La Nurra e l’Asinara

Patrizio ci racconta di un pezzo di Sardegna fatto di contrasti e dalla storia spesso travagliata. Tra splendidi prodotti della terra e tentativi di sfruttamento intelligente di un territorio bellissimo
Patrizio Roversi, 01 Feb 2016
la nurra e l’asinara
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Arrampicandomi su per una stradina circondata da prati verdissimi vedo un po’ più sotto un lago, piccolo ma che risplende di un colore indefinibile, tra l’azzurro e il verde. Attorno ci sono massi di granito e macchie spinose, e più avanti dei pini. Potrei essere in Irlanda, o comunque nel Nord dell’Europa. Ma più sotto si intravede una striscia di mare di un colore inequivocabile e unico: sono decisamente in Sardegna. E il lago è il Baratz, l’unico bacino naturale dell’isola, che non dimostra i suoi 10 mila anni. Infatti è stato generato dall’ultima glaciazione, quando il formarsi dei ghiacci ha fatto diminuire il livello del mare (il contrario di quello che sta accadendo oggi) e quindi la terra si è come alzata, lasciando questa depressione che è diventata lago, alimentata da vari torrenti, e che poi si sfoga verso il mare con un’incredibile sorgente d’acqua dolce chiamata S’ebbi Dolzi. Sono nella Nurra, la regione all’estremo Nord-Ovest della Sardegna, tra Sassari, Alghero e Porto Torres, fino a Stintino e all’Isola dell’Asinara.

LA NURRA E LA COREA

Il complesso nuragico di Palmavera, che risale al 1.500 a.C. ed era composto da quasi 200 capanne, testimonia che nell’antichità la zona era abitata e presumibilmente ospitale: c’erano metalli e, probabilmente, ripari e selvaggina. Ma dopo la Nurra è diventata molto più selvaggia, si è impaludata, è diventata malsana, malarica e disabitata. La lotta da parte dell’uomo per riconvertire, risanare e riconquistare questo lembo di terra inizia dal 1600, quando vi si insediano un migliaio di famiglie di agricoltori. Ma bisogna arrivare all’epoca fascista per vedere arrivare nuclei di contadini da… Ferrara, che fondano Fertilia, con la missione di bonificare la zona e dissodare la terra. Una cosa simile a quella che in quegli anni stavano facendo i veneti in provincia di Latina. Poi nel secondo dopoguerra la spallata finale: arriva il DDT degli americani, la malaria è sconfitta e quindi la riforma agraria avanza, col frastuono delle ruspe. I pastori sardi, attoniti, la chiamano “la Corea”, perché sembra il teatro di una guerra. E da allora tutti la chiamano così. Adesso la Nurra è una zona agricola preziosissima, vicina al mare, tutta (o quasi) coltivata.

I CATALANI DI ALGHERO

Ma forse la cosa più fertile di questa zona è l’humus-antropologico, un misto incredibile di popoli che l’hanno colonizzata nei secoli. I primi furono i Nuragici, quindi i Fenici, poi certamente i Romani e gli Arabi. Ma dopo il 1100 arrivano le Repubbliche Marinare: Genova e Pisa. E a metà del 1300 arrivano dalla Spagna gli Aragonesi, che si portano dietro i Catalani, con i quali ripopolano Alghero. Alghero – come molte cittadine italiane – ha una periferia un po’ così, un lungomare un po’ così, con qualche albergone un po’ troppo grosso, ma in compenso ha un bellissimo centro storico e un porticciolo dolcissimo, affacciato su un tramonto che ha dei colori che si trovano solo in Sardegna, dove il mare esplode in un cielo che il maestrale si incarica di tenere sempre pulito e terso. Alghero deriva da alghe, cioè dai “pascoli” subacquei del suo golfo, che riproducono in mare la fertilità della sua terra. Qui si pescano infatti le famose aragoste e i ricci, che sono dei veri prodotti tipici locali, con un sapore speciale. Tanto speciale che le aragoste rischiano l’estinzione e i ricci non sono da meno. Quindi adesso ci sono delle regole da rispettare: una stagionalità per la pesca, limiti di numero per i ricci e di lunghezza per le aragoste.

