Da nord a sud per 6.000 km lungo le strade dell’Ethiopia

Tour dell'Etiopia, da nord a sud
Scritto da: ollygio
da nord a sud per 6.000 km lungo le strade dell'ethiopia
Partenza il: 30/01/2019
Ritorno il: 20/02/2019
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
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La scelta della meta di quest’anno è stata abbastanza elaborata, abbiamo già viaggiato per molti paesi, tanti sono anche quelli che vorremmo visitare ma vanno tenute in considerazione alcuni elementi, come il costo, la stagionalità, la stabilità politica ecc. Prima scelta è stata la Bolivia, febbraio è la stagione giusta ma un viaggio di 20 giorni supera i 3000 e soprattutto il volo per La Paz si aggira sui 1000 €, troppo per le nostre attuali finanze. Seconda opzione è stata il Nicaragua, abbiamo contattato Yves il titolare del tour operator che ci ha accompagnato in Guatemala, ma ci ha risposto che attualmente la situazione politica è abbastanza instabile e attualmente i viaggi in quel paese sono interrotti. Bali, un’isola fantastica con prezzi competitivi ma febbraio è periodo di pioggia, quindi rischieremo di trascorrere metà della vacanza chiusi in camera… L’Uganda, luogo da sogno con i suoi gorilla di montagna, il volo costa veramente poco, sotto i 400 € ma il tour supera i 3000 € per una decina di giorni.

L’Ethiopia, perché no? Abbiamo cominciato a richiedere un po’ di preventivi per capire se era alla nostra portata, tra gli altri, abbiamo scritto ad un’agenzia locale chiamata “ASHU TOUR” che subito ci ha risposto con solerzia e si è presentato in modo molto cortese: è un etiope, adottato a distanza da una famiglia italiana, si è laureato all’università di Pisa, è tornato nel suo paese, si è laureato alla facoltà di turismo, ha quindi cominciato a lavorare per i tour operator più blasonati, ha girato alcuni documentari per Marcopolo e poi, nel 2013 ha aperto la sua agenzia.

Egli ci ha sconsigliato di andare in Dancalia perché ultimamente ci sono stati disordini tra lo stato e il fiero popolo degli afar, l’etnia che si guadagna da vivere estraendo sale e, poi i 20 giorni a nostra disposizione, senza effettuare voli interni che farebbero lievitare di molto il nostro preventivo, sono appena sufficienti per visitare il nord, cioè la “rotta storica” e il Sud con la valle dell’Omo. È luglio ed abbiamo acquistato con l’Ethiopian Airlines i voli, pagandoli attorno ai 500 € e per tutta l ‘estate abbiamo avuto uno stretto scambio di idee e di consigli con Ashu che ci ha proposto di gran lunga il preventivo più conveniente, con quasi 1000 € di differenza rispetto agli altri preventivi inviatoci. È passata l’estate, poi l’autunno, le feste natalizie e finalmente è arrivata la fine di gennaio ora di partire…

Mercoledì 30/01/2019: SAVONA – MILANO

Malgrado questo, per ora sia stato un inverno decisamente mite, oggi giorno di partenza per l’Ethiopia, è prevista neve sul tratto autostradale che va dal passo del Turchino a Milano, così siamo partiti con largo anticipo; siamo andati a Noli a prendere Simo e Roby e poi abbiamo imboccato l’autostrada, fortunatamente sgombra da neve, in direzione Novara. Laura e Pier ci aspettavano a casa loro con una bottiglia di Boudeaux d’ annata e un tagliere di salumi e formaggi, perché, come ho letto su più libri, la cucina etiope non è particolarmente appetitosa. Abbiamo lasciato nel loro garage la nostra auto, quindi ci hanno accompagnati alla Malpensa verso le 18, tra check in, imbarco bagagli, controlli vari in un battibaleno è venuta l’ora di imbarcarci. Alle 20.25 siamo decollati puntualissimi e, lo scalo tecnico previsto a Vienna è stato spostato a Roma. Siamo rimasti fermi a Fiumicino per più di 3 ore e poi finalmente ci siamo issati in volo verso l’Ethiopia!

Giovedì 31/01/2019: ADDIS ABEBA – GOHATSION (180 KM)

Il resto del viaggio è proseguito abbastanza regolarmente, ma abbiamo riposato veramente poco, l’aereo era pieno zeppo e di fianco a noi c’era una cicciona che occupava una poltrona e mezza. Siamo atterrati ad Addis Abeba con più di un’ora di ritardo e i nostri bagagli sono arrivati puntuali. Come Ashu ci ha suggerito, abbiamo fatto il visto on line e questo ci ha consentito di evitare una coda di almeno un’ora. Fuori dall’aeroporto, nel parcheggio delle auto (all’interno dell’aeroporto può accedere solo il personale degli hotels) c’era Ashu ad aspettarci con Brooke, il nostro autista. L’aeroporto è praticamente all’interno della città, quindi in un battibaleno abbiamo raggiunto un bar che aveva cappuccino e brioches per la colazione; quindi ci siamo tuffati nel traffico mattutino. Addis Abeba significa in amarico “Nuovo Fiore”, conta 6 milioni di abitanti e si trova a 2440 m d’altezza; qui convivono 83 etnie diverse con altrettante lingue ed un numero impressionante di dialetti, con comunità cristiane, mussulmane ed ebraiche. Come tutte le capitali africane è caotica piena di vita, con un traffico indisciplinato, in cui auto si sorpassano a destra e a sinistra strombazzando, ma oltre il lato economico e politico non ha grandi attrazioni turistiche. È una capitale in grande espansione, caduto il regime socialista repressivo di Menghistu, ora il governo è democratico e, questo, si spera, porterà nei prossimi anni ad un grande sviluppo economico e commerciale. Ovunque tu ti volti ci sono palazzi in costruzione ricoperti da impalcature fatti con pali di legno storti e pare, in equilibrio precario. Prima di partire per la nostra avventura ci siamo fermati a casa di Ashu, dove egli ha lasciato buona parte dei soldi pagati per il viaggio, ci ha presentato la sua giovane moglie e la sua bimba nata 20 giorni fa e che non ha ancora un nome, infatti, in Ethiopia, il nome ai neonati viene dato dopo un paio di mesi di vita, di solito in concomitanza con il loro battesimo, fino ad allora vengono nominati come “figlio di…, e segue il nome della mamma”. Abbiamo lasciato alla piccola un po’ di abbigliamento che qui è praticamente introvabile, perché i neonati vengono avvolti in un panno di fortuna. Con noi abbiamo portato 2 valigie piene di abbigliamento da bambini da lasciare nei villaggi che visiteremo o ai bambini bisognosi che incontreremo lungo la nostra strada. Prima tappa è stata al museo Nazionale, che custodisce i resti di Lucy, l’Australopitecus Afarensis che visse 3,5 milioni di anni fa, ritrovato nel 1973 in Dancalia. Nelle altre sale ci sono manufatti risalenti al I se. a C / II sec, d. C, altri scheletri di animali ed ominidi, una galleria di quadri contemporanei e una sezione dedicata agli utensili d’ uso comune nei villaggi delle diverse etnie. Usciti di lì abbiamo chiarito con Ashu che noi non intendiamo fermarci per il pranzo in un ristorante perché non vogliamo sprecare nemmeno un minuto che potremmo dedicare alla scoperta di questo fantastico paese, quindi acquisteremo solo un po’ di frutta ed un pezzo di pane. In una mezz’ora lasciamo Addis Abeba con la strada che porta sul Monte Entoto, dove sorgeva la vecchia capitale di re Menelik I. Una fila di mezzi di trasporto procede in queste strade in salita a passo d’uomo; sono tuk- tuk che qui chiamano “bajaj”, autobus sgangherati affollatissimi, mini van come il nostro e camion caricati in modo esagerato, auto private, lasciata Addis Abeba, non se ne vedono quasi. Ci siamo imbattuti in diversi incidenti, con camion o autobus rovesciati su un fianco e ruote all’ aria, che vengono poi abbandonati lì dove hanno avuto l’ incidente, molti perché troppo carichi, perché non viene fatta la dovuta manutenzione, i freni sono consumati e i pneumatici sono completamente lisci e, poi, molti dei conducenti, non sanno guidare in quanto, se hai possibilità economiche, la patente la compri e ti viene recapitata direttamente a casa! Arriviamo sull’altopiano a oltre 2600 m d’altitudine, all’apparenza brullo, con erba gialla bruciata dal calore del sole, sparse qua e là, come in un presepe, casupole fatte di fango con il tetto in lamiera e circondate da una recinzione fatta da rami secchi. Molti si occupano di pastorizia, soprattutto bambini badano a greggi di pecore e capre e talvolta a mucche. Ci siamo fermati per osservare il loro metodo di trebbiatura: mettono le spighe di cereali a terra poi fanno camminare in cerchio una coppia di buoi, con la bocca legata, in modo che le spighe di frumento vengano sgranate, poi, con un setaccio si fa saltare il tutto, in modo che paglia e pula, più leggere, vengano portati via dal vento, mentre le granaglie più pesanti restino nel setaccio. Dopo un paio d’ ore ci siamo fermati a Debre Libanos, dove nei pressi di un canyon spettacolare, un po’ di tempo fa, una tedesca, sposata ad un etiope, aveva aperto un lodge che oggi è tornato in mani etiopi, infatti, appena rimasta vedova, la signora, è stata “gentilmente invitata” a lasciare il paese. Il panorama da qui è spettacolare : si apre sulla valle del Nilo Azzurro contornata di montagne rossastre dalle pareti quasi verticali in cui nidificano i più grandi rapaci del paese; l’Ethiopia conta 273 specie diverse di uccelli. Abbiamo camminato per un’oretta lungo un sentiero pietroso sul crinale della montagna, ammirando uccelli e piante autoctone: bellissime le aloe vere dai fiori vermigli! Abbiamo attraversato una piccola cascata, oggi quasi asciutta perché è il periodo di maggiore siccità, tramite un ponte di pietra costruito nel 1600 da gesuiti portoghesi. Rientrando all’auto ci siamo imbattuti in un branco di gelada, grossi babbuini con una rossa macchia sul petto. Altre 2 ore di viaggio e arriviamo finalmente a Gohatsion, l’hotel “Goha Land” è buono per gli standard etiopi, ha mattonelle sbeccate, carta da parati scollata ma è pulito, l’acqua della doccia viene un filo ma è bella calda. Abbiamo risistemato le valigie, in modo da avere il cambio per 2 o 3 giorni in quella piccola così da non doverne scaricare 3 tutte le sere. Alle 19.30 siamo andati a cena nel ristorante dell’hotel, probabilmente l’unico della cittadina, assolutamente anonima, che noi abbiamo usato solo per spezzare il viaggio verso il lago Tana. Abbiamo mangiato molto bene: una zuppa di verdura, uno spezzatino di vitello con verdure ed abbiamo assaggiato la Dash una birra locale leggerina ma buona. Ashu, malgrado avesse già cenato, ci ha tenuto compagnia ed insieme abbiamo bevuto un numero di birre veramente esagerato! Prima delle 10 eravamo a letto, esausti, è stata una giornata veramente faticosa, siamo rimasti pressoché svegli per 72 ore di seguito!

