Dancalia, un luogo da rispettare
Indice dei contenuti
Tour in gruppo 14/11/19 – 25/11/19
Partecipanti: io, in compagnia di altre 12 persone, più accompagnatore dall’Italia
Cambio valuta: 100 BIRR ~ 3.70 €
Prologo:
Qualche anno fa avevo visto in tv un documentario sulla Dancalia. Un posto fuori dal mondo, di cui non avevo mai sentito parlare e che dà l’idea di essere l’accesso dell’inferno. Le immagini viste in tv mi hanno letteralmente affascinato.
Gennaio 2019. Sono a Ghale Gaun, uno sperduto villaggio nepalese, e chiacchierando con il gruppetto di persone con cui sto viaggiando butto lì che mi piacerebbe andare a vedere con i miei occhi la Dancalia. E Valentina, che pur essendo giovane ha girato mezzo mondo, ci è stata e racconta del viaggio. Molto scomodo, impegnativo e anche abbastanza costoso. Ma assolutamente indimenticabile. Valentina mi dà i riferimenti dell’agenzia di viaggi con cui è andata lei (Compagnia del Mar Rosso di Milano). Tornato dal Nepal chiamo e mi dicono che sono in programma due viaggi: uno a Novembre e uno a cavallo di Capodanno, ma sono già pieni entrambi. Verso la tarda primavera c’è una rinuncia per il viaggio a fine anno, ma ho già altri programmi. A ottobre ci ho già messo una pietra sopra quando ricevo una mail in cui mi comunicano che una persona iscritta al viaggio di Novembre ha dovuto rinunciare e quindi c’è posto. Un paio di giorni per verificare di poter fare questo viaggio e poi la decisione di iscrivermi. Costo 2990€ più circa 250 tra visto, mance, extra. Non è poco per un viaggio che prevede qualche notte in alberghetti modesti, due notti su brandine in tenda e due notti addirittura sotto le stelle.
Francamente non capisco quali voci di spesa facciano crescere così il costo. Per andare 12 giorni in Namibia con volo Ethiopian che, rispetto a questo viaggio Milano – Addis Abeba, ha fatto in più la tratta Addis Abeba-Windhoek , con il soggiorno in strutture lussuose e con pasti ottimi abbiamo speso meno.
Ma è un posto particolare (vedi note finali).
Se volete avere un’idea visiva della Dancalia potete accedere al mio canale Youtube a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=ICO0_EP3JQU
Giovedì 14 novembre 2019
Giorno di partenza. I bagagli sono pronti. Check in on line fatto. Non resta che partire e sciropparsi la noiosa autostrada fino a Malpensa. Prenotato il posto al GPparking (35€ posto scoperto). Alle 15 sotto un cielo grigio piombo, pioggia battente, 5°C, le cime oltre i 700 metri imbiancate parto alla volta di Malpensa. In A4 si va a velocità moderata e alle 17 sono al GPparking di Somma Lombardo e alle 17:30 ai banchi Ethiopian Air Line dove incontro altri 9 del gruppo e l’accompagnatore. Altri 3 saliranno a Roma. A Milano il Boeing 777 è quasi vuoto. A Roma si riempie come un uovo.
Venerdì 15 novembre 2019
Il volo procede tranquillo senza particolari scrolloni. Verso l’1 am CET ci rifilano un vassoietto tutto sommato commestibile. Poi si tenta di dormire un po’. Quando manca un’ora all’arrivo portano la colazione. Dai finestrini si vede l’alba africana ricca di sfumature di colori accesi. Alle 4.50 ora italiana, 6.50 ora etiope arriviamo a destinazione. Coda abbastanza lunga per avere il visto, cioè un timbro che costa 44€ per un mese. Recuperati i bagagli finalmente verso le 8.45 si esce. Ci sono gli autisti e Yonas, la guida etiope, che ci aspettano con le jeep e partiamo. Ma ci fermiamo quasi subito per fare colazione in un ristorante. Ci portano dei frittelloni sottili che si mangiano col miele e un tè caldo (un po’ speziato). Gli avanzi della colazione Yonas li mette in un sacchetto di nylon per portarli via e ripartiamo. Ci infogniamo subito in un bel traffico. Si procede a rilento. Guardando dal finestrino si nota una notevole varietà di stili architettonici che vanno dalla catapecchia semidiroccata al lussuoso edificio tutto luccicante. Addis Abeba ha 6 milioni di abitanti (e tutta l’Etiopia 110 milioni). E si vede! C’è gente ovunque. Finalmente usciamo dalla città e la velocità aumenta. Ci fermiamo per pranzo in un ristorante abbastanza bello lungo la strada e poi via verso Kombolcha. Il paesaggio che scorre di fronte è simile a tanti paesaggi di collina. Molto verde, alberi, coltivazioni di cereali. Un po’ monotono. Nei pressi dei villaggi si vedono bambini, alcuni anche molto piccoli (direi sui due-tre anni), che portano sulla schiena a mo di zaino taniche, legna, fieno. Ad un certo punto gli autisti si fermano alla “finestra di Menelik” a Debre Sina dove c’è una colonia di babbuini gelada dal pelo lungo con una strana macchia rossa e bianca sul petto. Il capobranco è un bel bestione dall’aria poco socievole. Fatta qualche foto ricordo ripartiamo.
