Viaggio in Messico e ritorno
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ON THE ROAD
La gente è magnifica, simpatica. Gli indio magari, sono più schivi ma le donne sono così colorate da “comunicare” per forza e spesso nascondono il loro bambino nel fagottino che portano dietro le spalle. Già, i bambini qui sono molto amati, curati e vestiti bene. Al mercato ci sono le “pignatte”, cioè animalini di carta che vanno rotti col bastone per riuscire a prendere le caramelle durante le feste di compleanno dei più piccoli. Ho comperato per mia figlia una pecora di cartone, una pignatta che, come prevedevo, Zoe non avrà mai il coraggio di rompere e che, infatti, ancor oggi, è appesa lì, dove è stata messa al mio ritorno. Ma qui tutto è diverso. Ad esempio, c’è anche un modo molto strano di fare la multa per divieto di sosta: svitano la targa e se la rivuoi devi pagare. Insomma, San Miguel è un posto pulito e lindo, lindo nel senso che è bellissimo. Qui andiamo da Roberto, amico di Pino, che ci sta da molto tempo: un posto così attrae chi vuole scappare dall’occidente industrializzato “veloce e crudele” e Roberto è scappato tanto tempo fa. È venuto qui perché alla stazione di San Miguel, proprio su questi binari, il 4 febbraio del 1968 morì Neal Cassady, un eroe della beat generation, immortalato da Jack Kerouak nel suo celeberrimo On the road. Anche noi ci siamo andati, rendendo omaggio al vagabondaggio: San Miguel è un bel posto per morire e per viverci. In Messico ti senti comunque on the road e la domanda che più ci siamo fatti durante il viaggio è: “Casa tua è il posto in cui sei nato o quello in cui stai bene?”. Cacucci che fa le citazioni colte dice che, come sostiene Sepulveda, uno appartiene al luogo in cui sta bene.
IL “GRITO” DE DOLORES
Stimolati da quest’ affermazione, partiamo per un’altra destinazione. Passiamo per un paesino dal nome Maya impronunciabile, Atotnilco o qualcosa del genere. È tutto bianco, assolato, vuoto, con la corriera che aspetta di partire senza fretta. Naturalmente c’è una grande chiesa bianca stile churrigueresco-barocco-ispanico, coi penitenti che trascinano sacchi di sassi. Non capisco bene il perché, ma sembra che qui si facciano pellegrinaggi per espiare colpe che, credo proprio, i poveri indios messicani non abbiano, o per lo meno non siano così gravi. Eppure nella bancarella davanti alla chiesa si vendono quadretti che disegnano in modo molto efficace la punizione che spetta ai “viziosi” di ogni genere, tra i quali gli artisti e i clown. Questa cosa ci fa particolarmente male: perché mai noi clown dovremmo andare all’inferno? Ma penso che la Madonna di Guadalupe sia molto più accondiscendente con gli artisti e pure rivoluzionaria, anche perché, quando l’eroe nazionale Padre Hidalgo gridò forte l’indipendenza del Messico (il Grito de Dolores del 16 settembre 1810), poi venne qui a prendere lo stendardo della Madonna che divenne la prima bandiera messicana. Non sembri strano, visto che la Madre degli Dei era presente anche nella spiritualità Maya e, quindi, rappresenta un retaggio antichissimo.
SUL MONTE QUEMADO
Dopo una tappa a San Louis Potosi, eccoci al nord, nella Sierra Madre. È una regione desertica con poche risorse: qui non c’è acqua per il mais. Gli indios vendono per strada la pelle dei serpenti a sonagli, ma è vietato comperarla, per preservare la specie. Ma siamo sicuri? Ti verrebbe voglia di trasgredire, solo per aiutarli… sono così poveri! Siamo sulla transamericana che va dal Canada alla Terra del Fuoco e ci facciamo la tipica foto al passaggio della linea immaginaria che segna il Tropico del Cancro. La nostra meta è Real de Catorce (o Quatorze), vicino alla montagna che, per gli indios huicholes, è sacra e meta di pellegrinaggi, il Monte Quemado. Da queste parti si trova il pejote: si tratta di un cactus allucinogeno che sviluppa visioni alquanto lisergiche. Real era un centro minerario dove venivano i miliardari dell’epoca che qui cercavano oro e argento. È nel bel mezzo del deserto tra le montagne: per arrivarci bisogna percorrere l’Ogarrio, cioè un tunnel strettissimo (ci passa a malapena un’auto) scavato nella roccia e lungo quasi tre chilometri, dove la regolamentazione del “senso unico alternato” è affidata a un omino che comunica con l’altro capo della galleria tramite una sorta di telefono. Una volta, quando non c’era la luce elettrica, sotto il tunnel era tutto buio, e per un bel po’, anche adesso, non si vede l’uscita: arrivarci con la carrozza doveva essere claustrofobico, ma lo è anche ora con il nostro pulmino! Real de Catorce è là ad attenderci, dopo il tunnel.
