Bastano appena 10 giorni per capire perché il Vietnam è il paese più interessante del Sud-Est Asiatico
Un’antica leggenda narra che il mostro sotterraneo Cu era così enorme da avere la testa in India, il corpo in Vietnam e la coda in Giappone. Ogni volta che si muoveva scatenava terremoti e disastri. Così nella cittadina di Hoi An, nel centro del Vietnam, venne costruito un ponte proprio nel punto dove era il suo cuore ed il mostro morì. Gli abitanti di quel paesino di pescatori, rattristati dalla fine di Cu, eressero un piccolo tempio per pregare per lui e per la sua anima. Questa è una delle mille leggende che aleggiano tra le case, i templi, i santuari e le pagode del Vietnam, dando loro un significato ed un motivo per cui, a distanza di secoli, ogni edificio arricchisce ancora quel meraviglioso Paese. Ecco il diario di 10 giorni in Vietnam.
Indice dei contenuti
Diario di viaggio
Hanoi – 1° giorno
Sognavamo il Vietnam da tanto tempo e finalmente eccoci all’aeroporto Non Bai di Hanoi, prima tappa di un breve assaggio dell’intero Paese che percorreremo da nord a sud in dieci giorni con spostamenti vari. La periferia piuttosto squallida della capitale precede un centro moderno con intermezzi storici. Hanoi è una città di più di otto milioni di abitanti e cento milioni di scooter che sfrecciano dappertutto senza alcuna regola, convivendo incredibilmente tra di loro e con tutti gli altri veicoli, sfiorandosi ma non toccandosi. Per i pedoni attraversare le strade è una roulette russa, anche se non è impossibile quando si prende l’abitudine di ignorare il rischio di essere investiti ogni volta. C’è da dire però che, come vedremo durante tutto il viaggio, auto, bus e camion rispettano le regole della circolazione, soprattutto i severi limiti di velocità anche fuori dai centri abitati.
Gli edifici sono stretti, alti e lunghi, con unico piccolo fronte sulla strada ed addossati gli uni agli altri come un enorme Lego. Pare che ciò sia dovuto alle tasse applicate in rapporto all’affaccio delle costruzioni sul suolo pubblico, cosa che è stata aggirata costruendo in lunghezza ed altezza minimizzando la larghezza. Ed anche il nostro hotel, proprio nel centro storico della città, non sfugge alla regola, tant’è che la piccola e confortevole camera al terzo piano è totalmente cieca non avendo aperture ma solo un inserto in vetrocemento che dà una parvenza di luce. L’approccio ad Hanoi avviene vagando a piedi tra le sue vie. Non fa caldo ed è nuvoloso. Speriamo non piova, anche se le previsioni danno il passaggio di un monsone nei prossimi giorni. Il vicino lago Hoan Kiem o della Spada Restituita, luogo di incontri e di attività, è un grande specchio d’acqua nel cui centro si ergono un minuscolo isolotto con l’antico tempietto Thap Rua o Torre della Tartaruga ed un’isola più grande con il Tempio di Ngoc Son o del Monte di Giada, collegato alla terraferma dal Ponte The Huc o del Sole Nascente, un ponte di legno rosso riccamente decorato ed illuminato.
Devo e voglio premettere che i nomi in vietnamita dei siti, spesso riconducibili ad antiche leggende, saranno qui scritti senza le decine di svariati accenti che rendono la lingua locale molto musicale e che, a seconda di come sono posti sopra o sotto le vocali, danno intonazioni e di conseguenza significati diversi alla medesima parola. Sulle rive del lago la mattina presto è facile vedere gli abitanti della zona ritrovarsi a fare Tai Chi, l’arte marziale cinese nata per difesa personale e divenuta ginnastica e medicina preventiva. Intorno ad esso si snodano decine di negozi e di bancarelle di street food e mentre cala la nostra prima sera in Vietnam assaggiamo il cibo locale di strada prima con salsiccette di maiale alla brace e poi con il Pho, la tipica speziata zuppa di verdure e carni varie con noodles di riso, germogli di soia, lime e menta, seduti lungo il marciapiede su caratteristici sgabelli di plastica alti (o meglio bassi) trenta centimetri. In questi “mini ristoranti” di strada, organizzatissimi nella loro semplicità, già dalla prima mattina si cuociono fumanti zuppe speziate, si grigliano spiedini e si preparano succosi frullati di frutta. Rientrando in hotel osserviamo gruppetti di donne che, lungo il lago, ballano al suono di moderne musiche sia folcloristiche che internazionali.
