L’Irlanda è verde davvero
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Una bella canzone
Per scrivere “Il cielo d’Irlanda”, la canzone resa famosa da Fiorella Mannoia, l’autore Massimo Bubola deve esserci stato davvero in Irlanda, perché nel testo c’è praticamente tutto, ed è tutto vero:
Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce / Il cielo d’Irlanda è un tappeto che corre veloce / Ti copre di verde e ti annega di blu / Il cielo d’Irlanda si sfama di muschio e di lana / Il cielo d’Irlanda è un gregge che pascola in cielo / Dal Donegal alle isole Aran / E da Dublino fino al Connemara / Dovunque tu stia viaggiando con zingari o re / Il cielo d’Irlanda si muove con te / Il cielo d’Irlanda è dentro di te / Il cielo d’Irlanda è un enorme cappello di pioggia / Il cielo d’Irlanda a volte fa il mondo in bianco e nero / Ma dopo un momento i colori li fa brillare più del vero / Il cielo d’Irlanda è Dio che suona la fisarmonica / Si apre e si chiude con il ritmo della musica.
Ricapitolando: il cielo, la pioggia. Poi i colori: in effetti la terra è verde, il mare non è tanto blu, piuttosto grigio, ma fa niente. Verissimo il muschio e vere le greggi, e la lana. Anche io ho visto Dublino, e il Commemara, che è un gran posto. Ed è anche vero che l’Irlanda è un posto speciale per la musica (e per i musicisti), ma anche per la letteratura.
Dublino
Io ho preso il volo da Roma, ma ce ne sono anche da Milano. E, come è ovvio, sono arrivato a Dublino. Non sono poetico come Bubola, ma se dovessi paragonare Dublino ad una donna, direi che non si tratta di una tipa appariscente che ti seduce e affascina a prima vista: ad una prima occhiata appare piccola e graziosa, niente di più. I suoi monumenti (ad esempio St. Patrick’s Cathedral) vestono una grisaglia un po’ cupa e il suo fiume (il Liffey) non è esattamente un nastro d’argento. Poi ci sono le numerose testimonianze di archeologia industriale, molto interessanti ma sempre molto austere (vedi la distilleria della Guinness, in fondo a Thomas Street). Le casette in mattoni, tipicamente anglosassoni, non mancano. Ma in realtà Dublino è una tipa molto interessante, ed è piena di doti, seminascoste… Innanzitutto i suoi numerosi ponti. Forse il più famoso è l’O’Connel Bridge, che porta a O’Connel strett, la strada dei negozi e del passeggio. Ma io ho visto per primo il Ponte moderno pedonale fatto dall’architetto Calatrava, anche perché lì vicino ci sono due cose molto interessanti: il Veliero-Museo Jeanie Johnston e il Monumento Famine Memorial. Raccontano entrambi di un periodo storico molto significativo per l’Irlanda…
La grande carestia della patata
È stato un inglese a portarla dall’America, mi pare alla fine del 1600, ed è stata per l’Irlanda fonte di ricchezza e di prosperità: mi riferisco alla patata, che ha sfamato le classi povere per decenni. Ma verso la metà dell’800 è arrivata la peronospora, un fungo, che ha ammalato le patate. È scoppiata una carestia che ha fatto più di mezzo milione di morti. In realtà già allora l’Irlanda era un paese ricco di derrate alimentari (bovini, ovini e poi cereali) che esportava in tutto il mondo, ma i latifondisti (cattolici) e gli occupanti (Inglesi) se le sono tenute per sé e per i propri commerci. E a quel punto, per fame, gli Irlandesi poveri dovettero emigrare in America. Ne partirono due milioni a bordo di navi-bara, come la Jeanie Johston, dove morivano spesso lungo il viaggio (questa nave in particolare in realtà aveva un medico a bordo, quindi li ha salvati tutti). La nave è ormeggiata lungo il fiume ed è appunto un Museo, mentre il monumento (creato da emigrati irlandesi in Canada) rappresenta le figure spettrali degli affamati. Tutto questo è suggestivo e interessante, perché contiene vari spunti: la vocazione agricola dell’Irlanda e le sue contraddizioni socio-politiche. A cominciare dalla lunga dominazione inglese, per finire alle sue crisi economiche anche recenti.
