Il Triangolo d’oro dell’India: Delhi, Jaipur e Agra

I templi induisti e Sikh, i palazzi da sogno del Maharaja, il Taj Mahal (una delle 7 meraviglie del mondo moderno) e sullo sfondo la quotidianità dell'India, per sentirsi viaggiatori più che semplici turisti
Scritto da: Viviaggia
il triangolo d'oro dell'india: delhi, jaipur e agra
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Essendo un volo in offerta, l’arrivo a Delhi è previsto all’1:15 di notte. Nessun disagio per noi, non solo perché quando viaggiamo diventiamo molto flessibili, ma anche perché con il fuso orario siamo perfettamente in linea con il ritmo circadiano del giorno prima. All’arrivo troviamo il nostro autista ad aspettarci con il cartello con su scritto il mio nome: da Lima abbiamo imparato che in certi posti prenotare una navetta dall’hotel è quasi indispensabile, soprattutto di notte. Forti del cartello con su il nostro nome, schiviamo senza fatica lo stuolo di tassisti che ci offrono passaggi.

Dall’aeroporto al nostro hotel (Maidens Hotel, bellissimo e con altissimo livello di servizi e pulizia) ci sono 30 minuti di strada, di notte. L’uscita dall’aeroporto ci offre l’immagine di una città moderna e pulita: grandi catene di alberghi (quella che poi ho scoperto essere l’Aerocity), neon luminosi nei colori della bandiera indiana, strade ben tenute, vistose insegne del G20 che si terrà a settembre. Finita la parte allestita ad hoc per dare il benvenuto alle potenze mondiali, inizia la vera Delhi: il numero di persone che dormono per strada, direttamente sul marciapiede senza neanche un cartone o un telo, non si conta. Sono uomini per lo più, ma anche bambini, a volte soli. I più fortunati dormono su brandine improvvisate, sempre ai margini dello smog e dei fumi di scarico. Sulla destra un autobus abbandonato ospita un numero indefinibile di persone.

Dalla comodità del nostro taxi con aria condizionata, superate file di baracche in alluminio e di case senza tetti e finestre, ci infiliamo nel viale alberato del nostro hotel, dove un addetto ci apre la portiera mentre un altro ci porta in camera i bagagli (due zaini in verità). Veniamo perquisiti con discrezione e possiamo finalmente raggiungere la nostra enorme stanza. All’arrivo, una torta al cioccolato di benvenuto (che non abbiamo disdegnato, visto che in Italia era da poco passata l’ora di cena).

La mattina nel nostro albergo troviamo un gruppo di modelle indiane intente a posare per una campagna pubblicitaria: sono ragazze belle, dai capelli forti, gli occhi profondi e lo sguardo gentile, tutte con la pelle più o meno scura. Le modelle guardano stupite mio marito Lele: un uomo chiaro con gli occhi blu qui è una vera rarità. Lui scende le scale come fosse una star. Nella sala colazione oltre a noi ci sono solo indiani, tutti vestiti con meravigliosi abiti in seta che mi lasciano a bocca aperta. Questo albergo per noi è tutto sommato economico, ma in India se lo possono permettere solo i ricchi.

Il primo scorcio di società indiana: la famiglia allargata, con la nuora che vive con i genitori del marito ed è costretta a viaggiare con loro, con la suocera che punzecchia la nuora e le rende la vita un po’ meno piacevole. La frizione tra le due donne in saree di seta è palpabile, mentre gli uomini si godono indisturbati il loro cibo. Agli altri tavoli, la realtà è tutto sommato la stessa: lusso e litigi camuffati da sorrisi. Per noi è ora di andare fuori a esplorare la città.

Il primo giorno a Delhi l’ho lasciato libero per l’esplorazione fai-da-te. La prima necessità è comprare una scheda indiana che mi consenta di collegarmi a internet per cercare collegamenti e fare immediatamente la conversione rupie/euro. Il nostro zelante cameriere ci indica sicuro un luogo in cui comprare una scheda prepagata internazionale: Connaught Place. Saliamo in taxi e ci facciamo lasciare in una piazza circolare molto grande, circondata da gallerie di negozi. Il luogo è uno dei cuori pulsanti dello shopping di Delhi, ma a noi dà l’impressione di un posto sporco e malandato, molto simile nello stile alle gallerie di Piazza Vittorio a Roma, come dovevano presentarsi negli anni ’80.

Ci fermiamo fiduciosi a cercare un negozio di cellulari, ma veniamo subito abbordati da alcuni indiani che si offrono di accompagnarci ovunque vogliamo, di darci consigli su cosa cerchiamo, di spillarci in qualche modo dei soldi. La pressione è forte e così decidiamo di spostarci in un luogo più sicuro. Mi lascio sfuggire un ATM per paura che vogliano ciò che prelevo e di questo mi pentirò poco dopo (serve sempre contante in India).