Hanoi – 2° giorno
L’indomani abbiamo a disposizione l’intera giornata da dedicare ad Hanoi. Decidiamo di muoverci a piedi e, per le tratte più lunghe, di utilizzare i taxi, numerosi quanto economici. Iniziamo da Train Street, un’incredibile stretta via quasi totalmente occupata dai binari del treno che, passando ancora dal lontano 1902 sulla linea Hanoi – Saigon (oggi Ho Chi Minh City, com’è stata chiamata dal 1975), sfiora le case, i caffè ed i portici lungo di essa. Arriviamo al Mausoleo di Ho Chi Minh, il luogo del riposo del leader vietnamita, rigoroso nelle regole di visita, con tanto di soldati in uniforme bianca e rito del cambio della guardia, eretto con i soliti esagerati, pomposi e pacchiani canoni stilistici sovietici tra il 1973 ed 1975 a dispetto della vita e delle volontà dello “Zio Ho” che, anziché essere cremato, qui giace imbalsamato in una teca di cristallo, esposto come una reliquia in un museo. Ma è il momento di entrare nel cuore antico del Vietnam.
Il Van Mieu o Tempio della Letteratura dell’XI secolo, è forse il monumento più importante di tutto il Paese, sede della prima università vietnamita, rimasto tale fino al 1802 quando fu trasferita ad Hue, nel centro della nazione. Disposto su una vasta superficie, consta di cinque cortili con porte e porticati. Al suo interno il Tempio di Confucio, luogo di meditazione dei letterati della Scuola e le 82 stele sorrette da grosse tartarughe di pietra con incisi i nomi dei migliori allievi. Ci portiamo poi alla Chua Mot Cot o Pagoda ad un Pilastro, iconica e originale struttura dell’XI secolo voluta dal re buddista Ly, poi arricchita dai suoi successori. Proseguiamo con il tempio di Tran Quoc che significa “a guardia della Patria”, proprio sulla sponda del lago occidentale Ho Tay a nord della città, uno splendido tempio buddista del VI secolo, il più antico di Hanoi, con la torre Bao Thap Luc Do Dai Sien (la Stupa Preziosa) alta 15 metri con undici livelli.
Arriviamo poi alla Cittadella Imperiale di Thang Long risalente all’XI secolo, eretta sui resti di una fortezza cinese del VII secolo, sede della Corte Reale vietnamita fino all’inizio del 1800. La storia recente la vede implicata durante la Guerra con gli americani del 1965-1973 quando qui venne scavata una rete di pozzi e tunnel sotterranei trasformati in bunker, il più importante dei quali è il D67 dove venivano prese le decisioni strategiche del Politburo, della Commissione Militare Centrale, dell’Esercito Popolare e del Ministero della Difesa. Restando in tema, finiamo il giro alla Prigione di Hoa Lo. Voluta dai francesi durante gli anni della loro presenza coloniale ed utilizzata per torturare e giustiziare i rivoluzionari con tanto di ghigliottina, venne poi riciclata dal governo nordvietnamita per rinchiudere i piloti americani abbattuti e proseguire con le terribili condizioni di detenzione che la portarono ad essere chiamata ironicamente dai prigionieri “Hanoi Hilton”. Dopo una buona cena a base di Com Chien, riso saltato con pesce, non ci resta che passeggiare nuovamente intorno al lago Hoan Kiem spingendoci al quartiere francese con viali ed edifici coloniali tra cui il bel Teatro dell’Opera.
Tu Long Bay – 3° giorno
Uscendo dalla nostra cameretta cieca ci accorgiamo che sta diluviando. L’annunciato Monsone è arrivato e a detta dei locali durerà non meno di due giorni e non più di cinque. Peccato perché oggi e domani sono dedicati alla navigazione nella Baia di Ha Long. Chiusi nel nostro taxi vediamo l’innumerevole massa degli scooter proseguire imperterrita a tessere la sua rete di traiettorie, con l’unica differenza che tutti sono coperti da utili poncho di plastica o da semplici teli. Fuori da Hanoi la campagna si svolge ai lati della strada con i suoi campi semiallagati disegnati a patchwork e le lontane colline. Poco prima di mezzogiorno, dopo circa 160 km, siamo a Hai Pong, annunciata da alti palazzi, hotel, ruota panoramica e funivia. Già dall’organizzatissimo porto si intravedono le prime delle oltre duemila caratteristiche torri naturali che hanno reso unica questa ampia insenatura del Golfo del Tonchino. Con una giovane guida, un ragazzone cordiale, organizzato e preparatissimo, raggiungiamo su una barca coperta quella più grande che ci ospiterà per la notte.
È un tipico battello in legno, un piccolo hotel galleggiante con tredici cabine molto accoglienti ed un equipaggio ridotto ma cortese ed efficiente. Il tempo è grigio, tira vento e pioviggina, non proprio le condizioni ideali per godersi questa meraviglia. Certo il sole avrebbe trasformato tutto in uno spettacolo, ma anche così troviamo un’atmosfera affascinante, surreale ed intrigante con quel tocco di mistero che non guasta. Lasciato il porto, lentamente ci portiamo verso il confine orientale con la Cina. Anziché nella più nota e frequentata Ha Long, il nostro tour ci porta nella baia di Tu Long, percorsa da molte meno imbarcazioni ed aperta al turismo da pochi anni. Il mare è leggermente mosso dal vento ma il battello è stabile e naviga lentamente inoltrandosi in un suggestivo paesaggio in bianco e nero dove torri calcaree ricoperte da fitta vegetazione e incorniciate da bianche spiaggette emergono dalla foschia mentre nel cielo grigio volano silenziose aquile, numerose quanto le farfalle. Incuranti del tempaccio, a metà pomeriggio veniamo portati ad una chiatta dove ci aspettano dei kayak. Dentro i nostri poncho trasparenti, in costume e maglietta, saliamo sui piccoli gusci biposto e, con qualche prima difficoltà di coordinazione, raggiungiamo pagaiando un’isoletta, scivolando tra le alte rocce.