La strada asfaltata è sovente occupata da una notevole quantità di mucche, vitelli, zebù, dromedari, asinelli, capre, pecore, galline (poche), umani di varie età tra cui bambini che sbucano all’improvviso, tuk tuk (le motorrette taxi) che fanno le manovre più fantasiose. Così è impossibile viaggiare un po’ spediti. La cosa curiosa è che tutti gli erbivori invece di andare nei prati brucano erba sul bordo della strada. Si vede che i gas di scarico dei vari motori diesel e dei motori a due tempi dei numerosissimi tuk tuk rendono più saporita l’erba. Comincio ad essere piuttosto stanco. Alle 18 arriviamo all’hotel un po’ di chilometri prima di Kombolcha. Finalmente una doccia calda, seppure un po’ approssimativa a causa del soffione intasato dal calcare. La camera non è male. Molto spartana. E come sempre nei paesi poco sviluppati il punto debole è l’idraulica. Lo sciacquone del wc non va, ma con un intervento di manutenzione lo rimetto un po’ in sesto. Per cena ho provato lo shirò, un piatto tipico locale che consiste in una vellutata di ceci e berberè. Il berberé è un ingrediente chiave delle cucine eritrea ed etiope. E’ una miscela di spezie, la cui composizione è tradizionalmente: peperoncino, zenzero, chiodo di garofano, coriandolo, ruta comune, ajowan (cumino d’Etiopia) e può comparirvi anche il pepe lungo. Lo shirò si mangia con pane injera, una specie di grossa crepes spugnosa leggermente acidula fatta con il teff un tipico cereale coltivato in Etiopia e introvabile in Occidente. Poi nel letto con l’obiettivo di rimettermi in sesto.
Sabato 16 novembre 2019
Dopo una notte abbastanza riposante alle 6.30 suona la sveglia. La colazione è decisamente scarsa: 3 fettine di pane tostato con marmellata e te. Alle 8 si parte. Il traffico è sempre difficoltoso. Alle 9.30 la carovana di jeep si ferma di fronte ad un “elegante” autogrill dove ci servono dei piattini di papaia a km 0. Per chi ha necessità di espletare funzioni corporali il wc è costituito dal boschetto adiacente. Si riparte per Kombolcha dove ci fermiamo un’ora e mezza per avere i permessi per la Dancalia. Facciamo un giretto a piedi nell’attesa che la burocrazia etiope faccia il suo corso. In un piazzetta si vedono vestigia del periodo coloniale fascista in Etiopia: un brutto obelisco che nel basamento ha una targa scolpita che ricorda Vittorio Emanuele III, Mussolini e Graziani. Per il resto non c’è nulla di interesse turistico. Tantissime catapecchie con parabole sul tetto di lamiera. Mentre passeggiamo un gruppetto di studenti sui 14 anni si mette a chiacchierare con noi in un discreto inglese. Pur essendo una città sgangheratissima è sede universitaria. Ottenuti i permessi riprendiamo la marcia. Alle 12 ci fermiamo in un fatiscente cafè nella scassatissima città di Bati per fare un sontuoso pranzo che consiste in un piatto di riso al curry, una banana che mangio per fame e perché contiene potassio pur essendo un frutto che se posso evito. E per strafare c’era anche mezza arancia. Satolli ripartiamo. Arriviamo ad un bivio che indica Chifra 55 km. Come svoltiamo la strada diventa sterrata. Si va a rilento. Dopo qualche km la strada diventa asfaltata. Bene! Ma dopo 200 m ritorna sterrata. Perché asfaltare 200 m in mezzo al nulla? Uno dei tanti misteri dell’Africa.
Vediamo i primi villaggi Afar costituiti da capanne a forma semisferica fatte di rami, paglia, fogliame e teli di varia natura tenuti da corde. Nel pomeriggio arriviamo a Chifra e dato che bisogna attendere una guida Afar ci fanno accomodare al bar dell’hotel Tokoboyta e ci beviamo una birretta etiope bella fresca (buona). L’hotel è indescrivibile, poco più che un insieme di baracche stile Ghale Gaun (vedi diario Nepal) e il bar è nello stesso stile. Le tazze del caffè e del tè vengono sommariamente sciacquate in una catinella d’acqua non proprio limpida. Arrivata finalmente la guida ripartiamo. Percorsi 8 km di sterrato arriviamo al villaggio Afar dove arriva una milionata di bambini con relativi adulti al seguito. I bambini sono molto allegri e vogliono farsi fotografare. Si piazzano in posa, come se dovessero fare una foto tessera, e poi vogliono vedere sul display come sono venuti. Mentre noi fotografiamo decine e decine di bambini, gli autisti montano le tende. Dato che l’allestimento del campo tendato è uno spettacolo i bambini si riversano tutti intorno. C’è un anziano che li tiene a bada minacciandoli con una lista di nylon a mo di scudiscio se rompono. Il campo è montato e sta facendo buio. Sarà dura! Qui non c’è acqua e meno che mai energia elettrica. Abbiamo a disposizione 1 litro di acqua in bottiglia per le esigenze igieniche di due giorni. Il nostro campo è rischiarato da un’unica lampadina a led collegata ad una batteria. All’ora di cena riceviamo la visita del capo del villaggio. Un signore molto alto e molto magro dall’aspetto carismatico. Come segno di accoglienza ci ha portato del tipico pane Afar. Una specie di focaccia un po’ densa che ha una consistenza che ricorda vagamente la nostra polenta. Mentre aspettiamo che arrivi il piatto caldo (pasta con sugo di pomodoro e cipolla che sarà il leit motiv dei nostri futuri pasti autogestiti) ci scofaniamo del parmigiano e un ottimo strolghino portati direttamente da Parma. La pasta è un filino scotta, ma date le condizioni in cui è cucinata non ci si può lamentare. Per rendere la cena ancora più attraente la cuoca ha cucinato anche cavoli e carote stufati. Come dessert banana. Alle 21 in tenda a leggere con la torcia.