Con Google Maps troviamo un negozio di telefonia (Lele ha l’Iphone e ha installato una e-card) e ci dirigiamo verso la meta. Un indiano attraversa con noi e subito ci propone una delle più tipiche truffe indiane, di quelle su cui la Lonely Planet ti mette in guardia ogni cento pagine: la sedicente “agenzia turistica governativa”.

Gli indiani usano dire che ciò che si sta cercando ha chiuso o non esiste e propongono come alternativa di chiedere a queste agenzie che, definendosi come “governative”, ispirano sicurezza e fiducia nel turista. In realtà si tratta di agenzie private che offrono servizi a prezzi altissimi per la media indiana, sfruttando lo smarrimento (indotto) del turista che ha appreso la falsa notizia dell’inesistenza di ciò che aveva prenotato.

Non appena il volontario pronuncia quelle parole, prendo Lele per mano e mi allontano velocemente, non prima di avergli risposto in dialetto per avvisarlo che so cosa vuole fare. A quel punto il fastidio è tale che rinunciamo alla SIM. Prendiamo un Uber e ce ne andiamo alla prima meta del mio programma: Akshardham Temple.

Akshardham Temple

Il tempio non si può che intravedere dall’esterno, così che il tempo della fila lo passiamo senza sostanzialmente sapere cosa stiamo per visitare. Il programma per Delhi l’ho fatto la notte prima di partire (troppo lavoro nei giorni precedenti) e tra le tante immagini che ho visto non riesco a ricordare cosa ho selezionato. All’ingresso una donna in saree ci ferma bruscamente e ci dice di recarci al cloakroom per il deposito dello zaino. Qui apprendiamo che bisogna lasciare tutto, inclusi i cellulari, anche se sconsigliano di lasciare portafogli e oggetti di valore. Il cellulare per noi lì è non solo un oggetto di valore, ma un bene indispensabile per poterci spostare e essere contattati per tutti i tour già prenotati, per cui cerco di imboscarlo con il marsupio interno. Facciamo la fila, lasciamo tutto il resto tranne l’acqua e andiamo ai controlli.

Qui uomini e donne sono divisi e avendo solo un cellulare imboscato temo di non riuscire a ritrovare Lele, nella calca estrema della folla che mi circonda. Al mio turno scopro che gli indiani sono diffidenti e che ogni persona è controllata con il metal detector. Mi beccano il cellulare. A quel punto chiedo all’addetta alla sicurezza di farmi almeno ricongiungere con mio marito, perché non so come dirgli che devo rifare la fila. La discussione va avanti per un po’, poi la ragazza – che non ha mai mollato il mio cellulare – mi accompagna fuori, lancia uno sguardo rapido alla massa di indiani in fila e mi fa: “ecco il marito, quello bianco che sta fuori, anche lui ha il cellulare”. In realtà Lele aveva dimenticato di avere le cuffie. Ricongiuntici come veri italiani che non rispettano le regole e lasciati i nostri beni tecnologici con non poca paura e dietro le imprecazioni della ragazza addetta al guardaroba, entriamo finalmente nel tempio.

Qui l’immagine che ci si presenta davanti compensa le file e le pessime figure fatte: l’edificio è imponente, decorato al dettaglio con eleganza, armonioso e bellissimo. Passeggiamo sotto le gallerie di archi, tra colonne con bassorilievi degni del nostro migliore barocco, superiamo gli immancabili specchi d’acqua e arriviamo di fronte al tempio. A questo punto bisogna lasciare le scarpe e proseguire a piedi nudi (o con i calzini). Essendo in India, non badiamo allo sporco e proseguiamo sereni verso il tempio (che comunque all’interno è molto pulito). Qui troviamo le statue marmoree di divinità che cerco di identificare dalle mie letture sull’induismo: Vishnu, Shiva e Brahma, insieme ad altre che non so riconoscere. La gente accanto a noi è intenta alla preghiera e ai rituali ed è questa la ragione per cui non si possono fare foto: è un luogo sacro.

Peraltro, tra centinaia di persone riusciamo a scorgere in tutto solo altri quattro turisti stranieri, nonostante l’estrema bellezza del luogo. La statua di Brahma è ricoperta d’oro e simboleggia l’importanza che gli induisti riconoscono a questa divinità. Riusciamo a comprendere solo in parte i segni che vediamo (la lancia, la conchiglia, il serpente) e a colpirmi è l’aspetto sereno e accogliente del volto. Usciti dal tempio, evitato lo spettacolo dei giochi d’acqua (il solo a pagamento), percorriamo gallerie e giardini riccamente decorati: la sensazione è di pace, di benessere, di accoglienza. La ressa dell’ingresso ce la siamo lasciata alle spalle e qui ci sentiamo sereni.

Recuperate le scarpe, ci imbattiamo in alcune “attrazioni”: le foto con fotografo professionista (che avremmo fatto per avere un ricordo del luogo, ma che abbiamo evitato per la lunga attesa prevista); la partecipazione a un rito propiziatorio con acqua e sacerdote in sala con aria condizionata; la vendita di gelati e succhi. È ormai ora di pranzo e approfittiamo del ristorante del tempio: è pieno di gente, cosa che garantisce la freschezza e la qualità del cibo (evitate con rigore luoghi che non sono affollati e controllate sempre il livello di pulizia prima di mangiare in qualsiasi posto in India).