La bassa marea ci permette solo di avvicinarci alla spiaggia ed alla adiacente piccola grotta, ma una tregua della pioggia ed il tepore dell’acqua ci spingono a fare un bel bagno che ci mette in armonia con il posto. Tra una buona doccia calda, una cena degna di un hotel 5 stelle, una sessione di pesca al calamaro e quattro chiacchiere con gli altri ospiti, la sera trascorre piacevolmente e ci porta ad una notte tranquilla ancorati in una calma baia.
Baia di Tu Long – 4° giorno
Il brutto tempo non molla. Piove ancora. Alle 06.30, sul ponte superiore semi coperto, non ci facciamo mancare nemmeno una breve sessione di Tai Chi, la risposta locale, oggi umida, al “saluto al sole” yoga. I fantasmi delle torri calcaree continuano a comparire e lentamente sfuggire nella nebbia a pochi metri dal battello. Indossati i soliti buoni poncho, saliamo poi sulla barca che ci porta all’isola su cui si trova la grotta di Thien Canh Son, uno dei luoghi più suggestivi della baia. Un ripido sentiero di scalini scavati nella roccia conduce all’ingresso di questa caverna con sale di stalattiti e stalagmiti dove anticamente i pescatori trovavano rifugio durante i tifoni. Non resta poi che tonare sul battello, divertirci confezionando spring rolls vietnamiti e ritornare (purtroppo) in porto e da li ad Hanoi.
Abbiamo ancora qualche ora da dedicare alla capitale. Così, vestiti come due spaventapasseri di plastica, ci portiamo al Dong Xuan, il grande mercato coperto a tre piani, un alveare stracolmo di industriose api che vendono ogni genere di articoli, merci e alimentari, con qualche bel ratto che cerca riparo e cibo. È poi la volta di un rapido sguardo alla Cattedrale neogotica di Saint Joseph, il Santo patrono del Vietnam e dell’Indocina, eretta alla fine del XIX secolo sul luogo di una pagoda risalente all’anno 1000. Attraverso un microscopico viottolo tra le case raggiungiamo poi il Tempio di Bach Ma o del Cavallo Bianco, fondato nell’XI secolo. La leggenda sulla nascita di Hanoi racconta che il re Ly Thai To, in sella al suo fidato candido destriero si fermò qui fondando la capitale del suo impero. Terminato il tempo a disposizione, alle 18:00 eccoci in stazione per prendere il treno notturno delle Vietnam Railways per Hue, 670 km più a sud. La carrozza è suddivisa in otto cabine “VIP” da quattro cuccette, sufficientemente pulite ed accoglienti, ma con un solo WC e due lavabo per tutti. Frutta, crackers, acqua e caffè in lattina sono offerti, mentre chiassosi addetti passano nei corridoi vendendo bevande e cibi sia confezionati che caldi. Ne condivideremo una con una coppia di simpatici ed attempati olandesi con cui trascorriamo le tredici ore successive, compresa una notte rumorosa e sballottante, tentando di dormire completamente vestiti su un materasso di pochi centimetri.
Hue – 5° giorno
Sono le 06:30. Fuori dal finestrino del vagone, il tempo ancora grigio accompagna squadrate risaie, campi, villaggi, palmeti e boschi. Gruppi di piccoli tempietti e bianche lapidi emergono dalla vegetazione, silenziosi cimiteri divisi a seconda delle religioni. È un piccolo documentario sulla vita di questo Paese, lontana dalle grandi città, scandita da lenti ritmi ed ancora molto legata alla tradizione, alla terra ed ai suoi frutti. Il treno sferraglia e sobbalza come una moto da enduro, facendo diverse fermate in piccole stazioni, finché alle 09:00 finalmente ecco Hue, una delle più antiche città vietnamite, “anima del Vietnam” per le sue oltre 300 pagode, capitale imperiale dal 1805 al 1945 quando il governo di Ho Chi Minh pose fine alla sua gloria, quasi totalmente rasa al suolo durante la guerra del Vietnam.