Domenica 17 novembre 2019
La notte è stata meglio del previsto. Le brandine con il materassino sono abbastanza comode. A disposizione dei campeggiatori c’è il gabbiotto con alcuni wc. I wc sono dei buchi nel pavimento con ai lati due mattoni di cemento. Ovviamente non c’è acqua per il wc, visto che si prende parecchio lontano con delle taniche e non si deve sprecare. Quindi l’uso dei servizi è poco gradevole. Col buio pesto meglio andare nel deserto circostante. Alle 5 una luna luminosa come un lampione mi sveglia. Mi rigiro in branda fino alle 6 e poi mi alzo, visto che fa chiaro. A colazione faccio tirare fuori le gocciole Pavesi che ho portato da casa che riscuotono notevole successo. Il sole è sorto alle 6.45 e prima ancora dell’alba, non appena si è fatto chiaro, alcuni bambini del villaggio, di età stimabile tra i 6 e gli 8 anni, sono usciti con i loro greggi composti da una trentina tra capre e pecore a cui baderanno nella giornata. Dopo una modesta colazione andiamo a visitare il villaggio guidati dal capo. La prima cosa che salta all’occhio sono le tantissime bottiglie di plastica disperse nella sabbia. Il Capo villaggio ci mostra come è fatta una capanna. Si parte da una intelaiatura di rami legati tra loro con fibre di legno che formano una struttura a forma di igloo. Poi la struttura si copre bene con dei grossi teli fatti di materiale vegetale intrecciato. Quindi si accende un piccolo fuoco all’interno in modo da produrre molto fumo. Il processo di affumicatura manterrà sana e robusta l’intelaiatura di legno nel tempo. Terminato questo processo si tolgono i teli e si copre l’intelaiatura con delle ramaglie, della paglia e anche con teli fissando bene il tutto con delle corde. Si entra camminando carponi da una porticina minuscola da cui io ho fatto fatica a passare. Loro sono magrissimi e quindi non hanno problemi. Nel villaggio c’è una capanna per le donne per pulirsi con il fumo come fanno le donne himba della Namibia. Visto che sono musulmani, hanno anche costruito una piccola moschea (senza minareto) utilizzando tronchetti di legno di eucalipto e sterco. Qui gli eucalipti sono altissimi con un tronco di una decina di cm di diametro. Il capo-villaggio ci accompagna poi ad uno dei recinti dove tengono le pecore e troviamo un agnellino nato da pochissimi minuti che sta cercando di alzarsi. Chiedo come si procurano l’acqua e mi risponde che vanno con gli asinelli e delle taniche ad un punto di erogazione che viene regolarmente riempito da un servizio pubblico di autobotti. Per procurarsi l’acqua devono farsi 2 ore per andare e 2 per tornare. E ogni asinello porta una cinquantina di litri. L’acqua è un bene preziosissimo. Non essendoci l’elettricità, hanno giusto qualche lumino di quelli che si caricano con le celle solari. Vivono con il ciclo solare. Si alzano all’alba e quando è buio dormono. Non possono quindi conservare nulla se non farine e granaglie. Mungono capre, pecore e mucche e consumano subito il latte. Se ogni tanto ammazzano una capra o una pecora, fanno delle strisce di carne che passano nel pepe e nel berberè e poi la affumicano. Visto che ci sono i tralicci dell’alta tensione che passano nel villaggio abbiamo chiesto come mai non si allacciano alla rete elettrica. Il problema è il costo. Sono talmente poveri che non potrebbero pagare il consumo. Questa povera gente vive davvero con nulla. Finita la visita del villaggio si va a Chifra per mercato del bestiame. È un piazzale enorme dove si contratta l’acquisto di capre, pecore, bovini e dromedari. Grosso modo una capretta costa sui 20-30 €, mentre per un bel dromedario ce ne vogliono 1000. Dato che molti Afar hanno l’obiettivo di possedere un kalashnikov che costa sui 3000€, per avere i soldi necessari all’acquisto devono vendere 3 dromedari. Non avendo interesse all’acquisto di bestiame ce ne andiamo e alle 11 siamo al solito bar ristorante che probabilmente molla la tangente alla guida, visto che ci porta sempre lì. Alle 12 arriva il pranzo preparato dalla cuoca che consiste in un piatto di riso e verdure assolutamente insipido e una fettina di anguria. Dopodiché rimaniamo a non fare un tubo fino alle 15.30. Il programma prevedeva di andare a vedere il sito in cui sono state trovate le ossa dell’australopiteco noto come Lucy, ma la guida etiope (Yonas) dice che è lontano e non si fa in tempo. Questa informazione ce l’avevano già quando hanno scritto il programma. Perché allora inserire questa visita se non c’è il tempo di farla? L’avessero almeno detto prima che saremmo stati 3 ore a far nulla, mi sarei portato il libro. Ma sembra che le parole costino. Come alternativa alla mancata escursione nel pomeriggio ci portano in un altro villaggio Afar molto grande. In questo villaggio le capanne sono costruite in modo diverso. Invece di essere fatte a semisfera sono circolari con il tetto a cono. Una capanna per una famiglia occupa una superficie di poco più di una decina di metri quadrati. Anche qui non c’è né l’elettricità né l’acqua in casa. In compenso c’è un bel traliccio con le antenne del gsm. Dovrebbe essere più importante portare l’acqua potabile se non proprio dentro le case, almeno a delle fontane comode per approvvigionarsi.In questo villaggio che è grande la moschea è in muratura. In ogni villaggio c’è un imam anche in quello microscopico di stamattina. Si rientra quasi col buio. A cena di nuovo pasta al pomodoro e cipolla e salame e formaggio.