Venerdì 1/02/2019: GOHATSION- BAHIR DAR (420 KM)

Ieri sera, appena arrivati in stanza, siamo stati “deliziati” da musica a tutto volume suonata in strada e dal cantilenare del muezzin in lontananza… Incuranti di tutto ciò, siamo stramazzati nel letto ma io ho dormito ben poco perché tormentata dalla mia cervicale! Inoltre abbiamo avuto un po’ di scombussolamento con la sveglia, che non avevamo ancora sincronizzato con l’ora etiope. Colazione alle 7 con omelette, pane e marmellata dalle tinte fosforescenti e, alle 7,30 partenza direzione Bahar Dar. Partiamo da un’altitudine di 2300 m quindi si scende giù fino a 700 m slm con una strada asfaltata, tutta un dosso, costruita da una ditta cinese che prima di asfaltarla non ha sistemato il fondo stradale. La cosa più impressionante è lo strapiombo che si costeggia senza essere protetto da guard rail, il fondovalle è solcato dal Nilo Azzurro, ora, durante la stagione secca, è poco più che un fiumiciattolo. Tra uno scenario da favola, fatto di picchi rocciosi dalle pareti verticali abbiamo incontrato un numeroso branco di babbuini che attraversavano la strada incuranti del passaggio delle auto. La strada riprende a salire, incontriamo tanti piccoli villaggi animati dal fermento dei lavori mattutini: la strada è ingombra di persone ed animali. Le donne hanno grandi recipienti di plastica gialla sulla schiena e vanno ad approvvigionarsi d’ acqua all’ unica fonte del villaggio, trasportando pesi di anche 30 kg, molte sono bambine ma anche le donne sono esili e piccoline e, non capisci come facciano a sopportare tali pesi! Molte si arrampicano per le strade in salita con fasci di legna talmente grandi, sotto i quali quasi scompaiono; altre portano gerle enormi con un quantitativo esagerato di paglia o di mattonelle di sterco di mucca essiccato, che qui usano come combustibile per cucinare. Molti bimbi, invece di andare a scuola, partono con il loro gregge che porteranno al pascolo. In Ethiopia la scuola non è obbligatoria, sta alla discrezione dei genitori mandarvi i propri figli; la scuola, secondo molti, insegna ai ragazzi cose non necessarie per vivere quindi non solo non viene frequentata ma spesso osteggiata, con il risultato che in Ethiopia c’ è il 65 % di analfabeti. Pare che il nuovo governo voglia promuovere l’istruzione, almeno elementare, obbligatoria, ma sarà una lunga battaglia! Anche la condizione della donna può essere quasi definita una schiavitù: i matrimoni sono quasi tutti combinati dai genitori, ragazzine, poco più che bambine, vengono date in moglie a uomini 15/20 anni più vecchi che pagano al padre una dote di 20 / 30 mucche. La malcapitata, non solo non può scegliere il proprio marito, ma i giorni precedenti il matrimonio, appena è stata avvertita della decisione dei genitori, viene rinchiusa in casa per paura che fugga in città, dove può essere protetta dalla polizia e quindi non obbligata a sposarsi. Le mogli fanno i lavori più pesanti in casa, vanno a prendere l’acqua, procurano la legna per il fuoco, si occupano di casa, figli e, spesso, dei campi; è normale che vengano picchiate dai propri mariti perché considerate un oggetto di loro proprietà adeguatamente pagato. A quasi la totalità delle bambine viene praticata l’infibulazione con lamette spuntate che vengono usate su più persone, il tasso di sieropositivi in Ethiopia è del 4,4 %, per un totale di 1.400.000 di individui; in caso di adulterio le donne che vivono nelle città, al nord, vengono punite con il carcere, mentre nei villaggi al sud, la donna viene giustiziata, anche in caso di violenza, secondo le leggi del proprio villaggio. Giunti a Dejen siamo andati a fare quattro passi tra il via vai della folla; all’ imbocco del paese c’è una moschea posta proprio di fronte ad una chiesa copta, l’attuale percentuale di cristiani è del 55% mentre i mussulmani sono il 45%. Fino a pochi anni fa la percentuale era circa di 2/3 cristiani e 1/3 mussulmani, la percentuale mussulmana sta crescendo perché costoro fanno più figli in quanto ricevono dalla moschea l’equivalente di 10 $ al mese per ogni figlio, quindi, ogni figlio è una fonte di guadagno! L’altipiano è tutto coltivato, soprattutto ad orzo; distese immense color dell’oro sono disseminate di covoni a punta e abbiamo visto molte persone mietere con i buoi. Dove è stato tagliato l’orzo pascolano gli animali, nel terreno ci sono spaccature poco profonde in cui scorrono piccoli corsi d’ acqua per irrigare i campi, abbeverare il bestiame e… fare il bucato. Le case sono quasi tutte uguali a forma di parallelepipedo con un paio di aperture, una è la porta, quasi sempre aperta, presso la quale sono sedute le donne intente nelle loro faccende domestiche o fanno capolino i bambini. Queste case hanno uno scheletro fatto con una palizzata fitta fitta di pali di eucalipto poi ricoperte da un intonaco fatto con paglia e fango mescolati. Il tetto che fino a pochi anni fa era fatto do paglia oggi è sostituito con lamiera, più duratura. Ogni volta che ci fermiamo ad osservare qualche particolare o a scattare qualche foto veniamo accerchiati da un nugolo di bambini che ci guardano curiosi, tenendosi però a distanza, contrariamente a ciò che accade in tanti paesi africani, in cui i bambini di corrono incontro chiedendo caramelle, penne o denaro, in questa zona poco battuta dalle rotte turistiche, sono incuriositi, quasi impauriti. Ad un bimbo abbiamo dato un cioccolato e, non avendolo mai assaggiato, lo ha buttato a terra perché, per lui, era un gusto assolutamente nuovo. Ashu poi mette in fila questi bimbi curiosi e noi consegniamo loro una caramella; ne abbiamo portate una borsa e tanto abbigliamento ma per accontentare tutti non basterebbe un tir! La prima città incontrata sul nostro tragitto è Debre Marcos, che conta 200.000 abitanti, trafficata, caotica, tanto che per non rimanere imbottigliati nel traffico abbiamo proseguito a piedi fino alla chiesa di San Giorgio. Anche qui veniamo seguiti da gruppi di ragazzini che ci chiedevano se siamo cristiani e sfoggiavano quel poco d’ inglese imparato a scuola, infatti oggi non abbiamo incontrato nessun’altro turista e quando si vedono passeggiare dei bianchi, per queste persone, è un evento eccezionale! Le chiese in Ethiopia vengono aperte solo durante la messa, per il restante tempo sono chiuse e le chiavi le ha solo il prete. Giunti sulla collina dove sorge la chiesa abbiamo cercato il prete in questione ma non c’era, gli abbiamo telefonato ma ha risposto che si trovava parecchio lontano dalla chiesa e che non sarebbe venuto ad aprirci, domani sarà ben lieto di mostrarcela, peccato che domani saremo ad oltre 300 km da qui! Ci siamo fermati per permettere ai nostri 2 accompagnatori di pranzare; noi abbiamo fatto uno spuntino con pane e deliziosi mango, poi di nuovo lungo la campagna fatta di campi coltivati e boschi di eucalipto, di acacie ad ombrello, alberi dell’incenso dal tronco bianco perché privi di corteccia, palme e anche pini. Un’ altra sosta per spezzare la lunga trasferta odierna a Finot Selam dove abbiamo gustato il nostro primo caffè etiope in un chiosco sulla strada. Il rito del caffè comincia facendo tostare i chicchi di caffè verde su di una teglia sulle braci poi si pesta in un mortaio, si mette nell’ acqua e si fa bollire per un paio di minuti, si lascia depositare sul fondo della caffettiera e poi si versa. Eravamo molto scettici ma si è rivelata una buona scoperta. Anche qui siamo diventati l’attrattiva del giorno, tutti ci guardavano e ci seguivano, un ragazzo ci stava fotografando di nascosto con il suo cellulare, lo abbiamo invitato quindi a fare una foto con noi e penso sia stato il ragazzo più felice del paese! Simona poi, è guardata ancora con maggior stupore perché ha i capelli corti corti e molti chiedono ad Ashu se è un uomo o una donna, qui le donne hanno tutte i capelli lunghi! Mentre eravamo seduti al bar, abbiamo parlato con alcuni avventori, naturalmente usando Ashu come intermediario, appena detto loro di essere italiani hanno fatto un po’ di battute sul colonialismo e sul fascismo, però, poi dicono di rimpiangere il periodo in cui siamo stati qua come colonizzatori, infatti in quel periodo sono state fatte le maggiori opere edilizie e di bonifica. Da qui a Bahar Dar mancano ancora 180 km, viaggiamo ancora per 3 ore, arriviamo a destinazione al tramonto. Il nostro hotel, il “Delano”, a detta di Ashu è uno dei migliori in cui alloggeremo, è molto più nuovo e curato di quello di ieri, un 3 stelle europeo, ha un letto comodo con zanzariera, aria condizionata (anche se non serve), frigo, cassaforte, servizio di cortesia e… connessione WIFI, così abbiamo potuto finalmente chiamare casa e dire a tutti che siamo vivi! Una doccia e poi con Ashu, abbiamo deciso di andare a mangiare in un ristorante lì vicino con cucina tipica, anziché fermarci in hotel in cui c’ è il solito buffet internazionale solitamente di scarsa qualità. Al ristorante solo locali, neppure l’ombra di un turista; abbiamo mangiato bistecche di tilapia del Lago Tana con contorno di riso e verdure, veramente buono! Siamo rientrati in hotel a piedi perché distava da lì pochi isolati ma, che tristezza, vedere tutte quelle persone fasciate in coperte di fortuna dormire l’ uno a fianco a l’altro sul marciapiede…

SABATO 2/02/2019 – BAHAR DAR – LAGO TANA (70 KM)

Stamattina ci ha svegliato il solito cantilenare che pensavamo fosse il muezzin, invece Ashu ha detto che anche i preti copti dicono le loro preghiere al microfono. Alle 6,30 abbiamo fatto colazione e alle 7 siamo partiti per raggiungere la riva del lago Tana. Il lago Tana è il lago più esteso dell’Ethiopia, misura 91 km per 45 km, ha la forma grossolanamente di un cuore, è profondo 14 m ed ha al suo interno 37 isole. Sia queste isole che le coste sono sede di un gran numero di monasteri e chiese, punti di riferimento ancora oggi della cristianità etiope. Abbiamo assistito ad un’alba fantastica, ci siamo imbarcati in una barca a motore mentre soffiava un venticello freddo; costeggiamo 2 piccoli isolotti che ospitano 2 monasteri, uno non visitabile, l’altro accessibile solo agli uomini, anche se ultimamente, anche a loro è precluso l’accesso. perché pare che una turista tedesca si sia spacciata per uomo per entrarvi. In meno di un’ora siamo arrivati alla penisola di Zege, ricoperta di vegetazione lussureggiante, abbiamo imboccato un sentiero pietroso su per il quale si trovano tante bancarelle che vendono manufatti in legno dipinti con immagini sacre, sciarpe tessute a mano, monili in argento. Giò sembrava Pinocchio nel paese dei balocchi, guardava, contrattava, comprava: ha comprato 3 chiavi in ottone, una tovaglietta centro tavola e un trittico in legno con immagini sacre. Ashu è nato proprio sulla penisola, molti dei suoi cugini lavorano ancora nelle piantagioni di caffè della nonna; siamo passati a salutare una sua cugina che ha avuto una bimba 6 mesi fa e le abbiamo lasciato un po’ di indumenti per la piccolina. Il monastero di Ura Kidane Meheret risale al 1600 ed è di forma circolare come i tukul degli Oromo, è diviso in 3 sezioni concentriche; la più esterna è quasi un camminatoio in cui si fermano i fedeli “impuri” (cioè coloro che hanno bevuto alcolici, fatto sesso, commesso peccati nei 3 giorni precedenti ) che non potranno partecipare all’ eucarestia. La messa domenicale comincia attorno alle 3 0 4 di notte e va avanti per almeno 4 ore, i fedeli non possono andarsene prima che sia terminata e devono rimanere, quasi per la totale durata, in piedi, potendo solo appoggiarsi ad un bastone, una sorta di stampella. Nel secondo cerchio, con i pavimenti ricoperti da tappeti che vengono donati alla chiesa come ex voto, ci son i fedeli a cui verrà somministrata l’eucarestia. Al centro c’ è il Sancta Santorum, accessibile solo al sacerdote a ai 2 diaconi che reggono il libro di preghiere e che custodisce una copia dell’Arca dell’Alleanza. Il Sancta Santorum è un capolavoro di pittura, le pareti di adobe non ricoperte da tele che rappresentano storie dell’ Antico e del Nuovo Testamento, pitture fatte dai monaci e dipinte con colori sgargianti, un tipo di pittura che ricorda il naif, capolavori che non pensi di trovare nel corno d’ Africa. Qui, dopo 2 giorni abbiamo incontrato i primi turisti, anche un gruppetto di italiani, ma ben poca cosa. Il turismo, vista la stabilità di governo degli ultimi anni sta aumentando, nel 2018 si sono registrate 110,000 presenze, ma è veramente un numero esiguo paragonato ai turisti che visitano ogni anno Roma o Venezia. Abbiamo raggiunto il secondo monastero percorrendo il sentiero che taglia la foresta tropicale e le coltivazioni di caffè. L’Azwa Mariam è più piccolo del precedente e risale al 1400 con i dipinti sul Sancta Santorum forse meno accurati ma è l’unico monastero a mantenere intatto il tetto di paglia, come era in origine. In poco tempo abbiamo raggiunto il pontile, ripreso la barca e siamo tornati a Bahar Dar. Ci siamo fermati per il solito spuntino a base di frutta poi siamo partiti per un fuori programma: le cascate del Nilo Azzurro. Durante la stagione secca non sono una grande attrattiva, ma pare che oggi aprano una parte della diga e che lascino dare sfogo alle acque di quella che fino a poco tempo fa era la seconda cascata d’ Africa e, che durante la stagione delle piogge esplode in tutto il suo splendore. La strada per arrivare al parco è sterrata, piena di buche e pietroni, si procede a passo d’ uomo: per percorrere 30 km impieghiamo un’ora. Mentre Ashu è andato a fare i biglietti siamo stati quasi aggrediti da un gruppo di donne che volevano venderci la qualunque! Ecco ritrovata l’insistenza e la pedanteria degli Africani! Attraversiamo il fiume con una barca, quindi proseguiamo a piedi tra i campi, seguiti da uno stuolo di bambini che nulla avevano da vendere che braccialetti in plastica uguali in tutte le parti del mondo, zucche decorate, sciarpe, tamburelli di pelle di capra. Raggiungiamo una montagna a semicerchio dalle pareti a picco in cui si tuffa nel vuoto solo una parte dell’acqua, formando una bella cascata avvolta da una nube di vapore acqueo ma nulla in confronto a quando l’acqua riempie per intero il salto. L’acqua del Nilo Azzurro viene usata per produrre energia idroelettrica, quindi in periodi di secca viene lasciata solo scorrere in parte ma, non sarebbe meglio aprire per intero la diga solo per un paio d’ore al giorno come fanno per le cascate delle Marmore, in modo da creare un’attrazione turistica tutto l’anno? Ashu ci ha detto di averlo proposto al ministro del turismo che non ha però preso in considerazione la sua richiesta. Questa parte dell’Ethiopia è popolata quasi interamente dagli Amara, sono persone bellissime, non hanno i caratteri negroidi, hanno la carnagione color del bronzo, sono alti snelli, le donne hanno forme arrotondate benché siano magrissime, hanno un portamento elegante come le modelle. Verso le 6 siamo rientrati in hotel, abbiamo fatto una doccia con calma e abbiamo cenato al ristorante di ieri sera: stasera injera con una sorta di spezzatino di pesce buono ma piccantissimo. Ashu ha trascorso l’intera serata a spiegarci gli usi e i costumi del suo paese e le differenze sostanziali tra nord e sud: è veramente un affabulatore, staresti ore ad ascoltarlo!