Appare subito chiaro che è ben diversa da Hanoi, ordinata e meno affollata anche se più invasa dai turisti europei, come noi del resto. Ampi viali ed il bel Song Huong, il Fiume dei Profumi, portano nel cuore della città dove si trova l’hotel. Prendiamo subito un taxi e partiamo alla ricerca di alcune delle sette tombe dei vari imperatori della Dinastia Nguyen, l’ultima stirpe reale vietnamita che si estese con 13 sovrani dal 1802 al 1945. In tutto il Paese, i grandiosi complessi funerari sono caratterizzati da sontuose porte d’ingresso, laghetti, giardini, bonsai, aiuole, cortili, padiglioni, porticati, scaloni, templi, ponti, edifici residenziali e teatri, il tutto arricchito con smalti, mosaici e decorazioni i cui colori dominanti sono il blu, il rosso ed il giallo oro. I tetti rigorosamente in legno, con tegole in cotto, sono sormontati da varie rappresentazioni come fiori, onde e draghi. E poi stele commemorative, campane, gong, tamburi cerimoniali, statue di mandarini, funzionari, divinità, cavalli, elefanti, tartarughe ed ovunque draghi, il simbolo del potere del Re. I templi, a qualunque religione siano dedicati, hanno interni multicolori riccamente addobbati con statue, vasi, iscrizioni ed altari ricolmi di offerte lasciate dai fedeli, come frutta e fiori, dove l’aria è pervasa dal profumo di decine di fumanti bastoncini di incenso.
Il nostro giro ci porta dapprima alla tomba di Tu Duc del XIX secolo, poco fuori la città, molto armonica e scenografica, con un lago artificiale ricoperto da ninfee, un antico teatro, diversi edifici su cui si trova la parola Khiem (modestia) ed il padiglione principale con la stele dove è incisa una sorta di autobiografia di 4935 parole del re-poeta che, nonostante avesse 103 mogli, non ebbe figli. A seguire quella di Khai Dinh, re perfezionista e meticoloso, eretta agli inizi del XX secolo sulle pendici del monte Chau Chu, con una scalinata di 127 gradini, più piccola di altri mausolei ma raffinata, con dettagliati mosaici in porcellana e vari richiami all’arte sia orientale che occidentale. Poco distante, in perfetta posizione feng shui, sorge quella del re riformista Minh Mang della metà del XIX secolo, un complesso maestoso con 40 edifici la cui disposizione in pianta ricorda una persona sdraiata che riposa. L’aria che si respira in questi complessi è stranamente serena. Si è portati istintivamente al silenzio, al rispetto dei luoghi, a guardare bene dove camminare, a togliersi le scarpe entrando nei templi anche se non è chiaramente indicato da cartelli, a cercare i dettagli, ad osservare prima di scattare impersonali fotografie a raffica. Meriterebbero molto più tempo ma purtroppo dobbiamo proseguire.
Ci portiamo poi, sfiorando ciò che resta del Van Mieu, il Tempio della Cultura, alla Pagoda buddista di Thien Mu, o Tempio della Signora Celeste, risalente al 1600, svettante su una collina lungo il Fiume dei Profumi, che con i suoi sette piani è considerata il simbolo di Hue. Quì è conservata la Austin blu-grigia che nel 1963, in pieno momento di tensioni antigovernative da parte della comunità buddista, condusse a Saigon il monaco Thich Quang Duc ad immolarsi dandosi fuoco in strada per protesta contro la politica anti-buddhista dell’allora Presidente Ngo Dinh Diem, primo di una lunga serie di immolazioni di monaci e monache buddiste le cui immagini fecero il giro del mondo.
Nel pomeriggio ci avviamo a piedi verso il Choi Dong Ba, il grande mercato coperto risalente al XIX secolo. Arrivati al fiume prendiamo una barca che con meno di due dollari ci porta sull’altra sponda, direttamente all’affollatissimo mercato. Dopo aver curiosato tra l’indicibile assortimento di merce ed alimentari esposto sulle mille caotiche bancarelle e fatto uno spuntino con gustose salsicce, vaghiamo nella zona, increduli della fiumana di scooter che scorre sui viali a ridosso del fiume ed intorno alla Cittadella. Ci fermiamo per cena in un locale caratteristico che con 3,90 euro ci riempie di Coi Guong, gli spring rolls vietnamiti non fritti ma crudi (carta di riso arrotolata con verdure, maiale, noodles di riso e gamberetti), Banh Khoai (una specie di crepe aperta con maiale, gamberetti, scalogno e germogli di fagioli) e due Bie, le birre del posto. Per riportarci verso l’hotel percorriamo a piedi il ponte Truong Tien o “il ponte vicino al posto delle monete” (la “zecca” della Dinastia Nguyen), costruito in acciaio dalla ditta francese Eiffel tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Lungo oltre 400 metri, con una storia travagliata di tre distruzioni, una nel 1904 per una tempesta, una nel 1946 per l’anticolonialismo francese e l’ultima nel 1969 per un bombardamento americano, oggi continua a collegare le due sponde del fiume a ridosso della Cittadella, illuminandosi di vari colori cangianti quando cala la sera.
