Un viaggio nell’Appennino che risorge, tra antiche cascate e borghi “veneziani”
Ho la fortuna di vivere una zona felice, dove storia, cultura, natura e buona cucina vanno a braccetto. Amo viaggiare, e da qualche anno condivido con i lettori i resoconti dei miei viaggi, sperando di essere di aiuto a chi intenda intraprendere i miei stessi itinerari, ma non ho mai pensato a divulgare le bellezze che mi circondano. Queste righe che seguono vogliono essere un contributo alla valorizzazione di zone rimaste abbandonate causa l’emigrazione nelle città, un aiuto a far risorgere l’Appennino.
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Diario di viaggio
Belfiore e Villa Elisei
Oggi è il giorno dedicato al trekking, ed oltretutto è anche una bella giornata; decidiamo di fare una passeggiata diversa dai soliti itinerari lungo i sentieri CAI del Monte Subasio, lasciando Assisi verso Foligno per raggiungere il borgo di Belfiore, dove, una volta superato e percorsa una stradina molto stretta, via Altolina, si giunge all’omonimo parcheggio alla base del percorso prefissato. È preferibile arrivare presto, perché diversamente l’area si colma in fretta di automobili. Indossate scarpe adeguate e bastoncini ci incamminiamo sulla destra, costeggiando un uliveto, per trovare il sentiero che ci porterà al paese di Pale. Il percorso non è particolarmente impegnativo, basta adeguarlo al proprio passo, e certamente le bacchette aiutano parecchio. Si entra nella vegetazione, e quasi subito sulla destra si incontra la prima cascatella, la più scarna a causa della ridotta pendenza, ma proseguendo la salita si arriva, sulla sinistra, alla cascata detta “la veste della sposa” per via della forma a Y rovesciata che richiama un abito nuziale. Proseguendo lungo il sentiero si raggiunge un’altra cascata sulla destra, e poi, quando la salita diventa più ripida, circa a metà percorso, si incontrano i ruderi di vecchie abitazioni abbandonate e oggi preda della vegetazione; di lì a poco, sulla sinistra, la quarta cascata, quella che ha il salto. Per chi volesse fare una sosta, c’è una piccola area con due panche ed un braciere per la cottura delle salsicce, che da queste parti è un must. Dopo circa una mezz’ora dall’inizio dell’ascesa giungiamo al paesino di Pale: sulla destra, sull’altro versante della gola, la quinta cascata, la più imponente, ma non raggiungibile. All’inizio del centro abitato, sulla destra, troviamo Villa Elisei, che fu abitata della Regina di Svezia, ed in seguito trasformata in Cartiera: si narra che in questo stabilimento vennero realizzate le pergamene sulle quali venne stampata a Foligno la prima edizione della Divina Commedia.
Eremo di Santa Maria Giacobbe
Periodicamente la villa è oggetto di visite guidate, e dal cortile c’è l’accesso alle Grotte dell’Abbadessa, visitabili da maggio a settembre previa prenotazione. Le origini del borgo risalgono alla costruzione del Castello, esistente nell’anno 1350, e si possono ammirare i resti delle mura nel centro abitato. Nella piazzetta San Biagio visitiamo la bella chiesa dei Santi Biagio e Margherita, quindi, preso un caffè presso il bar, continuiamo la camminata verso l’eremo di Santa Maria Giacobbe. Per raggiungere l’eremo si esce dal paese seguendo le indicazioni e si percorre un sentiero pressoché pianeggiante sotto una pietraia, fino a raggiungere la falesia, palestra di allenamento per gli arrampicatori che troviamo numerosi, e da lì in poi l’ascesa diventa più impegnativa per via della pendenza e lo stretto sentiero che richiede attenzione per via della mancanza di protezioni in alcuni punti che le meriterebbero. La camminata richiede circa mezz’ora, forse qualcosa in più, e si arriva a destinazione alla parte alta della costruzione, dove si entra a piccoli gruppi cadenzati. La visita è guidata, ad opera di due preparatissimi volontari che lasciano un’ottima impressione. L’eremo deve il suo nome a Maria di Giacobbe, una delle Pie donne, che transitò da queste parti. Un asceta in seguito ampliò il tugurio fino alla dimensione odierna, ed in tempi più recenti l’ultimo restauro fu operato grazie alla collaborazione dei visitatori, che su invito del locale parroco salivano recando con loro un peso di cinque chili di cemento, sabbia, mattoni, espiando una penitenza. Con un certo rammarico veniamo informati che non di rado nullafacenti di basso quoziente intellettivo inseriscono sassi nella serratura del portone, costringendo i volontari ad arrampicate sul costone roccioso per entrare dall’alto nel cortile per smontare e ripulire l’apertura. Al termine della visita chi vuole può lasciare un’offerta (molto gradita) per il mantenimento del luogo. Facendo il percorso a ritroso, in prossimità della falesia si trova il sentiero che scende al parcheggio, in mezzo agli olivi. Il percorso è circolare, a patto che una volta in paese si proceda in direzione dell’eremo fino a raggiungere la falesia, consigliato perché così facendo si evita l’intasamento all’interno del bosco incrociandosi con chi sale. Noi però torniamo in paese, e usciamo dal borgo abitato per incontrare, in prossimità delle chiuse, Chiara, una mia ex collega che vive da queste parti ed è venuta a prenderci per condurci a Rasiglia, il borgo delle acque o, in via più pomposa, la Venezia dell’Appennino.