Ordiniamo Chole Bhature e Veg Pulao con due bottiglie d’acqua (ci sono 40 gradi e siamo accaldati) e in tutto paghiamo 199 rupie, poco più di 2 euro. Un prezzo assurdo, che mi ha fatto molto riflettere sui prezzi che ci hanno proposto nei luoghi per turisti (gonfiati certamente senza alcun motivo). Comunque, un pasto così economico non l’ho fatto mai più (salvo il pranzo del giorno dopo, su cui tornerò in seguito).

Humayun tomb e Red fort

L’esperienza al tempio è stata del tutto positiva, soprattutto perché alla fine abbiamo recuperato tutti i nostri averi, cellulari inclusi. Fiduciosi per questa prima sensazione di relax e pace ricevuta dal camminare a piedi nudi sul marmo con la vista di tanta bellezza, prenotiamo un Uber per visitare la Humayun tomb. A questo punto inizia la nostra conoscenza di ciò che più mi colpirà dell’India: il traffico.

Il nostro Uber ci porta alla meta con molta difficoltà e all’arrivo ci troviamo di fronte a una folla compatta di indiani. La fila alle casse è divisa tra indiani e turisti stranieri: alla prima ci sono centinaia di persone, alla seconda nessuno. Nonostante noi siamo evidentemente stranieri, quando mi avvicino allo sportello un indiano mi si piazza davanti e chiede prima di me (un costume che ho riscontrato spesso, questo di passarti davanti in fila). L’addetto gli risponde che ha solo biglietti per stranieri e si rivolge a me. A quel punto chiedo due biglietti e di pagare con la carta, ma a dispetto del cartello che annuncia il POS, accettano solo contanti. Noi non ne abbiamo e in zona non ci sono ATM. Così, infastiditi e accaldati, prenotiamo un altro Uber per andare in zona Forte Rosso e cercare con migliori speranze un ATM e un biglietto d’ingresso.

Uber ci mette 5 minuti a confermarci la corsa, ma anche dopo la conferma nessuno si presenta. Dopo 15 minuti, cancelliamo la corsa e ne prenotiamo una in tuk tuk. Nell’attesa, infiniti tuk tuk si fermano per proporci una corsa, ma non avendo contanti non possiamo che aspettare Uber. Dopo un tempo indefinito passato tra clacson, passanti, tuk tuk, cani, scimmie e proposte varie, arriva il nostro tuk tuk prenotato con Uber.

Google Maps ci dà 25 minuti all’arrivo, ma dopo 25 minuti abbiamo percorso appena un terzo della distanza. La quantità di veicoli strombazzanti che incontriamo è impressionante come impressionante è il numero di persone che camminano per strada e attraversano senza pensarci due volte.

Qui facciamo la nostra prima conoscenza con l’uso del clacson in India

Di fatto, qui si suona non per chiedere a qualcuno di spostarsi o per lamentarsi per un’infrazione, ma per avvisare l’altro che lo si sta sorpassando o che si sta arrivando. Per questo, i veicoli in perenne zig-zag suonano costantemente il clacson e il rumore non conosce tregua neanche per un momento. I mezzi si sfiorano, inchiodano a un soffio dall’impatto e scansano i pedoni accarezzandone i peli delle braccia. Per noi è l’inferno. Dopo 50 minuti, vediamo un ATM, abbandoniamo il nostro Uber, preleviamo e ci dirigiamo verso il Red Fort a piedi (superando di gran lunga il nostro autista).

Arrivati nei pressi del Red Fort, assistiamo a un fenomeno assurdo: tutti guardano verso di noi. Gli uomini mi osservano con fare ammiccante, le donne mi lanciano occhiate feroci e i bambini ridacchiano indicandomi. Mentre ci facciamo spazio a fatica nella ressa (degna del concertone del Primo Maggio, nonostante sia un sabato qualunque), scansando residui organici di varia provenienza e liquidi non meglio identificati, camminando sulla spazzatura e tra gli odori del cibo di strada che la gente consuma con avidità, sempre unici turisti in una moltitudine di indiani, non capiamo il perché di questa forte attenzione verso di noi.

Raggiunto l’ingresso nord del Red Fort, Lele sbotta e mi chiede di coprirmi i capelli: pensiamo infatti che sia il biondo acceso ad attirare tanto interesse, in questo fiume coeso di capelli neri. Con il foulard che ho portato con me per i templi mi creo un turbante e mi copro i capelli, ma non basta: i bambini indicano le mie ginocchia e sorridono o si rivolgono increduli alle mamme. Quindi sto dando scandalo, donna impudica che mostra le ginocchia in un pomeriggio afosissimo dell’estate indiana!

