Viaggio al centro della terra, Mongolia

Più che un viaggio, un'avventura on-the-road nel cuore della terra mongola dove ho incontrato più capre, pecore, cavalli, cammelli allo stato brado che esseri umani...
Scritto da: dilulape
viaggio al centro della terra, mongolia
Partenza il: 15/09/2019
Ritorno il: 20/09/2019
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
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Racconto il viaggio che ho fatto in Mongolia on the road, agganciandomi ad una trasferta di lavoro. Più che un viaggio è stata una avventura on-the-road nel cuore della terra mongola dove ho incontrato più capre, pecore, cavalli, cammelli allo stato brado che esseri umani. Sono stati solo tre giorni, ma molto intensi – lo stesso viaggio si può fare con più calma in una settimana o 10 giorni. Siamo partiti dalla capitale Ulaanbaatar e ci siamo diretti verso il deserto del Gobi, in particolare al parco naturale di Gurvan Saikhan dove ci sono “le dune che cantano”; abbiamo poi visitato Bayanzag, la terra delle vette infuocate e siamo poi tornati nella capitale della Mongolia. Allacciate le cinture, si parte!

LUNEDI 16 SETTEMBRE – Il viaggio inizia all’aeroporto di Ulaanbaatar, dove arrivo con il solito volo da Mosca alle 5:40 del mattino. Mi attendono i controlli del visto e passaporto. Poi, mezzo addormentato mi dirigo verso il coffee shop dell’aeroporto dove ordino un cappuccino (nulla a che vedere con quello che intendiamo noi per cappuccino) e un toast con prosciutto, formaggio e qualche salsa fosforescente. Attendo qui Enkhee, la mia collega del progetto Monseff con cui ho organizzato una 3 giorni nel deserto del Gobi, prima dei meeting di lavoro.

A dire il vero so poco da Enkhee di come il viaggio è organizzato, chi ci sarà etc, non molto diverso dai suoi aggiornamenti lavorativi. È così, poi in realtà le cose le fa e c’è da fidarsi. Quindi mi fido anche per questo viaggio che ha un sapore magico.

Enkhee arriva mentre cerco di prelevare i soldi con la mia carta di credito, senza riuscirci. Per fortuna ho la carta di credito aziendale che invece funziona. Enkhee non arriva da sola, ma con due sue colleghe che ho sempre visto di sfuggita nel suo ufficio. Sono in realtà tre socie della società di ingegneria Icon Consulting. Si chiamano Myagmar e Yanjindulam. Sono le 7:20 e siamo pronti per partire. Fuori ci aspetta l’autista, Enkhbat con un fuoristrada di tutto rispetto: un SUV Lexus nuovo di pacca, super-accessoriato. L’idea iniziale era di andare a Bayanzag, la terra rossa detta delle “vette infuocate”. Ma i piani cambiano subito e mi chiedono se mi va di allungare di 200 km e andare a Khongoryn Els, dove ci sono le “dune che cantano”. Su oltre 1000 km fa poca differenza, quindi decidiamo di andare lì.

Lasciamo Ulaanbaatar, dove inizia a sentirsi l’avvicinarsi dell’inverno. Le temperature di prima mattina sono sotto i 5°C. Per fortuna farà più caldo nel deserto! Prendiamo la strada asfaltata che attraversa la Mongolia da Ulaanbaatar all’estremo sud vicino al confine con la Cina. Ci vuole poco per iniziare ad ammirare le steppe sterminate famose della Mongolia. Lungo il tragitto incontriamo più animali che persone – cavalli, pecore, capre (quelle del cashmere!), cammelli, uccellini, aquile, falchetti etc. Sosta per il pranzo a Dalanzadgad, nell’aimag (le nostre province) di Omnogov. Mangiamo nel ristorante/hotel di una vecchia compagna di classe di Myagmar. Rifocillati, ripartiamo anche perché ora si fa sul serio. Abbiamo appena percorso 600 km, ma ci aspettano ancora 200 km di strada sterrata e decisamente malconcia. Il nostro fuoristrada sembra reggere bene. I paesaggi da qui iniziano ad essere incantati, dalla steppa sterminata iniziano ad intravedersi formazioni rocciose di vario genere e montagne altissime sullo sfondo. Qui la densità della popolazione è di 0.3 abitanti per km2, una delle più basse della Mongolia il che è tutto dire. Infatti non incontriamo e vediamo nessuno su tutto il percorso, a parte gli animali e qualche sporadico nomade con le loro mitiche motociclette anni ’90.