Rasiglia, la piccola Venezia dell’Appennino
Percorrendo la vecchia strada nazionale, oggi soppiantata dalla superstrada che collega Foligno a Civitanova Marche, si passa per Scopoli e Casenove, dove ancora oggi sono evidenti i segni lasciati dal disastroso terremoto del 1997, e si raggiunge Rasiglia. Negli ultimi anni queste quattro case sperdute hanno avuto una crescita esponenziale di notorietà, grazie ad una smisurata ma azzeccatissima propaganda, ed oggi si presentano come un vero e proprio borgo fatato attraversato dalle chiare, fresche (molto) e limpide (moltissimo) acque. Già prima del ponte che segna l’ inizio del centro abitato troviamo auto parcheggiate lungo i due lati della carreggiata, cosa che si ripete lungo tutto il tragitto fino oltre il paese, dove c’è un parcheggio dove abilissimi autisti riescono a collocare pullman Gran Turismo in numero spropositato rispetto all’area a disposizione. Riusciamo a trovare un buco dove infilare l’automobile, ed entriamo nel borgo in mezzo ad una calca degna di un ferragosto Riminese; facciamo un giro in mezzo a belle case in pietra ristrutturate, lungo stradine pulitissime e perfettamente mantenute, fra il rilassante rumore delle acque del torrente Menotre, che qui sopra ha la sua sorgente. L’acqua è incanalata dappertutto, attraversa anche le fondamenta di un paio di abitazioni, e mi sorge spontanea una considerazione: piove anche da queste parti, ma se qui non si ha notizia di esondazioni, allagamenti e quant’altro, allora vuol dire che la natura, se non viene infastidita, si fa gli affari suoi. I pochissimi ristoranti (due, forse tre) ritengo vengano prenotati con largo anticipo, viste le lunghe code di avventori senza speranze che si accalcano agli ingressi; di contro, si sono organizzati gli ambulanti con i loro camioncini, e ampie volute di fumo si uniscono e mescolano agli odori di hamburgher ed hot dog, decisamente fuori luogo.
Sellano e il (futuro) ponte tibetano più lungo d’Europa
La visita è veloce, se vuoi goderti il borgo devi arrivare la mattina, quindi proseguiamo alla volta di Sellano, dove si sta allestendo il ponte tibetano più lungo d’Europa. La base è già stata stesa fra i due piloni, quello di Sellano è più in basso, ora si tratta di completare l’opera e poi organizzare un adeguato sistema di accoglienza per le orde di visitatori che sicuramente giungeranno in questi lidi, nella speranza di dare impulso ad un’economia che langue da decenni a causa dello spopolamento dell’Appennino. Sono le tredici passate, e ci trasferiamo a Cammoro, frazione di Sellano, per il pranzo, dove Chiara ci ha prenotato un tavolo alla Home Restaurant “da Adelmo e Rina”. Si tratta di una abitazione privata che ha dedicato una sala e l’autorimessa alla ristorazione, quattro tavoli e nulla di più. Quando arriviamo la nonna sta sbrogliando il tavolo dove ha appena finito di preparare gli “strangozzi”, che ci verranno serviti a breve con i funghi porcini ed il tartufo. Pranzo pantagruelico, rigorosamente preparato con prodotti a “metro zero” con lo zelo e la competenza tramandata dalle mamme e dalle nonne del luogo.
Finisco con un robusto bicchiere di assenzio, digestivo fin che vuoi ma preparato da un alchimista che meriterebbe l’ergastolo per quanto brucia le budella, e facciamo ancora due passi inerpicandoci alla sommità dell’abitato dove dal belvedere si ha una rilassante veduta del panorama. Io decisamente non avevo necessità di far due passi per agevolare la digestione, l’assenzio si è rivelato essere un portento!