Rinunciamo a cercare l’ingresso al Forte e ci dirigiamo verso un tempio Jain, lo Shri Digambar Jain Lal Mandir. Lasciamo le scarpe all’addetto e camminiamo a piedi nudi su un pavimento che ha conosciuto giorni migliori. Il tempio è fresco, quasi vuoto, e ci accoglie con la promessa di un riposo dall’inferno che c’è fuori. Noi non amiamo la confusione e la evitiamo ogni volta che possiamo. Se ci aggiungiamo il caldo, gli odori forti, lo sporco e lo sguardo insistente su di noi si può capire perché abbiamo deciso di saltare una delle mete previste. E non ho nessun rimpianto al riguardo: la pace del tempio Jain è la sensazione migliore di quel pomeriggio.

Nella strada che parte dall’ingresso nord del Red Fort convivono in piena armonia e con grandissimo rispetto tre culti diversi, i cui luoghi sacri si trovano uno accanto all’altro: il Jainismo, l’induismo e il culto Sikh.

Del Jainismo avevo letto e mi aveva colpito la loro alimentazione, che è ispirata alle regole della non violenza e che evita ogni forma animale e anche le radici (la patata soffre quando la si tira fuori dalla terra). Avevo anche letto che alcuni monaci sono nudi perché rinunciano a ogni cosa terrena, ma la lettura non mi ha evitato lo stupore quando mi sono trovata davanti un uomo pelato e nudo, con le gambe incrociate, intendo a predicare davanti ai fedeli. L’immagine deve avermi stordita, perché poco dopo mi sono trovata stesa su una panchina a sonnecchiare, finché una guardia non mi ha detto che bisogna restare svegli (ero comunque nel giardino e non dentro al tempio).

Mi alzo, osservo il rituale della gente che si copre il capo davanti al monaco nudo e i riti con gli incensi di chi entra nel tempio e attendo che arrivi il fresco.

Chandni Chowk e street food

Alle 18 abbiamo un tour prenotato per lo street food. Come credo sia noto ai più, il cibo indiano non è facile da digerire e il livello igienico è spesso scarso, per cui non ci si può lanciare alla prima bancarella e mangiare secondo il proprio sentimento. Lele è un amante dello street food e così per San Valentino ho pensato di regalargli questo tour, che in effetti abbiamo molto gradito entrambi. La guida ci ha accolti all’interno del Chandni Chowk, un enorme mercato a cielo aperto dove si vende di tutto, dagli abiti da sposa (in negozi in cui la gente entra a piedi nudi e attende seduta per terra) alla pashmina, dalle spezie agli utensili in metallo, dalle pietre preziose alla parhata.

La guida ci accoglie, ci spiega dove ci troviamo, ci chiede quanto piccante vogliamo mangiare e ci porta in una prima bancarella a cui non avremmo mai dato la nostra fiducia: pentoloni di olio bollente, pane fritto a scolare su teglie unte, fili elettrici intrecciati agli angoli. La guida ci dice di fidarci, che mangeremo la migliore Samosa di Delhi e non ce ne pentiremo.

E in effetti al primo morso il sapore delle spezie ci esplode in bocca, moderato dalla delicatezza della patata e dei piselli, in un’armonia perfetta. La frittura non è per nulla pesante e il piccante è più che sopportabile.

Il tour prosegue tra bancarelle diversissime, ma al terzo assaggio ne abbiamo già abbastanza e ci limitiamo a osservare la vita che ci scorre davanti. Qui la calca è diradata e sopportabile, anche se intere famiglie mangiano sedute per terra gustandosi il cibo di strada. I resti vengono buttati per strada, per diventare cibo per cani e scimmie o per senzatetto.

Per finire, veniamo condotti in un negozio di spezie dove compriamo Masala, Curry e altri intrugli che ci ripromettiamo di usare al prossimo BBQ in casa.

Trovare un tuk tuk per rientrare si rivela più difficile del previsto: molti degli autisti sono analfabeti ma non voglio ammetterlo e scansano con rabbia il bigliettino che l’hotel ci ha detto di mostrare (con scritta in indiano) per tornare alla base. Alla fine, convinciamo un ragazzo a farsi digitare la destinazione su Google Maps e torniamo nel confort del nostro albergo: un bagno, una doccia, una cena in camera (non si paga alcuna differenza) e siamo come nuovi. Crolliamo nel sonno dei giusti nel giro di 5 minuti: il primo giorno ci ha stesi.

Gurudwara Bangla Sahib

Il secondo giorno iniziamo un tour che ho prenotato da Get your guide e che consiglio vivamente a tutti. Il tour è organizzato da Crystal India holidays (agenzia con oltre 5.000 giudizi positivi e non a caso) e prevede un giro di 3 giorni nel triangolo d’oro. Ciò che non avevamo compreso è che avremmo avuto un autista privato che si sarebbe dedicato interamente a noi per tutto il tempo, il gentilissimo Raj che tanto ci manca, ora che siamo tornati a casa.

Puntualissima compare la prima guida, il primo indiano bello (credo l’unico) incontrato tra migliaia, con due occhi blu rarissimi che tradiscono probabilmente un antenato inglese o portoghese ai tempi del colonialismo. Il Tempio del Loto è chiuso (è lunedì) e per compensare il nostro indoeuropeo ci porta alla Porta dell’India (niente di memorabile) e poi a un tempio Sikh, il Gurudwara Bangla Sahib.