Una storia tormentata
La storia d’Irlanda non è mai stata facile. Fin dal 1200 sono arrivati gli Inglesi, e l’hanno considerata una Colonia. Le rivalità religiose successive sono una conseguenza di quelle politiche: dalla fine del 1600 i contadini cattolici irlandesi non potevano possedere cavalli, non potevano acquisire terra ed erano vietati i matrimoni misti, tra cattolici e protestanti. Nel 1916 ci fu una prima grande insurrezione, ma solo nel 1949 c’è stata l’indipendenza dell’Irlanda, anche se – come è noto – in Irlanda del Nord, restata sotto il dominio inglese, i conflitti sono stati lunghi, sanguinosi e non ancora del tutto risolti. Dopodichè l’Irlanda ha avuto recentemente alti e bassi da un punto di vista economico. Attorno al 1990 ha avuto un boom economico, con un PIL che è arrivato al 10%, però a caro prezzo: tasse basse, ma contrazione della spesa pubblica e salari ridotti. Morale: nel 2004 è scoppiata un’altra crisi molto grave, dovuta ad una bolla immobiliare, con conseguente crisi delle banche e crisi sociale. Adesso pare che l’Irlanda sia ripartita alla grande, tornando ad essere appunto la famosa “Tigre Celtica”, che si nutre di carne e di latte. O, meglio, più che nutrirsi lei, esporta carne e latte. Esporta cioè i prodotti delle sue industrie, che sono soprattutto alimentari. In Irlanda ci sono 7 milioni di bovini, 5 milioni di ovini (e circa 4 milioni di umani). Ed esporta il 90% della propria produzione agro-alimentare. Tanto per rendersi conto: esporta 500.000 tonnellate di carne, in 60 Paesi, per un valore di 250 milioni di euro. Una quantità che potrebbe sfamare 30 milioni di persone… Altro che carestia. Ma come mai? Grazie a che cosa?
Il clima
Per capire meglio devo fare un salto temporale, riguardo al mio viaggio. Dopo Dublino infatti mi sono spostato verso ovest, verso Galway e nella Contea di Clare. Lungo la famosa Wild Atlantic Way, la lunghissima strada panoramica che costeggia l’Oceano, lunga 2500 chilometri, che parte da Londonderry a nord e arriva giù fino a Mized Head, piena di deviazioni, spiagge, promontori, lungo lande (apparentemente) desolate. Qui sono stato a vedere, dal mare e da terra, le Cliffs of Moher, le scogliere di Moher. Che assomigliano alle bianche scogliere di Dover, solo che non sono bianche, ma a strati grigi. Sono altissime, molto suggestive, poolate da un sacco di specie diverse di uccelli. Dal mare sono imponenti, da sopra sono vertiginose e… pericolose. Ma raccontano benissimo il clima dell’Irlanda, e di conseguenza la sua vocazione economica. Si tratta infatti di uno zoccolo calcareo, uno strato di arenaria, argilla e limo che si è formato 320 milioni di anni fa. Questo strato roccioso, che sta sotto la terra irlandese, è permeabile, cioè lascia filtrare l’acqua che non ristagna. E viceversa trattiene il calore. Dopodiché in questa costa occidentale arriva dal Golfo del Messico attraverso l’Atlantico la Corrente del Golfo, piuttosto tiepida. Infatti d’inverno l’Irlanda non scende quasi mai sotto i 4-5 gradi e d’estate non supera i 20-25. E l’aria umida provoca moltissime piogge. Molta acqua, su un terreno drenante che non la trattiene quindi evita che marcisca, con un clima mite tutto l’anno: ecco il segreto dei pascoli perenni e spontanei dell’Irlanda, ecco perché l’Irlanda è davvero verde, ecco perché 7 milioni di bovini, ecco perché un’economia e una tradizione agricola…
Il Burren
Da cosa deriverà il nome “Burren”? Dal fatto che ci sono molti burroni o che si produce molto burro? Per puro caso, in un certo senso ci abbiamo azzeccato. Il Burren è una zona apparentemente desolata, piena di rocce spezzate che creano crepacci e fessure, molto suggestiva. Qui ho incontrato Brennan Dunfort, un amante della natura, funzionario dell’amministrazione pubblica, che mi ha fatto vedere quante specie di fiori, di muschi e quanta flora ci sia tra una roccia e l’altra. Il Burren è una zona naturalistica interessantissima, che è preservata grazie… alle vacche. Infatti tra una roccia e l’altra, grazie al clima, ci sono vaste zone di pascolo. Nella conservazione del territorio l’Irlanda è molto attenta: esiste un Progetto detto Burren Life, creato appunto per la conservazione naturale di flora/fauna/paesaggio, che prevede incentivi agli agricoltori perché restino su questa terra difficile. E sono proprio le vacche, allevate allo stato semi-brado, che con le loro deiezioni, la loro “pulizia” dell’erba e i loro zoccoli tengono il terreno. Le vacche da carne e da latte in Irlanda hanno una lunga storia: si parte da alcune razze autoctone antiche (tipo Irish Moliled, Kerry nere, Short Horn pezzate ecc), poi si è passati a vacche “straniere” come le Hereford, le Limousine o le Angus, per arrivare oggi a degli incroci che fanno invidia a tutto il mondo. Io – che ero in Irlanda per fare un servizio per Linea Verde, quindi interessato al territorio e all’agricoltura – ho conosciuto alcune famiglie di allevatori, che producono appunto carne e latte. Anche loro, come i nostri, risentono della crisi. Ma li aiuta il clima: l’erba cresce spontaneamente, le bestie stanno da sole al pascolo, le spese quindi sono minori. E il paesaggio ne guadagna: la verde Irlanda, con i muretti a secco che suddividono pascoli verdissimi, sotto un cielo in perenne movimento, esiste davvero, proprio come nella canzone.
