Into the wild, di Luca e Aga
In questo periodo siamo ospiti presso una chiassosa cittadina, Raidighi, a 7 Km dal villaggio di Dukerphol e dall’ospedalino in cui prestiamo servizio. Raidighi, sebbene molto piccola, rappresenta il centro commerciale dell’area: vi è un bancomat, un computer con collegamento ad Internet (da cui vi stiamo scrivendo), un discreto bazar, un hotel, alcuni negozietti ed un porticciolo, dove ogni giorno una decina di battelli scaricano pesce fresco. Qui, inoltre, la maggior parte delle abitazioni è costruita in mattoni, e non in paglia e fango come nei villaggi circostanti, e l’elettricità è presente in molte case, sebbene a singhiozzo.
Tutt’altro scenario avvolge il viaggiatore non appena si lascia alle spalle le rumorose viette di Raidighi; l’ambiente riacquista il suo fascino primordiale, quasi primitivo. Le costruzioni in fango, come camaleonti, si mimetizzano tra gli alberi e le distese di risaie si rincorrono sino all’orizzonte. Il tutto è abbracciato da una fitta vegetazione la quale, come una cornice, racchiude questi luoghi che sembrano appartenere ad un’epoca lontana, da noi ormai presente solamente sui libri di scuola. E’ stupendo camminare per le stradine sconnesse attraverso i vari villaggi e farsi rapire dalla bellezza del paesaggio circostante. Si prova anche una certa invidia nell’osservare come la gente del posto viva a così stretto contatto con la natura mentre noi, troppo cittadini, non riusciamo a goderci appieno il mondo vero, reale, non quello asettico ed artificiale in cui siamo cresciuti. Troppe cose ci ripugnano o ci spaventano, come ragni e scarafaggi giganteschi, per poterci lasciar andare completamente. Mette di buon umore guardare i bambini giocare a calcio nel fango, utilizzare gli stagni come piscine e rincorrersi a piedi nudi tra le risaie. Che differenza rispetto al nostro paese, dove i bambini vengono tenuti sotto strettissima sorveglianza per timore che si possano far male, sudare troppo o, peggio, sporcare gli abiti appena lavati. I nostri mondi sono più lontani di ciò che i molti chilometri che li separano possano far immaginare.
La semplicità della gente locale è strabiliante. Sono persone genuine, sicuramente le più gentili che abbiamo mai incontrato in vita nostra. Questa semplicità si riflette anche nel loro stile di vita e nei loro comportamenti, molto più naturali rispetto ai nostri. Per esempio, non c’è niente di male ad infilarsi le dita nel naso mentre si parla con qualcuno, a masticare a bocca aperta, a ruttare sonoramente appena finito di mangiare…immagino sia quindi superfluo spiegarvi il motivo per cui uno dei dottori dell’ospedale è stato da noi soprannominato “Dottor Scoreggia”, giusto??? 🙂
La maggior parte della popolazione è analfabeta, non ha accesso a nessun canale di comunicazione ed il loro intero mondo termina poco oltre i confini del villaggio. Per molti di essi, sicuramente per i più piccoli, noi siamo i primi stranieri con cui entrano in contatto e le reazioni sono le più svariate: bambini che scoppiano a piangere disperati come se avessero visto il demonio; altri che rimangono pietrificati a bocca aperta, scrutandoci a fondo per comprendere chi o cosa siamo; i più coraggiosi ci sorridono e magari si avvicinano un pò. Gli adulti, invece, ci osservano e cercano di scambiare qualche parola con noi ma, sfortunatamente, la lingua rappresenta una barriera insormontabile. Sono pochissimi coloro che conoscono qualche parola d’inglese e le mille domande nella nostra testa rimangono lì intrappolate, senza nessuna risposta. Ed è un vero peccato perchè la voglia di comunicare e conoscere a fondo la cultura di questa gente è fortissima, e cresce ogni giorno di più. Anche aiutarsi con i gesti non ha dato buoni risultati; non vi è alcuna somiglianza tra il nostro linguaggio del corpo ed il loro, si ottengono solamente un’infinità di fraintendimenti. Nonostante questi piccoli problemini siamo riusciti a trascorrere molto tempo in compagnia della popolazione locale, soprattutto grazie alla loro infinita ospitalità e gentilezza che, più volte, ci è sembrata oltremodo eccessiva; come quando ci fanno aria con il ventaglio, non appena sospettano possa far troppo caldo per noi, oppure quando ci cedono i posti sulle uniche due sedie disponibili, mentre tutti gli altri sono seduti per terra, anche persone molto anziane. E guai a rifiutarsi, non è possibile dire di no; un pò come quando la nonna ti riempie il piatto di pasta per la terza volta nonostante, con tono supplichevole, le dica di essere prossimo all’esplosione e lei, di tutta risposta e con l’aria affranta: “Meeee e dai, non ti piace allora?”, e giù un’altra mestolata!!! (Chi di voi ha la nonna meridionale sa bene di cosa stia parlando…).