Questa è una delle esperienze migliori fatte in India. Il culto Sikh è fortemente inclusivo e rispettoso di ogni credo e accoglie con gioia chiunque voglia pregare e meditare al suo interno. Gli uomini non tagliano i capelli dalla nascita alla morte e per questo indossano un turbante che li possa contenere (ora sapete come mai abbiamo questo stereotipo degli indiani con il turbante).

Il Tempio prevede un ingresso per stranieri in cui una donna ci toglie scarpe e calze, mi copre il capo con un foulard (che ho portato da casa, per igiene) e crea un turbante sulla testa di Lele (sempre con un nostro foulard). A questo punto siamo pronti per l’ingresso.

Nel tempio la gente si inginocchia davanti al libro sacro e si siede su un tappeto, a gambe incrociate, a pregare e meditare mentre tre uomini cantano preghiere il cui testo appare su un monitor a mo’ di karaoke. Anche noi restiamo a gambe incrociate a meditare per cinque minuti, osservando il coinvolgimento delle persone che ci circondano. Non serve che lo dica: siamo gli unici turisti.

Dopo la preghiera, la nostra guida ci accompagna in un posto in cui notiamo molta gente seduta in fila: le persone stanno aspettando che sia aperta la sala in cui ogni giorno volontari danno da mangiare, gratuitamente, a chiunque si presenti, indipendentemente dal credo.

Noi entriamo dal retro, vediamo le volontarie che impastano il chapati (Lele si unisce a loro e ne impasta qualcuno), osserviamo pentoloni giganti da orco dentro cui brodaglie colorate sono portate a cottura e vediamo secchi enormi di riso posizionati per terra. Tutti sono a piedi nudi, noi inclusi. Il luogo è estremamente pulito e la sensazione di pace e benessere ci rende fiduciosi.

Ci sediamo per terra in un angolo, incrociamo le gambe e posiamo sul pavimento un piatto in metallo dentro cui un volontario versa due mestoli di brodaglia marrone (lenticchie), un mestolo di brodaglia gialla (ceci), due manciate di riso e un pezzo di pane. Ci danno un cucchiaio per pietà, mentre gli altri mangiano con le mani come si usa qui. Ci viene offerto anche un bicchiere d’acqua che evitiamo con cura: l’acqua qui va bevuta solo imbottigliata e sigillata, altrimenti si rischiano dissenteria e altri disturbi.

E così, seduti sul pavimento a piedi nudi, mangiamo insieme a sconosciuti e gustiamo il cibo che ci viene offerto con garbo nonostante sia evidente che non siamo fedeli.

In molti, nel vedere il video del mio pranzo, hanno fatto commenti di stupore o ribrezzo, ma per noi è stata una cosa piacevole ed estremamente pulita. Del resto, lo stomaco ha digerito tutto senza fatica.

Qutb Minar

La terza meta di Delhi è il Qutub Minar, minareto musulmano di cui oggi restano solo parte degli edifici. Come sempre in India, passiamo da un culto all’altro e dal potere temporale a quello spirituale senza alcun trauma. I colori sono intensi, le decorazioni bellissime e le scritte in sanscrito ci raccontano di epoche lontanissime nel tempo e di una cultura che non ha nulla da invidiare alla nostra. I diversi colori del minareto parlano del desiderio dell’uomo di superare in altezza (e potere) il proprio predecessore, mentre le famiglie di indiani che visitano il luogo da turisti ci mostrano un’India più fortunata di quella vista altrove.

Non ci sono turisti e anche qui ci indicano. Finalmente scopriamo che per molti indiani vedere una persona bianca è una rarità e che per loro siamo una visione da immortalare nelle foto per poterlo raccontare agli amici. La pelle bianca è considerata segno di bellezza e io all’improvviso, con quegli sguardi ammirati addosso, mi sento bella come non mai (nonostante il sudore e la calca debbano avermi resa impresentabile). La prima – e penso unica – volta da celebrità della nostra vita! 

Dopo un’ora di ricerche troviamo finalmente una scheda SIM per stranieri, con una difficoltà che è cento volte quella riscontrata in Perù e mille volte superiore alla Thailandia. Lo avessi saputo prima, mi sarei organizzata prima del viaggio. A questo punto la nostra guida ci saluta e Raj ci accompagna alla volta di Agra.

La strada è un susseguirsi di pedoni che tentano il suicidio attraversando senza guardare, tuk tuk, scimmie, cani randagi, auto, camioncini e mucche (che dentro Delhi non si trovano). Il tour è stato organizzato in modo perfetto: alle 5 è venuto a prenderci l’autista per portarci al Taj Mahal. In un mondo normale la sveglia alle 4:30 del mattino in vacanza (mentre in Italia è sera, col fuso orario che ti porterebbe a dormire ancora e ancora) sarebbe una tortura, ma in questo mondo è una benedizione.