DOMENICA 3/02/2019 – BAHAR DAR – GONDAR (170 KM)

Stamattina abbiamo iniziato con un fuori programma, Ashu ci ha portato a visitare il villaggio di Awra Ambra, un villaggio unico in Ethiopia, fondato sull’ uguaglianza tra uomini e donne, quindi ognuno dei suoi abitanti fa indifferentemente lavori attribuiti all’ uno e all’ altro sesso. Vige la legge del socialismo, cioè non esiste proprietà privata, ogni famiglia ha diritto ad un’abitazione con acqua corrente, servizi igienici con doccia, cucina, 2 camere con 5 posti letto, il frigorifero e la televisione, lussi che pochi hanno anche in città. L’istruzione è obbligatoria fino alle medie e accedono alle scuole del villaggio anche dai villaggi vicini. Tutti lavorano per 8 ore al giorno, ad ognuno, secondo le proprie competenze è assegnata una mansione: c’ è un frantoio che produce olio di sesamo, c’ è un filatoio dove filano il cotone che seminano e che poi tessono ai telai creando sciarpe e tessuti che rivendono in città. Alla fine dell’anno si divide il ricavato di tali attività in parti uguali per tutte le famiglie del villaggio. Gli anziani vengono accuditi in una sorta di ricovero all’interno del villaggio, ognuno ha la sua stanzetta, viene fatto loro il bagno una volta alla settimana e vengono cucinati loro i pasti. C’è un ristorante in cui si fermano a mangiare gli agricoltori che non rientrano a casa per il pranzo, mentre il resto dei pasti lo si consuma ognuno a casa propria. Le strade sono pulitissime, ci sono persino i cestini per la spazzatura, così le case, le aule scolastiche, il ricovero per gli anziani e la biblioteca piena di libri. Qui è vietato fumare, bere alcolici, avere più di 3 figli per coppia, pena l’espulsione dal villaggio. Il fondatore Zumra Nuru, un ottantenne dal carisma magnetico ci ha accolto con calore ed abbiamo discusso insieme della sua filosofia di vita, speriamo che questo paradiso non si dissolva alla sua morte! Abbiamo ripreso la strada per Gondar che è scorrevole ed asfaltata di fresco, così in meno di due ore arriviamo a destinazione. Durante il tragitto abbiamo incontrato un corteo nuziale, ci siamo fermati e siamo stati presi in mezzo al servizio fotografico: siamo diventati noi le star dell’evento! La sposa, elegantissima nel suo abito bianco, aveva uno sguardo triste e tetro, non ha mai sorriso mentre attorno a lei tutti ballavano, cantavano e si divertivano, probabilmente è un matrimonio combinato e lei non è felice della scelta che hanno fatto i suoi famigliari per lei! Giunti a Gondar abbiamo fatto il solito spuntino per pranzo, quindi siamo andati a fare il check in all’ hotel “Gondar” sito in centro, pulito ma anche qui, per mancanza di manutenzione, con molte pecche, dalle luci bruciate per metà, dal dover chiedere 3 volte un secondo asciugamano, al coperchio del water staccato… Iniziamo la visita della città, sotto un sole cocente, con una passeggiata di quasi mezz’ora raggiungiamo la Cittadella, sorta nel 1630 per volere dell’ imperatore Fasilide, come roccaforte cristiana contro l’avanzata mussulmana. I castelli hanno la tipica forma dei castelli medioevali da noi conosciuti perché Fasilide era stato in Portogallo e volle costruire la sua dimora ad immagine e somiglianza di quelle europee. Ogni regnante qui doveva costruire il proprio castello, la cittadella arrivò a contarne 20, ora ne restano 3, molti furono distrutti dall’ esercito mussulmano, alcuni crollati per un terremoto, altri per i bombardamenti inglesi durante la II guerra mondiale. Il più imponente è quello appartenuto a Fasilide, con grandi stanze completamente spoglie perché razziate nel corso dei secoli e con una torre alta 35 m. Gli altri 2 rimasti in piedi sono quello di Johanes, figlio di Fasilide, malamente intonacato durante la colonizzazione italiana e quello di Ysezu, figlio di quest’ultimo, con un bel soffitto a botte e che pare avesse le pareti rivestite di lamine d’ oro e specchi veneziani. Le altre costruzioni disseminate nella grande area verde sono l’Archivio di Fasilide, le carceri in cui venivano rinchiusi i prigionieri politici prima di essere dati in pasto ai leoni, un teatro, le terme con calidarium e tiepidarium, un’ampia sala banchetti con annessa cucina. Lasciata la cittadella abbiamo raggiunto piazza Roma, il cuore della città contornata da tutti edifici con i portici costruiti durante la colonizzazione fascista; all’ angolo della piazza si trova il bar “Piassa” rimasto uguale, con gli stessi arredi degli anni 30 e qui abbiamo approfittato per prendere un caffè. Abbiamo proseguito a piedi per le vie della città, in cui si respira aria di festa, le persone passeggiano lentamente nei loro abiti migliori, abbiamo incrociato una processione di ragazzi che usciva da una chiesa e ben 6 cortei nuziali che si preannunciano con la prima auto con a bordo 2 cineasti con telecamere enormi, poi l’auto degli sposi seguiti a ruota da un corteo festante e chiassoso, fatto di auto e tuk tuk. Percorrendo le strade, a noi Gondar è sembrata la più signorile, pulita e ordinata città visitata fin’ ora. Il Bagno di Fasilide è un piccolo edificio, sempre fatto sullo stile dei castelli della Cittadella posto al centro di un laghetto artificiale. Qui, il giorno del Timkat, ovvero l’Epifania Etiope, che si celebra il 19 gennaio, tutti i cristiani copti vengono qui a rinnovare il loro battesimo immergendosi nelle acque limacciose del lago. Pare che quest’ anno l’affluenza fosse stata di 850.000 fedeli. Sulle mura alberi di capoc affondano le loro radici tra le pietre della recinzione, sembra di essere tornati ad Angkor! Ultima tappa di oggi è la chiesa “Monte della Luce e della Trinità”; per oggi abbiamo camminato abbastanza, la chiesa si trova su di un’altura distante dal centro, quindi è arrivato il nostro fido Brooke e ci ha accompagnati fino lassù. Anche questa chiesa è stata fatta costruire da Fasilide secondo il medesimo stile, è di forma basilicale. Anche qui c’è un baccano incredibile si stanno svolgendo altri 3 matrimoni, gli sposi indossano mantelli bianchi e una sorta di corona in testa che li fa somigliare ai 3 re Magi del presepe. I famigliari degli sposi e tutto l’accompagnamento indossano indumenti bianchi, le donne hanno la shemma sulla testa, suonano grandi tamburi, cantano e ballano in modo indemoniato. L’interno della chiesa è molto buio, il prete che ci ha aperto e fatto entrare, accende tutte le luci in dotazione ma è ben poca cosa; sulla parete di fondo, quella che delinea il Sancta Santorum c’è un bellissimo dipinto della SS .Trinità, una Crocifissione e altri quadri che rappresentano episodi di storia sacra. Sulla parete opposta c’è un’immagine davvero singolare: Maometto in groppa ad un cammello che viene trainato da un diavolo, un’immagine blasfema per i mussulmani, tanto che hanno tentato di distruggere la chiesa ben 3 volte, quindi, tutt’ora, è presidiata da guardie armate di mitra. Bellissimo è il soffitto ligneo dipinto con oltre cento immagini di cherubini. Verso le 6 quando il sole stava tramontando siamo rientrati in hotel per una doccia, abbiamo risistemato le valigie e siamo andati a cena. Stasera si è unito a noi anche Brooke, siamo andati in un caratteristico ristorante locale che però cucinava solo carne, ma sia noi che Brooke non avevamo voglia di mangiare nuovamente carne, così abbiamo cambiato ristorante e qui, dopo un’ attesa di oltre un’ora abbiamo mangiato un ottimo riso con verdure e patate fritte e abbiamo bevuto un numero incalcolabile di birre!

Lunedì 4/02/2019 – GONDAR – DEBARK (100 KM + 40 KM nel parco)

Sveglia alle 7 e partenza alle 8 perché la biglietteria del parco dei Monti Simien apre solo alle 9,30. Un’ora e mezza di strada che sale da 2100 m a 3300 m, alle 9,30 arriviamo a Debark, la cittadina porta del parco Nazionale. Il Parco Nazionale dei Monti Simien è stato aperto nel 1966 ed è diventato patrimonio UNESCO nel 1968 per la sua unicità orografica e per le numerose specie animali, 3 delle quali endemiche: i babbuini gelada, lo stambecco del Simien, il lupo etiope. Qui si trova il quarto monte più alto dell’Africa, il Ras Degien, che raramente è visibile perché ammantato dalle nubi. Siamo andati a fare il check in al “Simien Park Hotel”, che è decisamente semplice e piuttosto maltenuto, le pareti andrebbero ridipinte, la doccia non è protetta neppure da una tenda, lavabo e specchio sono posti l’uno perpendicolare all’altro… ma siamo in Africa! Abbiamo posato la valigia nella stanza di Roby e Simo perché la nostra era ancora da rifare, abbiamo preso a bordo della nostra auto un guardiaparco e un ranger armato. Queste 2 persone ci seguono senza proferire parola, forse perché c’è Ashu che ci spiega ogni animale o pianta, ma senza la loro presenza non si può entrare nel parco. La strada principale di Debark è stata chiusa perché si sta svolgendo un banchetto nuziale, questa è l’usanza, così noi abbiamo dovuto attraversare un mercato affollatissimo. Entrati nel parco la strada diviene subito sterrata e dopo un’ora di sobbalzi tra buche e pietroni, finalmente sull’ altopiano, iniziamo il nostro trekking. Abbiamo percorso un sentiero tra alberi alti e piante endemiche, fermandoci spesso per scattare foto in punti panoramici sulla valle sottostante e sulle pareti scoscese di roccia rossastra. Abbiamo camminato per più di un’ora quando ci siamo imbattuti in un branco enorme di gelada, scimmie della famiglia dei cercopitechi che hanno un triangolo rosso, senza pelo sul petto e che qui hanno trovato il loro habitat ideale, infatti se ne contano circa 2000 unità. I maschi sono più grandi ed hanno una criniera quasi leonina, mentre le femmine sono più piccole, quasi tutte hanno un cucciolo sulla schiena o al seguito. Siamo rimasti moltissimo a guardarli mangiare bacche, spulciarsi a vicenda, giocare, saltare da un ramo all’ altro, per nulla infastiditi della nostra presenza. Durante la nostra camminata abbiamo incontrato gruppetti di bambini che vivono all’ interno del parco, che schiamazzando tentavano di venderci i loro buffi cappelli o dei sottopentola di vimini, abbiamo tentato di contrattare un po’ ma la maggior parte di loro è rimasta ferma sui propri prezzi, quindi abbiamo rinunciato agli acquisti. Abbiamo pranzato in prossimità di un camping, seduti su comode panchine al sole davanti ad uno scenario da favola. Abbiamo percorso un altro tratto in auto di strada veramente pessima, ci siamo inoltrati a piedi giù per un ripido sentiero fino al letto di un fiumiciattolo in secca quindi siamo risaliti su di un picco da cui si vede una parete liscia, verticale da cui si buttano, durante la stagione delle piogge, 5 grandi cascate. Abbiamo percorso a ritroso il sentiero e poi, lentamente, a passo d’uomo, per le condizioni del fondo stradale, siamo rientrati a Debark. Sulla strada abbiamo trovato un altro branco numerosissimo di gelada e fare una sosta e rimetterci a scattare foto è stato inevitabile! A Debark abbiamo fatto un lungo giro sul mercato, che stava ormai chiudendo, tante persone ci hanno fermati solo per salutarci, molti ci venivano dietro con la speranza di guadagnare qualche spicciolo facendoci da cicerone, alcuni chiedevano soldi perché già rovinati da un turismo irresponsabile. Una birra come aperitivo al bar dell’hotel, doccia veloce e cena al ristorante dell’hotel, in compagnia di un gruppo di italiani e di un paio di tedeschi. Abbiamo mangiato riso con le verdure, ma quello di ieri era insuperabile e poi, a fine cena, abbiamo mangiato un panettone artigianale, una vera leccornia, che Simona si era nascosta in valigia: Ashu e Brooke lo hanno divorato!