Lunedì 18 novembre 2019
Ci svegliamo all’alba, cioè circa alle 6. Mentre aspettiamo che allestiscano il tavolo per la colazione vado a fare quattro passi verso le capanne. Non è ancora sorto il sole, ma gli Afar sono già in attività. Da un recinto tirano fuori delle mucche, da un altro invece fanno uscire dei vitellini e li accompagnano dalle loro madri. I vitellini succhiano un po’ di latte, poi li staccano e mungono il latte direttamente in una tazza. Probabilmente la colazione. Torno al campo per colazione e nel frattempo hanno portato dal villaggio un bel po’ del loro pane. Dopo colazione si smonta il campo sotto lo sguardo vigile di una miriade di bambini sorridenti e qualche adulto. Come gruppo abbiamo donato due bidoni per l’acqua molto capienti che possono essere fatti rotolare e quindi più comodi da trasportare. Sembrano contenti, anche se non è facile far capire che è molto più comodo tirarli invece che spingerli. I bambini invece purtroppo sono andati a recuperare le bottiglie di plastica vuote che noi abbiamo raccolto in un sacco per buttarle. E’ facile prevedere che saranno poi abbandonate ovunque. Partiamo e poco dopo siamo già fermi non so per quale motivo nel solito bar. Forse hanno una percentuale sugli incassi. Finalmente si va. Ripercorriamo la strada sterrata dell’andata e arriviamo a Kombolcha e quindi a Bati dove c’è il mercato settimanale. Gigantesco. Un caos indescrivibile. Girare per questo mercato fa capire che la battaglia per contrastare la plastica è persa in partenza. Ci sono montagne di sandali a scarpette di plastica, bidoni, taniche, secchi, contenitori di vario genere, ecc.
In questo mercato ci sono anche tanti “sarti on the road” con la loro macchina da cucire a pedali, c’è un mulino elettrico dove la gente porta a macinare i propri semi e ovviamente tanti venditori di frutta e verdura con una notevole prevalenza di aglio e cipolle. Una signora ha comperato una borsata di aglio. Avrà da cacciare i vampiri? A pranzo siamo andati in un ristorante nemmeno troppo scassato e ho mangiato carne di capra arrosto (buona ma un po’ dura) con pane injera. Dopo pranzo abbiamo ancora fatto un giro per il mercato che era un po’ meno affollato. Quindi partenza per Semera o Samara, capoluogo della regione Afar. Tutto asfalto
Alle 17.30 siamo all’hotel e la temperatura è 33°. Per la nostra felicità c’è il wifi. E penso che per gli Afar del villaggio la felicità è avere due bidoni di plastica per trasportare l’acqua. Mentre eravamo in viaggio con un accompagnamento musicale scassatimpani, l’autista ci ha spiegato alcune cose sull’Etiopia. Il tempo è calcolato in modo diverso rispetto a noi. In Etiopia il ciclo delle 12 ore non inizia a mezzanotte e a mezzogiorno, ma è traslato di sei ore. Pertanto gli etiopi si riferiscono alla mezzanotte (o mezzogiorno) come se fossero le 6. L’Etiopia usa il calendario etiope. Un anno etiope consiste di dodici mesi, ciascuno della durata di trenta giorni, più un tredicesimo mese di cinque o sei giorni. Il nuovo anno etiope inizia il 10 o l’11 settembre del nostro calendario gregoriano e ha accumulato 7-8 anni di ritardo rispetto al calendario gregoriano. L’autista ci ha detto che in Etiopia corre l’anno 2012. In Etiopia ci sono 80 etnie diverse ciascuna con una propria lingua. Tutte le etnie, tranne gli Oromo, usano però lo stesso alfabeto Amarico. Gli Oromo invece usano i caratteri latini. La lingua comune è l’amarico, che viene insegnato nelle scuole (ma non tutti parlano l’Amarico). Alle 80 etnie presenti, negli ultimi anni se n’è aggiunta un’altra: i cinesi, che hanno stipulato accordi industriali e commerciali con il governo etiope e che stanno mettendo in pericolo il delicato equilibrio della Dancalia, rischiando di cancellare le sue centenarie tradizioni.
Martedì 19 novembre 2019
Sveglia alle 6.30. Colazione. Partenza ore 8. Ci fermiamo per una breve sosta alle saline del lago Afdera (ci sono poco meno di 40°). Pranziamo in un capanno di bambù e frasche. Riso! Mentre pranziamo Yonas, in questo sperduto villaggio, ha trovato il modo di far riparare la suola della scarpa di Josephine che si era staccata. Il ciabattino l’ha cucita a mano facendo un ottimo lavoro. Dopo esserci sommariamente rifocillati ripartiamo girando nel deserto fino ad un villaggio per avere il permesso per salire sul vulcano Erta Ale. Mentre viaggiamo nel deserto abbiamo avuto la visione del miraggio. Sembrava che all’orizzonte ci fosse un grosso lago con addirittura un’isoletta che emergeva dall’acqua. Ovviamente era solo un’illusione ottica dovuta al riflesso del cielo sul terreno sabbioso. La strada passa vicino ad un grosso impianto industriale con scritte in cinese e sulla sterrata circolano diversi camion con targa etiope, ma con scritte cinesi sui cassoni. E’ anche in fase di costruzione una strada per raggiungere più agevolmente il vulcano. Al momento per arrivare al campo base abbiamo percorso una strada sterrata abbastanza