazioni rossastre, fino a raggiungere le rive del Mar Caspio. La guida Eduard ci indica formazioni rocciose che ricordano figure di animali o di navi, incluso un fantasioso Titanic che in realtà somiglia di più a un ferro da stiro. Scavati nella roccia, ci mostra i segni di fossili marini e le impronte di animali preistorici: antenati tridattili del cavallo e tracce della tigre dai denti a sciabola, che visse qui nel Neocene (da 23 a 3 milioni di anni fa circa). Tra le rocce e il mare si apre un laghetto dalla forma a cuore, sulla cui riva c’è il caratteristico palo segnalatore delle distanze verso città a noi per lo più sconosciute (Atyrau, Machachkala, Dopylasharov).
Dal canyon sul Mar Caspio si prosegue verso la necropoli di Kenty-Baba, e quindi verso la moschea sotterranea di Sultan-Epe, patrono dei marinai, composta da alcune stanzette e bassi corridoi. Vicino alla moschea c’è un pozzo dove i locali accorrono per i rifornimenti di acqua. Ce la fanno provare, ed è buona. Un gesto semplice, ma che fa capire l’importanza dell’acqua in questi luoghi dove per 10 mesi all’anno non piove.
Dopo la pausa pranzo torniamo verso la steppa. Le piste sembrano tutte uguali, ma evidentemente solo a noi perché le guide individuano i percorsi con facilità. Dopo un paio d’ore di sballottamenti nella steppa arriviamo sul ciglio di una spaccatura inattesa e sotto i nostri occhi compare il Canyon Shakpaktysay (canyon della pietra focaia), una località normalmente non inserita nei percorsi turistici. Al centro del canyon si alza una collina bianchissima di calcare ai cui piedi si sono formate delle strutture che ricordano i camini di fata della Cappadocia. Poi c’è ancora una tappa: la necropoli di Shakpak-Ata, con annessa moschea sotterranea. Le moschee sotterranee sono luoghi di culto che in questa regione si trovano in maggior numero rispetto a tutto il Kazakistan. Benché il termine moschee richiami l’idea di un grande edificio con cupole e minareti (mi ricordo le gigantesche moschee di Astana), queste sono di piccole dimensioni, generalmente una o due stanzette scavate nella roccia in zone quasi sempre isolate. Tutte hanno un guardiano, persona devota che dedica la sua vita al mantenimento e al decoro della moschea. Questa è una terra di 360 santi tutti discepoli di Khoja Ahmed Yassawi, fondatore del ramo turco del sufismo, il cui mausoleo a Turkistan (visto 2 anni fa) è meta di pellegrinaggio da tutte le parti dell’Asia. Molti di questi luoghi sono affiancati da necropoli rupestri perché i kazaki preferiscono seppellire i morti vicino ai santi. Nella cultura kazaka le moschee prendono il nome di un Santo o persona di alta spiritualità (es. un eremita) a cui spesso viene aggiunto il suffisso Ata che significa nonno. In totale in questa zona ci sono 62 necropoli, molte con la moschea e il cimitero.
Giornata intensa, siamo stanchissimi. Raggiungiamo la Kapamsay Gorge, una lunga e profonda fessura nel terreno con pareti alte circa 70 mt che si estende per chilometri. é sera e qui viene organizzato il campo vicino a una mini oasi nascosta e protetta da una grotta. Qualche problema per chi non è abituato a montare una tenda, come me, che questa operazione l’ho fatta l’ultima volta 40 anni fa, ma i compagni di viaggio e le guide sono lì pronti ad aiutare i meno esperti. Per inciso, le guide sono il capo-comitiva Eduard, caucasico, con gli autisti Stan e Roman (russi) e Kuan (kazako).
Cominciamo ad adattarci (si fa per dire) alla mancanza di servizi. Ogni roccia alta mezzo metro diventa una toilette a cielo aperto. Fa freddo nel canyon, temperatura attorno allo zero, e dormire non sarà facile malgrado il materassino, il sottomaterassino e il sacco a pelo tarato a – 6°C.