Hue – 5° giorno
È mattina. Ora tocca alla Hoang Trang, la Cittadella Imperiale del XIX secolo, sede del governo della Dinastia Nguyen, un complesso di palazzi e residenze reali sopravvissuti agli incendi ed ai bombardamenti, tra giardini e stagni, circondato da mura, bastioni, torri, porte fortificate ed un fossato per un perimetro di due km per due km. Il fronte sul fiume è un edificio a gradoni sormontato da un alto pennone con la bandiera vietnamita, rossa con la stella gialla nel centro. All’interno della cittadella si trova il Recinto Imperiale, sullo stile della Città Proibita di Pechino, cui si accede attraverso l’imponente porta Ngo Mon, con palazzi e padiglioni tra cui il Dien Thai Hoa, o dell’Armonia Suprema, una sala di 80 colonne di legno laccato col trono dell’Imperatore e poi le nove urne dinastiche intitolate a vari imperatori Nguyen, ciascuna alta oltre due metri e pesante due tonnellate, il tempio The To Meu, dedicato agli antenati della famiglia reale ed infine la Città Purpurea Proibita riservata al solo Imperatore.
La Hoang Trang è stata anche la roccaforte in cui vietcong e truppe nordvietnamite resistettero per 25 giorni all’assalto del Marines durante l’Offensiva del Tet dei primi mesi del 1968, una delle pagine più sanguinose di tutta la guerra del Vietnam. È mezzogiorno ed è tempo di lasciare Hue per spostarci a Hoi An, 130 km più a sud. Un silenzioso tassista su una grossa Toyota imbocca una scorrevole autostrada fino alla costa per poi prendere la Mandarin Road e salire una tortuosa strada di montagna con panorami sulle lagune e sul Mar Cinese Meridionale. Giunti sul Deo Hai Van, il valico chiamato Colle delle Nuvole a circa 500 metri di altitudine, si trova un fortino francese e si gode di una vista spettacolare verso la grande città di Da Nang, una sorta di Miami Beach vietnamita con un grande porto commerciale ed una lunga spiaggia su cui si affacciano hotel, resort ed alti palazzi. Attraversando la città superiamo il Cau Rong, il ponte dei Draghi sul fiume Han, tanto scenografico quanto kitsch, con un enorme serpeggiante drago le cui gialle spire sono le strutture portanti ad arco e le cui due teste sputano fuoco ed acqua ogni sera dei fine settimana.
Hoi An – 5° giorno
Alle 16:00 siamo ad Hoi An, immersi nuovamente nella serena atmosfera decadente ma affascinante della più bella città del Vietnam. Preso contatto con l’hotel, semplicemente splendido e costruito a ridosso di una tradizionale abitazione privata che produce carta di riso, ci portiamo verso il centro storico della città, rigidamente pedonale se si escludono i soliti scooter invadenti. Per accedervi durante il giorno è necessario acquistare un biglietto di circa 5 euro che dà diritto all’ingresso a cinque diversi siti storici, i cui proventi servono per la conservazione degli edifici. La sera sta ormai calando. Hoi An, nata come villaggio di pescatori e divenuta nel ‘500 un grande porto commerciale del Mar Cinese Meridionale con insediamenti giapponesi, cinesi ed indiani, è rimasta quasi intatta nel tempo, risparmiata dalla guerra e fortunatamente non trasformata in una moderna copia di se stessa. Passeggiamo nei vicoli, disposti geometricamente, tra più di mille tra antiche abitazioni di mercanti, templi, pagode, case di culto e vecchi magazzini di tè, quasi interamente costruiti in legno, in parte trasformati in negozietti, laboratori, bar, centri massaggio e sartorie che confezionano abiti su misura in seta, economici e rapidi. Subito salta all’occhio la peculiarità della città: le sue lanterne, realizzate con telaio di bambù o fil di ferro e ricoperte di seta, di ogni foggia, colore, dimensione, decorate o semplici, ma tutte illuminate. È uno spettacolo fuori dal tempo che affascina. Ma il top lo si raggiunge una volta arrivati al fiume Thu Bon e lungo le sue rive illuminate a giorno dalle luci dei locali, dei negozi e di migliaia di lanterne. Lente imbarcazioni scivolano sul fiume trasportando turisti che depositano sull’acqua piccole scatole di cartone contenenti un lumino. Lo scenario è fiabesco. Un ponte, anch’esso illuminato da lanterne, scavalca il fiume verso l’isolotto posto tra la terraferma e la più grande isola Cam Nam nel delta del fiume. La sera trascorre così, passeggiando nella città vecchia, assaporando una gustosa Banh Khoai con uova di quaglia annaffiata da birra locale, cercando i riferimenti che ci serviranno per visitarla a pieno nei prossimi giorni.