impervia. Scaricati i bagagli prepariamo degli zaini con l’essenziale. Le valigie vengono messe tutte insieme in un capanno. La temperatura alle 17 è sui 36-37°, ma c’è un debole vento che mitiga il fastidio della calura. Tronfi e fieri con le nostre calzature tecniche da uomo bianco partiamo a piedi su per la mulattiera (che potrebbe benissimo essere percorsa dalle jeep) con al seguito un dromedario “ambulanza” qualora qualcuno si sentisse male e con quattro dromedari che portano i bagagli. Altro personale etiope di supporto partirà dopo un po’ (in ciabatte). Una signora del gruppo a metà sta male e vogliono farla salire sul dromedario che però non è molto d’accordo. Il simpatico animale quando ha capito che volevano far salire sulla groppa una persona ha posto una strenua resistenza rifiutandosi di accucciarsi e ha lungamente protestato con sonori bramiti. Poi alla fine ha ceduto. Nel frattempo e’ diventato buio, ma noi siamo dotati di lampade a led frontali. Gli etiopi in ciabatte invece, camminando al buio, ci raggiungono e ci superano in scioltezza e procedono spediti verso la cima. La salita al vulcano è costellata da un mare di bottiglie di plastica abbandonate. Sono portato a pensare che questa schifezza sia in parte colpa di turisti e in parte colpa del fatto che mancano bidoni e sacchi per raccogliere le bottiglie e in generale manchi totalmente l’attenzione a preservare questo ambiente così particolare. Ovunque si vada ti senti dire “lascia lì che poi raccolgono e puliscono”, ma la mia impressione è che non sia affatto così. Non oso immaginare cosa capiterà se il flusso turistico aumenterà grazie a vie di comunicazione stradale più agevoli. Arrivati alle 19 al bivacco assistiamo ad un furibondo litigio tra due ragazzi etiopi. Non capendo ovviamente una parola abbiamo un po’ interpretato i gesti e si direbbe che la disputa fosse su dove dovevamo sistemare il nostro bivacco. Alla fine si sono pure menati. Poi è intervenuto il poliziotto che ci scortava (è infatti obbligatoria la scorta di un poliziotto armato) e i due sono stati divisi. Mentre montano le brandine vediamo una lunga fila di lampadine che salgono su per il sentiero che porta verso il cratere dell’Erta Ale. Sembra la processione dell’Immacolata. Visto che noi dormiremo su, non abbiamo fretta e aspettiamo che tutti quelli che sono saliti tornino indietro e finalmente abbiamo un po’ di quiete. Si va al buio a vedere il cratere con le guide e il poliziotto armato. Con tutti i turisti che ci sono che vanno e vengono mi pare una precauzione di sicurezza abbastanza inutile. Il livello della lava è basso ormai da parecchio tempo e si vedono sul fondo dei buchi incandescenti che soffiano. È abbastanza inquietante il rumore che viene su dall’enorme cratere. Ma non è certo lo spettacolo emozionante come quello che si vedeva fino ad un paio di anni fa della lava incandescente che bolliva a pochi metri di distanza. Francamente la fatica e il disagio non sono compensati dalle emozioni. Torniamo su al bivacco facendo luce con le torce. Dato che non c’è nessun segnale che indica la strada da seguire, senza le guide avremmo passato la notte sul campo di lava intorno al cratere. Ad un certo punto un minimo di timore che anche le guide stessero girando a vuoto mi è venuto. Quando arriviamo su al bivacco è anche arrivato il dromedario con la cena che tanto per cambiare era pasta con pomodoro e cipolla. Però era calda. Come hanno fatto a portarla su calda è un mistero, visto che non hanno contenitori termici. Ce ne andiamo nella branda a dormire all’aperto. Una copertina è più che sufficiente.
Mercoledì 20 novembre 2019
All’alba ci si alza e si va a vedere il cratere di giorno.
È davvero enorme e ci si sporge, con la dovuta cautela, a guardarlo dentro, ma purtroppo si vede solo molto fumo e il buco incandescente che soffia si vede saltuariamente quando il fumo si dirada.
Abbandoniamo il nostro hotel a cinque stalle (non è un errore di battitura) e scendiamo ad un parcheggio dove sono arrivate quattro jeep che ci risparmiamo un bel pezzo di strada a piedi. Non sarebbe stato male andare fin lì in macchina anche ieri sera facendoci risparmiare un pezzo di salita visto il caldo.
La cuoca ha preparato una colazione un po’ più abbondante del solito. Vista la frugale cena di ieri e la fatica fatta è stata sbafata in quattro e quattr’otto.
Il programma viene modificato e invece di andare ad Afdera e dormire in tenda si va a Makallè in hotel. Almeno ci laviamo e ci riposiamo.
A pranzo ci fermiamo in un capannone sgangherato tipo quello dell’altro giorno.
Naturalmente pasta al pomodoro e cipolla. Per migliorare il pranzo diamo fondo alle riserve portate da casa.
Poi maciniamo un bel po’ di chilometri e finalmente siamo all’hotel Hatsey Yohannes a Makallè. Da fuori e entrando nella hall non sembra male, ma le camere sono una ciofeca e la doccia è appena tiepida e l’acqua viene giù a gocce. Lavarsi è stata un’impresa.
