Natale alla napoletana

Un carosello di sapori: star della giornata O'Capitone, a seguire le delizie partenopee...
Martino_Ragusa, 21 Dic 2010
natale alla napoletana
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A Natale, Napoli si veste a festa per tempo. Già l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, le stradine del centro storico cominciano a brillare di luminarie e a profumare dei cibi di strada che in questo periodo diventano il lungo, delizioso antipasto del pranzo Natalizio a disposizione di tutti i napoletani e dei turisti. Come dire che per godersi bene la festa, conviene anticipare la visita di qualche giorno. Solo così si può partecipare a quel lungo, informale e squisito banchetto che si imbandisce tutti i giorni per strada, ma che per Natale raggiunge livelli entusiasmanti per l’abbondanza, la varietà, la freschezza delle specialità (ora preparate a rotazione continua) e, naturalmente, l’atmosfera.

L’antivigilia si va per mercati

Se girando tra un mercatino e l’altro vi inoltrerete nei Quartieri Spagnoli, vedrete fumare grossi calderoni dall’aspetto quasi infernale. Dentro, sono tenuti in caldo i polpi da mangiare all’istante, con una spruzzata di limone. Chi ha coraggio sufficiente può anche bere una tazza di brodo di polpo, terribile a vedersi ma dal sapore inaspettatamente buono. Percorrendo via Pignasecca, tra le tante botteghe ne vedrete alcune adornate con vistose ghirlande di limoni di Sorrento, non vendono limonate come si potrebbe credere, ma ‘o pere e ‘o musso piedi e muso di maiale bolliti da mangiare freddi, con sale, pepe e abbondante succo di limone, ecco il perché delle ghirlande. Ai Quartieri Spagnoli e a Spaccanapoli le rosticcerie, i bar e le friggitorie invadono la strada con banchi colmi di leccornie irresistibili: pizze fritte condite con salsa di pomodoro, parmigiano e basilico, i rustici di pasta sfoglia ripieni di prosciutto e mozzarella, friarielli (broccoletti) saltati, timballi di pasta. E poi crocchette di patate, di riso e di pasta, frittate di spaghetti, taralli “sugna e pepe”, zeppole, sfogliatelle, babà. Insomma, c’è di che onorare gli ultimi giorni dell’Avvento.

La Vigilia con il Capitone

La cena della Vigilia è detta “di magro” solo perché esclude carni e latticini, non certo per il numero e la consistenza delle portate, perciò è prudente arrivarci piuttosto leggeri. Perciò la tradizione, avveduta come sempre, per il pasto di mezzogiorno del 24 propone la pizza di scarole, una pizza coperta di pasta di pane ripiena di indivia riccia, olive nere di Gaeta, acciughe sotto sale, capperi e uva passa. Il cenone è composto di piatti rituali, obbligati e immancabili. Prepararli e gustarli uno per uno non è gola, è devozione. Si comincia con i vermicielli ‘a vongole in una delle due versioni, in bianco o con l’aggiunta di qualche pomodorino del piennolo (pomodorini da serbo) schiattato, cioè schiacciato. Sembra cosa da poco, ma nelle case si arriva a preparare due condimenti diversi per accontentare i seguaci i seguaci dei due partiti, quelli del vermicello bianco e quelli del rosato spesso presenti nella stessa famiglia. A volte c’è anche il terzo partito del sugo rosso e in quel caso le pentole possono diventare anche tre. Nei ristoranti si dovrà e seguire il partito del cuoco…

La superstar della serata, in ogni caso, è ‘o Capitone, la grossa anguilla che spesso ha nuotato per qualche giorno nella vasca da bagno di casa in attesa dell’ora fatale. “Può concepirsi mai una Vigilia di Natale senza l’odore dell’anguilla fritta con le foglioline di alloro?” scrive Mario Stefanile grande studioso di napoletanità in “Partenope in cucina”. E insegna pure come sceglierla: “L’anguilla deve essere di buona taglia – un chilogrammo ciascuna, la testa grossa e puntuta da giustificare l’appellativo, malizioso di “capitone”, di pelle così scura da rasentare il nero sul dorso e con bianco verdastra luminescenza nel ventre. Mezza di lago costiera e mezza di mare, viscida ma non limacciosa, e viva da farsi inseguire per tutta la cucina prima d’essere afferrata, decapitata e ridotta in più pezzi divincolanti.”. Il capitone, dunque, non è altro che una grossa anguilla che assume questo nome quando la testa, caput in latino, raggiunge le dimensioni di un capoccione, o capitone appunto. Fortemente connotata dal punto di vista simbolico, l’anguilla incarna il serpente demoniaco, quello schiacciato dal piede dell’Immacolata, esorcizzato con il sacrificio e il successivo pasto purificatorio. Ma come cucinarla? A questa domanda risponde lo scrittore Giuseppe Marotta: “milioni di padelle e di graticole aspettano il capitone e nessuno per il momento pensa ad altro: qui è veramente e solamente Natale”. Dunque va fritta o arrostita preferibilmente sulla brace e sempre profumata dalle foglie di alloro. Ma è anche cotta in umido in un intingolo di cipolla, pomodoro e patate. Come piatto in più, non come alternativa.