Hoi An – 6° giorno
Alle 07:00 siamo già in auto. L’hotel ci ha messo a disposizione un lussuoso van Kia con un simpatico giovane autista che parla poco l’inglese. Superiamo la difficoltà di comprensione facendo ricorso al buon Google Translator e così riusciamo ad imbastire qualche semplice discorso condito da risate. Fuori Hoi An si susseguono risaie e semplici villaggi fino al sito archeologico di My Son distante una cinquantina di chilometri. Sono le 08:15 e siamo tra i primi a varcarne i cancelli. Il cielo è coperto con una forte umidità. Il complesso monumentale induista nasce nel IV secolo dedicato a Shiva Bhadreshvara, marito della dea Kali, divenuto poi luogo di culto e di sepoltura dei sovrani della dinastia Champa che regnarono in Vietnam tra il VII ed il XV secolo. I templi, inizialmente costruiti in legno poi sostituito con mattoni posati senza malta di congiunzione, si elevano da spiazzi ricavati nella fitta vegetazione, collegati tra loro da camminamenti. Dopo l’era d’oro, il sito rimase inghiottito nella giungla fino al 1898, quando fu scoperto ed in parte restaurato dai francesi. La temperatura sale piuttosto rapidamente e presto il sole ravviva le cupe costruzioni, perlomeno quelle rimaste o ricostruite dopo la distruzione del tempo e dei bombardamenti americani di cui restano a perenne ricordo i crateri delle bombe sganciate per stanare i vietcong. Lasciata My Son andiamo a Ba Na Hills, vicino a Da Nang, centro climatico su una collina di quasi 1500 metri nato nel periodo coloniale francese per sfuggire alle temperature torride della costa, ora divenuto attrazione turistica con tanto di resort ed un Fantasy Village tematico.
L’intento era solo di vedere il Cau Vang, il famoso Ponte d’Oro inaugurato nel 2018, passerella pedonale lunga quasi 150 metri sorretta da gigantesche mani in pietra che emergono dalla collina alte 24 metri e lunghe 13, che collega l’arrivo della funivia di 5,7 km, una delle più lunghe al mondo, ai giardini del resort. Dato che il costo del biglietto è piuttosto alto (poco meno di 30 euro a persona) e non rimborsabile, la gentile cassiera, visto che il tempo lassù è pessimo con nebbia, pioggia e vento, ci sconsiglia di salire sulla collina in quanto il tanto celebrato panorama sarebbe invisibile.
Torniamo allora a Da Nang, che oltre ad essere un centro balneare è anche il fulcro della zona della lavorazione della pietra, accompagnati da un bel sole (il brutto era solo su Ba Na), per uno spuntino a base di squisiti calamari con piccante salsa di pesce Nuoc Mam. Rifocillati ci spostiamo alle inaspettate Marble Mountains, le Montagne di Marmo, un gruppo di cinque colline di marmo e calcare, utilizzate anche come fortino dai vietcong durante la guerra, che prendono il nome dei cinque elementi metallo (Kim), acqua (Thuy), fuoco (Hoa), legno (Moc) e terra (Tho), sorpresi nello scoprirne la spettacolarità e la complessità. Un ascensore panoramico ci porta sulla sommità della parete del Thuy Son, l’unico colle visitabile, risparmiandoci i 156 gradini dell’ascesa pedonale che però faremo scendendo. Un percorso ben indicato consente di vagare tra santuari e pagode buddiste ed indù, statue, incredibili grotte-tempio e punti strategici dai quali la vista spazia a 360°. Sinceramente non ci aspettavamo un luogo così bello e siamo felicissimi di non aver perso tempo nella Disneyland vietnamita di Ba Na. Tornati a Hoi An, prima di uscire per cena Paola approfitta della “spa” dell’hotel che offre massaggi rilassanti, decongestionanti e di bellezza, pratica diffusissima in tutto il Vietnam. La sera ci rivede nella città vecchia a perdere tempo passeggiando pigramente. Fattosi piuttosto tardi, volendo evitare i locali più turistici, non ci resta che mangiare da un iraniano autoesiliatosi che parla un inglese a raffica e che odia gli Stati Uniti.
Hoi An – 7° giorno
Oggi lo dedichiamo tutto a Hoi An. Durante la colazione c’è stato sole, poi un temporale, poi ancora sole e per finire pioggerella. Quando usciamo con le bici dall’hotel ha smesso di buttare acqua pur restando incerto. Pagato il ticket all’ingresso della Città Vecchia, entriamo visitandone diversi punti, ognuno dei quali potrebbe esserne il simbolo. E così saltiamo dalla Tran Chapel (casa-tempio del XIX secolo voluta da un Mandarino cinese, un mix di stili viet, cinese e giapponese inserita in un variopinto giardino), alla Cam Pho Communal House (sala delle riunioni della comunità cinese risalente al XV secolo, la più antica di Hoi An, con cinque templi dedicati a varie divinità), alla Nguyen Tuong Chapel (del XVII secolo, dimora di un alto funzionario militare), alla Phung Hung House (abitazione del XVIII secolo utilizzata come negozio di spezie e tuttora occupata dall’ottava generazione dei proprietari), al Chua Cau (ponte coperto giapponese del XVI secolo, in pietra e legno col vicino tempio taoista eretto nel XVII secolo – ricordate la leggenda del mostro Cu?), alla Quang Trieu Hall (Sala delle Adunanze della Comunità di Chao Zhou, costruita dai mercanti cinesi nel XVIII secolo, con una fontana a foggia di drago e statue della drammaturgia Cantonese), alla Tan Ky House (antica dimora di oltre 200 anni dove si trovano ancora i segni dei livelli raggiunti dalle inondazioni del fiume), alla Phuoc Kien Hall (Sala Riunioni della Congregazione Cinese del Fujian, costruita nel XVII secolo come luogo di ritrovo di commercianti e trasformata in tempio della dea Thien Hau, protettrice dei pescatori in difficoltà), alla Pagoda Quan Am (tempio buddista del XIX secolo con una galleria di acquerelli, dipinti e pergamene) nascosta dietro il Quang Cong Temple (piccolo tempio del XVII secolo, costruito da immigrati cinesi), alla Hai Nam Hall (del XVIII secolo, in memoria di 108 mercanti cinesi uccisi perché scambiati per pirati, con un modello di nave mercantile posto di fianco all’altare principale).