Sulla strada per il Taj Mahal il traffico è scarso e le scimmie superano il numero degli uomini. Incontriamo la nostra guida e ci dirigiamo a piedi verso l’ingresso, mentre i tuk tuk attendono clienti (penso che i turni di lavoro durino 24 ore e che gli autisti ci vivano dentro) e la città dorme ancora. Siamo i primi all’ingresso a una delle 7 meraviglie del Mondo moderno ed entriamo insieme al custode. Fuori è ancora buio.

Dopo qualche passo, attraverso un portale color arenaria scorgiamo il Taj Mahal. La vista ci lascia senza fiato, mentre il cielo inizia a farsi chiaro e il giorno sta per iniziare. La nostra guida Rasheed fa delle foto ai nostri occhi assonati e increduli. Insieme a noi ci sono solo fotografi con un mega obiettivo intenti a immortalare questo mausoleo incredibile che anche da lontano sa impressionare.

Dopo le foto di rito, Rasheed inizia a raccontarci la storia: il mausoleo è stato costruito dall’imperatore moghul Shāh Jahān per ospitare il corpo della moglie preferita, morta mentre dava alla luce il quattordicesimo figlio. È evidente che al tempo non esistevano metodi contraccettivi ed è altrettanto evidente che queste lacrime di coccodrillo per un marito che ingravidava la moglie a ogni starnuto sono quanto meno servite a renderne immortale il ricordo agli occhi del mondo intero.

Il Taj Mahal è realizzato in pregiato marmo bianco su cui spiccano decori floreali e scritte del corano, tutti realizzati con pietre preziose incastonate a mano dal lavoro certosino di artigiani che hanno perso anche le dita per completare quest’opera maestosa. Da lontano sembra pittura, ma da vicino si notano i riflessi delle pietre, destinati a cambiare in base alla luce del sole. Rasheed ci spiega estasiato il sistema eccellente di simmetrie che riguardano il Taj Mahal e ci accompagna all’interno, armati di copri scarpe (l’alternativa sono i soliti piedi nudi), per illustrarci le riproduzioni delle due tombe che sono al piano di sotto, ben custodite in un luogo angusto che farebbe venire la claustrofobia anche ai morti che ci sono sepolti. Anche qui, un lavoro pazzesco sul marmo a creare figure floreali e finestre da un’unica lastra.

All’esterno del Taj Mahal si trova l’unica moschea di Agra, aperta solo ai musulmani che risiedono in città. Il venerdì, giorno in cui la Moschea è utilizzata, il Taj Mahal è chiuso: prendete nota, perché arrivare ad Agra e perderlo sarebbe veramente imperdonabile. Il nostro Rasheed non solo sciorina con amore nozioni sulla storia, l’arte e la cultura del tempo, ma si dimostra un fotografo esperto: ci fa un vero e proprio servizio fotografico – non richiesto ma alla fine gradito – regalandoci così una serie di foto che ci faranno apprezzare meno quelle fatte da noi.

Come ho detto, alle 5 il Taj Mahal era tutto per noi e pochi avventurieri e questo ci ha consentito di goderne appieno. Alle 6 era già molto più popolato e alle 7 era pieno di gente, per cui vi consiglio caldamente di puntare la sveglia prima dell’alba e di ammirare quest’edificio senza fattori di disturbo. Ne vale assolutamente la pena.

Il Forte di Agra

Alle 7:30 rientriamo in hotel per la colazione, la doccia e il check-out. Poi andiamo alla volta del Forte di Agra. Anche qui, file lunghissime di indiani in attesa di entrare mentre nella parte dedicata ai turisti siamo gli unici. Alcuni bambini ci fermano per fare un selfie con celebrities viso pallido e noi accettiamo di buon grado, immortalando a nostra volta il nostro momento di fama.

Il Forte di Agra è aperto al pubblico solo al 25%, essendo la restante parte in mano alla difesa indiana. Il complesso è imponente, come sempre da queste parti, e reca una serie di edifici diversi nello stile e nel colore, in parte in marmo bianco e in parte in arenaria rossa, con decori floreali e pietre preziose o presunte tali incastonate. A colpirmi è la parte riservata alle mogli e alle concubine del sultano: ognuna ha la sua stanza e un sistema di tende consentiva all’uomo di aggirarsi indisturbato senza che le altre donne sapessero con chi era. Va bene la poligamia, ma a quanto pare la gelosia non sempre è facile da tenere a bada.

Dal Forte di Agra si vede, nella parte finale, il Taj Mahal. Qui il figlio di Shāh Jahān ha amorevolmente imprigionato il padre, consentendogli quale consolazione la vista dell’edificio in cui poco dopo sarebbe stato sepolto a sua volta. Il tradimento del figlio era forse compensato dalla bellezza della prigione, che certo non ha nulla a che spartire con le nostre carceri e che è mille volte più bella di tutte le case che avremo mai nella nostra vita.

