La favola della principessa delle barbabietole

di Aigor

Poco tempo fa, sull'unico ramo del Lago Maggiore, sulla sponda lombarda, in un minuscolo paesino tra Laveno e Luino, dove tutti si conoscono e amano sparlarsi ferocemente dietro le spalle e dove la vita privata ed i segreti sono inesistenti, viveva una coppia di fratelli. Lui, Erminio...
Turisti Per Caso.it, 22 Gen 2003
la favola della principessa delle barbabietole
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Poco tempo fa, sull’unico ramo del Lago Maggiore, sulla sponda lombarda, in un minuscolo paesino tra Laveno e Luino, dove tutti si conoscono e amano sparlarsi ferocemente dietro le spalle e dove la vita privata ed i segreti sono inesistenti, viveva una coppia di fratelli. Lui, Erminio Castiglioni, era una sorta di orco medioevale di circa 85 anni, totalmente sordo, cattivo, vestito di stracci, basso e tarchiato, proprio ‘piscinin, brut e cativ’.

Lei, Evelina Castiglioni, dieci anni di meno, era alta e magra, con degli occhiali che sembravano una maschera da snorkelling, sempre radiosa, truccatissima ed elegantissima con quegli abiti accuratamente stirati, usciti direttamente da una fiaba di Hansel e Gretel. Insieme gestivano l’unico fruttivendolo del paese, che non avendo nessun supermercato nelle vicinanze, insieme al panettiere e alla Chiesa fungeva da luogo di ritrovo e di pettegolezzo. L’insegna dipinta a mano negli anni ’30 recava la scritta in color oro su fondo nero: ‘Castiglioni Verzura’.L’orco cattivo quando vedeva passare i rari bambini del paese davanti al suo negozio urlava sempre qualcosa, preferibilmente un insulto. Lui odiava tutto e tutti, senza distinzione di sesso, razza o religione: tutto il mondo gli stava sulle balle! L’inno alla misantropia. Lei invece sempre silenziosa e succube dell’orco stava alla cassa pronta a battere gli scontrini. L’orco oltre a odiare l’umanità, aveva anche un’altra clamorosa qualità morale: la gelosia.

Infatti costringeva la sorella a vivere reclusa da almeno 50 anni, da quando avevano ereditato il negozio e la sovrastante casetta dai genitori. Il simpatico orca misantropo aveva deciso che il mondo esterno era pericoloso per la sua amata sorella. Le permetteva solo di andare dall’appartamento al negozio, usando le scale interne di collegamento e nulla di più. La poverina, si adeguò. Per cinquanta lunghi anni restò segregata nell’appartamento o nel negozio, a vendere barbabietole, fiori di zucca e finocchi.

Chi passava davanti al loro negozio la sera e alzava lo sguardo verso le due finestrelle al primo piano si accorgeva di come l’orco avesse anche proibito ogni possibile svago: erano le uniche finestre nel paese dalle quali non usciva il bagliore della televisione. Non l’avevano. Alle 20.30 di ogni sera le luci si spegnevano.

La sorella andava a dormire, il fratello andava all’unico bar del paese sul lungolago dove in piedi al bancone, rivolgendo le spalle a tutti beveva in silenzio i suoi bianchini e le sue grappe fino a stordirsi. Pare che il barista, Eusebio Scannagatti, lo abbia sentito parlare una volta, circa 18 anni fa, ma forse è solo una leggenda metropolitana.

La sorella, quando la Breva, il vento freddo del lago, nelle lunghe notti invernali scende dalla Svizzera e raggela anche i pensieri, non aveva altro svago che guardare dalla finestra. Peccato che le loro due uniche finestre non fossero rivolte verso il lago ma verso il palazzo di fronte. Negli anni l’orco non aveva mai avuto un raffreddore, un’influenza, uno starnuto, era sempre stato sano come un demonio! Ogni tanto qualche ricco villeggiante tedesco o olandese telefonava da qualche villona isolata facendo la spesa via cavo.