Si, lo so, sembra un ripetersi di luoghi simili che visto uno sono visti tutti, ma vi garantisco che ognuno ha il proprio fascino e sarebbe un peccato perderne anche uno solo. Nel frattempo si è rimesso a piovere. In attesa che smetta entriamo nel Cho Hoi An, il grande Mercato Centrale coperto, perdendoci nei micro passaggi tra le micro bancarelle. Quando il sole ritorna, divoriamo un Banh Mi, il tipico sandwich vietnamita, riprendiamo le bici e pedaliamo verso la periferia, andando a curiosare tra i campi di riso e di verdure dove uomini e donne coltivano ancora a mano gli appezzamenti, immersi in acqua e fango fino alla vita, aiutati in rari casi da vecchi trattori arrugginiti e buoi dalle lunghe corna. Lasciata la strada principale ci inoltriamo in un sentiero che scorre tra le risaie allagate, ma un improvviso acquazzone ci costringe a rivestire i nostri fidati poncho, inforcare le bici e tornare verso la città. Già che ci siamo, prima di rientrare all’hotel, diamo un rapido sguardo al mercato del pesce ed alla splendida facciata del seicentesco Tempio Ba Mu, il Tempio della Signora, che si riflette sull’acqua della vasca antistante. Dopo cena, l’ultimo saluto alle luci delle lanterne.
Il mattino successivo, prima del volo interno per Saigon (non me ne vogliate ma continuerò a chiamarla così), riprendiamo le bici nonostante le nostre natiche non ne siano molto felici e ci portiamo sull’isola Cam Nam. Un reticolo di viottoli fitto di case e negozietti, tra cui saltuariamente sbucano hotel e resort, conduce dalla parte opposta dell’isoletta dove si apre una laguna con le minuscole abitazioni dei pescatori e le imbarcazioni tirate in secca tra cui le Tung Chai, le strane barchette rotonde a cesto realizzate con bambù e foglie di palma sigillati con pece.
Saigon/Ho Chi Minh City – 8° giorno
L’aeroporto di Da Nang è semplice e moderno con una lunga fila di hangar aperti che proteggono i caccia dell’Aviazione Militare. Il volo Vietnam Airways è puntuale ed un’ora e un quarto dopo atterriamo a Saigon. Come benvenuto ci becchiamo 34 °C ed un discreto tasso di umidità. Il primo impatto è quello di una metropoli, ben lontana dall’atmosfera vietnamita che abbiamo respirato fin’ora, con vialoni a quattro corsie affollati da auto come BMW, Mercedes, Audi e i top di gamma di case giapponesi, coreane e cinesi, ovviamente circondate da milioni di scooter. Concessionarie Rolls Royce e Lamborghini si nascondono tra grattacieli modernissimi, palazzi ed hotel di lusso, centri massaggi, edifici coloniali, negozi di alta moda, oreficerie ed orologerie, profumerie, centri commerciali, una vasta marina con ristoranti galleggianti. Saigon è popolata da più di dieci milioni di abitanti, praticamente un decimo di tutto il Vietnam, suddivisa in 17 distretti urbani e 5 rurali. Eravamo impreparati a questa esplosione di capitalismo, trovandolo in stridente contrasto con i murales inneggianti la lotta comunista con Stalin e lo “Zio Ho” con i pugni alzati. Del periodo bellico non rimane molto. Il luogo di relax e perdizione dei soldati americani che venivano qui a ubriacarsi, fumare marijuana e oppio ed affollarne i bordelli, ormai è un ricordo, per chi vuole ancora ricordare. Resta però ritto nella sua superbia coloniale l’Hotel Continental, dove in quegli anni bui si ritrovavano i corrispondenti di guerra ed i giornalisti di tutto il mondo, ora hotel di lusso della Saigon bene.