Siamo nel parco di Gurvan Saikhan, dominato da montagne rocciose, dune di sabbia, gole ghiacciate, terre rosse, e praterie. Orientarsi è impossibile, ovviamente per chi non è del posto. Qui le famiglie che ci vivono conoscono ogni angolo, danno il nome ad ogni cosa. È la loro città insomma. Il nostro autista prende le strade ogni tanto con convinzione ogni tanto no, ma alla fine chiedendo a qualche sporadico nomade e avendo chiara la direzione di massima, siamo sempre arrivati a destinazione. Mi sono tornate alla mente le indicazioni della guida turistica – “non avventuratevi in queste zone senza guidatori esperti, un bel fuoristrada, riserva di acqua, cibo e carburante”. Beh, tutto verissimo! Qui non si scherza.

Sono ormai 12 ore che siamo in viaggio ed inizio il tramonto, in un paesaggio da favola. Ma mancano ancora un paio d’ore a destinazione – arriviamo che è buio, con la luna (quasi piena) che sta per sorgere rossa fuoco dietro le montagne. Scopro che non avevano in realtà prenotato il posto così chiediamo al primo camping (pieno), al secondo (c’è posto ma arriverà una comitiva che farà casino) e il terzo (c’è posto!). Sono le 22:30, scendiamo provati dal lungo viaggio ma anche entusiasti dei paesaggi. Mangiamo e andiamo a dormire – io ho la mia ger (le tipiche tende circolari dei nomadi) con un letto, un comodino e un piccolo specchio (comodo per le lenti!). Avrei probabilmente dormito anche per terra, cmq mi melatonizzo e chiudo gli occhi. Dormo come un sasso, per fortuna!

MARTEDÌ 17 SETTEMBRE – Ancora non lo so, ma questa diventerà una giornata memorabile! Ci svegliamo, giusto il tempo di ricordarsi che la sera prima ero andato a dormire in una ger in mezzo al deserto del Gobi e facciamo colazione. Il programma della giornata è un po’ in divenire, però si parte con la visita delle dune. Il camping è in realtà già di fronte ad un vero e proprio spettacolo della natura: di fronte a noi si apre il deserto di terra, poi uno strato di dune di sabbia e sullo sfondo montagne. Il tutto corre per centinaia di km. Sembrano messi lì da qualcuno, non si capisce come tre ambienti così diversi possano stare uno dietro l’altro così perfettamente!

Saliamo sulla Lexus e andiamo dove le dune sono più alte, 300 metri. Uno spettacolo. Tiriamo fuori tavolino e seggiolino e ci gustiamo tè, caffè e biscotti di fronte ad un panorama unico. Prendiamo le forze prima della salita. Non sarà una passeggiata – salire sulle dune è alquanto faticoso, soprattutto quando si fanno ripide. Con qualche difficoltà, raggiungiamo la vetta dopo un’oretta – ampiamente ripagati dalla vista, semplicemente unica e dal silenzio che regna sovrano. Si sentono soltanto il volo degli uccelli, il vento e la sabbia che scorre sulla sabbia. La discesa è invece una passeggiata, anzi ancora più facile. Prima di tornare al camping, andiamo in un altro luogo sempre in zona ancora più suggestivo – si tratta dell’unica area verde del deserto dove c’è un prato all’inglese. L’artefice di questa oasi è una sorgente di acqua sotterranea che affiora in più punti con un leggero gorgoglio. È tradizione mongola fare dei canti per ringraziare la natura di tanta ricchezza. Ci dirigiamo verso una di queste sorgenti sui cammelli – un breve tratto, ma emozionante visto anche il contesto: prateria verde da una parte e dune di sabbia giallissima dall’altro. Un altro spettacolo. Enkhee come da tradizione intona due canti di ringraziamento, debitamente filmati!