Il massimo, credo, si sia raggiunto al matrimonio a cui abbiamo preso parte, come ospiti d’onore, il secondo giorno dopo il nostro arrivo al villaggio. Al termine della giornata di lavoro all’ospedale, ci siamo spostati a casa della sposa, una capanna di fango in cui vivono una decina di persone e dove, inoltre, vi è una stanza adibita a stalla per le 3 caprette e l’unica mucca. Siamo stati accolti come dei re, tra la sorpresa e l’eccitazione generale degli ospiti. Ci hanno fatto accomodare sulle uniche due sedie in plastica e ci hanno letteralmente circondato, osservandoci a brevissima distanza, ponendoci mille domande incomprensibili e stringendoci continuamente la mano. Dopo qualche minuto hanno iniziato a truccarci ed Aga è stata avvolta in un bellissimo abito tradizionale indiano, il sari, di proprietà della zia della sposa. Gli unici truccati eravamo noi e gli sposi…come se non catalizzassimo già abbastanza l’attenzione! Abbiamo scattato centinaia di foto, praticamente con ognuno degli invitati che, essendo privi di macchina fotografica, si accontentavano di farsi fotografare con la nostra, osservarsi per qualche secondo nel piccolo schermo digitale, e sapere che avremmo portato quell’immagine a casa con noi. Poco prima di cenare ci ha raggiunto lo zio dello sposo il quale, con aria molto formale e severa, ci ha rivolto un saluto e ci ha posto qualche domanda in un inglese stentato, per poi tirare fuori un bottiglione da 2 litri di Sprite, tenuto nascosto chissà dove. Si è fatto portare due bicchieri di vetro e ha versato la bibita, solamente a noi due. Ringraziando, leggermente imbarazzati, abbiamo iniziato a sorseggiare la bibita, sotto il suo sguardo attento e quello invece più famelico di una decina di bambini, troppo ben educati per osare chiederne anche solo un goccio. Una volta terminato il bicchiere, con una rapidità insospettabile per un omone così grande e grosso, ha provveduto a riempirli nuovamente sino all’orlo. Non avevamo idea di come comportarci, eravamo gli unici seduti su delle sedie, con un bicchiere, a bere Sprite, mentre tutti gli altri ospiti erano in piedi o per terra, bevevano dalla bottiglia, ma senza toccarla con le labbra, e dovevano accontentarsi di semplice acqua. Fortunatamente è giunto il momento della cena a toglierci dall’imbarazzo e a salvarci da un altro litro di Sprite. Giusto qualche minuto per accomodarci ognuno al proprio posto, e parenti ed amici degli sposi hanno iniziato a servire il cibo: riso, patate preparate in vario modo, pesce, pollo e sfoglie di pane, tutto nello stesso piatto. Per chi non lo sapesse, in India si mangia con le mani, solamente con la destra però, perchè la mano sinistra è adibita all’igiene personale e, vi ricordo, in India non esiste la carta igienica…vabbè tralasciamo l’argomento. Tanto sta che, appena abbiamo toccato il cibo, io ed Aga, con le nostre manine da cittadini nullafacenti, ci siamo scottati e le abbiamo ritratte rapidamente. Non lo avessimo mai fatto. Il padre della sposa ha subito cacciato qualche strillo e, magicamente, si sono materializzati al nostro fianco due anziani signori dotati di ventaglio per fare aria sui nostri piatti, oltretutto scusandosi più volte per non averci pensato prima….Non vi dico l’imbarazzo. Non c’è stato modo di farli smettere.
Prendere parte al matrimonio è stata un’esperienza unica, estremamente interessante. Il modo in cui si celebrano i matrimoni, ma credo un pò tutti i festeggiamenti in generale, comunica molto riguardo i costumi di un popolo e varia da paese a paese. Qui, per esempio, sono molto diversi da quanto avviene in Italia. Il matrimonio rappresenta un momento di festa che coinvolge tutti gli abitanti del villaggio. La componente religiosa sicuramente la fa da padrona; si trascorre molto tempo a pregare ed i rituali propiziatori per i novelli sposi si susseguono l’uno dopo l’altro. Inoltre, in India, e nelle zone rurali in modo particolare, la gran parte dei matrimoni vengono concordati dai genitori, spesso attraverso l’opera di un mediatore che mette in contatto le varie famiglie con figli in età da matrimonio (se non studiano, di norma 20/22 anni per lui e 18 per lei, in caso contrario appena terminati gli studi). Gli sposi, quindi, non si conoscono affatto e incroceranno lo sguardo con la persona con cui condivideranno il resto della loro vita solamente il giorno delle nozze. I festeggiamenti a cui abbiamo preso parte celebravano l’unione di due ragazzi provenienti da famiglie estremamente povere, per questa ragione, e anche perchè gli invitati erano circa 300, la cena e buona parte dei festeggiamenti si sono tenuti all’interno della struttura dell’ospedalino, che funge anche come sorta di centro culturale e punto di ritrovo per gli abitanti dell’area.
