Come mi arrampico sull’Etna (in camper)
L’Etna è una presenza ingombrante che si fa notare già quando arrivi in Calabria. Mi ricordo che qualche giorno prima di sbarcare in Sicilia, più o meno all’altezza di Longobardi (un piccolo comune in provincia di Cosenza), ci siamo fermati col camper in un bel parcheggio di fronte al mare. Mentre ammiravamo rapiti un tramonto bello come solo i tramonti sul mare sanno essere, vediamo che dalla foschia emerge questa strana forma: sembra una nave, ma no è un’isola, ma no è una nave: guarda che pennacchio di fumo che le esce da sopra, oddio magari c’è un incendio su un’isola vicina… Ignoranti come sgabelli, non avevamo nemmeno preso in considerazione l’idea che potessimo vedere di già l’imponente sagoma di uno del vulcano più alto d’Europa.
Quella di visitare l’Etna era un’idea che ci frullava in testa fin dal momento in cui abbiamo deciso di girare tutta l’Italia in camper: una volta che arrivi fino giù in Sicilia che fai, ti tiri indietro? Sì anche se è inverno, anche se significa abbandonare il clima mite della costa per inerpicarsi per i quasi tremila metri di montagna che cova un cuore pulsante di magma sotto la neve macchiata di cenere.
Perciò da Messina ci siamo diretti subito verso Fiumefreddo, in una graziosa area sosta dal prezzo più che abbordabile di 14 euro a giornata in cui eravamo gli unici ospiti occasionali (mentre il custode e un altro campeggiatore avevano l’aria di viverci dentro, o almeno di starci per lunghi periodi). L’area si chiama “Oasi Park Garden Club” e d’estate deve essere davvero carina: c’è un baretto – ovviamente chiuso d’inverno- con accanto una zona ristorante e qualche gioco per i bimbi. Inoltre è circondata su entrambi i lati da… sorpresa, agrumeti a perdita d’occhio, e mentre a febbraio si può godere dei colori brillanti di arance, limoni e mandarini che fanno capolino tra il fogliame, sono sicura che in primavera ed estate il profumo dei fiori è inebriante.
E poi la vista sull’Etna è pazzesca: dalle finestre del camper pareva che bastasse sporgersi un po’ per afferrare gli svolazzi di fumo bianco e denso che fuoriescono ininterrottamente dai crateri. Galvanizzati dal panorama, abbiamo trascorso la giornata a capire come affrontare l’ascesa al Mongibello: con un camper di quasi otto metri di lunghezza alcune strade non sono una passeggiata, e le soste vanno pianificate con intelligenza per non rompere le scatole a nessuno e soprattutto non farsele rompere. Inoltre, una volta piazzato il mezzo, dovevamo capire come salire noi bipedi! Purtroppo nei giorni in cui abbiamo deciso di tentare questa impresa c’è stato un vento pazzesco che ha messo fuori gioco la funivia, che è il mezzo tradizionale per salire fino ai 2500 metri (il punto più alto raggiungibile per coloro che viaggiano senza guida autorizzata). Ci sarebbe piaciuto ammirare il panorama che dev’essere senz’altro mozzafiato da lassù, ma se il meteo ti rema contro non puoi fare altro che rassegnarti e cercare le alternative valide (e fidatevi, tutto sommato la soluzione “di ripiego” è stata altrettanto affascinante!).
Quindi dopo l’attenta pianificazione siamo partiti: abbiamo salutato l’area camper e ripreso l’autostrada, vivendo con l’occasione la fantastica esperienza di non riuscire a pagare il biglietto al casello e dover inviare un bonifico di 50 centesimo al Consorzio per le Autostrade Siciliane. Ci siamo arrampicati sul versante del monte passando da Zafferana Etnea (che se non fossimo stati così di fretta sarebbe stato anche carino visitare) e curva dopo curva, più salivamo più calava l’oscurità. Arrivati allo spiazzo dei parcheggi di fronte alla partenza della funivia, a Nicolosi Nord, abbiamo provato a sistemarci per la notte così da essere belli pronti e pimpanti la mattina successiva… ma non avevamo calcolato la potenza del vento.