L’orco allora tirava fuori dal box a fianco al negozio la sua Ford Taunus: un ammasso contorno di lamiere color oro, con due finestrini su quattro, le ruote quasi sgonfie, senza paraurti, senza luci o frecce e interamente ammaccata. Si dice che, quando lui passava, le mamma corressero in strada a ritirare frettolosamente i figli che giocavano a pallone.

L’orco infatti considerava qualsiasi cosa davanti alle sue ruote un ostacolo da abbattere e schiacciare. Ciò valeva per spigoli dei muri, auto parcheggiate, lampioni e soprattutto per gli odiati bambini. Nemmeno in quelle occasioni la sorella aveva il coraggio di uscire dal negozio: si affacciava coraggiosamente alla porta e guardava fuori. L’orco era sempre stato indistruttibile, finchè un giorno, uno dei tanti Dei, che lui aveva ripetutamente bestemmiato e offeso per anni. Decise che il troppo storpia! Mentre sta bevendo la sua sesta grappetta al bar gli venne uno dei più classici ‘sciupuni’.

Si afflosciò e morì. Il barista, Eusebio Scannagatti, commentò il fatto: ‘L’era ura!’. La sorella lo pianse per ben 4 minuti netti. Al funerale, per la prima volta lei uscì di casa! Andò alla chiesa (quasi 60 metri), al cimitero (poco più di 200 metri), poi tornò a rintanarsi nelle quattro mura domestiche.

Durante il funerale, al quale ovviamente partecipò l’intero paese, essendo uno dei momenti chiave degli ultimi cinquanta anni di storia locale, le megere del paese spettegolarono come non mai. La Rina, la Gina, la Pina, la Nina e la Tina si scatenarono in mille commenti e cattiverie:’Ma te vist cuma l’è vegnuda’, ‘se po mia andà in gir inscì?’, ‘che vulgaridad, l’era mei se lo sciupun el vegniva a lè’, ‘e adess? sta a vedè che la fa andà in malura el negosi!’. (Hai visto com’è venuta? Non si può andare in giro così, che volgarità, era meglio se l’infarto fosse venuto a lei, e adesso? Stai a vedere che farà fallire il negozio).

Evelina riprese il suo lavoro, finchè un giorno, eroicamente si spinse fino al bar sul lungolago (50 metri). Entrò e l’intero bar si volse a guardarla. Tutti i vecchietti impegnatissimi in partitoni di scopa d’assi, i giovani intenti a sfregiare il panno verde, restarono a bocca aperta. Lei, elegantissima, ordinò civettuola un caffè, pagò, salutò e se ne tornò a casa. Il barista, Eusebio Scannagatti, pare abbia detto: ‘L’era ura!’.

Il paese iniziò a mormorare! Passò una settimana e le gitarelle di Evelina si intensificarono. Trascorreva le ore della chiusura per pranzo del negozio seduta su una panchina a guardare il lago. Ore e ore. Il lago, l’acqua, la sponda piemontese là in fondo.

Una domenica si presentò addirittura a messa! Pare che il parroco l’abbia anche citata nell’omelia! Passavano i giorni e lei da silente figura che emetteva scontrini, diventò più affabile, riscoprendo il dono della parola. Intratteneva i clienti a suo modo. Anche se non riusciva proprio a legare con le vecchie megere del paese, che la detestano per aver eliminato il loro pettegolezzo quotidiano su di lei e sul suo fratello orco, dal momento che lei era tornata a circolare e l’orco era finito in una miniera di Golconda per l’eternità.

Inoltre, lei, era sempre elegantissima e sorridente, mentre le megere erano costantemente accigliate e vestivano con abiti delle tonalità di tutta la scala dei grigi: dal grigio topo scuro al nero pece. Sconfitta da tanta solitudine Elvira osò l’impossibile. Andò a piedi fino in fondo al paese (quasi 400 metri) al negozio di elettrodomestici e comprò una televisione! (pare che Arturo Rezzonico, il proprietario del negozio abbia avuto un mancamento quando vide la sorella dell’orco entrare nel suo esercizio).