Torniamo al camping per un pranzo veloce e risaliamo in macchina, destinazione Bayanzag attraversando il parco naturale per oltre 200 km. Tempo una mezz’oretta abbondante e prendiamo male una buca. Enkhbak scende: ruota bucata. Vabbè, diciamo che è normale o comunque si può mettere in conto di bucare guidando su queste strade. Non si può mettere in conto invece che la Lexus ha un sistema complicato per togliere la ruota e che, dopo assistenza telefonica, il dado che serve per togliere uno dei 5 bulloni della ruota è usurato. Non aderendo bene al bullone, non riusciamo a toglierlo. Il sistema è pensato per evitare che vengano rubate le ruote. Peccato che può creare questi inconvenienti che, se ti trovi in mezzo al nulla, può diventare un problema serio. Tempo 5 minuti e si materializza un nomade in motocicletta proveniente da una ger poco distante da noi. Ci ha visto in lontananza ed è venuto in soccorso. Inizio da qui a conoscere sempre di più la generosità e la solidarietà di questo popolo straordinario. Non riesce neanche lui. Cosi Enkhbat sale sulla motocicletta con il dado incriminato e scompare per le strade della steppa. Rimaniamo noi 4 con la Lexus in panne in mezzo al deserto del Gobi, in compagnia solo del vento e di un gregge di pecore. Le mie colleghe, impassibili, tirano fuori il tavolino e le seggiole: mangiano, bevono e parlano, il tutto come se fosse una sosta prevista e piacevole. Con il passare dei minuti, inizia a pensare che non arriveremo mai a destinazione in giornata. Quasi mi rassegno all’idea che avremmo dormito un’altra notte nel camping e poi domani chissà. Ammiro il passaggio ma spesso guardo in direzione del camping per vedere se stanno tornando. Passa quasi un’ora e finalmente si intravede una polvere alzarsi sempre più vicina, segno che una motocicletta e una macchina si stavano avvicinando. È così! Arriva di tutta carriera un uomo con una vecchia jeep anni ’90 – scende e in 10 minuti (Non so come) risolve il problema: riesce a togliere la ruota e mettere quella di scorta. Credo che mi ricorderò a lungo il sollievo provato in quel momento. Alla fine, la pacatezza e lo spirito zen delle mie colleghe avevano un senso. Viene fuori che l’uomo è un caro amico del marito di una mia collega, pensa te.