CITTÀ FANTASMA
Non c’è nessuno e l’atmosfera è irreale. Qua e là ci sono i resti di un antico splendore: fino alla fine del 700 era, appunto, un centro minerario ricchissimo, poi abbandonato. Ora c’è rimasto davvero poco. Gli hippies naturalmente, negli anni 60, ci sono arrivati per primi, ma ora sostanzialmente, è solo una meta turistica. Come scrive Cacucci nel suo libro La polvere del Messico, anche il nome ha un’origine non chiara. Reale Quattordici, 14 come i soldati che furono uccisi dagli indios, o forse 14 come i tesori nascosti qui da Pancho Villa, o magari 14 come i giorni che dura il “viaggio allucinogeno” del peyote. Faccio in tempo a vedere la mattina le persone che arrivano per la messa al santuario di San Francesco: i pellegrini che si trascinano sulle ginocchia circondati da danzatori con costumi sgargianti e che hanno qualche cosa di Maya e Azteco. “A nord, nello stato di Jalisco, a est di Nayarit, in valli difficilmente raggiungibili a più di 2.700 metri di altitudine, vivono gli huicholes scampati alla ‘civilizzazione’ spagnola e all’odierna globalizzazione.” Questa è l’informazione che apprendo qui. Tutti te ne parlano perché il tradizionale pellegrinaggio che si svolge da queste parti avviene sulla montagna sacra qui vicina, il monte Quemado per l’appunto. Voglio conoscere qualche cosa di più di questa popolazione che sembra protomessicana, discendente dei Maya, che forse conserva ancora i segreti del glorioso passato di questa terra, Wirikuta. Una volta a Real scopro che la montagna sacra degli indios huicholes è proprio vicina, dopo la vecchia miniera, ad appena un’ora di cavallo. Loro, che sono disseminati per il territorio e stanno magari anche a 500 chilometri da qui, tradizionalmente ci arrivavano a piedi in 20 giorni di cammino, durante i quali non mangiavano e si cibavano solo di pejote, il Maestro come lo chiamano i marakame, gli sciamani degli huicholes. Adesso, quando devono percorrere la strada che li separa dalla montagna sacra, gli huicholes prendono la corriera, ma la salita è comunque faticosa.
Conosciamo il maestro degli sciamani
Il peyote serve – tra le altre cose – a non sentire i morsi della fame. Dal punto di vista chimico, si è rivelato essere un mix di mescalina, vitamine e proteine, e ben 25 tipi di alcaloidi. Da sottolineare poi, che a noi occidentali è proibito raccoglierlo per evitare “facili” esperienze psichedeliche. Ed è, comunque, sconsigliabile, anche perché è sgradevole al gusto e “funziona” solo se lo si assume nel corso di un rituale ben preciso che, tra l’altro, prevede il digiuno. Il marakame, lo sciamano, ne fa uso in particolari cerimonie, quando vuole sapere qualche cosa di più su se stesso e avere un contatto con lo “Spirito”. Quando arrivo sul Monte trovo il loro “tempio”: pietre disposte in un cerchio sacro fatto di nulla, chiamato tuchi. Ma è la funzione collettiva che lo rende magico, l’essere lì tutti assieme guidati dal marakame che fa compiere danze e riti. Il luogo si distingue anche perché, alla partenza, i pellegrini lasciano sul terreno le offerte fatte con le perline, il loro magnifico artigianato, come forma di ex voto. Questo lavoro è una delle poche concessioni che hanno fatto alla cultura spagnola che importava, per l’appunto, perline colorate. Gli huicholes sono abilissimi nell’intrecciarle per farne cinture e decorazioni. I disegni sono straordinari e la tecnica permette di comporre disegni geometrici meravigliosi. La loro arte è viva, presente e conservata anche nei musei americani.