Martedì 5/02/2019 – DEBARK – AXUM (280 KM)

Stamattina la partenza avrebbe dovuto essere il prima possibile, perché avendo chiesto ad Ashu di inserire nel programma anche le chiese del Tigray abbiamo solo il pomeriggio per visitare Axum e i siti chiudono alle 5. Malgrado Brooke fosse disponibile ad accontentarci, l’hotel non ci ha servito la colazione prima delle 6,30. Siamo partiti alle 7, il primo tratto la strada è sterrata, in forte pendio, strapiombo su di un dirupo senza guard rail; al mattino le montagne assumono una colorazione quasi rosata punteggiata dal verde delle rare piante che vivono a queste altitudini. Siamo scesi e poi risaliti, quindi ridiscesi, non so quante volte, quando si passava da una provincia all’ altra, il punto di controllo era segnato da una corda che attraversava la strada e che un guardiano che ,dopo averci guardati in faccia ,toglieva per lasciarci passare… Abbiamo raggiunto così la regione del Tigray; subito dopo il confine c’è un campo profughi eritrei , che conta oltre 20.000 persone; centinaia di casette una di fianco all’ altra con un’ infinità di persone a spasso, a costoro, infatti, non è consentito lavorare né allontanarsi troppo dal campo, una sorta di “prigione, non prigione”. Il paesaggio cambia, da brullo di montagna, diventa verde, coltivato a sesamo, orzo e sorgo, anche qui molte greggi e le case non sono più in fango ma di pietra. Abbiamo fatto quattro passi a Shire per acquistare pane e frutta; è una cittadina signorile, con bei palazzi e negozi. Il Tigray è la regione più ricca dell’Etiopia, ha molte industrie in cui lavorano però solo tigrini ed ha una buona rappresentanza in governo. Dopo altri 60 km raggiungiamo Axum, seconda capitale del regno, dal II sec a. C al XII sec. d. C; nel IV secolo si convertì al Cristianesimo, divenne città fiorente per i commerci con l’Africa, l’Arabia e l’Europa poi declinò con l’avvento dell’avanzata musulmana. Secondo la leggenda nel X sec. a. C vi regnò la regina di Saba, sposa di Re Salomone da cui nacque Menelik I, pare che qui si trovi l’arca dell’alleanza e, forse la tomba di uno dei 3 Re Magi. La città moderna si trova a 2100 m d’ altezza e conta 60.000 abitanti. Appena giunti in città abbiamo preso possesso delle nostre stanze al “Sabean International Hotel” sito su di una delle vie principali; ci hanno assegnato due suite stupende, con salottino, ampia camera da letto, doccia con la sauna… bellissima! Alle 2 siamo partiti per la visita alle rovine della città; a piedi ci siamo recati nel parco delle stele, ovvero il cimitero dei re della dinastia axumita. Le più antiche sono colonne in granito senza alcun tipo di decorazione, c’è poi la stele di Ezana con decorazioni l’una sull’ altra come se fossero finestre in un palazzo di 10 piani, al fondo c’è anche una porta con tanto di batacchio… È ancorata ad un’imbragatura perché il terreno ha avuto un cedimento e rischia di crollare. Al centro del parco c’è la stele di Roma, chiamata così perché trafugata dall’esercito italiano nel 1938, portata a Roma in piazza di Porta Capena, davanti alla sede della FAO, dove è rimasta fino al 2005 quando il governo italiano la restituì al suo paese d’origine. È la più bella e la più ben conservata, alta oltre 24 m e del peso di 70 tonnellate, scolpita in tutte le 4 facce con finestre e porte, come quella di Ezana. Distesi sull’ erba del prato ci sono i frammenti della più grande stele mai costruita, lunga 33 m, ma pare non sia mai stata issata per un errore nel calcolo dell’area della base, quindi issandola pare sia caduta al suolo abbattendosi sul tetto di un’altra tomba. Si narra, inoltre, che il crollo abbia portato gli axumiti alla conversione al cristianesimo, evento visto come un monito divino. Sotto le stele si trovano le sale sepolcrali dei re; il mausoleo è una ampia stanza con un corridoio e 10 stanze sepolcrali di lato; poco discosta la tomba della falsa porta perché sormontata da una lastra in cui è scolpita una falsa porta. C’è un piccolo museo in cui sono custoditi i pochi manufatti trovati nelle tombe, malgrado fossero già state tutte profanate. Ci siamo avviati su per la collina, sotto il sole, di giorno fa veramente caldo, siamo tutti bruciacchiati dal sole, ma essendo sempre oltre i 2000 m la sera si esce con giacca e pantaloni. Quasi subito ci siamo imbattuti nel bagno della Regina di Saba, un lago artificiale, alimentato da acqua piovana, dove pare la sovrana amasse immergersi. Poco più su, in una capanna di legno quasi di fortuna si trova la stele di Ezena, rinvenuta da 2 contadini semisepolta in un campo nel 1988 ed è considerata la “Stele di Rosetta Etiope” perché narra la gesta di re Ezena in ge’ez (lingua usata dai sacerdoti nelle celebrazioni liturgiche, tipo il nostro latino) , in greco e in sabeo, quindi grazie a questa pietra celebrativa si è potuto decifrare l’alfabeto sabeo. Sulla collina abbiamo visitato la tomba di Re Kaleb, con 2 stanze sepolcrali , in una delle quali si trovano ancora 3 sarcofagi, quello del re, della moglie e del figlio; in una piccola stanza adiacente furono rinvenute alcune monete che riportavano la data della morte del re, furono così utilissime per la datazione della tomba. La tomba è fatta con blocchi granitici identici a forma di parallelepipedo mentre quella di Gebre Mesquel, posta di lato è fatta con blocchi di granito di forme irregolari, combinate insieme come se fossero tessere di un puzzle. Ormai sono le 16.30 e, visto che i siti archeologici della città chiudono alle 17, Brooke è venuto a prenderci per portarci al Castello della Regina di Saba, che dista comunque parecchio dal centro città. Questo grande palazzo, di cui rimangono per lo più bassi muri perimetrali, contava più di 50 stanze, è ben conservata una scalinata in granito in quella che doveva essere la sala del trono e una cucina con il forno in mattoni. Anche se questo palazzo fu attribuito a proprietà della Regina di Saba, pare risalga al VI secolo d.C, quindi posteriore di quasi 1600 anni e non si sa a quale sovrano sia appartenuto. Di fronte al castello c’ è un altro parco di stele, un cimitero in cui venivano sepolti i nobili e le persone abbienti; le stele sono più piccole, più numerose e molte crollate a terra o frantumate. La più grande, caduta al suolo pare appartenesse alla Regina Giuditta, colei che voleva abolire il cristianesimo e riportare il giudaismo come religione ufficiale. Aperitivo con birra e patatine nel bar dell’hotel, quindi doccia per essere pronti alle 19 per la cena. Stasera Ashu ci ha proposto una cena in un locale con danze tipiche, a noi son rizzati i capelli in testa, ogni volta che ci hanno portato a vedere danze tipiche, in ogni parte del mondo è stata una pizza bestiale, peggiorata dal fatto che non te ne puoi andare prima che sia terminato il tutto. L’“Antika Cultural Restaurant” è un locale in cui i ballerini si esibiscono nelle danze tradizionali delle varie tribù, per nulla ripetitivi, infatti il locale è frequentato quasi interamente da indigeni, turisti siamo solo noi e 2 tedeschi. Inoltre abbiamo mangiato benissimo: agnello arrosto servito su di un fornelletto con le braci accese sotto che ricorda molto quello usato per la “bagna caoda. Tornando a piedi in hotel abbiamo assistito ad un evento per noi paradossale: i bar mettono nel dehor una televisione che trasmette un film e gli avventori si siedono in file uno dietro l’altro come al cinema e guardano a bocca aperta lo svolgersi della vicenda, partecipando attivamente applaudendo o fischiando questo o quel protagonista… sembra di essere tornati ai tempi del “musichiere” quando ci si trovava tutti al bar o dal vicino ricco che possedeva un apparecchio televisivo!

Mercoledì 6/02/2019 – AXUM – MAKALLÈ (300 KM)

Partenza alle 7 per visitare almeno una delle 200 chiese rupestri della valle de Tigray. Queste chiese furono costruite in caverne o grotte naturali, situate in luoghi impervi dove i fedeli potessero pregare ed essere invisibili ad occhio umano per sfuggire alla furia mussulmana. Per questa visita, fuori programma abbiamo fatto una deviazione di oltre 100 km. Lasciato Axum, abbiamo attraversato Adua, città tristemente famosa per una sconfitta subita dagli italiani nel 1896, che già avevano possedimenti in Eritrea e volevano espandersi anche in Ethiopia. Gli Italiani tornarono dal 1936 in pieno dominio fascista, per poi tornare in patria definitivamente sconfitti nel 1941. In un angolo della piazza, contornato da carta ed erbacce c’è una croce edificata da Mussolini in ricordo dei caduti nell’ omonima battaglia con la scritta: “Ai caduti, Adua 1896 non dobbiamo dimenticare”, scritta in italiano. Abbiamo proseguito fino a raggiungere i Monti Gheralta, picchi rocciosi rossi che ricordano le Montagne Rocciose americane tra i quali si nascondono le chiese. La strada è bella, asfaltata di fresco quindi abbiamo fatto relativamente presto ad arrivare fin qua, arrivati al paese di Dugem abbiamo preso a bordo una guida locale obbligatoria che ci costerà 570 birr, quindi abbiamo fatto salire anche un poliziotto locale, altri 200 birr e 150 birr a testa per il biglietto d’ ingresso alla chiesa. Ashu ha avuto subito un diverbio con la guida assegnatoci perché ha detto che non sapeva se lassù al monastero ci fosse il prete con le chiavi per aprirci e, soprattutto non sapeva come fare a contattarlo. Con la sua prontezza, Ashu ha fatto un paio di telefonate, ha reperito il numero del prete che ha detto che di lì a poco avrebbe celebrato un matrimonio ma al nostro arrivo sarebbe stato lassù ad aspettarci. Appena scesi dall’auto siamo stati attorniati da una folla di ragazzini che volevano accompagnarci per darci la mano e sorreggerci in caso di difficoltà per poi ricevere una mancia , a nulla sono valse le parole di Ashu per persuaderli a desistere, quindi siamo partiti alla volta del monastero, una sorta di “armata Brancaleone”: noi , Ashu, la giuda locale, la guardia armata , e uno ciurma di ragazzini ,uno dei quali, Tekiehaimanot, un amico di Ashu che studia per diventare prete e percorre l’irto sentiero un paio di volte al giorno per tornare a casa a mangiare ed è diventato gli occhi del suo anziano precettore cieco. Il monastero Abuna Abraham si trova su una montagna a 2500 m d’ altitudine e per raggiungerlo abbiamo camminato per circa un’ora su per un sentiero roccioso in salita, in alcuni tratti veramente ripida, a volte passando attraverso strette gole di arenaria rossa. Giunti in cima siamo stati accolti dai monaci con calore, sono pochissimi i turisti che arrivano fin quassù, lo scorso anno hanno ricevuto la visita di 5 gruppi, quest’ anno noi siamo i primi! La chiesa è scavata nella roccia all’interno della montagna, sono state scolpite 6 colonne e le pareti sono coperte di affreschi risalenti al 1100, alcuni piuttosto rovinati ma pur sempre bellissimi. Di particolar pregio quello di San Giorgio che combatte il drago, Abramo, a cui è dedicata la chiesa, e l’effige dei 12 padri della chiesa. Il Sancta Santorum è delimitato da una tenda di raso rossa, ci sono poi 2 stanze adiacenti che hanno soffitti scolpiti con disegni geometrici e immagini sacre, simile alla cupola di una cattedrale barocca. Nella parte posteriore della chiesa c’è una buia galleria, una sorta di camminamento dove possono assistere alla messa le persone che non possono ricevere l’eucarestia. Questo luogo tanto remoto, quasi atavico ammantato dal silenzio, dove si respira una fede profonda mantenuta nei secoli malgrado razzie ed incursioni, custodita con immani sacrifici da un pugno di uomini armati solo della loro fede è stata per me un’esperienza mistica, l’ennesima testimonianza dell’esistenza di Dio. La discesa è stata più agevole della salita, Tekiehaimanot, ci ha accompagnati al piazzale dove abbiamo lasciato l’auto e, come ci aveva pregato il suo maestro, gli abbiamo dato un po’ di indumenti presi dalla nostra scorta ed abbiamo deciso di comprargli un paio di scarpe perché quelle con cui affronta giornalmente l’ardua via sono pressoché senza suola. Quando gli abbiamo proposto di accompagnarci al mercato della piccola cittadina lì vicino, ha declinato l’invito perché non era mai salito su di un altro e aveva paura di farlo, quindi è venuto con noi il fratello maggiore per portargli a casa le scarpe. Ad Hawzen, paese distante una decina di km, oggi si tiene il mercato; abbiamo passeggiato tra le stuoie posate a terra con su i prodotti da vendere, un via vai fervente di persone e animali; bellissime le donne tigrine con le loro elaborate acconciature fatte di tante treccine che si lasciano andare in cuscini di soffici capelli come se fossero cotonati. Trovare le scarpe per il nostro giovane amico non è stato facile, ne hanno un numero per modello e i numeri da ragazzini sono veramente pochi. Dopo aver girato diversi negozi abbiamo trovato un paio di scarpe da tennis che abbiamo pagato l’equivalente di 20€, una follia per l’Ethiopia, ma essendo materiale di esportazione sono un bene di super lusso! Ne abbiamo comprate anche un paio al fratello che risaliva la montagna con un paio di infradito di gomma, le ha indossate subito con gli occhi increduli, lucidi d’emozione, probabilmente saranno l’unico paio che potrà mai permettersi; ci ha ringraziato, salutato ed è saltato sul primo autobus che lo porterà fino a Dugen, gli ultimi 5 o 6 km per raggiungere il suo villaggio li farà a piedi ma… con un paio di scarpe veramente speciali! Ancora 2 ore di strada per raggiungere Macallè ma Brooke ci ha preparato un’altra sorpresa: è riuscito a trovare una compilation di musica anni 80, abbiamo cantato a squarciagola brani che ci hanno ricordato la nostra giovinezza. Macallè conta quasi 800.000 abitanti, è caotica, vivace, elegante con negozi alla moda, si respira maggior benessere rispetto alle altre zone visitate finora, infatti il maggior numero d’ industrie del paese è concentrato nel Tigray. Il nostro hotel è il “Ramadi”, in centro città, abbastanza nuovo, pulito, ma con le solite pecche: la porta scorrevole della doccia per poco ci cade sui piedi e poi a chi verrebbe in mente di posizionare l’unica presa del bagno all’ interno del box doccia? Siamo andati a cena al ristorante “Dursin” molto elegante, abbiamo mangiato un delizioso pollo con verdure le solite 10 birre ma quando è arrivato il conto siamo rimasti tutti a bocca aperta, abbiamo pagato l’equivalente di 20 € a testa! Ashu era veramente imbufalito, ci ha spiegato che in Ethiopia il pollo è un piatto di lusso che solitamente non si mangia al ristorante (noi quando abbiamo chiesto il pollo pensavamo di fare la richiesta più modesta!) ma costoro ci hanno fregato comunque perché ci hanno mostrato un menù scritto in inglese con i prezzi raddoppiati rispetto agli standard etiopi. Il ristorante era pieno zeppo di locali, che mai e poi mai avrebbero potuto permettersi una cena a quel prezzo, quindi abbiamo dedotto che avessero anche un menù in amarico con i prezzi dimezzati. Abbiamo bevuto un tè nella caffetteria dell’hotel e il gestore ci ha confermato le nostre supposizioni!