Non stava solo soffiando: sembrava volesse spazzarci via, noi e le tonnellate di metallo e lamiera del camper, per farci rotolare a valle e ricordarci che anche con tutti i nostri sporchi trucchi e strumenti da esseri umani, di fronte alla furia degli elementi siamo nulla più che granelli di polvere. Non ci è sembrato il caso di metterci a discutere col vento: con la coda tra le gambe ce ne siamo scesi un paio di tornanti più giù, in una piazzola a bordo strada più o meno riparata in cui abbiamo passato una notte più o meno tranquilla. Forse anche per questo il mattino dopo, quando mi sono svegliata, lavata e vestita (rigorosamente con triplo strato: altro che i 15°C di Fiumefreddo, la temperatura era a stento sopra lo zero!), sentivo una strana emozione che mi rodeva lo stomaco. Era eccitazione, certo, spirito di avventura, sicuramente, ma anche una soggezione quasi sacrale unita a paure ataviche che cercavano la via per passare dal mio cervello scimmiesco ed istintivo a quello più moderno e razionale. Era come se il mio corpo mi dicesse: “Va bene sorella, siamo arrivati qui, siamo sull’Etna, ma non dimenticarti che è un maledettisimo vulcano e che è pure attivo, quindi pronta a tagliare la corda che non si scherza con queste cose“. So che sembrerà ridicolo, ma col senno di poi il mio istinto non sbagliava affatto: appena il giorno dopo la nostra avventura c’è stata una delle eruzioni più spettacolari e violente degli ultimi tempi. Datemi della scema ora!
Dopo una robusta colazione rigorosamente a base di cannoli al pistacchio al bar “La Terrazza dell’Etna” ci siamo diretti alla partenza della funivia. I lettori più attenti noteranno che prima avevo detto che la funivia in quei giorni non era attiva a causa del vento, e infatti non è con quella che siamo saliti fin sulla cima, bensì con i tamarrissimi e inarrestabili fuoristrada 4×4 messi a disposizione come alternativa per queste occasioni, che partono dalla stessa stazione. Anche il costo è sempre lo stesso: 30 euro a testa, e piuttosto che farci cinque ore di scarpinata li abbiamo pagati volentieri.
Dopo esserci arrampicati sull’enorme fuoristrada ci siamo piazzati in pole position nei sedili dietro il guidatore, come i peggio cocchi della maestra, e ci siamo goduti una mezz’ora di frullate e sbatacchiate in mezzo a un paesaggio quasi lunare, mentre il motore rombava e le gigantesche ruote macinavano la strada. Una volta arrivati a destinazione siamo scesi a farci un giretto senza grosse pretese, visto che non avevamo intenzione di andare fino alle imboccature dei crateri (né eravamo attrezzati per farlo!). Già solo così è stata un’esperienza straordinaria: il vento gelido e gradasso ti tira di qua e di là a suo piacimento, e dopo aver accarezzato i panciuti fianchi dell’Etna lo sguardo si perde nel verde della piana di Catania, fino a infrangersi in quello specchio abbagliante che è il mare. Poi ti giri e vedi i crateri superiori imbiancati dalla neve, questa volta senza fumo perché il vento è arrivato a rubare pure quello, ma resta la sensazione strana e indefinita di passeggiare su una cosa viva e attenta, pronta a risvegliarsi e far sentire la sua voce millenaria.
Foto e video di rito (solo noi, solo l’Etna, noi e l’Etna, dettaglio del cratere, un lapillo particolarmente artistico, un blocco di ghiaccio che si scioglie al sole…) ed era già ora di risalire sul fuoristrada per la discesa. Scossi – letteralmente, visto lo stile di guida da pazzi degli autisti – ma felici, prima di tornare al camper abbiamo fatto la rilassante passeggiata ad anello intorno ai Crateri Silvestri, suggestivo luogo formatosi dopo la violenta eruzione del 1892.
Per scendere dall’Etna non siamo tornati proprio sui nostri passi, ma abbiamo preferito fare la strada che passa dal Monte Salto del Cane (o via Catania, se volete inserirla sul navigatore): ha decisamente meno curve ed è piuttosto ben tenuta, risultando quindi più adatta a mezzi ingombranti come il nostro. E così, ancora una volta, abbiamo collezionato un’esperienza di viaggio incredibile e siamo ripartiti una nuova e per noi inesplorata meta.