GAVINUCCIO & FIGLI

Mi spingo un po’ all’interno, verso Osilo. Gavinuccio ha la sua azienda in cima al Monte Tuffudesu. È un pastore, ma non assomiglia assolutamente alla figura del classico pastore sardo che ci hanno consegnato i pregiudizi: è un signore dall’aspetto borghese, molto evoluto e preparato. Ha circa 350 pecore, di razza sarda, a duplice attitudine: latte e carne. Fino a qualche anno fa tutti i pastori della zona suoi colleghi non si limitavano al gregge e al latte, ma producevano direttamente il loro formaggio. Adesso, spaventati dalle nuove norme igieniche europee, quasi tutti si limitano a vendere il latte all’industria. Quest’anno il latte si vende bene, circa 1 euro e 10 centesimi al litro, ma fino a due o tre anni fa era sottopagato: massimo 60 centesimi, mentre il prezzo di produzione era anche 85 centesimi. Poi è venuta la Lingua blu, la malattia che ha decimato le pecore, e quindi l’offerta è calata e di conseguenza è salito il prezzo, ma… a che prezzo! Gavinuccio produce Casu de Osile, presidio Slow Food, e col suo furgone va a distribuirlo direttamente a Sassari. Me lo fa assaggiare e in effetti, grazie all’erba saliosa (salmastra) di questi pascoli che stanno a 650 metri sul livello del mare, ma il mare lo vedono a pochi chilometri, e grazie alla lavorazione speciale che prevede un massaggio con olio e aceto, il sapore è particolarissimo. Sa di fiori, di fieno, di legna secca con retrogusto salino. Suo padre Giovanni produce invece la ricotta Mustia, cioè affumicata. Hanno capito l’importanza del prodotto locale tipico, vivono bene. E soprattutto stanno dando un futuro a Pietro e Giovanni, 16 e 20 anni, figli di Gavinuccio e nipoti di Giovanni. Non hanno voluto studiare, ma adesso lavorano nell’azienda, mungono le pecore a mano. Se li vedi sembrano studenti metropolitani, vestiti e pettinati alla moda: alle ragazze dicono con orgoglio che sono pastori e hanno molto successo. Sono cambiati i tempi in cui a fare il contadino o peggio il pastore c’era da vergognarsi.

I CARCIOFI SPINOSI DI SARDEGNA

Quando ero piccolo sono stato in gita familiare da queste parti, e ricordo che mio padre e mio zio si sono sfidati… a chi mangiava più carciofini. Mi pare di ricordare che abbia vinto lo zio, 25 a 20 o giù di lì. Eppure sono sopravvissuti, segno che i carciofi locali devono essere leggeri e fanno bene! Stavolta ho voluto vederci chiaro e sono andato a prenderli in campagna. A vederlo non si direbbe che il Carciofo Spinoso di Sardegna sia così tenero e dolce: si presenta al contrario come un fiore spinoso e minaccioso, dal colore viola e dalle punte aggressive. Sono andato a trovare Andrea, un signore che li coltiva da sempre e che adesso ha anche lui nella sua azienda l’aiuto prezioso di due figli, Antonio e Ika (che sta per Salvatorica, il nome della nonna), che dopo aver girato il mondo e studiato all’estero agronomia son tornati a lavorare la terra di famiglia. E si tratta proprio della terra che la famiglia di Andrea ha lavorato da sempre, e che ha una storia molto particolare. Andrea aveva un orto vicino a Sassari, quasi in città. Ma un centro commerciale l’ha sfrattato. Allora lui ha letteralmente traslocato la sua terra: l’ha caricata sui camion e l’ha spostata in un nuovo appezzamento, meno fertile. Un’idea che poteva venire solo a un… sardo, dotato di caparbietà esemplare. Ed è la stessa terra su cui mi ha portato Andrea, dove ha raccolto i carciofi, me li ha puliti col coltello e me li ha offerti: dolcissimi eppure amarognoli, teneri, fragranti. È incredibile che siano così buoni da mangiare crudi, e fanno bene: sono pieni di sali minerali, ferro, potassio, fosforo e diverse vitamine. Il periodo di raccolta finisce adesso, ma se vi sbrigate ne trovate ancora di freschi.

CARDI & CIMINIERE

Mi sono spostato a Porto Torres e ho visto spuntare tutt’altro: ciminiere e cardi. Ma che nesso c’è tra le ciminiere e i cardi? C’era una volta Porto Torres, che viveva di mare e di terra, pesca e agricoltura. Poi, nel 1962, arrivano le industrie, cioè gli impianti petrolchimici. Danno da lavorare a molta gente, la cittadina moltiplica i suoi abitanti. Ma poi arriva la crisi, qualche sussulto e timido rilancio e alla fine il tracollo, qualche anno fa. Un sacco di gente disoccupata. Ma sono arrivati i cardi. L’idea è quella di recuperare la terra e rilanciare l’agricoltura, ma il terreno è inquinato per cui è meglio – almeno in alcune zone – produrre cose che non si mangiano (il no-food). I cardi diventano un’ottima biomassa e qui il cardo cresce benissimo: si adatta al clima caldo e arido, si sviluppa in autunno-inverno e quindi sfrutta le piogge, sfrutta anche le aree marginali. E soprattutto coi cardi si dovrebbe fare “chimica verde”, cioè provare a rilanciare almeno una parte del polo petrolchimico, però con prodotti biodegradabili. Detta così sembra una cosa buona. Restano però le ciminiere, uno dei tanti cimiteri industriali che si trovano numerosi sulle nostre coste, che ti lasciano scioccato e un po’ triste. Resti malinconici di un modello produttivo fallito, che ha lasciato macerie e inquinato posti bellissimi, che ora sarà ben difficile riconvertire al turismo. Ma la sensazione dura poco, perché Stintino è vicina…