Giovedì 7/02/2019 – MACALLÈ – LALIBELA (500 KM)

Partenza alle 7.30 in direzione Alamba Alagi e Ambaradan, luoghi teatro di battaglie tra italiani ed etiopi; la strada è popolata da un via vai di persone che si apprestano al lavoro quotidiano, spesso seguiti da asinelli stracarichi forse per raggiungere mercati. Dopo un paio d’ore raggiungiamo Mehkoni un piccolo paese brulicante di vita: chi va e chi viene, donne piegate sotto pesi immensi o con bambini sulla schiena, giovani scanzonati si aggirano per le strade apparentemente senza meta , ogni botteguccia suona canzoni allegre, mentre bambini, stupiti della nostra presenza ci seguono e talvolta ci chiedono del denaro, in effetti siamo gli unici turisti in questi paesi che non hanno nulla di particolare da visitare; i turisti si concentrano nei vari siti archeologici e nessuno, a meno che non sia accompagnato da Ashu, si ferma in questi piccoli centri. Abbiamo preso un caffè ed abbiamo proseguito sull’altopiano densamente coltivato e popolato da numerose mandrie di zebù, grossi bovini con la gobba e lunghe corna. La Dancalia dista da qui un centinaio di chilometri quindi è facile imbattersi in lunghe file di dromedari che impiegano circa 16 giorni a raggiungere la meta, e 24 giorni per rientrare con un carico di lastre di sale del peso totale di 160 kg per ogni animale… Abbiamo lasciato il Tigray, siamo rientrati nella regione Amara, abbiamo incrociato il bivio che porta dopo 700 km in Gibuti, quindi ci siamo fermati per il solito spuntino di mezzogiorno a base di frutta e pane e, durante la pausa, abbiamo cominciato a cantare canzoni italiane accompagnate dal suono dell’okulele destando l’ ilarità di tutti i camerieri. La strada comincia a salire, attorno al letto del fiume denso di colture, più in alto si taglia e si lavora il legname di eucalipto usato per la costruzione delle case, i bambini sul ciglio della strada vendono mazzi di carote sciacquate nel canale parallelo alla strada. Man mano che si sale il panorama sulla valle sottostante è spettacolare. Raggiungiamo l’Acrocoro Etiope a 3500 m s.l.m, quassù abbiamo fatto visita al villaggio amara di Babasit per consegnare un po’ degli indumenti per bambini portati con noi, visto che qua su sono ben pochi quelli che si inerpicano. Siamo stati accolti da una fiumana di bambini, da quelli appena capaci a camminare da soli a quelli quasi adolescenti, tutti vestiti di stracci, laceri, molti scalzi malgrado le temperature non proprio caraibiche, certo che quel che abbiamo portato è veramente poco per riuscire a vestire tutti loro! Il capo villaggio, a cui abbiamo consegnato il pacco con gli indumenti in modo che possa dividerlo equamente tra tutti i membri della sua comunità, ci ha ringraziato di cuore, ci ha accolto in casa sua, che condivide con la prima moglie, 5 o 6 figli e gli animali. L’ interno è buio, l’aria quasi irrespirabile pregna di fumo del focolare, con tappeti a terra che fungono da letti e una tettoia sospesa da terra dove dormono i genitori… sembra impossibile si possa vivere così! Volevano offrirci un caffè ma non conoscendo la provenienza dell’acqua abbiamo rifiutato, ringraziando. Ci ha poi portato nella casa che occupa con la seconda moglie, molto più giovane della prima, che stava macinando granaglie su una grande pietra; questa abitazione è suddivisa in 2 piani, sotto ci sono le stalle con gli animali e sopra la parte abitativa, più ariosa e chiara rispetto all’ altra casa. Il capo villaggio, orgoglioso, ha più volte ribadito che possiede molti capi di bestiame, che è quindi ricco, ed è una persona in degna di una certa considerazione. Lasciato il villaggio la strada attraversa l’altopiano disseminato di villaggi con case di fango con il tetto di paglia a base circolare, i tukul. Ad un certo punto l’asfalto lascia il posto allo sterrato, la strada diviene tutta buche e grossi massi da scavalcare si procede a passo d’ uomo, malgrado la perizia di Brooke. Purtroppo il tragitto odierno è stato allungato di 180 km, c’è una strada più diretta che va da Macallè a Lalibela ma è chiusa da oltre un mese per manutenzione. Mentre lentamente affrontiamo la discesa il sole comincia a scendere, i pastori radunano le greggi e si appropinquano a casa, quasi tutti portano sulla schiena o sul dorso di un asino, legna, paglia o taniche d’acqua, chi, addirittura porta l’aratro di legno sulle spalle. Abbiamo assistito al nostro primo, magico tramonto etiope, una breve sosta per un paio di foto e poi veloci verso Lalibela perché stava rapidamente scendendo la notte. Siamo arrivati a Lalibela che era ormai buio. Il “Lal hotel” è abbastanza lussuoso, le stanze spaziose sono sistemate in piccoli bungalow circolari a forma di tukul. È veramente tardi, così abbiamo cenato in hotel ma, su intercessione di Ashu, lo chef ci ha consigliato zuppa di lenticchie e pesce alla griglia con verdure, ottimo consiglio!