Giovedì 21 novembre 2019
La colazione è un po’ scrausa come l’hotel. Visto che è possibile farsi cucinare un omelette la ordino. Il cuoco mi dice di andarmi a sedere, lo faccio, l’omelette è pronta, la dà ad una cameriera che la porta ad un altro il quale ben contento la prende. Al che vado a chiederne un’altra e stavolta me la porta. Dato che si partirà alle 11 perché devono fare la spesa per i prossimi giorni facciamo un giro a piedi nel circondario abbastanza spaventoso. C’è una rotonda con un monumento in mezzo e un tizio col sacco a pelo che ci dorme sopra. In un negozio di elettrodomestici è esposta una monumentale lavatrice come quella che aveva mia madre negli anni ’60 con una vasca per lavare e di fianco il cestello per centrifugare. Non c’è nulla che valga la pena di acquistare. Una signora del gruppo contratta in un banchetto un paio di orecchini di bigiotteria per 7 euro e dopo nemmeno due ore il gancio si era già rotto. Alle 11 partiamo. Makallè è a circa 2000 metri. La strada sale ancora di quota. Ad un certo punto ci sono 15° e la nebbia. Ieri avevamo toccato i 43°! Cominciamo a scendere di quota e verso le 13 ci fermiamo in uno spiazzo a bordo strada per fare un pic nic. Con una rapidità incredibile montano i tavolini e preparano la tavolata. Oggi riso con verdure che miglioriamo con del tonno e del formaggio portati da casa. Mentre stavamo preparando sono arrivati dei bambini Afar con un vecchio. I bambini sono scalzi e con vestiti laceri, ma non chiedono nulla. Noi ci mettiamo a tavola e loro si siedono su un muretto a guardarci. Siamo uno spettacolo curioso. Terminato di mangiare è avanzato del riso nel piatto di portata e quindi la guida lo ha offerto ai bambini. In realtà non hanno dato l’idea di patire la fame (meno male) perché ne hanno mangiato un po’, credo per curiosità, prendendolo con le mani sporchissime e poi l’hanno lasciato. Ripreso il viaggio siamo finalmente arrivati al letto del fiume dove domani ci aspetta il trekking di 16 km. Se ne deve percorrere un pezzo in auto fino ad arrivare ad un’area dove si può montare il campo. Iniziamo a percorrerlo. Ad un certo punto in un luogo abbastanza isolato si incontra un anziano signore, di nome Ambo, con barba rossa (tinta con l’henné) che si unisce a noi. Non ho capito bene che ruolo abbia. La cosa curiosa è che invece di aspettarci all’inizio della strada fosse nel bel mezzo del nulla. Man mano che procediamo c’è sempre più acqua e fango, perché ci sono stati forti acquazzoni sulle montagne circostanti. Non si può proseguire e meno che mai piantare le tende. C’è una spanna di fango. Con l’umore piuttosto nero si torna indietro per arrivare con l’auto a Medalaby, che è la meta finale del trekking. Lungo la strada incontriamo un cammelliere che trasporta le mattonelle di sale. Anche i cammellieri preferiscono camminare sull’asfalto invece che nel prato. Arrivati a destinazione per raggiungere l’area dove montare il campo c’è un guado da brivido. Per fortuna gli autisti sono ben preparati e arriviamo senza problemi. Montaggio tende, con la speranza che questa notte non piova, poi cena. Abbiamo dato fondo ad un bel trancio di coppa della cambusa. Facciamo un tentativo di falò con poco successo e poi a dormire.
Venerdì 22 novembre 2019
Dopo una notte umida e calda in compagnia di insetti vari che non hanno consentito di dormire bene, alle 6:30 mi alzo tutto appiccicoso. I tavoli per la colazione sono già pronti e qualcuno è già seduto in attesa di mettere qualcosa sotto i denti. Sarà che i pasti sono abbastanza parchi. Alle 7:30 siamo già pronti per andare a fare una passeggiata lungo il fiume con la speranza di incrociare qualche carovana di dromedari che trasportano le lastre di sale. Il cielo è velato e grigiastro. La passeggiata più che essere lungo il fiume è dentro al fiume. Nel senso che si deve sovente passare nell’acqua abbastanza alta. Gli scarponcini impermeabili non servono a nulla perché si riempiono da sopra. Dopo poco che camminiamo comincia a gocciolare. Ma noi intrepidi proseguiamo. Fortunatamente smette quasi subito e procediamo nel nostro modesto trekking. Verso di noi viene una carovana di dromedari carichi di sacchi, ma non di sale, visto che arriva dalla direzione opposta. Dopo circa due ore di cammino iniziamo il rientro. E incontriamo un cammelliere che sta trasportando le lastre di sale. Nel frattempo è venuto il sole e il caldo si fa sentire. Rientrati al campo non ci sono più le auto e nemmeno i bagagli. Così non ci sono né le scarpe asciutte né le ciabatte. E il bello è che avevo chiesto se avrebbero lasciato i bagagli qui e la risposta era stata sì. La motivazione dello spostamento auto è che temono un’onda di piena del fiume. Mettiamo ad asciugare le scarpe e le calze al sole e ci sdraiamo all’ombra su dei lettini di legno e corda abbastanza scomodi. Ad un certo punto i ragazzini che girulano intorno a noi si mettono a gridare e attraversano velocissimi il fiume. Dopo nemmeno un minuto il fiume comincia ad ingrossarsi (come hanno fatto i ragazzini a sentire l’arrivo dell’onda di piena? Mistero). Ripensandoci è stato forse un po’ imprudente fare il trekking lungo il fiume. Se l’onda di piena fosse arrivata prima avremmo avuto non poche difficoltà per tornare al campo. È andata bene. Mentre cerco delle cose nello zainetto ricompare la GoPro che era due giorni che cercavo. Tra l’altro, temendo di averla persa, avevo svuotato tutta la valigia e pure lo zaino ben due volte. I folletti dispettosi colpiscono anche in Dancalia. Per fortuna l’onda di piena è limitata e verso le 12:30 arrivano le vettovaglie. Anche oggi pasta (che salto). Mi nutro con pane e mezza scatoletta di tonno, qualche patata pseudo-fritta, una banana e una coca cola. Il livello dell’acqua comincia a diminuire ma non si parte ancora. Vicino a dove abbiamo allestito il nostro approssimativo campo, hanno montato quattro tende con letto matrimoniale, lenzuola, wc e doccia privati e una tensostruttura con tavolo e sedie comode. Stili di vita diversi. Dobbiamo aspettare le 16, così l’unica cosa da fare é mettersi all’ombra su uno degli scomodi lettini. Dato che ci stavamo rompendo le balle siamo andati da Yonas che stava riposando sotto una pianta a dirgli che volevamo andare. Così siamo partiti alle 15. E meno male che abbiamo anticipato perché andando verso il lago salato abbiamo incontrato una lunghissima carovana di dromedari che trasportavano le tavole di sale. Poi siamo andati alla piana del sale dove però i tagliatori non c’erano. Pare perché è venerdì ed essendo musulmani è un giorno festivo. Sulla strada che porta al sito di estrazione del sale ci sono alcune carcasse di dromedari morti. Fatta qualche foto si torna al campeggio più sfigato del mondo. Si dorme all’aperto sulle brandine di legno e corda. L’unica comodità consiste nell’aggiunta del materassino di gomma piuma. Prima delle 19 c’è già la chiamata per il rancio. Questa sera, tanto per cambiare, riso e verdure. Alle 19:15 la cena è finita. Andare a dormire subito sembra esagerato, allora facciamo una spedizione al bar. Una baracca nel deserto che non si sa come ha birra e coca fresche (non ci sono segni di linee elettriche). Alle 8:45 siamo già in branda. Domani sveglia presto per andare a vedere i vulcani colorati e i tagliatori di sale.