Comprò una televisione, se la fece portare a casa e la sera emozionatissima si mise di fronte. L’accese e finalmente vide la tv! Se la ricordava in bianco e nero, subito dopo la guerra, al bar del paese,un solo canale, ora invece tutto era colorato, brillante, c’era il mondo intero, decine di canali. Restò ipnotizzata per ore e ore. Finalmente era felice: lavorava con allegria, non prestava orecchio alle malelingue, sorrideva a tutti: era felice! Una sera, come sempre, dopo aver chiuso il negozio e aver cenato, si mise davanti alla tv. C’era un film, e a lei piacevano tanto i film. In questo, di cui lei capiva sì e no il venti per cento, c’era qualcosa che la colpì, lasciandole un segno: un AEREO! Volare, in aria, in alto, era un sogno.

Da bambina immaginava di volare come i gabbiani del lago, alzarsi e dimenticarsi tutto. Arrivò finalmente l’estate, che portò con sè oltre al sole anche i villeggianti. Ad ogni villeggiante Evelina poneva le stesse domande: ‘Ma le l’è mai salida su un aereo?, l’è bel vulà?, ma’l fa paura?, ma se vede de bas tuss coss?’ (Lei è mai salito su un aereo? E’ bello volare? Ma fa paura? Ma si vede tutto sotto?) Divantò presto una mania. Gli aerei. Il volo. Molti le dicevano di andare a vedere gli aerei a Malpensa o a Linate o a Lugano, ma lei timidamente rispondeva sempre di no! Troppo lontano come poteva arrivarci? E poi aveva paura della città! Una sera guardando il telegiornale della Lombardia vide un servizio su un incidente all’aeroporto di Vergiate. Vergiate? Ma lei si ricorda bene di Vergiate! Era un paese alla fine del lago! Verso Milano! Non lontano! La mattina seguente con abili sotterfugi prese informazioni su Vergiate, chiedendo ai clienti: ‘Ma quant a l’è che t a l’è che ‘l dista de chi Vergiatt?, ma se po andà con la curiera?’. (Quanto è lontano Vergiate da qui? Ci si può arrivare con la corriera?) Scopre così che Vergiate è a 30 chilometri di distanza o poco più e che non ci sono autobus che la colleghino con il suo paesino. Ma Evelina oramai era decisa, nulla poteva fermarla.

Cercò nella cassapanca dove teneva i ricordi del fratello. Trovò le chiavi del box, scese, lo aprì e davanti a lei si presentò la Ford Taunus! E lei sapeva guidare. Nel 1944 i partigiani le insegnarono a guidare per portare i viveri in montagna nella Val d’Ossola.

Sì, effettivamente, erano passati 54 anni, ma insomma ce la deveva fare! Salì. La chiave era nel cruscotto, il volante era lì, c’erano troppi pedali. Girò la chiave e la macchina in prima saltò fuori dal box come un proiettile. Ma Evelina la tenace non demorde. Pian piano riescì a imboccare la stradina. Affrontò la prima curva. Rigò l’intera fiancata destra contro un muro. Affrontò la seconda curva, scende sul lungo lago, passò davanti al bar (pare che il barista, Eusebio Scannagatti, non abbia detto nulla) e iniziò a seguire la strada verso la fine del lago, verso il Ticino, verso Vergiate: verso gli aerei! In qualche modo percorse tutto il lungolago sino a Laveno in prima marcia.

Arrivata a Laveno con nonchalance si affacciò dal finestrino (che non c’era) e chiese ad un passante la direzione per Vergiate. ‘Semplice, sempre dritto, seguire i cartelli per Milano, poi i cartelli verdi con scritto Milano A8’.