Ostriche, cozze e salmoni
I pascoli del Burren crescono appunto spontanei, hanno bisogno di pochissimi concimi e devono essere per forza puliti, perché arrivano direttamente al mare. E dentro al mare è pieno di allevamenti di cozze e di ostriche, biologiche. Nonché di allevamenti di salmoni, anche loro in gran parte biologici. Gli Irlandesi coltivano il mare, oltre alla terra. E allevano appunto salmoni e mitili. Ma come è possibile definire “biologici” degli allevamenti in mare? La risposta è innanzitutto nel gioco di correnti oceaniche e nelle maree (anche di diversi metri) che muovono e puliscono l’acqua. Poi nel fatto che per chilometri e chilometri non ci sono industrie, e gli insediamenti umani sono pochi e con pochi abitanti. Anche gli allevamenti bovini, essendo a stabulazione libera (cioè al pascolo) non creano problemi di deiezioni animali. Per cui il mare è pulito. Dopodiché sia le cozze che le ostriche che i salmoni sono pochi, allevati non in modo intensivo. In generale, tanto per avere un’idea, l’Irlanda produce tanti salmoni all’anno quanti la Norvegia in un giorno. Ma non basta: vengono selezionati i “semi” di cozze e ostriche e anche gli avannotti dei salmoni. Le reti per gli allevamenti di cozze sono fatte di cotone naturale biodegradabile, il mangime dei salmoni è naturale e controllato ecc. ecc. Il tutto con una grande attenzione alla produzione limitata di Co2 (a questo proposito l’Irlanda ha lanciato un programma di sostenibilità ambientale che si chiama Origin Green). I salmoni sono allevati in recinti enormi e poco popolati (2 esemplari ogni 1.000 litri di acqua), per cui si dice che riescano a nuotare come quelli selvaggi (tipo 13.000 chilometri nell’arco della loro vita). Il loro ciclo vitale dura 18 mesi. Morale: il salmone è il piatto forte (assieme alla carne, ovviamente) e cozze e ostriche sono buonissime, sia quelle d’allevamento che quelle “selvagge” (e sicurissime: ne ho mangiato tonnellate e sono sopravvissuto).
Il Connemara
“Vita amara in Connemara!”. No, non è un proverbio locale, l’ho pensato io quando ho visto il territorio lunare, semi-desertico del Connemara, un’altra regione dell’Irlanda dell’ovest. Eppure è un paesaggio estremamente suggestivo, con questa sorta di tundra-steppa, spazzata dal vento, animata solo da qualche pecora (con la lana colorata, per riconoscerne il padrone), che si perde nel mare che disegna una costa che – in alcuni punti – non ha niente da invidiare ai fiordi norvegesi. E qui c’è la torba, che per secoli è stata il petrolio dell’Irlanda. Si tratta di uno strato di vegetazione, pressata e conservata nei secoli in ambiente umido. Ne viene fuori una specie di humus, di carbone vegetale fossile che, seccato, rappresenta un combustibile eccellente, oltre che un ammendante per la terra. Ne è stato fatto un grande sfruttamento, adesso è “protetta” e quasi nessuno (salvo qualche abitante locale) può continuare a raccoglierla. Fino a qualche decennio fa serviva soprattutto a fare il whishey, e – raccontano – girando per l’Irlanda si sentiva il classico e caratteristico odore di torba bruciata nei camini, un fumo acre e dolciastro.