Sabato 23 novembre 2019
Dopo una notte piuttosto insonne data la scomodità dei graticci, alle 6 siamo già tutti operativi. Alle 6.30 siamo già in marcia verso il Dallol. Per arrivare si attraversa tutta la piana del sale che all’inizio è formata da strutture cristallizzate e poi diventa una distesa bianchissima a perdita d’occhio con un velo d’acqua sopra. Poi più avanti di acqua ce n’è una decina di centimetri e quindi è meno bello. L’autista dice che tra un mese sarà tutto asciutto. Arriviamo ad una formazione rocciosa variopinta. Da lì parte il sentiero che arriva in salita alla zona vulcanica. Quando ce la troviamo davanti lo spettacolo è semplicemente una meraviglia. L’attività vulcanica è latente. C’è solo una montagnola gialla che soffia fumo. Per il resto ci sono solo piccole formazioni calcaree colorate che spruzzano ogni tanto un po’ d’acqua. La cosa sorprendente sono i colori. Impossibile descriverli. Giriamo quasi due ore e ci è andata bene che c’eravamo solo noi, così almeno qualche foto decente l’abbiamo fatta. Con rammarico lasciamo questo posto incantevole e torniamo alle macchine. Riattraversiamo la piana del sale e ci fermiamo dove ci sono gli operai che preparano le mattonelle di sale. Ci sono 35° e una luce abbagliante. Questi poveretti lavorano accovacciati senza nessuna protezione per gli occhi. Il lavoro di tagliatore di sale può essere fatto solamente per pochi anni perché si rischia la cecità a causa della luce abbagliante riflessa dal piano bianchissimo. Qualcuno gli occhiali da sole li ha, ma invece di metterli sul naso li tiene da figo infilati nei capelli sopra la testa. E niente. L’umanità è stata progettata malissimo. Sembra un girone infernale. Di cammellieri che caricano le lastre ce n’è uno solo con quattro dromedari. Ogni dromedario porta a occhio una dozzina/quindicina di lastre. Ormai arrivano i camion che nel cassone di lastre ne portano migliaia. Non passerà molto tempo e anche questa antica tradizione scomparirà. Stanno anche costruendo una strada per velocizzare il traffico dei camion. Non appena la finiscono i cammellieri scompariranno o ne rimarrà forse qualcuno ad uso e consumo dei turisti. Riprendiamo la marcia, ma giusto per arrivare al bar di ieri sera, che abbiamo scoperto essere dei militari. Ecco perché hanno la corrente per far andare il frigo. Verso le 13.30 sostiamo per pranzo (riso) in un capannone di canne, che pomposamente chiamano restaurant. Il nostro autista ha sbagliato strada e quando siamo arrivati gli altri avevano già quasi finito. Riprendiamo la strada e ci inerpichiamo su per la montagna. La temperatura comincia a scendere e tocchiamo i 15°. Sul colle troviamo nebbia e pioggerellina. Proseguiamo in direzione di Adigrat (2500 metri) tra uno scroscio e l’altro e una temperatura che si stabilizza a 13°. Una variazione di 24° in poche ore. L’hotel Canaan International non è proprio una meraviglia, ma rispetto ai graticci all’aperto di stanotte è il Ritz. Prima di cena si trattava di sistemare i conti con la cassa comune e raccogliere le mance (70€ a testa che non mi sembra proprio poco). Quando siamo arrivati ad Addis Abeba ci avevano dato 3700 BIRR (moneta etiope) a testa in cambio di 100€ per spese personali e in più avevamo dovuto mettere altri 100€ in cassa comune. Dato che in Etiopia non ho trovato nulla che mi interessasse comperare io non ho speso nemmeno un BIRR. Ho dovuto discutere non poco per restituire la mazzetta di BIRR e riavere indietro i 100€. Alla fine li ho riavuti, ma è stato un po’ antipatico dover discutere. La cena non è male. Il ristorante dell’hotel propone la pizza. Giusto per curiosità ne prendiamo un paio da condividere tra tutti. Non era una meraviglia, ma meglio di tante che propongono fuori dall’Italia.
