La mia Africa! 5
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SERVE UNA GUIDA!
Arrivare però in visita in territorio Dogon non è facile: serve assolutamente una guida, una guida esperta che possa accompagnarti nei luoghi giusti, e che medi il rapporto con gli abitanti, che non sono tanto abituati alla relazione coi turisti. Quindi, per cercare una guida, vado in un internet point a Bamakò, e chiedo informazioni. Mi propongono Seck. E scopro che si tratta proprio del nipote di Ogotemmeli… E io naturalmente ho “Il Dio d’acqua” nel mio bagaglio, cioè il libro del grande antropologo francese Marcel Griaule: un bianco che era venuto negli anni ‘30 a studiare i Dogon, forse per dimostrare quanto fossero selvaggi e arretrati, ma dopo una serie di incontri e chiacchierate col vecchio Ogotemmeli, si accorge della loro complessissima struttura culturale, fatta di miti e di molte informazioni. Compresa l’informazione che riguarda l’esistenza di una stella, Sirio-B, così piccola che l’astronomia moderna l’ha scoperta solo da poco. Quel libro – Il Dio d’acqua, appunto– ha avuto in Europa grande risonanza, e ha dimostrato che la cosmogonia e la mitologia di popolazioni come i Dogon, in certi casi, arrivava più in là di quanto non fosse arrivata la Scienza occidentale. Così, col nipote del vecchio Ogotemmeli, Seck Po Dolo, che vuole dire guarda caso “Stella Sirio”, mi avvio al Paese dei Dogon. E succede una cosa strana: io naturalmente chiedo informazioni su quello che ho letto sul libro di Griaule a Seck, ma lui non ne sa nulla! Così sono io a leggergli il libro, e lui ascolta da me quello che suo nonno Ogotemmeli ha raccontato un giorno, ad un bianco venuto da lontano, per scrivere la loro storia…
I DOGON
E intanto la nostra macchina entra nel Paese dei Dogon, e il paesaggio diventa man mano di una bellezza assoluta: sembra uno scenario da favola, una specie di Paese degli Hobbit, con le case di terra e i granai rotondi col tetto a cono, tipo cappello-da-fata. E con le porte dei granai, di legno, fatti come se fossero dei seni di donne. Seck infatti mi dice che ci sono i granai degli uomini, e quelli delle donne. Quelli degli uomini servono per custodire gli alimenti per le famiglie e la comunità, quelli delle donne invece servono… solo per loro stesse. Seck mi dice: “Il granaio è la ricchezza dei Dogon”. L’ordine sociale per i Dogon è fondamentale: per organizzare la loro agricoltura ci vuole una divisione di compiti e una rigida separazione del lavoro. Ci fermiamo a guardare i contadini che lavorano nei campi. In questo momento stanno raccogliendo le cipolle, di cui naturalmente “non si butta niente”, neanche i gambi, che vengono raccolti, seccati e veduti al mercato. La coltivazione della cipolla è stata introdotta proprio da Griaule, il bianco-francese, che alla fine si è fermato sulla falesia 15 anni! E ha contribuito anche alla costruzione di un Ponte, che però veniva distrutto ogni anno dalla potenza dell’acqua. Così Ogotemmeli consigliò di fare un sacrificio al Nommò. Dopodichè il ponte ha sempre resistito… Ed è proprio il ponte sul quale stiamo transitando.
IL NOMMO’
E tocca a me spiegare a Seck che Nommò, assieme ad altri otto, è il mitico antenato-semidio, che scese dal cielo ed era tutto verde, viscido e amava stare nell’acqua… naturalmente su di lui ci sono decine di leggende e favole: per esempio si sconsiglia alle ragazze di sposare un uomo troppo bello, che potrebbe poi rivelarsi un “uomo dell’acqua”, cioè un Nommò. Arriviamo a Sangà, uno dei villaggi della Falesia. E lì incontro un’altra piccola guida, un ragazzino che si chiama Lassinà, e che mi “adotta” in quanto turista da accompagnare. Lui infatti studia alla scuola e – lui sì! – conosce la storia della mitologia Dogon. Mastica un po’ di inglese e da grande vuole fare la guida, per cui ha deciso di esercitarsi con me. Prima di arrivare al villaggio vediamo comunque i grandi baobab che lo circondano. Il baobab è un albero sacro, forse per la sua stranezza: sembra che abbia le radici in aria, e ha sempre l’aspetto di un albero possente, sì, ma senza foglie. Entrando in Paese vediamo anche la Casa delle donne con le “regole”, cioè le mestruazioni. Secondo un ordine prestabilito molto rigido della comunità, le donne in quei giorni sono particolarmente impure, e devono stare fuori dalle loro case e non assolvere ad alcun lavoro, per non vanificarlo. A vederle, però, tutte belle tranquille e rilassate – loro che normalmente non si fermano mai e hanno sempre qualche cosa da fare – la loro mi sembra più che altro una vacanza, e non mi pare che gli dispiaccia molto.