Bene, ripartiamo verso Bayanzag- attraversiamo un tratto del parco che ha dell’incredibile. Sembrava di avere a destra e sinistra delle catene montuose in miniatura. Difficile da spiegare. Qui parliamo degli animali che si possono trovare, incluso anche il misterioso e leggendario leopardo delle nevi. Usciamo da questa ambiente pensando che se avessimo bucato lì saremmo stati spacciati! Beh, proseguiamo e qui il paesaggio si apre a vista d’occhio – una prateria sterminata con una cornice di montagne altissime. Sta per tramontare il sole così chiedo di scendere per fare qualche scatto. E qui accade l’impensabile: abbiamo bucato di nuovo, questa volta la ruota posteriore. Persino Enkhbat perde la sua proverbiale calma e si lascia andare ad un impercettibile gesto di stizza. Ora il problema è molto serio: siamo a 70 km dalla destinazione finale in mezzo al nulla con una ruota bucata ma soprattutto senza ruote di scorta e con il sole ormai dietro l’orizzonte. La tempesta perfetta! Un mistero come uscirne. Due mie colleghe iniziano a camminare verso una ger che si intravedeva in lontananza. Intercettano un nomade con la sua moto che stava tornando dalla sua famiglia dopo essere stato via da casa 5 notti. Racconta loro che è stato nei pressi di una miniera d’oro; alla fine delle attività estrattive, rimane sempre qualche granello d’oro per terra che i nomadi non si fanno scappare. Lui ne recupera un po’ e li vende. Ha un bel gruzzoletto di soldi con sé e la moglie lo aspetta con uno stufato di carne di pecora come ricompensa! Però non ci pensa un attimo e viene da noi ad aiutarci. Ci invita nella sua ger a condividere la cena e passare la notte con la sua famiglia. Da qui inizia una serie lunga di telefonate – contattano il camp (questa volta prenotato!) e ci dicono che un uomo verrà a prenderci, ma non sa se ci troverà. Ottimo. Si fa sempre più buio ed inizia a fare freddo. Non so bene a cosa pensare, però vedo loro relativamente tranquilli e decido di stare tranquillo anch’io. Spegniamo tutte le luci per non scaricare la batteria. Mi affaccio sul parabrezza e scorgo uno spettacolo unico – un cielo stellato mai visto così fitto di stelle. Si vede persino la via lattea! Ci scherziamo sopra e diciamo che ora è chiaro il motivo per cui eravamo bloccati lì. Intanto Enkhbat e il motociclista scompaiono nuovamente, per la seconda volta in 3 ore, non male. Attendiamo più o meno fiduciosi. Enkhee mi dice: al limite tu vai al camp con l’uomo che verrà e noi rimaniamo a dormire qui, magari in una ger. Non è che mi convinca molto a dire il vero. Dopo un po’ tornano, anche con un altro motociclista. Hanno una pompa che a confronto quella mia della Decathlon è un gioiellino. Iniziano ad armamentare con una bottiglietta d’acqua (mah), la pompa e la ruota. Riescono a gonfiarla un po’, quel tanto che basta per salire e spostarci verso la ger del secondo motociclista. Entriamo: c’è sulla destra la coppia che probabilmente stava dormendo e a sinistra il figlio che guardava la televisione. Fantastico. Ci offrono subito del pane (secchissimo, stavo quasi per rompermi un dente!). Parlottano tutti un po’, fanno un po’ di chiamate e fortunatamente l’uomo che sta venendo a prenderci conosce questa famiglia. Perlomeno ha un punto di riferimento. Ora, come possa trovarci in piena notte per me è tutt’ora un mistero. Saliamo in macchina e accendiamo le luci per farci vedere. Arriva il nostro secondo Salvatore della giornata, questo più che un Salvatore è un Santo dato che si è fatto 70 km di notte per venirci a prendere. La ruota tiene, quindi decidiamo di partire tutti. La moglie esce dalla ger e ci da 5 pezzi di formaggio. Ringraziamo per l’aiuto, l’ospitalità e la solidarietà che ci hanno letteralmente salvati. Iniziamo così a fare i 70 km nel buio della notte – il santo (ora lo chiamerò così!) corre come un pazzo nel buio, spesso lo perdiamo di vista. In tutta la steppa ci siamo probabilmente solo noi – sbagliamo strada. Ce ne rendiamo conto perché sulla sinistra vediamo in lontananza dei fari bianchi di una macchina. Non può che essere lui. Quindi ci dirigiamo verso i fari – era lui! Sembra di essere in un videogioco. Ricominciamo la folle corsa notturna – guardo il contakm. So che siamo circa a 70 km dalla destinazione. Ne facciamo circa 60 e ci fermiamo. Penso di essere arrivato, in realtà siamo a Bulgan, piccolo e polveroso villaggio, uno dei pochissimi in quella zona. La speranza è di trovare qualcuno che possa sistemare la ruota. Sono le 00:30 e non c’è nessuno, ovviamente. Cosi decidiamo che Enkhbat rimane lì con la macchina e noi 4 andiamo con il Santo al camp, altri 20 km! Arriviamo alle 1:20, sfiniti – le mie colleghe vogliono cenare prima di andare a dormire, io avrei fatto anche a meno. Mangiamo e andiamo a dormire. Anche qui in una ger. Mi melatonizzo nella speranza che mi faccia dormire nonostante la domanda assillante che mi facevo: riusciremo ad arrivare a Ulaanbaatar domani? Non volevo sapere la risposta, confidando negli eventi. In fondo aveva funzionato fin lì.