Semplice. Pian pianino, tutta in prima percorse quella siderale distanza, arrivò allo svincolo della Autolaghi, riescì miracolosamente a centrare una corsia del casello, ma si fermò dubbiosa davanti ad una sbarra ascoltando una voce che le diceva di ritirare un biglietto. Vide un pezzo di carta uscire da una fessura, lo prese al volo e magicamente la sbarra si alzò. Seguì meticolosamente i cartelli ‘Milano A8’, poi entrò in autostrada (pare abbia esclamato ad alta voce: ‘oh mama quant a l’è grosa!?’.

Si spostò tutta a destra, nella corsia più a destra. (Brava!). Percorse meno di due chilometri, piano piano, sempre in prima, mentre alcuni veicoli la sorpassano a velocità spaventose, facendole una gran paura! Evviva!Eccolo sulla sua destra! Lo vede! Un aereo! Due aerei! Tanti aerei! Piccoli. Ma aerei!

Con diligenza si fermò quasi addosso al guard-rail. Scese e rimase a guardarli incantata. A tre metri dal guard-rail iniziava la pista dell’aeroporto di Vergiate. Pochi minuti dopo un piccolo aeroplano si allontanò dagli hangar, venne verso di lei, si girò, iniziò a ruggire, iniziò la corsa ..Poi si alzò in volo! VOLA! Evelina era a bocca aperta, non ci credeva: sta guardando un aereo, un aereo vero che vola! Mica cade! Vola come un gabbiano del lago! Restò ore a rimirare tale bellezza, complice il fatto che l’aeroporto di Vergiate è anche una scuola di volo! Gli aerei atterravano e decollavano in continuazione. Passavano le ore, e altre ore. Venne il crepuscolo, gli aerei rientravano tutti dentro l’hangar.

Evelina capì che è ora di tornare a casa, che lo spettacolo per oggi era finito. Allora, con la felicità dentro di lei, salì sulla Ford Taunus, accese il motore, ripartì saltellando, si guardò alle spalle e invertì beatamente il senso di marcia. Ancora una volta si mise nella corsia più a destra e sempre in prima pian piano iniziò il lungo viaggio verso casa.

Peccato che la corsia di destra, per lei in contromano, fosse in realtà la corsia di sinistra e di sorpasso della Milano-Laghi! Percorse quei due chilometri scarsi che la separavano dall’uscita autostradale per il Lago Maggiore, nel frattempo circa cinquanta telefonate di automobilisti inferociti e impauriti arrivavano alla stazione dei Carabinieri di Vergiate. Lei vede tante luci nel buio che le venivano incontro, le passavano vicinissimo, suonano il clacson.

Vedeva auto frenare pericolosamente davanti a lei che procedeva lemme lemme, senza luci e sempre in prima. Arriva all’uscita (che è l’entrata) ì ancora una volta a centrare lo spazio del casello e si fermò davanti ad un pallido casellante, con l’auto dei Carabinieri in frenata alle spalle.

Due anni fa andai al lago a trovare i miei genitori, accompagnai mia mamma a fare la spesa, cosa che non facevo da troppi anni. Lungo il percorso ci fermammo a comprare verdure e frutta. Il negozio aveva una insegna in color oro su fondo nero: ‘Castiglioni Verzura’.

La gentile Evelina, elegantissima con il suo abito da Fata Morgana e i suoi occhiali da microscopio elettronico ci servì con cortesia ed allegria. Quando, prima di uscire le chiesi se si era divertita quel giorno famoso a Vergiate mi rispose: ‘L’è stà el dì pussè bel de la mia vida!’.

Il barista del paese, Eusebio Scannagatti, commentò il fatto dicendo: ‘L’era ura!’. Evelina ancor’oggi vende barbabietole, cipolle, fiori di zucca e clementini, sempre elegante e sorridente.

n.D.A.

tutti i nomi e cognomi sono inventati.

La storia è invece realmente accaduta.

AIGOR


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