Ci avviamo a piedi in sommessa esplorazione verso il vicino cuore della metropoli, camminando su marciapiedi completamente sconquassati, facendo lo slalom tra i cassonetti dei rifiuti e gli immancabili street food che alimentano la numerosa comunità di grossi ratti neri, attraversando incroci pazzeschi dove è ancora più difficile se non impossibile attraversare a piedi anche col verde, figuriamoci sulle strisce pedonali. La città è viva, vissuta, soprattutto dai giovani che si radunano davanti alle strutture scolastiche, civili o religiose, seduti per terra a mangiare, bere e giocare a carte su teli di plastica, come tante tessere di un puzzle. Di sera il centro vitale di Saigon, come quello di tutte le città, ha il proprio fascino, colorato ed addolcito dalle luci di migliaia di insegne, locali, lampioni e negozi, in questo periodo ancora più vistose dato l’avvicinarsi del Tet, il capodanno lunare. Tra la foresta di grattacieli arriviamo fino al porto, facendo respirare un po’ occhi e orecchi, per poi rituffarci nel caos e cenare con pollo in una specie di viet-fast-food. Ci siamo accorti che le insegne degli hotel o dei negozi, anche i più recenti, riportano “Saigon” anziché “Ho Chi Minh City”, forse perché questa città, pur lanciata verso il futuro, ha ancora dentro di se il passato che l’occupazione comunista del Nord non è riuscita del tutto a cancellare. O forse perché un’insegna con le lettere “Ho Chi Minh City” costa di più di una con solo “Saigon”.
Baia di Ha Long – 9° giorno
Come sarebbe imperdonabile venire nel nord del Vietnam e non visitare la Baia di Ha Long, così non si può scendere nel sud e non vivere un’esperienza sul delta del Mekong, il fiume che con i suoi quasi 5000 km nasce in Tibet ed attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia prima di arrivare in Vietnam e sfociare nel Mar Cinese Meridionale. Non serve vestirsi come Livingstone o Indiana Jones per esplorare il Mekong. Ci pensano le mille agenzie turistiche che, offrendo pacchetti di vario genere, consentono un comodo approccio al fiume ed ai suoi punti più interessanti. Ed eccoci su un minibus Ford con l’aria condizionata di una cella frigorifera insieme ad altri otto esploratori alla mercé di una gioviale guida-cantante-personal trainer che disporrà di noi e della nostra curiosità per l’intera giornata. Tutto quello che vedremo sarà a misura di turista, ma posso assicurarvi che visitare il delta e le città di My Tho e di Ben Tre è da non perdere. L’organizzazione è impeccabile e gira come un orologio: fabbrica dei filati di bambù, api della fattoria del miele, foto con pitone al collo, produzione e confezione di caramelle al cocco, assaggio di grappa al cobra, degustazione di frutta con musiche e canti tradizionali, pranzo con Ca Tai Tuong Chien Xu, pesce elefante alla griglia, vasche di affamatissimi pesci gatto e piccoli coccodrilli.
Detto così sembra banale e sì, tutto troppo turistico, ma i luoghi sono veramente straordinari. Per muoversi da un posto all’altro dell’area di Ben Tre si percorrono tortuosi canali tra le mangrovie e le palme d’acqua, seduti dentro canoe condotte da donne con i tipici copricapo a cono o su lunghe ed affusolate barche con un motore che canta come quello di una stanca Harley Davidson. Si scivola su acque scure, limacciose e dense, sotto la cui liscia ed impenetrabile superficie a volte si muove qualcosa, con un ritmo lento che lascia il tempo per assorbirne l’essenza. E non si può non pensare a quali condizioni abbiano dovuto affrontare i vietcong o i soldati americani durante la guerra, tra zanzare, malattie, serpenti, sanguisughe, ecc. L’ultima tappa prima del rientro a Saigon è alla Pagoda di Vinh Trang a My Tho, grande complesso templare buddista del XIX secolo che racchiude gli stili cinese, vietnamita, khmer ed europeo, con tre enormi candide statue del Buddha, uno in piedi (che rappresenta l’insegnamento), una sdraiato ad occhi chiusi (che ha già raggiunto il Nirvana) ed uno seduto (il Budai cinese panciuto e felice).
Saigon e rientro in Italia – 10° giorno
Non ci resta che la mattinata prima del lungo viaggio di ritorno a casa. Ci serve per dare un’occhiata diurna agli edifici di Saigon che abbiamo visto solo illuminati di sera e per concludere con l’ultima toccante tappa al Museo dei Residuati Bellici. Nato come “Museo dei Crimini di Guerra e dell’Aggressione”, riferito a quanto messo in atto durante decenni di guerre e ribellioni dai francesi e soprattutto dagli americani, è oggi così chiamato dopo i rinnovati rapporti diplomatici con gli Stati Uniti. Il museo, su tre piani, raccoglie mezzi militari, armi, sistemi di tortura, foto, documenti e scene di guerra che impressionano.
Si, lo so, avremmo potuto finire in bellezza, ma è andata così. Si chiude qui questa nostra splendida esperienza orientale, che non può che essere solo l’inizio. Game over