1 aprile – giorno 2, la valle delle sfere e la montagna del leone
Il secondo giorno nel Mangystau inizia con una camminata lungo il ciglio del Kapamsay Canyon, fino a raggiungere la sommità dove c’è un riquadro rettangolare giallo tipo National Geographic, messo lì apposta per fare le foto. C’è campo internet anche qui nel deserto. Alcuni QR code spiegano l’origine del canyon e raccontano una leggenda: il canyon sarebbe dedicato a Kapam, re guerriero che governò queste terre circa 5 secoli fa. Dove adesso c’è il canyon un tempo scorreva un fiume, poi prosciugato. Al suo posto si trova ora una gola stretta e profonda, scavata nella roccia silicea.
Facciamo tappa nel villaggio di Taushik per fare rifornimento di provviste. La gente che incontriamo è cordialissima: facciamo foto con alcune donne locali e ci invitano a vedere un centro culturale dedicato alla musica e alle arti della regione. Mentre stiamo facendo la spesa una ragazza tira fuori una dombra, tipico mandolino a due corde kazako, e così facciamo i nostri acquisti con l’accompagnamento di musica tradizionale locale suonata dal vivo.
Lasciamo Taushik per dirigerci verso la Torysh Valley, cioè la valle delle sfere, disseminata di rocce a forma di sfera con dimensioni che vanno da pochi centimetri a 3-4 metri. Passeggiamo in lungo e largo per il sito e rinveniamo qualche sfera che si è spaccata col tempo. Alcune palle sono nettamente fratturate, rotte e aperte in due o tre pezzi mettendo così in luce l’interno che appare friabile, quasi sabbioso, spesso con tracce di conchiglie (qui un tempo c’era il mare). All’interno, si può notare un nocciolo di materia più compatta, come il tuorlo di un uovo. Questo ci convince del fatto che probabilmente il fenomeno sia avvenuto per accumulo di materiale intorno a un nucleo, come le perle in una conchiglia che si formano attorno a un granello di sabbia. Viviamo il nostro momento alla Piero Angela e ci sentiamo tutti geologi esperti! Queste pietre sono presenti in pochi altri luoghi del pianeta: il fenomeno si chiama concrezione, cioè un’aggregazione di minerali che si origina da ambienti acquosi per deposizione di sostanze a intervalli successivi.
Prossimo villaggio Shayr, che si trova qualche kilometro prima della Sherkala Mountain, o montagna del leone, uno sperone calcareo alto più di 300 mt che si erge misteriosamente dall’altopiano desertico. Molti cavalli pascolano in libertà nei prati e nelle valli attorno alla montagna (il cavallo è una normale fonte di carne per le genti di questa zona). Vediamo qualche roditore simile ai cani della prateria americani, ma è difficile inquadrarli perché si rintanano subito nei loro rifugi. Le montagne isolate, separate dalla catena principale delle Zhalshy Mountains, sono una caratteristica di questa zona: poco dopo infatti arriviamo alla Akhmystau Mountain, una valle circondata da 5 montagne dove viene allestito il campo per il secondo giorno, suggestivo specie al tramonto sotto le guglie illuminate dalla luce di taglio che filtra tra le rocce. Poco prima di arrivare al punto scelto per l’accampamento, compare nel cielo sereno un misterioso arcobaleno verticale, o pilastro di luce, tecnicamente un alone parelico dovuto alla dispersione ottica della luce solare al tramonto.
2 aprile – giorno 3, il lago salato Sor Tuzbair
La giornata inizia con la visita alla Valle delle Airakty-Shomanay Mountains o Valle dei Castelli, dove suggestive torri di rocce colorate ricordano i profili dei nostri castelli medievali. Dopo questa breve escursione, si riprende con destinazione Tuzbair. Prima, sosta a Shetpe, un centro abbastanza grande (per la prima volta vediamo un semaforo!), per fare rifornimento in un altro piccolo supermercato e riempire i serbatoi delle jeep.