Il primo giorno di lavoro all’ospedale è stato devastante, sia fisicamente che mentalmente. Sincero mea culpa però, in quanto noi, nel nostro perfetto mondo immaginario, pensavamo di venir qui ad intrattenere e giocare con i bambini, pesare i neonati e seguire il progetto nelle scuole avviato dall’associazione. Col cavolo! Non appena arrivati all’ospedale ci hanno subito assegnato le nostre mansioni: io mi sarei occupato di fare massaggi e riabilitazione a persone con difficoltà motorie, mentre Aga si sarebbe occupata delle iniezioni. Bene così, anche perchè io ho una fobia assurda degli aghi, già solo alla semplice vista di un ago accuso giramenti di testa. E’ sempre stato così, non posso farci nulla. Sono un fifone, va bene?!? I pazienti quel giorno erano tantissimi, sembrava non finissero mai, e poi quanti bambini, impressionante!! In verità abbiamo successivamente scoperto che solamente 2 giorni a settimana sono così intensi, il giovedì e la domenica, in quanto l’ospedalino fornisce assistenza anche a pazienti provenienti da altre località che giungono numerosi in quanto, dietro un compenso simbolico (solitamente 20 centesimi di euro), l’ospedale del S.A.R.A. Project offre assistenza medica e distribuisce i medicinali necessari, per i più poveri il servizio è gratuito, mentre negli ospedali governativi i dottori forniscono solamente una rapida e sommaria visita medica e le ricette per i medicinali che, però, la maggior parte della gente non ha i soldi per acquistare.
Come se l’impatto con la realtà di cui avremmo fatto parte per il prossimo mese a venire non fosse stata sufficientemente pesante, tra pazienti semi paralizzati, ferite da disinfettare e ricucire, denti da asportare e centinaia di iniezioni da somministrare, tornando a casa abbiamo anche trovato il cadavere di un giovane ragazzo, che poteva essere intorno ai 25 anni, sdraiato a pancia all’aria in una pozzanghera, a gambe aperte e con il viso ricoperto da centinaia di mosche…La gente non sembrava molto turbata dalla situazione, forse pensavano stesse dormendo; in India non è raro incontrare gente sdraiata per strada, o nei posti più impensabili, che schiaccia un pisolino. Noi però, non essendo così abituati, ci siamo avvicinati al corpo del povero ragazzo, attirando l’attenzione degli altri passanti sul corpo ormai esanime. All’arrivo della polizia ci siamo allontanati e siamo tornati alla nostra guest house, con miliardi di pensieri nella testa e una gran stanchezza da smaltire.
I giorni successivi sono stati decisamente più semplici e ci hanno dato modo di conoscere a fondo il progetto e tutte le numerose iniziative che la Onlus S.A.R.A Project porta avanti ormai da oltre 10 anni (con l’occasione vi invitiamo a dare un’occhiata al loro sito Internet, in modo particolare alle numerose persone che ci hanno richiesto maggiori informazioni sulle Onlus in cui lavoreremo durante il nostro viaggio: www.saraproject.org. Il sito deve essere riaggiornato ma i contatti e tutte le attività illustrate sono tutt’ora attivi). Oltre al progetto sanitario, sono attivi importanti programmi informativi rivolti alle giovani mamme sui comportamenti corretti da tenere in gravidanza e nei primi anni di vita del bambino; programmi rivolti ai bambini delle scuole per insegnare loro le basilari regole igieniche, molto carenti in India e nelle aree rurali in modo particolare; un fitto programma di doposcuola che propone corsi di musica, recitazione, yoga e altre numerose attività culturali e formative; adozione a distanza per permettere ai bambini poveri dell’area di frequentare la scuola (chequi è visto come un privilegio, non come una tortura); fondamentale è anche l’installazione di numerose pompe per l’aspirazione di acqua pulita e potabile dal sottosuolo, di modo che la gente smetta di utilizzare le acque sporche degli stagni, dove finiscono anche gli scarichi delle abitazioni.
Il mese che sta volgendo al termine è stato stupendo. Questa gente, pur non essendone al corrente, ci ha dato tantissimo. Non vorrei apparire scontato e banale ma è sicuramente stata una delle esperienze più intense, emozionanti e formative della nostra vita. Entrare a far parte attivamente di una comunità così diversa dalla nostra, adattandosi al suo stile di vita, assumendone i ritmi, tastandone in certa misura le problematiche ma anche i pregi, ci ha offerto la possibilità di scoprire la vera natura e la sincera ospitalità del popolo indiano, in un modo che per un semplice turista non sarebbe stato possibile, e di conoscere più a fondo noi stessi, scoprire alcuni limiti e superarne degli altri, rivedere alcune opinioni sulla vita e sul mondo e modificare la nostra scala di valori. Se ritenete che tutto ciò possa essere un pò eccessivo in un arco di tempo così breve, sappiate che il tempo per riflettere non manca affatto. Non che le cose da fare scarseggino, anzi, ma senza distrazioni come radio, televisione e la miriade di altri piccoli e grandi impegni che, a casa nostra, ci impediscono di trovare un pò di tempo per stare soli con noi stessi, sommato alla bellezza e tranquillità dei paesaggi che caratterizzano l’area, diventa facile perdersi in mille pensieri.
Un grazie di cuore alla Onlus S.A.R.A. Project, a tutto lo staff dell’ospedale e a tutti gli abitanti di Raidighi e Dukerpol.