L’ASINARA

Stintino ha 130 anni. Come si fa a dirlo con precisione? Per scoprire la storia di Stintino bisogna andare all’Asinara, l’isola che sta di fronte, a pochi minuti di barca. L’Asinara è da sempre stata popolata da pastori sardi. I pescatori liguri si spingevano fin qui a fare le loro battute di pesca, poi hanno deciso di stabilirvisi. Ma poi sono arrivati i contrabbandieri, persino qualche pirata. Nell’Ottocento l’Asinara era una sorta di zona franca, abitata da gente insofferente a qualunque autorità, una repubblica anarcoide che era una spina nel fianco per i Savoia. Che a un certo punto decidono di farci prima un lazzaretto, un luogo di quarantena, e poi un carcere. Gli abitanti vengono tutti mandati via e fondano appunto Stintino. Le carceri sull’isola man mano diventano addirittura dieci, fino al 1985 con l’istituzione del Supercarcere di Fornelli. Gli abitanti di Stintino non possono più metterci piede, la vedono da lontano. Pierpaolo Congiatu ci mette piede soltanto nel 1997, in qualità di direttore del Parco nazionale dell’Asinara, dopo la chiusura delle carceri. Da una parte l’isola è un paradiso naturale, perché non c’è stato sviluppo. Dall’altra è una sorta di discarica, ingombra d’ogni rottame, perché durante i cento e più anni in cui è stata lazzaretto e carcere, tutto quello che è stato portato sull’isola è ancora lì: carcasse di automobili, elettrodomestici, spazzatura. Il primo lavoro da fare è la bonifica, per renderla quello che è oggi, un pezzo di Paradiso, soprattutto in questa stagione.

I PADRONI DELL’ISOLA

Arrivando sull’Asinara sembra di essere arrivati in una sorta di rappresentazione perfetta del Parco Naturale- Avventuroso: c’è il chiosco che vende, oltre al cappuccino, anche la mappa e magari la bustina in cui i fumatori devono mettere le loro orribili cicche per non lasciare tracce. Poi c’è un parcheggio pieno di fuoristrada, “tipo Yellowstone”. Ma, naturalmente, non c’è l’Orso Yoghi con Bubu: ci sono decine di cavalli selvaggi che pascolano liberi sui prati, tra la macchia mediterranea, divisi per gruppi e piccoli branchi. È una visione bellissima. Ti trasmette l’idea di una natura vergine eppure “civile”, ma non per questo addomesticata, ma solo protetta, dall’uomo. I cavalli sono i discendenti degli equini da lavoro che servivano alle carceri, quindi sono i veri padroni dell’isola. E non ci sono solo i cavalli, ma anche e soprattutto gli asini. Sono piccoli, alti al garrese massimo un metro e sono completamente bianchi, albini. Io pensavo che avessero dato loro il nome all’isola, invece scopro che Asinara deriva dal latino Sinuaria, per la sua forma sinuosa. Ma da dove vengono questi asinelli bianchi? Ci sono varie ipotesi: la più accreditata è che si tratti di una variazione genetica di un asino autoctono, ma ci sono leggende che raccontano che il Marchese di Mores, Duca dell’Asinara, nell’Ottocento li abbia importati dall’Egitto, dove in effetti vive una colonia di asini simili (ma non uguali). I cavalli li trovi nelle zone pianeggianti e aperte, dove c’è pascolo. In questa stagione i maschi combattono, per contendersi le femmine (ne ho visti diversi affrontarsi, scalciarsi e mordersi). Gli asinelli invece te li trovi davanti in mezzo alla macchia, a gruppetti piccoli, quando meno te l’aspetti.

UCCELLI E TARTARUGHE

L’isola non è piccola (sono più di 5 mila ettari) ed è Giuliana, che fa la biologa e la guida, a portarmi in giro sulla sua Land Rover. Mi porta a conoscere Valentina e Cristina, che organizzano gite a cavallo con alcuni esemplari che hanno domato, e anche Pilo il veterinario, che ha come base un vecchio edificio adattato. Ma non ci sono solo equini: Laura e Ilaria stanno alimentando con una sonda una tartaruga Caretta caretta, colpita da un’elica, con una pappetta frullata di omogeneizzato di pesce. Sull’isola c’è un centro di recupero, così come clima. Salutando Pierpaolo gli chiedo che senso ha tutto questo: il parco, i progetti scientifici e il resto. Mi spiega che si tratta di studiare, proteggere, valorizzare il patrimonio naturale genetico locale. E il nesso con l’agricoltura è chiaro: valorizzare il territorio, salvaguardare la tipicità significa creare il contesto per una produzione agricola specifica, di qualità, strettamente legata al territorio. L’unica strada per creare reddito, ricchezza e lavoro nell’ambito di uno sviluppo ecosostenibile. Altro che ciminiere degli anni 60 del petrolchimico. Senza contare la risorsa principale: il turismo. Insomma, l’Italia sta andando un po’ a rotoli, ma realtà come queste – persone come queste – ti ridanno fiducia e prospettive. E paesaggi come questi della Nurra ti riempiono di bellezza, che non fa mai male.

Patrizio