Venerdì 8/02/2019 – LALIBELA

Siamo finalmente a Lalibela, la mitica città con le chiese rupestri scavate nella roccia della montagna più famose d’Africa. Nel XI secolo il regno di Axum perse la propria egemonia, quindi la capitale si spostò a Roha, che prese poi il nome dal sovrano che ordinò la costruzione del complesso di chiese: Lalibela, per l’appunto, che significa “anche le api riconoscono la sua sovranità” perché, la leggenda vuole, alla sua nascita il neonato fu attorniato da uno sciame di api che, anziché pungerlo, parevano inchinarsi al suo cospetto. La città, sito dell’UNESCO, si trova a2500 m. s.l.m. 2 sono le leggende che si attribuiscono alla costruzione della città: Lalibela doveva essere una seconda Gerusalemme, in modo che i pellegrini non rischiassero la vita nel viaggio pericoloso in Terra Santa, assediata dal feroce Saladino; l’altra vuole che il re fu avvelenato da un fratello per gelosia, quindi salì in paradiso dove il Signore lo rimandò sulla terra e gli ordinò di costruire una nuova Gerusalemme in Africa. Sempre secondo la leggenda l’intero complesso delle 11 chiese fu costruito in 23 anni perché terminato il lavoro degli uomini durante il giorno, continuavano a lavorare, per tutta la notte, gli angeli; in realtà la costruzione dell’intero complesso durò per quasi 200 anni, furono scavate nella roccia tufacea di 2 colline senza però esserne inglobate; per l’ intera realizzazione furono asportati 300,000 m3 di roccia in modo che rimanessero sotto il livello del terreno e venissero celate alla vista dei mussulmani che volevano la supremazia sui cristiani. Abbiamo lasciato il nostro hotel alle 8 e abbiamo raggiunto il complesso chiamato la “Gerusalemme Terrestre” a piedi, arrivati lassù siamo andati a visitare il piccolo museo in cui sono custoditi i pochi reperti di valore rimasti nelle chiese perché la maggior parte si trova la British Museum a Londra. Appena entrati siamo andati in una piccola piazza dove si stava tenendo la cerimonia d’ investitura di un sacerdote. C’erano un numero impressionante di preti vestiti di bianco e rosso, salmodiavano una preghiera, suonavano sistri e tamburi, e accennavano una sorta di ballo. Il festeggiato aveva in testa un copricapo dorato, simile ad una corona ed indossava un manto dorato e in mano teneva una candela accesa. Siamo rimasti un bel po’ ad assistere alla cerimonia, che però si sarebbe conclusa solo nel pomeriggio, così abbiamo cominciato la visita delle chiese. La chiesa più grande è quella di San Salvatore, è suddivida in 3 navate separate da colonne e con il soffitto a botte nella navata centrale, prima del Sancta Santorum ci sono 3 tombe scavate nel pavimento di pietra che rappresentano rispettivamente la tomba di Abramo, di Isacco e di Giacobbe… Esternamente è circondata da un portico con 38 colonne. Purtroppo, malgrado Lalibela sia un patrimonio dell’UNESCO le protezioni per questi capolavori son a dir poco vergognosi: per coprire le chiese e difenderle dai fenomeni atmosferici è stato messo su ognuna un telone giallastro tenuto su con pali e tiranti in acciaio, un terribile impatto visivo. Abbiamo proseguito verso la piccola chiesa della Croce, ad una sola navata ma con una piccola stanza adiacente su cui è incisa una croce greca. Passiamo alla cappella detta “delle Vergini”, senza decorazioni di pregio, è stata fatta erigere in ricordo dell’eccidio delle 40 suore ad Edessa, l’attuale Turchia. per mano di Giuliano L’Apostata. La chiesa di Santa Maria è sicuramente la più bella, non è grande come quella di San Salvatore ma è l’unica che ha affreschi sulle pareti di roccia. Tutte le chiese presentano una grande tenda colorata che divide il Sancta Santorum con il resto della chiesa, ci sono alcuni quadri con immagini sacre moderne che i fedeli donano alla chiesa come ex voto e, in prossimità della zona più sacra, solitamente c’è il prete con il bianco turbante in testa e la voluminosa chiave della chiesa in ottone in mano. Le prossime chiese sono quelle di San Michele e del Golgota, 2 chiese gemelle comunicanti, la più bella è quella del Golgota con affreschi dei 12 apostoli a grandezza naturale, ma in questa chiesa è vietato l’ingresso alle donne. Abbiamo atteso che i nostri mariti facessero la visita con Ashu e poi, non so se per consolarci ci hanno detto che non era poi così bella perché la maggior parte degli affreschi sono nascosti nel Sancta Santorum. Molte, purtroppo, sono le chiese in Ethiopia il cui accesso alle donne è negato perché la Regina Giuditta, donna, voleva abolire il cristianesimo in Ethiopia e riportare la religione al giudaismo. Il sito chiude a mezzogiorno, siamo quindi tornati in città per il consueto spuntino, seduti in un piccolo locale con le sedie all’ aperto abbiamo quasi subito notato un bambino avvolto nello shemma, come i sacerdoti, che ci guardava mangiare. Quello stesso bambino lo avevamo già visto e fotografato tra le chiese monolitiche, sembrava quasi ci seguisse, in silenzio, senza chiederci nulla, incuriosito dalla nostra presenza. Abbiamo chiesto ad Ashu di intercedere per noi, gli abbiamo chiesto se avesse già pranzato e alla sua risposta negativa Ashu gli ha lasciato quasi tutta la sua injera, noi gli abbiamo comprato una Sprite che lui nei suoi 10/12 anni di vita, non aveva mai assaggiato. Mentre mangiava gli abbiamo chiesto cosa facesse in monastero, egli ci ha raccontato che fa parte di una famiglia di 13 figli che i genitori non sanno come sfamare, quindi Ngus, questo è il suo nome, è stato mandato via da casa; egli si è rifugiato nel monastero, che è a 2 giorni di cammino dal suo villaggio, studia per diventare prete, ma il suo precettore non gli dà da mangiare, quindi, ogni giorno, terminate le lezioni, va a mendicare di porta in porta in cerca di un po’ di cibo. È stato uno dei momenti più toccanti del viaggio, non abbiamo veramente saputo trattenere le lacrime al suo racconto. Gli abbiamo comprato frutta e pane per la cena, poi sono andata in hotel a prendergli un po’ di indumenti. Mentre Ngus mangiava ad occhi bassi continuando a ripetere “Che il Signore vi benedica…”; abbiamo inoltre notato le scarpe che indossava erano talmente rotte da non riuscire più a tenerle ai piedi, quindi riaccompagnandolo al monastero gli abbiamo comprato un paio di scarpe nuove che ha subito indossato con un sorriso radioso, ma le vecchie, malgrado fossero veramente a pezzi, le ha conservate. Il sito non era ancora aperto, ci siamo fermati in un bar per un caffè, ancora scossi dal racconto di Ngus, e qui siamo venuti a conoscenza di un’altra tragica storia, probabilmente una delle tante, ma, per noi, nati e vissuti nella parte “fortunata” del mondo ci ha scosso quanto quella di Ngus. Accovacciata in un angolo del bar c’era un giovane donna, esile, emaciata, dagli abiti lisi e strappati che setacciava granaglie per poi portarle al mulino a macinare. Per questo lavoro veniva pagata 3 birr a misura (un recipiente di latta, della capacità circa di 2 litri), cioè 10 centesimi di euro a misura. Vive sola in città con i suoi 4 figli perché ha lasciato il marito che la picchiava al villaggio e si è rifugiata in città perché, in caso tornasse a riprenderla, la polizia potrebbe difenderla, nei villaggi vige l’anarchia, o meglio, la legge del villaggio stesso. Sta via quasi tutto il giorno e la maggior parte delle volte non guadagna neppure il necessario per sfamare le sue creature. Sono di nuovo salite le lacrime agli occhi, le abbiamo dato appuntamento alle 6 davanti al nostro hotel per dare anche a lei qualche capo di vestiario le abbiamo comprato frutta e pane per la cena. Alle 14.30 scossi da tante emozioni, abbiamo ripreso la visita di quella parte di chiese definite “Gerusalemme Celeste”, che è posteriore all’ altra, risale al 1400 e, sembra che molti di questi edifici fossero usati per scopi civili. Qui è tutto un labirinto di vicoli stretti, le chiese sono unite le une alle altre da cunicoli. Visitiamo la chiesa di Betlemme, con un forno dove si cuoceva il pane che serviva al confezionamento delle ostie, il cui soffitto presenta ancora i fori di aerazione. Le chiese di San Gabriele e di San Giorgio sono 2 chiese comunicanti e pare che anticamente si trattasse del palazzo di giustizia. Per raggiungere la chiesa di Sant’Emanuel abbiamo percorso una galleria completamente buia, tastavamo le pareti rocciose con le mani che non andare a sbattere. Non è permessa neppure la luce di un fiammifero, e questo passaggio sta ad indicare la via buia del peccato che sfocia nella luce della fede. Sant’Emanuel è una chiesa completamente monolitica con le quattro pareti staccate completamente dalla roccia, con le pareti e la facciata finemente decorata, tanto da far supporre che fosse la cappella privata del re. San Libanos è l’unica chiesa de Lalibela unita alla roccia dal pavimento e dal soffitto, con una facciata scolpita; l’interno è piccolino, con una galleria posteriore. Rimane ancora una chiesa da vedere, forse la più spettacolare che non fa parte né del complesso della “Gerusalemme Terrestre”, né di quello della “Gerusalemme Celeste”: è la chiesa di San Giorgio. È una chiesa monolitica con il tetto a livello del suolo risalente al XIV secolo, a forma di croce greca con 2 solchi concentrici all’interno. Ha la forma di un cubo di 15 m per lato, è suddivisa in 3 piani con belle finestre che illuminano l’interno piuttosto semplice, In una grotta di fronte alla chiesa sono conservati scheletri di sacerdoti uccisi. Le pareti esterne della chiesa sono in parte ricoperte da muchi e licheni giallastri, che alla luce calda del tramonto fanno assumere alla chiesa il colore dell’oro, sembra ancora più bella! Alle 5, ora di chiusura del sito, ci avviamo verso l’hotel, qui, al contrario di tanti altri luoghi poco turistici, ci sono una miriade di banchetti che vendono oggettini d’artigianato, ci fermiamo a contrattare e comprare. Abbiamo fatto man bassa di presepi in terracotta, croci d’ ottone, un trittico in legno dipinto e altre piccole cose. Per tutta la strada verso l’hotel siamo stati accompagnati da un gruppo numeroso di ragazzi che dopo aver tentato un approccio con 4 frasi in inglese, di cui quasi non sanno il significato, “come ti chiami?”, “da dove vieni”, ecc., tentano di muoverti a compassione chiedendo, come un ritornello “money, money, money” massaggiandosi lo stomaco per mostrarci che hanno fame. Costoro però sono in carne e vestiti bene, fanno parte, di quei ragazzi che preferisce mendicare piuttosto che studiare o imparare un mestiere. Il più furbo del gruppo è venuto a chiedere se gli compravamo un dizionario per la scuola, Ashu ci ha fermati perché questi furbetti prendono il dizionario, ringraziano e… poi tornano dal cartolaio restituiscono il dizionario e si fanno consegnare i soldi; è stato preso per il naso anche Ashu stesso che si è accorto dell’inghippo perché gli è tornato tra le mani un dizionario comprato un mese prima ad un altro ragazzino, su cui lui, però, aveva scritto una dedica. Alle 6 è venuta a prendere il pacco la signora del bar ci ha abbracciato e ringraziato commossa. Doccia, birretta e poi cena nel ristorante dove avevamo pranzato, stasera piatto del venerdì: injera con le verdure, veramente buono e leggero.

SABATO 9/02/2019 – LALIBELA – DESSIE (330 KM)

Abbiamo lasciato Lalibela all’alba e la strada era già piena di ragazzini che chiedevano oboli vari, tra cui che ci facessimo lucidare le scarpe… da tennis! Oggi, sarà una giornata di trasferimento così, per spezzare un po’ Ashu ci ha proposto la visita ad un monastero nei dintorni di Lalibela. Abbiamo raggiunto il Naha Kutolaab per una strada sterrata e davanti alla biglietteria abbiamo scoperto che il prezzo attuale del biglietto d’ingresso è di 350 birr, cioè circa 12 €, mentre fino ad un mese fa era 150 birr, Ashu era molto dispiaciuto dell’inconveniente, ci ha detto che la chiesa, seppur interessante, non vale tale cifra e, per protesta, ci ha consigliato di tornare indietro. Si torna verso ad Addis Abeba con la strada, brutta lunga, che abbiamo percorso all’andata; al mattino c’ è il solito via vai di persone che si appropinquano ai lavori quotidiani, altri con pacchi, sacchi, contenitori in spalla o a dorso di mulo; abbiamo anche incrociato una fila di persone che si stava recando ad un funerale, lo si desume dalla foggia della shemma. A Teje, oggi è giorno di mercato, ma verso le 9 la maggior parte dei commercianti deve ancora arrivare, abbiamo fatto un breve giro e poi siamo risaliti in auto. Sull’Acrocoro, abbiamo trovato un altro mercato a Boya, popolatissimo, brulicante di persone ed animali, i venditori erano tutti seduti a terra su dei teli con davanti la loro merce da vendere, gli uni così vicini agli altri tanto da non sapere dove posare i piedi per passare… Si vende mais, che qui è bianco, caffè verde da tostare, cereali e legumi secchi, sale della Dancalia. Appena siamo comparsi sul mercato, tutti hanno lasciato i loro affari per seguirci, anche solo con lo sguardo, incuriositi e stupiti della presenza dei “bianchi”. Una signora, più intraprendente delle altre, affronta Ashu e gli chiede cosa ci facessimo sul mercato visto che non abbiamo nulla da vendere e non siamo interessati a comprare nulla, la nostra guida le ha risposta che siamo lì per guardare. Incredula non riusciva a capire cosa ci fosse d’ interessante da vedere, poi essendoci avvicinati ad una signora che vendeva terrecotte, in particolare i piatti per cuocere l’injera, ha chiesto se, noi signore, sappiamo fare l’injera. Ovviamente Ashu ha risposto di no, ma che sappiamo fare altre cose; costei, per nulla intimorita afferma “Nella mia vita ho visto solo 3 volte persone bianche e… l’unica cosa che sanno fare è fotografare!” Un’altra bella lezione di vita! Abbiamo proseguito il nostro giro sul mercato, seguiti da una processione di bambini e ragazzi che ripetevano “money” come una cantilena, abbiamo visto anche artigiani all’ opera: un sarto con la sua macchina da cucire, un ragazzino che riparava le fratture dei bidoni per l’acqua o le camere d’aria delle gomme. Proseguiamo tra villaggi di taglialegna che profumano di eucaliptos, e campi coltivati. Alle 2 sosta spuntino per poi ripartire lungo questa strada oggi interminabile. Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto una deviazione per sgranchire un po’ le gambe con una passeggiata sul lago Haiq, un lago vulcanico che si trova a 20 km da Dessie. Questo è un luogo di svago dove gli abitanti della città vengono soprattutto nel weekend a fare pic nic, a bere, a masticare foglie di cha, a festeggiare con la famiglia compleanni, lauree o matrimoni. Abbiamo passeggiato sulla riva del lago, tra mucche e capre ed abbiamo potuto osservare numerose varietà di uccelli. All’imbrunire abbiamo raggiunto il nostro hotel il “Golden Gate” che all’ apparenza è pura magnificenza; lampadari enormi di cristallo, pavimenti lucidissimi in marmo ma arrivati in camera, malgrado l’arredo fosse molto bello, la luce non funzionava, avevamo un unico asciugamano per la doccia, la doccia spruzzava ovunque, la lampada aveva la lampadina bruciata! Siamo scesi quindi nell’ elegante salone ristorante per la cena: il pesce e la verdura erano buoni ma con porzioni dietetiche. Abbiamo ordinato ancora un piatto che abbiamo pagato a parte e poi a nanna, anche qui internet fa i capricci!

DOMENICA 10/02/2019 – DESSì – ADDIS ABEBA (400 KM)