LE MASCHERE
Proseguiamo all’interno del villaggio, lungo una stradina contornata da muri di terra. E arriviamo finalmente alla Piazza. Su una grande pietra centrale stanno seduti i bambini che non sono ancora circoncisi, quindi non sono ancora adulti. Loro non possono partecipare all’evento che fra poco si svolgerà nella piazza: possono solo assistervi, accucciati sulla pietra. Così come assistono gli anziani, seduti all’ombra, sotto “la casa delle parole”, il Togunà. E’ una tettoia, sormontata da un tetto alto e pieno di rami. La parte accessibile, sotto, è però appunto molto bassa. Dicono che sia fatta in questo modo, per impedire agli uomini che si siedono sotto a discutere, di arrabbiarsi e alzarsi di scatto: gli costerebbe troppo caro! Ma cosa deve succedere? Ecco che si sentono rumori, colpi di fucile. Pian piano la piazza si riempie. Chiedo alla mia guida Lassinà, e lui mi dice che è un funerale. E’ morto un giovane, e tutto il villaggio lo piange. O, più precisamente, tutti contribuiscono a far sì che lo spirito del morto si lasci andare. Se vagasse così com’è, finirebbe per essere uno spirito inquieto, che rischia di turbare l’ordine delle cose. Se invece se ne andrà del tutto, potrà tornare pacificamente come antenato. Per questo gli uomini con i fucili (vecchi archibugi ad avancarica) gli sparano a salve, facendo un gran rumore. E le donne, dietro di loro, piangono e portano in Piazza la coperta del morto. Poi iniziano a girare, meste, attorno alla coperta, quasi a volte trattenere l’anima del defunto. A questo punto però arrivano le maschere, le famose maschere Dogon, che rappresentano animali e soprattutto Dei. La maschera fondamentale dei Dogon è il Kanagà: un’asse lunghissima che sta sulla testa del danzatore che la indossa. Rappresenta il collegamento cielo-terra. Viene scossa con forza, da una parte e dall’altra. Le maschere si radunano dopo aver ballato, sulla coperta del morto. E all’unisono le donne piangono, le maschere si alzano: è il segno che lo spirito del morto se n’è andato definitivamente. E’ stata la rappresentazione – bellissima – del distacco.
I TELEM
Ma per i Dogon quel che conta è che si è ricostituito un ordine. L’ordine per i Dognon è fondamentale. Arrivano al punto di permettere agli anziani di bere e di ubriacarsi, per lasciar dire a loro cattiverie e “cose disordinate”, perché così, col loro piccolo disordine, provano che l’ordine è la cosa giusta! Creano una devianza, giusto per ristabilire la norma! La logica dei Dogon è strana, ma affascinante. Sono un Popolo tutto da studiare. E la cosa che mi fa pensare è che i sacerdoti, che sono fra i più santi e importanti fra loro, portano un cappellino di cotone, bianco e blu, con dei pon pon ai lati, che è uguale sputato al nostro cappello da giullare! Vorrà dire che la saggezza è anche follia? Poi le mie guide – Seck e Lassinà – mi portano a vedere la falesia più da vicino. Negli anfratti della roccia si distinguono dei piccoli granai, delle piccole case. Non si riesce a spiegare come possano essere lassù. Ma la spiegazione ci sarebbe: quelle sono le case dei Telem, i primi abitatori della falesia. Che si dice fossero rossi di capelli. E fossero raccoglitori, non agricoltori come i Dogon. E’ da loro, dai Telem, che Ogotemmeli, saggio e guaritore, aveva ereditato la sapienza. E alla mia domanda come facessero ad arrivare così in alto, in quelle abitazioni sospese sulla falesia, la spiegazione di Seck è semplice: “Si trasformavano in uccelli e volavano.” Perché lo spirito dei Telem si aggira ancora per la falesia: i Telem sono i “Magici”, e i Dogon sono “quelli che mettono a posto le cose”.
PIETRE & PERLINE
Il mio scopo, a quel punto, era quello di trovare una “pietra di tuono”. In quella zona si trovano moltissimi raccoglitori di statue, porte e manufatti Dogon. Che sono molto belli, conosciuti in tutta l’Europa per la loro estetica e il loro stile artistico. Questi mercanti hanno anche una abbondanza di quelle che chiamano “perle”, che in realtà qui sono il simbolo stesso della ricchezza degli abitanti del Mali. Io ero con un amico che è il massimo esperto di perle africane: Augusto Panini. E ho potuto avere da lui delle “lezioni” interessantissime. Mi ha spiegato che le perle africane hanno una storia incredibile. Nella stessa collana puoi trovare una perla fenicia, o veneziana, o di pietra preziosa come l’ambra, o magari fatta di semplice vetro riciclato dalle bottiglie della Perrier o della Birra. Per ottenerle, si fonde il vetro di bottiglia, e si modellano delle vere e proprie opere d’arte di vetro opaco. Dagli stessi mercanti si trovano poi, appunto, delle pietre molto strane. A volte sono oblunghe e ben levigate. Altre volte sono rotondeggianti. E le chiamano “pietre di tuono”. Si dice che siano cadute dal cielo, e si dice anche che chi le trova sarà particolarmente fortunato e potente. Io una pietra di tuono l’ho trovata, e due sciamani-guaritori, che vanno in giro col loro sacchetto di erbe legato alla vita, m’hanno detto che con una pietra di tuono come quella potrei anche diventare il Presidente della Repubblica Italiana, e rendermi particolarmente utile nel diffondere la loro cultura e la loro medicina!
IL TESTAMENTO DI OGOTEMMELI
Alla fine di questo viaggio mi sembra di avere fatto un gesto significativo, che mi ha fatto pensare: ho regalato a Seck (vestito coi jeans e col cappellino americano in testa, che non sa nulla della sua storia) il libro di Griaule, in cui suo nonno Ogotemmeli ha voluto far trascrivere la sua antica sapienza, proprio perché non andasse persa. Come se lo sentisse che suo nipote Seck avrebbe finito per dimenticare ed ignorare tutto. Strana cosa questa, della cultura che torna. Probabilmente il vecchio Ogotemmeli avrà avuto mille dubbi prima di trasmettere ad un bianco, ad uno sconosciuto, il proprio testamento culturale. Poi, passando per la cultura dei colonialisti, transitando per l’opera di un antropologo che era stato conquistato dall’Africa, attraverso le mani di una turista per caso, il sapere dei Dogon è tornato a casa.
Syusy