MERCOLEDI 18 SETTEMBRE – Mi sveglio con la luce naturale che entra dalla ger, sono le 8:20. Ho dormito bene, per fortuna – il primo pensiero è: riusciremo ad arrivare a Ulaanbaatar oggi? Il camp è molto ben tenuto, ne approfitto per lavarmi un po’ e togliermi la sabbia del giorno prima. Facciamo una colazione lunga e parliamone del più e del meno della Mongolia e degli stili di vita delle famiglie che vivono nelle ger. Cerco di distrarmi cosi da quella domanda assillante. Enkhee mi dice con tutta la tranquillità del mondo che in mattinata andiamo a piedi a visitare le flaming cliffs (vette infuocate) e che nel frattempo il problema sarebbe stato risolto. Intanto alle ore 9:20, Enkhbat non aveva ancora trovato qualcuno che potesse aiutarlo.. Niente, cerco di fidarmi degli eventi e ci incamminiamo verso le vette infuocate che si intravedono anche dal camp. Lo spettacolo è straordinario – nel bel mezzo della steppa sterminata c’è questa formazione geologica di terra rossa che ricorda un pò il Grand canyon, ma ha un che di diverso e di magico. Qui nel 1920 sono stati trovati i primi fossili di dinosauro e addirittura uova. Fu un certo Andrews del National Museum of History di new york che fece questa fortunata spedizione. La sua biografia è quella tipica dell’avventuriero alla ricerca di pezzi di storia in giro per il mondo, un perfetto Indiana Jones. Leggo che quando era giovane voleva a tutti i costi lavorare per il National Museum of History di new york che entrò come portinaio per diventare nel giro di qualche anno il direttore. Incredibile. Qui passeggiamo sulle vette di queste formazioni geologiche con la steppa sullo sfondo. Troviamo qualche ovoo, cumuli di pietre lasciati da persone con qualche buon auspicio secondo le più antiche tradizioni sciamane (ancora molto diffuse in Mongolia, anzi in crescendo da quanto mi dicono). È in effetti un posto magico che invita alla riflessione e meditazione. Ed è qui che scopro il talento di Enkhee – recita poemi mongoli, canta inni alle mamme e al ritorno dei figli infine ci invita tutti alla meditazione. Ho già assistito a meditazioni buddiste in passato ma non mi era mai capitato di farne una. Beh, direi senza dubbio il posto ideale. Dopo poco arriva la chiamata tanto attesa (perlomeno da me!) di Enkhbat – la ruota è stata riparata, evviva! La meditazione ha funzionato! Torniamo a piedi al camping – nel frattempo Enkhbat è arrivato e ci chiama per una seconda volta: c’è ancora una perdita, dopo pranzo dobbiamo tornare a Bulgan…ok, ora capisco che è meglio moderare gli entusiasmi d’ora in avanti.