Siamo partiti con 10 minuti di ritardo rispetto all’ora stabilita, perché malgrado la sala fosse vuota, hanno impiegato 40 minuti per fare 4 omelette. È domenica, sembra che la gente per strada si muova con più calma e indolenza, molti dei negozietti sono chiusi. Attraversando la città, fin dal momento della nostra sveglia abbiamo avuto in sottofondo la voce cantilenante del prete che celebra la messa domenicale. Alle 11 siamo arrivati a Sembete, il maggior mercato di tutta l’Etiopia del nord che si tiene ogni domenica mattina. La confusione è indescrivibile, tanto che Ashu ha dovuto affidarsi ad una guida locale per non perdersi in questo accalcarsi di folla e, soprattutto per comunicare con le varie etnie che popolano il mercato e, che spesso parlano solo uno degli oltre 90 dialetti. Oltre ad Amara ed Oromo, affollano il mercato gli Afar, popolo fiero che viene dalla Dancalia; gli Argobba, le cui donne sono abbigliate con abiti dallo sfondo nero ma con disegni dai colori accesi, hanno elaborate conciature con treccine e al collo portano un tellaro d’argento, chiamato anche Maria Teresa. Ci siamo recati subito, fra spintoni e sguardi stupiti, nella parte bassa del mercato dove si tiene il mercato del bestiame. Subito incontriamo seduti a terra i mercanti di ovini, poi si arriva alla parte dedicata al commercio dei dromedari, usati per raggiungere la Dancalia per il trasporto del sale. Ce n’è di tutte le taglie, anche cuccioli, ancora lattanti. Un cammello maschio costa circa 20.000 birr (660 €), mentre le femmine, che sono in grado di riprodursi oltre i 30.000 birr (quasi 1000 €). La parte più bassa, in prossimità di un fiumiciattolo, è quella dedicata ai bovini a cui si aggiunge una particolarità: in un campo adiacente si trovano 2 aratri e prima di acquistare il bue lo si può provare, quindi vedere con quanta facilità si soggioga all’aratro. Lasciato il mercato del bestiame, passiamo alla parte in cui si trovano gli artigiani: orafi che forgiano pesanti gioielli in argento; gli Afar che costruiscono lame affilatissime per grossi coltelli, i conciai che costruiscono contenitori per il latte in cuoio che abbelliscono con conchiglie che provengono dal Mar Rosso; si passa poi al colorato mercato della frutta e della verdura, a quello della carbonella, agli oggetti in plastica, al mobilio, il tutto tra una confusione infernale, da fare girare la testa : chi ti spinge, chi ti urta, chi ti chiede soldi, chi ti tocca per vedere se sei vero… soprattutto i miei capelli, perché biondi e lisci… molti non ne hanno mai visti di uguali! Dopo un’ora abbiamo ripreso il viaggio verso la capitale, ci siamo fermati per lo spuntino e poi di nuovo sulla strada. Abbiamo incrociato un imponente cantiere turco che costruisce una nuova linea ferroviaria che collegherà Addis Abeba al Gibuti, quindi al mare, che secondo le previsioni avrebbe dovuto essere inaugurata fra 2 anni ma, visto fin dove sono arrivati, slitterà sicuramente di qualche anno. La strada odierna, tra sali e scendi, è buona, tutta asfaltata, è rallentata solo dai frequenti dossi; lungo la strada abbiamo notato interi villaggi di case in costruzione, Ashu ci ha spiegato che questo, soprattutto per le famiglie meno abbienti, è il periodo migliore per costruire una casa perché c’ è meno richiesta di legname, quindi il costo scende. Oggi, ad Addis Abeba si tiene il Congresso della Lega Africana, i maggior capi di stato si trovano qui, temevamo così di essere fermati da più posti di blocco per effettuare controlli di sicurezza ma fortunatamente non siamo stati fermati da nessuno, siamo stati solo rallentati dal traffico cittadino. Alle 18 eravamo al “Nexus” hotel, bellissimo, elegantissimo, la stanza è grande, il letto enorme, sembra a 3 piazze, la doccia una piazza d’ armi, servizio di cortesia in camera anche se la rete Wi-Fi è buona solo nella hall. Dopo la doccia abbiamo fatto quattro passi lungo la via elegante e trafficatissima, siamo entrati in un supermercato con l’intento di comprare qualche bottiglia di vino, ma non lo tenevano e non tenevano neppure la birra. Abbiamo dovuto accontentarci di qualche dolcino e un po’ di patatine da spiluccare come aperitivo. Alle 8 Ashu ci ha raggiunto con la sua famiglia, la moglie elegantissima nel suo abito di seta rosso, i 2 bimbi Elias e Sofomia, allegri, vivaci sempre sorridenti, tali e quali al papà. Anche stasera abbiamo mangiato molto bene, zuppa e spiedini di pollo, mentre i piccolini si sono lanciati sulla pizza!

LUNEDì 11/02/2019 – ADDIS ABEBA – YRGALEM (385 KM)

Abbiamo lasciato Addis Abeba prima delle sette, prima di essere letteralmente imbottigliati nel traffico della capitale; stamattina abbiamo fatto una vera colazione all’ italiana, niente omelette solo brioches, muffin, biscotti e dolcetti da inzuppare nel tè. Dopo un centinaio di chilometri abbiamo raggiunto la regione dei Guraghe; l’Ethiopia è divisa in regioni che non sono delimitate da confini geografici, ma sono divisi per etnie che spesso non vanno d’ accordo tra di loro e così si creano dispute e lotte intestine. Abbiamo attraversato Wolisso, una città che nel 2016, durante una manifestazione degli Oromo contro il governo precedente, la polizia di stato fece fuoco sui manifestanti uccidendone 300, una carneficina, di cui, noi in Europa non siamo venuti a conoscenza. Ci siamo fermati a visitare un villaggio dei Guraghe, costoro vestono attualmente all’occidentale, vivono però nei tukul circolari. All’interno c’è una paratia che divide la parte abitativa da quella usata come stalla per il bestiame; la parte abitativa ha il suolo ricoperto da stuoie fatte intrecciando le foglie del falso banano e al centro il braciere per il caffè. Il tetto della capanna è sorretto da un grande palo centrale da cui si irradiano pali più piccoli quasi fosse l’apertura di un ombrello., su cui poi poggia la copertura fatta di paglia di teff, il cereale usato per fare l’injera. Dietro ogni capanna c’ è un orto dove si coltiva principalmente il falso banano, la cui polpa raschiata delle foglie si pone in una buca del terreno per almeno un mese a fermentare, quindi ne fanno un pane chiamato “kocho”. Oltre al falso banano coltivano caffè, chat, avocado, arance, papaye… Il villaggio è pulito, ordinato, siamo seguiti da un numero incredibile di bambini che si divertono a mettersi in posa e a farsi scattare fotografie. Dopo aver ringraziato per l’ospitalità ed aver lasciato un pacco di abiti che il capo villaggio distribuirà tra tutti gli abitanti, abbiamo raggiunto il mercato di Agena. La parte alta del mercato è costituito da un po’ di negozietti, ce n’era anche u uno che vendeva terrecotte nere, abbiamo trovato finalmente il piatto da appendere anche se sembra più un centrotavola. Il mercato vero e proprio si sviluppa in una conca dove sono radunati tutti i commercianti e gli acquirenti: è un brulicare di persone che contrattano vendono, si salutano. Dall’ alto sembra un enorme formicaio in cui le formiche siano cadute in una latta di vernice colorata. La prima zona è dedicata ai macellai che vendono le loro carni a porzione non a peso, poi trovi veramente la qualunque, dai vestiti usati, a montagne di scarpe, in cui probabilmente non trovi la compagna, alle verdure, agli utensili in plastica, al materiale elettrico. La parte “puzzolente” del mercato è data dalle donne che portano la pasta fermentata del falso banano, chiuso nelle foglie fresche di quest’ ultimo e, malgrado sia chiuso, emana un puzzo terribile di formaggio andato a male. Anche qui, come ieri, siamo gli unici occidentali, anziane signore vengono a darci la mano, vogliono salutarci, e dicono ad Ashu “oggi è proprio una bella giornata!”, quasi fosse un evento eccezionale essere salutate da noi! Abbiamo camminato a lungo in questo caos allegro, comunque meno caotico del mercato di Sembete; qui i bambini probabilmente non sono ancora stati contagiati dal turismo, non ci chiedono soldi o biro, ma ci seguono sbalorditi! Una donna, dopo averci guardati con sospetto, ha preso Ashu da parte e si è raccomandata che non ci seguisse in Europa, perché siamo strani e non sa che cosa avremmo potuto fare di lui, così, io, per scherzo, ho fatto finta di azzannargli un braccio, la poverina è scappata a gambe levate, mentre noi ridevamo di gusto! Ci siamo fermati per il solito spuntino per poi ripartire per un viaggio eterno; abbiamo raggiunto la Rift Valley e poi, paese dopo paese, in una zona pianeggiante piuttosto brulla, abbiamo viaggiato per oltre 5 ore,una agonia! Finalmente alle 7, quando ormai era buio, abbiamo raggiunto Yrgalem, un paese come ce ne sono tanti altri, ma qui c’ è un eco lodge tra i più prestigiosi del paese. L’Aragash Lodge è immerso in un parco nazionale tra alberi e coltivazioni di caffè, le abitazioni son tukul con tetto e pareti di paglia, son costituite da 2 camere da letto, un salottino e la stanza da bagno. In una costruzione più grande c’ è il ristorante, illuminato da candele, anche questo con pareti e mobili in vimini. Abbiamo fatto la doccia più veloce di sempre e alle 19,30 eravamo seduti a tavola, anche se poi la cena l’hanno servita alle 8! Abbiamo cominciato con una zuppa di verdure, fatta con le verdure coltivate nell’orto del lodge, buona; ha seguito poi un buffet fatto da pasta pasticciata scotta, carne veramente dura, insalata cruda, che non ci siamo azzardati a mangiare ed un intruglio grigiastro che non sapeva di nulla. Durante la cena è venuto a porgerci i saluti l’anziano proprietario, un greco, di nonna etiope, che sposò un’italiana di Civitavecchia, quindi parla correntemente l’italiano. Abbiamo chiacchierato un po’ della sua vita e delle sue scelte e poi, gentilmente ci ha offerto un limoncello fatto con la ricetta portata dall’Italia. Alle 21, facendoci luce con una torcia, siamo tornati in stanza, dove, prima di addormentarci siamo stati cullati dal canto di una miriade di uccelli e dal verso di chissà quali animali selvaggi.

MARTEDì 12/02/2019 – YRGALEM – ARBAMINCH (280 KM )

Di nuovo sveglia alle 6; uno dei guardiani del lodge ci ha accompagnati a spasso per il parco alla ricerca degli animali che lo popolano, in primis le iene che si aggirano nelle vicinanze in cerca di cibo. Appena arrivati alla recinzione ne abbiamo scorte 3, le abbiamo seguite passo passo, cercando di non far rumore, fino ad una piccola radura dove, anche se con un po’ di difficoltà siamo riusciti a fotografarle. Abbiamo percorso sentieri sotto alle alte fronde degli alberi, abbiamo raggiunto una zona dove, in piccole caverne trovano rifugio durante il giorno e dove partoriscono, ma a quest’ora erano ancora vuote. Abbiamo visto dei colubus neri che saltavano da un ramo all’ altro e un’altra iena sul versante opposto della collina, quindi abbiamo concluso il nostro giro con la visita dell’orto, ricco di insalata di ogni tipo, zucchine, pomodori, melanzane. Alle 7.30 eravamo al ristorante per la colazione, stamattina varietà di marmellate fatte in casa, tè, caffè e pane tostato caldo. Alle 8 Ashu è venuto a prenderci ed abbiamo cominciato un piacevolissimo trekking nel parco del lodge, accompagnati da una guida locale e, stavolta, anche da Brooke, che ha potuto lasciare l’auto custodita all’interno del lodge. Abbiamo percorso un sentiero in salita e, dopo mezz’ ora di cammino siamo arrivati ad un villaggio dei Sidama, una delle tante etnie che popolano il sud dell’Ethiopia. I Sidama sono per il 70% cristiani, il 20 % mussulmani e il 10 % animisti; vivono coltivando caffè, che in questa zona arriva a 350.000 tonnellate all’ anno, la pregiatissima qualità arabica. La loro principale risorsa di sostentamento è il falso banano da cui ricavano una sorta di pane fermentato. Siamo stati accolti con gioia dagli abitanti del villaggio, una miriade di bambini ci guardavano curiosi; una signora ci ha portato nella sua piantagione di falso banano e ci ha mostrato tutte le fasi di lavorazione per produrre il loro pane. Con un affilato machete si tagliano le foglie esterne, si grattugiano con una sorta di bastone dentellato, conservando però il liquido che si estrae che servirà per fare una zuppa. La polpa grattugiata si avvolge nelle foglie fresche e si pone in una buca del terreno e si lascia lì coperta a fermentare da 1 a 3 mesi. Trascorso tale periodo si estrae la “puzzolente” pasta, la si strizza bene del liquido rimasto, si setaccia più volte tanto da creare una farina umida, si appiattisce su di una piastra caldissima, si cuoce da entrambe i lati, si arrotola e si mangia come l’injera. Vista l’ospitalità che queste persone ci hanno riservato non abbiamo potuto esimerci dall’ assaggiarlo, buono non era ma, non immangiabile, cuocendo, ha perso quasi del tutto il sapore di “formaggio andato a male”. Mentre la signora preparava il pane, sua nuora ci ha mostrato il rito del caffè, che inizia con il caffè verde, lo si bagna, poi si tosta su una piastra posta sulle braci, quindi si pesta in un mortaio, si mette in infusione in acqua bollente per qualche minuto, si lascia depositare sul fondo della caffettiera, quindi si versa piano piano nelle tazze facendo attenzione a non versare il fondo. Abbiamo bevuto anche il caffè, che era ottimo, anche se amaro, lo zucchero è un bene di lusso e il villaggio ne era sprovvisto. Abbiamo giocato un po’ con i bambini, quindi abbiamo ringraziato la famiglia per l’ospitalità ed abbiamo proseguito la camminata attraversando altri piccoli villaggi; in uno di questi Ashu ha incontrato una bimba, una sua “figlioccia”, ovvero una bimba che lui ha salvato da morte certa e a cui ha pagato le cure. Una decina di anni or sono, Ashu, con un gruppo di turisti andò nel villaggio in cui viveva questa famiglia; entrando nella loro abitazione fu attratto da urla quasi animalesche, quando chiese spiegazioni i genitori gli dissero di non aprire la porta di quella che loro usavano come stalla, perché la loro figlia era posseduta dal demonio, quindi molto pericolosa. Ashu, incurante di ciò trovò quest’ esserino, sporco, magro, affamato, spaventato. Prese la bimba tra le sue braccia, la portò all’ospedale più vicino in cui le fu diagnosticata l’epilessia, fu curata e, non appena cessate le crisi comiziali la famiglia l’ha riaccolta in casa e, grazie alle cure e al sostentamento di Ashu, la bimba ora è sana e va a scuola. Un’ora e mezza più tardi siamo tornati al lodge, abbiamo salutato Alex, la nostra guida locale, che altri non è che il figlio illegittimo del proprietario del lodge e che non è neppure ammesso al suo interno, mentre Andrea, figlio legittimo, ha studiato negli Stati Uniti ed è il padrone di tutto. Riprendiamo il viaggio verso sud, la strada è asfaltata di fresco, è veloce, rallentiamo solo quando si attraversa un centro abitato , e, quando si attraversa un centro abitato, prestiamo attenzione ai distributori di carburante, appena ne troviamo uno fornito, non ci lasciamo scappare l’ occasione per rabboccare il serbatoio, ci mettiamo in fila , a volte veramente lunghe, specialmente quelle riservate ai tuk tuke alle moto, perché non sappiamo quando ne troveremo un altro. A Soddo ci siamo fermati per il pranzo, quindi abbiamo camminato un po’ per le vie trafficatissime giusto per sgranchirci un po’ le gambe. Quindi abbiamo proseguito per Arbaminch. Abbiamo raggiunto il lago Abaya, il più grande di tutta l’Ethiopia, di un colore marrone quasi aranciato per la grande quantità di ferro disperso nelle sue acque. Il lago è molto pescoso ma anche estremamente pericoloso per la presenza di un numero incredibile di coccodrilli. Le rive del lago sono verdi, densamente coltivate con manghi, papaye, banani e ananas. Entrando in Arbaminch abbiamo raggiunto il nostro hotel a piedi, giusto per sgranchirci un po’. L’Arbaminch Tourist Hotel potrebbe essere una sistemazione deliziosa, perché le camere si trovano attorno ad un bel giardino, sono vecchiotte ma nulla sarebbe se fossero tenute all’onor del mondo! Roby e Simo hanno dovuto subito farsi cambiare di stanza perché nella loro non c’era acqua, nella nostra l’acqua c’era ma solo quella calda, quindi abbiamo rischiato di ustionarci facendo la doccia. Poi di non so quante lampadine se ne accendevano solo 2, l’unica presa nel bagno aveva i fori pieni di cemento… Ovviati questi soliti inconvenienti abbiamo trascorso una serata magnifica, cenando sotto gli alberi del giardino a lume di candela, bevendo ottima birra alla spina e mangiando carne di impala alla brace. Abbiamo anche stappato una bottiglia di vino che, però, non era davvero un granché.