Domenica 24 novembre 2019
Alle 7 (sempre orari da caserma) scendo per fare colazione. La sala del ristorante però non è agibile perché stanno lavando il pavimento con la gomma da giardino (?!? stupore) e quindi è tutto allagato. Quando l’acqua è tutta defluita ci sediamo a tavola. La colazione consiste in 3 sontuose fettine di pane non tostato, mezzo cucchiaio di marmellata gelatinosa, mezzo cucchiaino di burro, tè e frullato di papaya. Satolli siamo pronti a partire. Strada facendo ci fermiamo per fare qualche foto al paesaggio e come sempre compaiono numerosi bambini. Ci sono due bambini con delle ciabatte di plastica colorate. Yonas prende dei sandaletti, li regola ai piedi dei bambini e questi ripartono correndo per raggiungere le loro caprette che nel frattempo sono andate avanti d sole. Quando ripartiamo dopo poco li raggiungiamo e mentre passiamo vedo che i sandaletti nuovi non li hanno già più e si sono rimessi le loro ciabatte di plastica. Non so cosa pensare. Forse siamo noi a ritenere che abbiano delle necessità che invece non hanno. Arriviamo in un microscopico villaggio e andiamo a visitare una abitazione rurale della regione del Tigrai e vediamo come vivono quotidianamente. Anche qui, come nei villaggi Afar, non hanno né elettricità né acqua corrente. Ci mostrano come fanno il pane (diverso dall’injera), una specie di grossa crepe spessa qualche millimetro cotta su una lastra scaldata con il fuoco di legna. Poi fanno vedere come fanno il caffè. Partono dai chicchi verdi e li tostano in un piccolo padellino bucherellato su un fuoco di carbonella. Ci vuole una notevole abilità per tostarli uniformemente senza farli bruciare. Poi li pestano a mano. Non hanno nemmeno i macinini che si usavano da noi decenni fa. Il caffè verde (dell’Etiopia occidentale) costa 5€ al kg, che per loro è un costo altissimo, ma il caffè è una bevanda a cui non rinunciano. Ci fanno vedere i vari locali della loro abitazione che ha anche una camera per gli ospiti, una stanzetta senza nemmeno una finestrella dove si dorme sul pavimento. Proseguiamo il viaggio e raggiungiamo la chiesa rupestre Abreha we Atsbeha nei pressi di Wukro. In gran parte scavata nella roccia ha delle belle decorazioni alle pareti. Pare che sia stata costruita verso il IV sec. dai re che le danno il nome, mentre le decorazioni sembra siano del 1600-1700. Ci dirigiamo verso Makallé per fare pranzo. Arrivati in città Yonas ci fa scendere davanti ad un bel ristorante e va dentro. Poi esce e ci dice che non hanno posto. Certo che avrebbe magari potuto telefonare prima per prenotare. Andiamo al ristorante di un hotel molto grande e lì il posto c’è. Ho mangiato un ottimo roasted lamb e per dessert un bel piatto di frutta. Si va poi in aeroporto. La vacanza è finita.
Note
Per quanto riguarda i compagni di viaggio, a parte una persona arrogante e fastidiosa, che spero di non incontrare mai più, il resto del gruppo era di persone gradevoli.
È stato un viaggio piuttosto faticoso. A consuntivo le emozioni che ho provato non hanno compensato l’alto costo e il notevole disagio.
L’Erta Ale francamente non è più una meta interessante. Il livello della lava è molto basso. Di notte si vede giusto una piccola fenditura incandescente che soffia ad una ventina di metri più in basso dal bordo, mentre di giorno il cratere è pieno di fumo e non si vede nulla.
L’unica cosa che merita un minimo di interesse (di giorno) è il campo di lava attorno al cratere.
Alla piana del sale ci sono i camion invece dei cammellieri. Durante il nostro viaggio abbiamo incrociato per una botta di fortuna giusto due lunghe carovane di dromedari che trasportavano il sale.
Alla mattina in cui siamo andati alla piana del sale c’era solo un cammelliere con quattro dromedari che caricava le lastre di sale. Per il resto solo camion. Un camion sostituisce a occhio almeno un centinaio di dromedari.
E’ in fase di costruzione una strada per velocizzare il viaggio dei camion alla piana del sale. Non appena sarà terminata (e sono già a buon punto) i cammellieri riceveranno la mazzata finale e rimarranno senza lavoro.
Rimarrà spero il Dallol, ma solo se impediranno ai turisti di andare a calpestare e distruggere quei meravigliosi fragilissimi ricami di lava di cui è coperta l’area.
Per vedere il Dallol e la piana del sale sarebbe decisamente più comodo un tour in Etiopia in hotel a cui aggiungere il volo interno a Makallè e poi in auto fino al Dallol con sosta in uno dei villaggi Afar per un paio di notti.
Se il governo etiope non prende seri provvedimenti, la Dancalia è destinata a mio parere a scomparire entro poco tempo a causa di una dissennata gestione del turismo e a causa degli accordi commerciali/industriali del governo etiope con i cinesi.
Curiosità
· Le capanne degli Afar sono costruite nei posti più impensati comprese le pietraie sotto un sole che spacca le pietre. Abbiamo visto delle zone con piccoli laghetti e corsi d’acqua senza nemmeno una capanna nel circondario. Non sarebbe meglio sistemarsi vicino all’acqua?
· Gli stranieri non possono comperare SIM Etiopi, perché funzionano solo in telefoni acquistati e registrati in Etiopia.
· Ci sono tantissimi eucalipti altissimi e col tronco piccolo. Li usano per costruire baracche che poi “intonacano” con sterco di mucca.
· Gli uomini sovente passeggiano tenendosi per mano (per tradizione, non perchè gay)
· Gli uomini si salutano stringendo le mani e battendo spalla destra contro spalla destra due volte
· Il gasolio costa 50 cent di euro al litro
· Nel nostro giro abbiamo visto i segni di parecchi incidenti stradali, in particolare camion finiti fuori strada o ribaltati. Le strade asfaltate purtroppo ogni tanto presentano avvallamenti improvvisi e di notte sono poco visibili.