MINACCIA CHE INCOMBE
“Questa montagna dà forza: è da tanti anni che vengono qui a prendere energia”, mi dice la guida che mi accompagna. Ora è minacciata proprio per le sue caratteristiche geologiche: sarà un caso che sotto i nostri piedi ci siano ancora oro e argento? Una multinazionale canadese (quando si tratta di estrazione di metalli preziosi salta sempre fuori una fantomatica multinazionale!) sta minacciando il territorio. Estrarre metallo, inquina e distrugge: per questo ora gli indios sono piombati nella disperazione. Se la montagna sacra diventerà una miniera e una discarica inquinata, sarà la fine per loro, ma anche per il loro territorio… e, soprattutto, per il mondo! Chi ragiona in termini di energia vitale, come fanno loro e tutti i popoli animisti, sente che la montagna sacra è un luogo di energia per il pianeta. Per questo Don Josè, un loro marakame, sta facendo un giro per l’Europa, arrivando anche in Italia, per sensibilizzarci sulle loro problematiche, che significa anche la scomparsa della loro identità e della loro lingua tradizionale. Scompare per l’adozione di usi e abiti non tradizionali, per la presenza di gruppi religiosi che scoraggiano cerimonie ormai multicentenarie. Gli Huicholes si stanno inurbando in squallide periferie, perdendo la loro identità di gruppo. Don Josè teme per la sorte di questo popolo di artisti, agricoltori e allevatori un tempo coesi e orgogliosi della loro cultura, tanto da non aver mai ceduto alla colonizzazione spagnola, scegliendo l’isolamento. Sono gli ultimi eredi del culto solare amerindo. Ho conosciuto Don Josè: me lo hanno portato all’Orto dei Giusti (il terreno che posseggo in collina a Bologna, vedi www.nomadizziamoci.it) le amiche Elisabetta e Barbara, che mi hanno presentato Maria, che da anni s’impegna a far conoscere questa cultura e questa spiritualità (www.donamaria-shamanism.com ).
GLI SCIAMANI A BOLOGNA
Maria è arrivata sotto la yurta mongola che ho montato a Bologna e Don Josè ha scelto il paesaggio naturale dell’Orto dei Giusti per far compiere la cerimonia di benedizione della terra. Quelle che vedete in questo articolo sono le foto del mio amico Mauro Oggioni. È stato emozionante vedere un pezzo di mondo che ho conosciuto nei miei viaggi arrivarmi a casa, assistere a questa cerimonia in un posto familiare invece che chissà dove. Mi ha fatto capire che finalmente ci siamo: la globalizzazione ci ha omologati, ma ci ha messo in contatto tra persone che, essendo umane, hanno la stessa natura. Se è vero che lo sciamanesimo è da sempre stato in contatto con gli aspetti più profondamente naturali, allora in questa nuova moderna spiritualità, che mette la natura al centro sia da noi che da loro, ci possiamo capire e noi possiamo ridiventare nativi di casa nostra, inglobando l’esperienza di popoli lontani che hanno conservato – loro sì – le tradizioni sciamaniche. Le parole di Don Josè sono illuminanti. Sembra un ecologista, un fine psicologo, un animatore culturale, che col suo flauto ci fa ballare in tondo e ci benedice col mais vero, quello non geneticamente modificato e sterile, che fa semi che piantati non ricrescono più. Il mais che ci ha regalato Josè lo abbiamo piantato all’orto e ci ha presto dato la pannocchia. Eravamo in un terreno tra i calanchi, in vista del santuario di San Luca, in un “Apu”, cioè un luogo sacro, come lo chiamano i peruviani. Qui ho capito cosa significa avere il cuore in contatto con tanta naturalità, qui o altrove: la cosa importante è il rispetto per la natura. Lo scrittore cileno Luis Sepulveda dice, appunto, che casa tua è dove stai bene, ma alla fine dove stai bene? Forse dove l’umano può elevarsi almeno un poco e diventare meno becero, meno squallido, meno gretto ma più… diciamolo pure… spirituale.
Syusy