Tuzbair è una incredibile depressione che comprende un lago salato circondato da frastagliate scogliere bianche in gran parte di gesso, lavorate dall’erosione come se la natura si fosse divertita a creare svolazzi e intricati disegni, uno spettacolo. Prima di tutto una veduta mozzafiato dell’altopiano in cui si apprezza la vastità del lago salato che si spinge oltre l’orizzonte. L’acqua è quasi scomparsa, pensare che una volta qui c’era il mare, ma è rimasto uno stagno salato che riflette i raggi del sole assumendo le sembianze di una distesa innevata.
La discesa verso il fondo del lago è un affare complicato. Sembra facile, ma poi ti accorgi che il sentiero è introvabile e che ci sono una serie di strapiombi alti parecchi metri che frammentano le lingue di gesso che scendono giù. Di saltare giù proprio non se ne parla. Finalmente il bergamasco Piero, l’imbianchino del gruppo, riesce a trovare un canalone praticabile che porta alla piana del lago salato, da cui scendiamo per lo più scivolando poco elegantemente col sedere, come se fosse il toboga di un parco giochi.
I contrafforti della valle sono lingue di gesso compatte di un bianco accecante, che si confonde con la superficie salata del lago, preceduta anch’essa da affioramenti biancastri di sale. Colpisce la fantasia una semigrotta centrale detta il naso. La poca acqua del lago (che in estate scomparirà del tutto), genera delicati riflessi rosati specialmente alla sera e al mattino. Ci accampiamo qui, tra il lago salato e le increspature di gesso, uno scenario davvero incantevole.
3 aprile – giorno 4, la fattoria nel deserto e la valle di Boszhira
La camminata del mattino si svolge lungo i contrafforti di gesso della valle. Qua e là troviamo i resti fossili di conchiglie e ricci di mare, a testimonianza dell’era in cui questo era il fondo dell’oceano.
Si riparte sulle piste della steppa in direzione sud-est, ormai rassegnati ai continui sballottamenti sulla jeep. Lungo la strada ci fermiamo alla fattoria della famiglia Mazqat, in località Dongelek Sor. Qui allevano cavalli, cammelli e capre, e producono latte di cammello e carne di cavallo che poi vanno a vendere al mercato di Shetpe e dei villaggi vicini. Ci fanno provare lo shubat, latte fermentato di cammello con forte sapore di yoghurt acido, e il latte appena munto. Ci sono alcune femmine di cammello con i loro piccoli, che fanno davvero tenerezza e corrono ad acquattarsi sotto la pancia della madre succhiando il latte.
Riprendiamo il viaggio nella steppa, un tratto lungo caratterizzato dalla presenza lungo la pista delle simpatiche tartarughe euroasiatiche, che doverosamente evitiamo, anzi quando ciò non è possibile ci fermiamo e le riportiamo nella scarsa vegetazione.
Mentre continuiamo il viaggio senza notare niente di particolare, a un certo punto il capo comitiva Eduard ci invita a chiudere gli occhi. Al suo ok, quando li riapriamo, appare alla vista l’incredibile spettacolo della Boszhira Valley. Uno scenario stupefacente, fatto di cupole, duomi, picchi a forma di yurta, denti di roccia aguzzi. Gli squarci vertiginosi di Boszhira per poco non mi faranno svenire: come e forse meglio della Monument Valley in Arizona, solo che qui la natura ha usato colori più chiari: bianco, giallo paglierino e crema. La parte più spettacolare sta al centro: due creste di denti rocciosi che si elevano per 100-150 metri da quello che una volta era il fondo del mare.
Scendendo con la jeep tra i castelli di roccia, si scoprono dirupi e strapiombi vertiginosi, spaccature nella terra create da chissà quale fenomeno di erosione o movimento tellurico.
Campo sul ciglio della valle, proprio di fronte a uno strapiombo di un centinaio di metri.