Ad Agra andiamo a visitare il piccolo Taj Mahal, così chiamato per ridurre le aspettative di chi lo visita. Nella mia opinione questo edificio ha solo la sfiga di trovarsi ad Agra, perché anche qui la lavorazione del marmo e l’insieme di decorazioni, archi, passaggi e finestre è tale da impressionare. Merita senz’altro una visita.

I negozi di oggetti in marmo

Ad Agra non può mancare la visita al negozio in cui si lavora il marmo. La leggenda narra (senza grandi capacità di persuasione) che a lavorare il marmo siano i discendenti di quelli che costruirono il Taj Mahal e che questa tecnica si tramandi segretamente di generazione in generazione, come per la ricetta della Coca Cola.

Al nostro arrivo due ragazzi che probabilmente non sanno neanche dove si trovano fanno finta di usare attrezzi di cui non conoscono la funzione, mentre il venditore ci spiega che sono artigiani espertissimi (un po’ come quelli di Poltrone e sofà, per intenderci, ma senza alcuna dote da attori). La spiegazione della tecnica di lavorazione del marmo con intarsi in pietre preziose dura cinque minuti ed è seguita dall’invito a vedere gli oggetti in vendita: comprare non è obbligatorio, ma il vostro venditore non vi mollerà un attimo.

Qui devo aprire una parentesi: i venditori indiani hanno una costanza e un’insistenza senza pari, come se il loro unico scopo nella vita fosse quello di farvi comprare cose che non desiderate a un prezzo più alto del valore reale. In India si contratta sul prezzo, come norma, e quindi c’è un gioco costante di rilanci e ribassi finché non si trova un prezzo che convinca tutti. Se l’accordo manca, non si compra nulla.

Dire di non essere interessati all’acquisto o di aver già comprato abbastanza non intacca minimamente la tenacia del venditore, che continua a proporre articoli anche dopo che la carta di credito è stata strisciata sul POS e che la firma è stata apposta. A tratti ve li troverete ad aprirvi la portiera dell’auto con in mano prodotti da vendere.

Nel nostro caso, nessun oggetto aveva un costo che mi potesse sembrare degno del luogo in cui lo compravo. Mi spiego: il costo della vita in India è molto basso rispetto al nostro e i prezzi dovrebbero essere proporzionati. Questi negozi però vendono solo ai turisti e il prezzo è basato sul costo della vita del turista, nonostante chi ci guadagna viva in India. Questo non lo trovo giusto. Va bene aumentare un po’, ma proporre prezzi solo per arricchire il venditore da cui ti accompagna l’agenzia non mi trova per niente d’accordo.

Purtroppo, non abbiamo avuto tempo per girare da soli e cercare qualcosa che avesse prezzi indiani, ma in ogni caso non abbiamo ceduto alla tentazione di comprare un ricordo dall’India indipendentemente dal costo. La mia contrattazione con il venditore non è andata mai a buon fine e alla fine me ne sono andata con la convinzione che se non possono spremerti allora preferiscono non vendere.

Jaipur

Finito il tour di Agra è iniziato il viaggio verso Jaipur, con il nostro autista Raj pazientemente intento alla guida. Per strada abbiamo trovato una protesta: dei camion avevano occupato l’autostrada e la polizia non autorizzava il passaggio delle auto, per il rischio di aggressioni (rischio che abbiamo evitato volentieri).

A questo punto il nostro Raj, uomo dall’età apparente di 55 anni con gli occhi a mandorla sempre sul punto di chiudersi, ha mostrato le sue incredibili doti di autista paziente e calmo.

Lasciata l’autostrada, abbiamo fatto un’ora di viaggio che probabilmente le leggi della fisica e della dinamica possono giustificare solo in India: strada a unica corsia senza alcuna striscia ai margini o al centro, bordo strada non asfaltato e cosparso di pietre di dimensioni varie, dislivello da ribaltamento subito dopo il bordo. Su questo sentiero da gimkana, in direzioni varie si alternavano camion, un numero infinito di autobus, trattori, carretti, dromedari, mucche vaganti, pedoni, tuk tuk, macchine, moto con a bordo intere famiglie, donne con in testa ceste piene di qualsiasi cosa. Tutti questi veicoli circolavano contemporaneamente trasformando la stradina di campagna in un’autostrada a quattro corsie, in gioco di sfioramenti al millimetro che solo l’uso indiano del clacson non ha trasformato in strage. Lele dormiva mentre io osservavo stupita questa corsa da videogioco senza vite di riserva e i villaggi di case di paglia e bambini per strada attraverso cui passavamo.

Ora, è evidente che se il 10% di quella condizione si fosse verificato nel sud Italia, in mezzo minuto sarebbe scoppiata una rissa o quanto meno si sarebbe assistito a una raffica infinita di imprecazioni e insulti. Invece in India tutto procedeva come se fosse normale e il nostro Raj ha continuato per ore a schivare e scansare ostacoli multidirezionali senza mai lamentarsi o mostrare segni di cedimento (o aprire completamente gli occhi per garantirci che fosse sveglio).  All’arrivo a Jaipur, solita ispezione di bagaglio e persona e poi a cena nel nostro Hilton. La cucina indiana inizia a stancarci ma non ci sono molte alternative (si potrebbe mangiare cinese, ma evitiamo) e così a consolarci è solo l’ennesima Kingfisher.