Pranziamo e raggiungiamo Bulgan – lasciamo la macchina dal gommista, nel frattempo visitiamo questo piccolo villaggio. A dire il vero, a parte un piccolo tempio buddista abbandonato c’è poco da vedere. Cogliamo l’occasione per visitare la filiale di Khan Bank, la banca del nostro progetto. Cosi posso dire di essere venuto fin qui per lavoro! Torniamo dal gommista che proprio in quel momento ha sistemato per la seconda volta la gomma. Mah, abbiamo davanti 600 km, ho i miei dubbi che la pezza che hanno messo tenga fino alla fine. Ci mettiamo in moto verso Ulaanbaatar – dopo due ore di sterrato raggiungiamo finalmente la strada asfaltata! Facciamo benzina, per ora la ruota sembra tenere. Illusione. Ci fermiamo per cena in un parcheggio di camionisti con una sorta di negozietto con cucina e scopriamo che la ruota è a terra. Ormai non mi stupisco più di nulla, quindi non ha (quasi!) alcun effetto su di me. Mentre mangiamo, un camionista gonfia la ruota con il compressore del suo camion. La ruota si gonfia. Ci offrono vodka che accetto (malvolentieri). Ripartiamo fino alla prossima sosta – dopo un’oretta scendiamo a vedere lo stato della ruota – è di nuovo a terra..Enkhbat parlotta con un po’ di persone, poi sale deciso in macchina e segue una prius bianca che si stacca dalla strada principale ed entra in un bosco. Qualche svolta e siamo dentro il cortile di casa sua, con la sua ger che è in realtà una officina. Smontiamo la ruota – mentre armamentano con la ruota, mi distraggo un po’ guardando il cielo stellato, al freddo. Rientro nella ger per vedere a che punto sono e mi mostrano la ruota gonfia con un tubicino di gomma infilato e incollato presso il buco della ruota. Diciamo che non me ne intendo, però non mi da molte garanzie di successo. Enkhbat invece mi fa capire che questa volta ci siamo, abbiamo risolto il problema. Avrà ragione! Risaliamo in macchina verso Ulaanbaatar – è mezzanotte passata, accostiamo. Enkhee mi dice che forse è il caso di fermarsi a dormire da qualche parte, soprattutto per far riposare Enkhbat – mancano in effetti ancora 280 km a Ulaanbaatar. Ovviamente va bene, anche se mi pongo seriamente il problema di come gestiremo la giornata di lavoro il giorno successivo. In fondo sono venuto in Mongolia per questo – chi glielo spiega al cliente che sono andato fino in Mongolia, ma non sono riuscito ad incontrare la banca! Io ed Enkhbat dormiamo in un hotel fatiscente sulla strada nelle uniche due stanze libere mentre le mie colleghe vanno a dormire da alcuni parenti che vivono casualmente (o forse no) lì vicino. Sveglia alle 4:50 e alle 5:00 siamo già tutti in macchina, stavolta con tappa finale Ulaanbaatar. E’ ancora buio, ma si intravedono le prime luci dell’alba. Quando il sole sta per sorgere ci fermiamo in mezzo alla steppa e facciamo una colazione frugale in macchina. Esco dalla macchina e sento il battito delle ali di un’aquila che volava a bassissima quota, in lontananza vedo cavalli allo stato brado e all’orizzonte il sole che sale. Le emozioni non finiscono davvero mai in questi tre giorni! Si risale in macchina e alle 9:15 arriviamo (finalmente!) a Ulaanbaatar. I fumi delle centrali a carbone salgono alti nel cielo, per scendere poi sulla città per le temperature basse della mattina. Queste centrali a carbone nel cuore della città sono allo stesso tempo il cuore pulsante dell’economia di questa provincia e una condanna per la popolazione che ci vive. In inverno diventa la capitale più inquinata del mondo. Penso ai nomadi delle steppe che (in tanti) si sono spostati dalla natura selvaggia e incontaminata in questa città, spesso costretti dagli eventi, cambiamenti climatici su tutti, ma anche per far studiare i propri figli. Sono spesso le donne a seguire i figli che studiano, mentre gli uomini rimangono nelle steppe a mantenere le loro greggi, per quelle famiglie di nomadi che ancora ce le hanno. Il meeting con la banca è stato spostato al pomeriggio, giusto per avere il tempo di riprendersi, rinfrescarsi e cambiare vesti (in tutti i sensi).

E’ stato un viaggio totale, durato 3 giorni che per intensità sembrano 2 settimane! Le disavventure sono state in realtà una occasione più unica che rara per conoscere a fondo il senso di ospitalità e solidarietà di questo popolo straordinario senza le quali probabilmente saremmo ancora bloccati nel deserto del Gobi. I paesaggi della Mongolia trasmettono un senso di libertà, pace ed infinito che io personalmente non ho trovato in nessun altro posto. L’immensità della natura che incontra l’immensità dell’animo umano, nel suo stato più puro e genuino.

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