4 aprile – giorno 5, la valle di Boszhira
Giornata interamente dedicata all’esplorazione della valle di Boszhira. Il primo trek ci porta in una zona disseminata di resti di conchiglie a terra e fossilizzate nella roccia, immediatamente taggata come la cucina del cuoco preistorico, che immaginiamo fosse intento a preparare gli spaghetti alle vongole vista la quantità di gusci sparsi in giro. La camminata più bella è quella che attraversa la valle passando tra due cime di roccia giallo-ocra che emergono da un grande ghiaione di gesso bianco. Sono definite come zanne perché assomigliano agli aguzzi denti di un gigante. Tutto intorno una serie di enormi rocce di forma grossolanamente cilindrica che ricordano tantissimo i butte della Monument Valley americana. Anche queste sembrano emergere con forza dal terreno piatto, uno spettacolo. Qui si trascorre diverso tempo perché è difficile staccare lo sguardo da questo scenario. Ma alla sera il meteo ci fa un brutto scherzo.
Come cambia in fretta il tempo nella steppa. Abbiamo appena il tempo di montare le tende, poi all’improvviso il cielo si tinge di nero e nuvoloni carichi di pioggia scaricano raffiche di scrosci violenti sul campo, posto proprio sotto due grandi denti di roccia. La pioggia portata dal gelido buran, il vento della steppa, durerà a intermittenza per tutta la notte e la mattinata di venerdì, accompagnata da un brusco abbassamento di temperatura. Il terreno argilloso non assorbe niente e quindi nelle tende individuali non si può stare: l’unico rifugio è il tendone grande delle guide. Qualche tenda rischia di volare via, ma le nostre guide sfidano la tempesta e vanno a rinforzare tutti i picchetti: davvero ammirevoli.
Serata speciale per Marco, ingegnere di Vicenza, che proprio qui nella steppa compie 50 anni, festeggiati nel calore del gruppo e allietati da tutto ciò che segue: kagnac (nome affibbiato al cognac kazako), birra kazaka della balena, vino Bacchus locale tipo fragolino, shampàn russo color ruggine dall’inconfondibile sapore di cartone macerato e muffa, nescafè in polvere (a scelta brasiliano o arabico) e tisane allo zenzero e cannella. Salviamo la vodka, quella almeno è buona. Per fortuna c’è l’affetto del gruppo, e il nostro ingegnere neocinquantenne non riesce a trattenere la commozione.
5 aprile – giorno 6, alla ricerca dei fossili tra le Montagne Tiramisù
Lasciamo la valle di Boszhira dirigendoci a ovest verso il Monte Bokty, striato con sfumature di bianco, giallo, corallo e marrone, un’avvisaglia delle montagne colorate che somigliano a un tiramisù. La guida Stan tira fuori dalla tasca un biglietto da 1000 tenghè e ci mostra con orgoglio che il monte vi è raffigurato, ricordandoci poi di guardare con attenzione sotto i nostri piedi: in questa zona è facilissimo trovare denti fossilizzati di antichi squali, soprattutto oggi dopo che il temporale della notte ha provocato il dilavamento dei pendii trascinando con sé, assieme a terra e argilla, anche i fossili che custodivano. Quasi tutti troviamo denti di megalodonte o ittiosauro, gli squali preistorici, e io ho anche la fortuna di individuare una vertebra. Chiediamo se questi reperti si possono portare via: no problem, quindi ce li mettiamo in tasca e a casa faremo un bel quadretto-ricordo.
Il Monte Bokty è un anticipo di quello che sta per arrivare: le famose montagne colorate dell’Ustyurt Plateau, meglio note come Montagne Tiramisù alla fragola, dove arriviamo in serata. Viste da vicino, l’effetto meringa è ancora più realistico. Ci si sente come folletti o gnomi intenti a scalare una montagna di crema e biscotti. Il terreno è friabile e si rompe ad ogni passo. Quasi quasi ti viene voglia di prenderne un pezzetto e assaggiarlo: se sapesse di zucchero non ci sarebbe affatto da stupirsi!