Le birre & molto altro
A parte il whiskey, l’Irlanda è famosa per le sue birre. Dopo il giro all’ovest, sono ripassato da Dublino, e naturalmente sono andato in un pub, al Porterhouse Temple Bar, in Parliament Street. Oyster Stout (fatta dalla ostriche), Plain Porter, Wrallsers, Porterhouse Red, Hop head, Dublin Pale, Temple, Hersbrucker, Chiller e naturalmente Guinness: le birre sono tantissime, vanno da 4 a 5 gradi e sono una più buona dell’altra. Non ho esagerato con gli assaggi e son riuscito a farmi un altro giro per la città, tra un ponte e l’altro. Ponte Sean O’Casey, dedicato al grande drammaturgo, Ponte Samuel Beckett, Ponte James Joyce… Saranno le bevande alcooliche, saranno i paesaggi o il clima piovoso-sentimentale, ma l’Irlanda ha ispirato e prodotto una quantità di letterati incredibile! Oltre al grande poeta Yeats (premio Nobel), erano irlandesi Oscar Wilde (e sua madre Jane, grande scrittrice di favole), Jonathan Swift (quello dei Viaggi di Gulliver), Samuel Beckett (quello di Aspettando Godot), George Bernard Show e naturalmente James Joyce, di cui tutta la città è piena, perché tutto è dedicato a lui. Ma non c’è solo la poesia, c’è anche la musica. L’Irlanda ha prodotto un sound tutto speciale, con strumenti tipici tradizionali, tipo il fiddle (violino), le villennan pipes (cornamuse) o il bodhran (tamburo). E di conseguenza ha una serie incredibile di musicisti famosissimi, irlandesi o almeno di origini irlandesi: da un paio di Beatles a Bruce Springsteen, da Sinead O’Connor a Rory Gallagher, da Van Morrison a Enya.
Antico & moderno
Col poco tempo che m’era rimasto prima del volo di ritorno, sono riuscito comunque a fare la coda per entrare nella famosissima Bibllioteca del Trinity College, la mitica università dove hanno studiato tutti i grandi Irlandesi. L’austera galleria dove è conservata una quantità incommensurabile di volumi, antichi e moderni, è una vera Cattedrale letteraria, coi busti degli Irlandesi insigni. E ben testimonia la storia e la tradizione di questo popolo, che non è sviluppato ed evoluto per caso. Adesso non ve lo saprei spiegare, ma ho colto un nesso diretto fra gli allevamenti e le stalle che ho visto in giro e questa Biblioteca, perché tutto è “cultura”, soprattutto la “coltura”. Entrambe vengono da lontano, e si tratta di accumulare sapere e incrociare informazioni, crescere collettivamente. La storia di questo piccolo Paese è stata lunga e tormentata, sono stati sempre determinati e orgogliosi (in pratica gli USA sono stati fatti prima dai loro e poi anche dai nostri emigrati). Un dato significativo: l’Irlanda è uno dei pochi posti europei che gli antichi Romani non hanno mai conquistato. Il passato però sembra che riesca a ben orientare anche il presente. Alla fine sono salito su uno di quegli autobus turistici scoperti che fanno il giro delle città, tanto per avere un’idea complessiva. È stato un giro molto ampio, e interessante. Mi ha portato a vedere anche la periferia, e ho scoperto che Dublino è una città che è riuscita a crescere urbanisticamente in modo convincente, ordinato e… bello. “Periferia-bella” è in assoluto un ossimoro dovunque, una contraddizione quasi dovunque, a Dublino invece no. L’autobus ci ha portato a vedere quartieri popolari tradizionali in pietraviasta e quartieri nuovi di vetro e cemento, fabbriche dismesse e riconvertite in Musei e vaste zone verdi, come St Stephen’s Green. Alla fine Dublino (e l’Irlanda) m’è sembrato un bel posto dove stare.
Fotoringraziamenti: per la compagnia, e in particolare per le foto, ringrazio i miei amici Nino Cipolla, Francesco Aruanno, Marco Menghini, Daniele Carminati, Luigi Baiata e Monica Perez.
Patrizio