Altro must è il baccalà, infarinato e fritto e/o nella versione “zeppulelle ‘e baccalà”, filetti di baccalà avvolti in una ricca pastella fatta con farina, latte, olio, vino, uova, pinoli e uvetta. Facoltativa sulla tavola la presenza dell’insalata di polpi, della spigola all’acqua pazza e del cefalo bollito, mentre non mancano mai i broccoli baresi lessati all’olio e limone e soprattutto l’insalata di rinforzo, fatta con cavolfiore bollito, indivia riccia, acciughe dissalate, olive bianche e nere di Gaeta, cetriolini sott’aceto e capperi. Il tocco di classe è dato dalle “papaccelle riccie” sott’aceto, piccoli peperoni carnosi tondi e costoluti apprezzati soprattutto per la loro dolcezza e piuttosto rari fuori Napoli. L’insalata viene preparata la sera di Natale e fatta durare fino all’Epifania aggiungendo qualche ingrediente ogni giorno. Alcuni ritengono che il suo nome potrebbe derivare da questo “rinforzo” quotidiano. Più verosimile l’ipotesi che il nome derivi dalla sua funzione di rinforzo della “cena di magro”.

I dolci sono rituali quanto i piatti, e si preparano già nelle settimane precedenti il Natale assieme al presepe. Anzitutto gli struffoli, sono forse il dolce più antico arrivato ai giorni nostri con la sua ricetta originale. Il nome deriva dal termine greco “strongoulos”, tondeggiante, come le piccole palline che lo compongono. I piccoli bignè privi di lievito e perciò croccanti dopo la frittura, sono ricavati da una pasta fatta con farina, uova, burro e zucchero. Hanno un diametro massimo di un centimetro e sono fritti nell’olio o nello strutto. Poi vengono compattati a formare una ciambella poi ricoperta di miele, aromatizzata con scorze fresche d’arancia e di limone, arricchita di dadini di “cucuzzata” (zucca candita), arancia e cedro canditi. Come ultimo, immancabile tocco, una spruzzata di “diavolilli”, i confettini di tanti colori. I susamielli sono biscotti a forma di “S” preparati con farina, zucchero, mandorle e miele e aromatizzati con cannella, pepe, noce moscata. Le sapienze sono una variante di forma ellittica preparate dalle clarisse nel convento di Santa Maria della Sapienza a Sorrento. I roccocò chiudono il pranzo dell’Immacolata e rimangono sulle tavole napoletane fino al nuovo anno. Sono piccole ciambelle del diametro di 10 cm fatte con mandorle, farina, zucchero, canditi e spezie. Sono piuttosto duri e perciò si usa intingerli nel vino che può essere marsala, vermouth, spumante o anche un bianco secco. Morbidissimi, invece, sono i raffiuoli, con un impasto simile al pan di Spagna e ricoperti da una candida glassa di zucchero che contrasta con il colore dei mostaccioli, a base di mosto e ricoperti di cioccolato.

Il pranzo di Natale tra sartù, arrosti e fritti

Apre il pranzo il brodo di gallina o la menestella ‘e Natale, una versione alleggerita della più consistente “menesta maretata” rituale del giorno di Santo Stefano e che conosceremo a breve. Il piatto forte può essere il sartú, un timballo di riso farcito con un ragù fatto con rigaglie di pollo, polpettine di manzo, grasso di prosciutto, salsiccia e piselli, oppure il timballo di maccheroni, imbottito con un ripieno simile. O ancora gli ziti con il famoso ragù napoletano celebrato da Eduardo De Filippo nella commedia “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il secondo dipende dal primo: se è stato servito il brodo di gallina sarà portata a tavola la gallina lessa. Se ci sono stati gli ziti con il ragù, le carni che sono servite a prepararlo e cioè il lacerto (magatello), o la noce di manzo, le tracchiolelle (costine di maiale) e le cervellatine (salsicce). In ogni caso ci saranno le polpette fritte e ripassate nel sugo di pomodoro, le braciole (involtini) al sugo, gli eventuali avanzi di baccalà e capitone, l’insalata di rinforzo, i dolci della vigilia e come frutta arance, mandarini, uva e melone di pane (melone raccolto in agosto e tenuto appeso fino a Natale).

A Santo Stefano la minestra spagnola

Per Santo Stefano è consuetudine preparare la menesta maretata (minestra maritata) o pignato grasso. Questa antica minestra discende da una preparazione spagnola, l’olla podrida, già descritta nel XIII secolo. La stessa che, per altre vie, ha dato origine anche alla casseoula lombarda. In entrambi i casi si tratta di verdure miste a carne, con la differenza che mentre la casseoula è diventata un umido, la menesta ‘maretata è rimasta una zuppa, dunque più liquida. Inoltre la specialità napoletana prevede la partecipazione della gallina e del manzo oltre al maiale e più tipi di verdure accanto alla verza: scarulelle (piccole scarole), borragine, cardoncelli, spinaci, cicoriette selvatiche, cime di rapa e cicoria catalogna. A queste vengono aggiunte costine di maiale, salsicce, carne di maiale, di manzo, gallina e ossi di prosciutto. La minestra va arricchita con pane abbrustolito, ma le versioni più fedeli alla tradizione antica usano ancora gli scagliuozzi, frittelle fatte con farina di mais. Dopo questo pranzo fatto di una sola minestra “per rinfrescare lo stomaco” e degli avanzi dei giorni precedenti, rimane meno di una settimana per rimettersi in sesto prima di affrontare un cenone di Capodanno altrettanto impegnativo.



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