6 aprile – giorno 7, le dune di sabbia e il ritorno a Aktau
Camminata del mattino sulle colline che somigliano a una torta, osservando la sovrapposizione di strati di argilla, arenaria e terreno carico di minerali di ferro e manganese, che per il peso specifico tendono a scivolare verso il basso. é proprio il colore rosso di questa stratificazione, intercalato con il bianco e il giallo canarino degli altri strati di arenaria e calcare, che ha determinato l’appellativo Tiramisù alla fragola per queste colline uniche al mondo. In un certo senso, sono colori golosi.
Lasciamo le colline colorate e iniziamo il viaggio di ritorno ad Aktau. C’è ancora una tappa da fare, le Tuyesu Sand Dunes, un agglomerato di dune di sabbia situate nel villaggio di Senek. Le dune di Tuyesu si estendono per 30 km in direzione nord, ma forse a causa della giornata uggiosa, forse a causa della stanchezza, non ci appaiono particolarmente interessanti.
La strada dal villaggio delle dune verso Aktau attraversa sterminati campi di petrolio e torri di estrazione del gas. I campi minerari con migliaia di pompe a bilanciere macchiano di nero la sabbia informe e circondano piccoli villaggi dove i cammelli circolano in libertà per la strada. Qui vivono gli operai della compagnia statale Kaz Munay Gas. Guardando bene negli spiazzi davanti alle case, tutte basse e tutte col tetto azzurro, osservo con sorpresa che qualche pervicace kazako ha piantato i ciliegi, che essendo aprile adesso sono in fiore. Non è certo come la sakura in Giappone, ma vedere dei ciliegi nel deserto tra i neri tralicci del petrolio, senza una minima macchia di verde attorno, è qualcosa che strappa un sorriso.
L’autostrada a 4 corsie che porta a Aktau è più trafficata del solito, cioè passano una decina di veicoli all’ora. Durante il pit stop è impossibile trattenere le risa vedendo le istruzioni per l’uso del bagno: non salite in piedi sulla tazza ma sedetevi sopra! Arrivati alla periferia di Aktau una serie di giganteschi serbatoi, idrodotti e oleodotti ci ricorda che questo è il principale centro petrolifero del Kazakistan.
Arriviamo a Aktau verso le 5 e mezza, in tempo per fare un giro nel quartiere dove c’è l’albergo. Case basse, palazzoni multifamiliari in stile brutalismo sovietico, un lungomare abbastanza squallido. Scene di normalità quotidiana per la strada: bambini che pattinano, anziani che giocano a backgammon, ragazze che messaggiano col telefonino, un micio che fa le fusa, le signore con la borsa della spesa. Per la strada ci sorridono tutti, soprattutto i bambini che vengono a farsi dare una carezza e tentano un discorso nella loro lingua per noi incomprensibile.
Poi finalmente la tanto sospirata doccia nell’hotel Silk Way, dopo una settimana di sabbia, salviettine detergenti e spruzzatine di acqua sul viso.
Cena all’ottimo ristorante georgiano Kaheti Café offerta dall’organizzazione.
Conclusione
La regione del Mangystau, con i suoi paesaggi fuori dal mondo, è davvero unica e indescrivibile. Paesaggi lunari e spazi infiniti, dove si potrebbero a girare film spaziali con alieni e astronavi. Le acque della Tetide, ritirandosi, hanno creato scogliere bizzarre, grotte dai colori meravigliosi, pinnacoli di calcare bianchissimo, tappeti di gesso e sale. Tutto questo immerso in un silenzio quasi primordiale, che ti fa apprezzare e godere ancora di più i paesaggi che si perdono all’orizzonte.
Grazie ai compagni di viaggio e a tutti i lettori per essere arrivati fin qui.
Luigi
luigi.balzarini@studio-ellebi.com