Jaipur è la città che la Lonely Planet ha scelto come copertina e le mie aspettative erano molto alte. Per questo quando abbiamo visto il Palazzo del vento (Hawa Mahal) sono rimasta un po’ delusa. Si tratta di un Palazzo dalla facciata maestosa e bellissima, arancione con numerosissime finestre verde smeraldo, creato per consentire alle povere donne musulmane di osservare la vita della città. Però la bellezza non è stata preservata e la facciata dà su una via super trafficata, in cui il suono incessante del traffico indiano impedisce ogni godimento pieno. Completano il quadro due tizi con turbante che suonano il flauto incantando serpenti. Io e Lele decidiamo comunque di lasciarci incantare a nostra volta e facciamo la foto e il video da turisti (io tocco anche il serpente, che per vendicarsi prova a mordere il suonatore di flauto che me lo ha offerto … ma sono serpenti disarmati, che seguono l’istinto dell’uso di un’arma che non hanno più).

La nostra guida di Jaipur parla italiano e questo mi infastidisce molto perché mi impedisce di commentare con Lele le cose che vedo e anche il suo strano accento brasiliano. Peraltro, il tizio dichiara di venire ogni anno in Italia a vendere pietre e ho il dubbio che queste “pietre” siano in realtà traffici illeciti di qualche tipo.

Al netto di questo, Jaipur si rivela bellissima. La Pink city, città tenuta obbligatoriamente rosa all’interno delle mura della parte antica, per garantire l’identificazione cromatica così cara al turismo del Rajasthan.

Salendo verso il Palazzo del Maharaja incontriamo gli elefanti dal volto dipinto che sfrutteremo anche noi poco dopo.

Sheesh Mahal Amber Fort

Il Palazzo del Maharaja, in cui vive oggi il Maharaja di Jaipur, è semplicemente magnifico. Non solo l’edificio e i cortili, ma anche i lampadari, i tappeti, i quadri e tutto ciò con cui è stato abbellito per dare l’idea della potenza del capo. All’interno un museo dei bellissimi abiti da cerimonia e da polo. Già, perché il Maharaja ama giocarci (uno è anche morto per una caduta da cavallo durante un torneo, poveraccio).

Il Maharaja di Jaipur ha 26 anni ed è single, per cui se volete una bella e comoda dimora in India vi consiglio di proporvi come moglie (ne può avere diverse, oltre alle concubine).

Jaipur ha tante cose belle da vedere (Panna Meena ka kund, il jal Mahal, l’osservatorio astronomico) e presenta un sistema di stradine nel centro che vi delizierà.

Per strada si incontrano numerosi elefanti e dromedari appositamente addobbati per divertire i turisti che, come noi, vogliono sentirsi parte di questo business. Anche noi facciamo il nostro giro sull’elefante (niente di particolare, ma erano circa 40 anni che non lo facevo), tocchiamo la pelle rugosa e pelosa del pachiderma, ci sentiamo piccoli accanto al gigante buono e pensiamo a quanto facile sarebbe per un elefante ucciderci anche solo camminando.

Pietre preziose e Pashmina

Al termine, veniamo portati a comprare pietre preziose. Anche qui il venditore parla italiano e questa cosa si dimostra per me intollerabile: l’abile mercante indiano incanta Lele con nomi di pietre preziose e semi-preziose, rubino e sostituto del rubino, smeraldo e sostituto dello smeraldo, argento placcato oro anziché oro, etc., spiegandogli che i costi bassi sono dovuti al basso costo della manodopera indiana. Io penso che sul corso a Lecce gli stessi oggetti li vendono a meno, nonostante abbiano fatto anche la traversata dall’India all’Italia, ma il mercante non mi dà modo di esprimere a Lele la mia opinione in solitudine. Ogni mio tentativo di intervenire e sminuire il reale rapporto qualità-prezzo delle pietre è bloccato sul nascere e alla fine litigo con questo venditore di fumo. Preferivo molto di più i venditori che parlavano solo inglese e non capivano i miei commenti.

Anche in questo caso, per comprare pietre preziose potete fare affari solo se vi informate prima su dove andare o girate un po’ per la città. Anche questa è India, in fondo.

A fine giornata compriamo un paio di foulard in seta (i colori sono straordinari, ma le decorazioni sono spesso eccessive) e torniamo a Delhi in auto.

Qui vi risparmio la descrizione del viaggio da montagne russe fatto di slalom perenne tra i soliti mezzi, esseri umani e animali cui si è aggiunto un numero estremo di camion. Vi dico solo che il reel su Instagram ha avuto un successo enorme, per chi non ha avuto il mal d’auto per guardarlo. Anche in questo caso, Raj è rimasto impeccabile con il suo sguardo socchiuso, mentre Ganesha sul cruscotto ci proteggeva.

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