MERCOLEDì 13/02/2019 – ARBAMINCH – LAGO CHAMO- VILLAGGIO DORZE (80 KM)

Colazione nello splendido giardino dell’hotel, poi ci siamo avviati verso il lago Chamo, separato dal lago Abaya da una lingua di terra; ha una forma pressoché quadrata di 23 km x 24 km ed è profondo circa 8 m, le sue acque sono più limpide di quelle del lago Abaya. Il lago si trova all’ interno del parco nazionale di Nechisar e qui l’avifauna è ricchissima. Abbiamo raggiunto l’imbarcadero e siamo saliti su di una barca a motore e ci siamo spinti al centro del lago. Abbiamo potuto ammirare in volo o posati sulle cime degli alberi aquile pescatrici, nibbi, fenicotteri rosa, aironi di Golia, cavalieri d’Italia, aironi, oche dell’Egitto, pellicani, rossi gruccioni. Finalmente, dopo parecchi minuti di navigazione, abbiamo visto spuntare fuori dal pelo dell’acqua montagnole brune: un piccolo branco di ippopotami che alzavano a stento il muso dall’ acqua, muovevano le loro piccole orecchie per poi rituffarsi giù in profondità. Non abbiamo potuto avvicinarci troppo perché sono animali estremamente feroci e, malgrado la loro mole, in acqua molto agili, mentre, fuori dall’ acqua non ne abbiamo visto nemmeno uno. Abbiamo poi visto un paio di coccodrilli nuotare semisommersi dall’acqua, tanto che subito li abbiamo scambiati per grossi tronchi. Ci siamo poi avvicinati ad una spiaggetta dove ce n’ erano 6 o 7 distesi al sole con le fauci spalancate: animali enormi, lunghi fino ad 8 metri con squame grosse come un pugno, niente a che vedere con gli alligatori visti in Brasile. Nel parco nazionale la pesca dovrebbe essere proibita ma ci sono comunque molti pescatori che posizionano qui le loro reti, mantenendosi diritti su una sorta di chiatta a pelo d’acqua, cosa veramente pericolosissima, perché ogni anno almeno uno di costoro ci rimette la vita mangiato da un coccodrillo. Abbiamo navigato sul lago per più di un’ora, poi ci siamo avviati per una strada sterrata su per la montagna dove vivono i Dorze, a 2600 m d’altitudine. Sulla sommità della montagna abbiamo incontrato la nostra guida locale che ci ha subito mostrato il complesso scolastico, unico per 3 o 4 villaggi, che accoglie circa 2000 bambini divisi in varie classi da 70 / 80 alunni ciascuna. Le pareti esterne dei vari caseggiati riportano pitture che illustrano le varie parti del corpo umano, gli stati dell’Africa, le tabelle dei numeri periodici, i fiumi, le città principali dell’Ethiopia, proprio come se fossero cartelloni, in modo che gli alunni li abbiano sempre sotto gli occhi anche nei momenti di ricreazione, e quindi, imparino guardando. Abbiamo visitato un laboratorio di ceramiche creato da un’associazione umanitaria olandese per dare un’occupazione alle donne del villaggio e poi ad un filatoio dove solo gli uomini tessono bellissimi tessuti colorati in cotone. Abbiamo camminato lungo sentieri, costeggiando case recintate da palizzate in bambù, attraversando boschi interi di bambù. Le loro case hanno una forma singolare a testa di elefante, con il tetto a punta ed una protuberanza che si spinge oltre la porta d’ingresso, unica apertura verso l’esterno, tolte 2 piccole feritoie a metà tetto che sembrano gli occhi del pachiderma. L’interno è fatto da una sola stanza dove tutti i membri della famiglia dormono su bassi soppalchi mentre, ci sono importanti sedie fatte con bambù e pelle di capra su cui si accomodano durante il rito del caffè. La cucina è in una piccola capanna adiacente mente gli animali stanno in una sorta di recinto attorno alla zona abitativa. Abbiamo pranzato all’interno del villaggio, in cui una famiglia di rasta ha allestito anche una piccola zona bar, ed hanno anche alcune stanze per l’accoglienza turistica, stanze estremamente spartane con letti in bambù e senza bagno né doccia. Anche qui siamo stati accolti come se fossimo di famiglia, tanto che uno dei figli ha tirato fuori una bottiglia di distillato fatto con l’orzo, terribile, sapeva solo di paglia, mi sono dichiarata astemia per esimermi dal berlo senza che nessuno si offendesse… Solo il povero Roby ne ha dovuto trangugiare 2 bicchieri, mentre Giò, approfittando di un attimo di distrazione, l’ha versato nelle bottiglia vuota della birra. Una gentile ragazza ci ha poi mostrato come fanno il loro “kotcho”, che differisce un po’ nella cottura, rispetto alla ricetta dei Sidama, rimane un po’ più spesso ed umido e somiglia ad una piadina, e perde ulteriormente il sapore di fermentato. Ritornando lungo la strada sterrata verso Arbaminch ci siamo imbattuti in più gruppi di bambini “pagliacci” che si mettevano al centro della strada, in prossimità delle curve dove l’auto è costretta a rallentare a fare passi di danza, contorsioni, spaccate mettendo su un piccolo teatrino per racimolare qualche spicciolo. Ashu ci ha ammonito sul dare soldi a questi bambini, che, quando riescono a guadagnare qualche soldo marinano la scuola, contribuendo ulteriormente ad aumentare l’ignoranza in questo paese. Siamo rientrati in città nel tardo pomeriggio, con l’intento di riposare un po’ e fare una doccia con tutta calma ma, oggi nella nostra stanza non c’era acqua. Abbiamo cercato di cavarcela da soli, siamo andati a protestare ben 2 volte prima che qualcuno venisse a vedere, che prontamente è uscito per poi tornare con un altro e poi con un altro ancora…. Tutti guardavano con aria smarrita, uscivano, rientravano senza fare nulla! Abbiamo dovuto così chiamare Ashu che, alzando un po’ la voce, ci ha fatto spostare nell’ ala nuova, dove alloggiavano già Simo e Roby. Una doccia al fulmicotone e poi a cena, dove era già tutti, compreso Brooke a tavola ad aspettarci: stasera pesce di lago alla griglia innaffiato da 3 o 4 birre alla spina.

GIOVEDì 14/02/19 – ARBAMINCH – TURMI (300 KM)

La partenza era prevista per le 6,30, le omelette sono arrivate fredde ma puntuali, ma abbiamo atteso più di 40 minuti un tè e, se Ashu non fosse andato in cucina per capire cosa stava succedendo probabilmente saremmo lì ancora adesso. Stamattina Roby non sta bene, ha avuto una semi indigestione, forse avrà esagerato con le birre, ma, con buona probabilità gli avrà fatto male la grappa di ieri, visto che abbiamo mangiato tutti le stesse cose ma lui è stato l’unico a bere 2 bicchieri di quell’intruglio! Durante il viaggio abbiamo dovuto fermarci più volte per permettere a Roby di liberare lo stomaco. La prima tappa di oggi è stata in un villaggio konso di Gamole. Questa popolazione vive nell’ Ethiopia sud-occidentale e conta circa 200.000 elementi che si dedicano, per l’85%, all’agricoltura e pastorizia mentre il 15% sono artigiani che si occupano della fabbricazione di utensili agricoli. I terreni attorno ai villaggi che si trovano ad oltre 2000 m d’altitudine e sono montuosi, quindi per poterli lavorare, i konso costruirono tutta una serie di terrazzamenti delineati da muretti a secco. I konso sono divisi in 9 clan suddivisi ulteriormente in 41 villaggi; ogni clan ha il proprio capo, il titolo si tramanda di padre in figlio; quando il capo muore il suo corpo subisce una sorta d’imbalsamazione, viene privato dei visceri e la cavità rimasta viene riempita di sale, lo si lascia poi nella propria casa per 9 anni, 9 mesi, 9 settimane e 9 giorni, quindi lo si seppellisce e solo allora il figlio diventa ufficialmente il sovrano. I konso non si possono mai sposare fra membri dello stesso clan per non avere unioni consanguinee e, soprattutto per mantenere relazioni di pace con tutti gli altri clan. Nel 2009 12 villaggi konso sono diventati patrimonio dell’UNESCO; i villaggi sono caratterizzati da 3 cerchie di mura di pietra, quindi facilmente difendibili in caso di attacco nemico e per circoscrivere il fuoco in caso d’incendio, visto che le capanne sono fatte tutte di legno e paglia. Le stradine del villaggio son delimitate da bassi muretti, all’ interno dei quali ci sono le proprietà private, fatte da più capanne circolari con il tetto di paglia spiovente tenuto su da un vaso sfondato di terra cotta. le capanne più piccole sollevate dal terreno sono i granai che contengono mais ed orzo e, sotto di essi trovano riparo capre e pecore; quelle piccolissime, poste ancora più in alto sono i pollai. Nelle varie piazze del villaggio ci sono luoghi di aggregazione, come la grande capanna sollevata dal terreno in cui dormono tutti i ragazzi che non sono ancora sposati, in modo che, in caso di calamità naturale o bellica, siano subito pronti a difendere o a prestare aiuto al villaggio. Esistono zone in cui gli anziani amministrano la giustizia seduti su lucide pietre, coperte da una tettoia di paglia. Nella piazza principale del paese si trova un singolare albero, formato da tanti pali: se ne pianta uno ogni volta che cambia l’amministrazione, cioè ogni 18 anni, mentre si limano i più vecchi. Così, contando il numero dei pali si può conoscere l’anno di fondazione del villaggio stesso. Sotto l’albero si trova anche una grossa pietra ovoidale, i ragazzi per potersi sposare devono essere in grado di sollevarla almeno 3 volte sopra la testa. Qui abbiamo incontrato i primi 2 turisti dopo essere scesi al sud; i ragazzini sono molto scaltri ed attenti alle foto che vengono scattate per avere il pretesto di chiedere denaro; fuori dalle mura del villaggio c’ è un nugolo di bambini che ti accerchiano per venderti o oggettini o giocattoli che costruiscono loro stessi, ma è veramente impossibile avvicinarsi per iniziare una contrattazione. Tra sali e scendi abbiamo percorso un centinaio di chilometri, fino a raggiungere Key Afer, dove il giovedì si tiene il mercato settimanale, qui incontriamo etnie a noi ancora sconosciute: i Benna, gli Hamer, gli Tsemay. La maggior parte di loro indossa l’abbigliamento tipico, gli uomini, spesso a torso nudo indossano particolari copricapi e corti gonnellini; le donne si acconciano i capelli secondo il loro stato civile: le nubili tirano indietro i capelli e indossano una fascia con una sorta di pon pon bianco, mentre, quelle sposate hanno un caschetto fatto di fini treccine che cospargono di ocra, un po’ come gli himba namibiani. Gli abiti sono fatti di pelle di capra ornati con perline colorate e conchiglie provenienti dal Mar Rosso, in testa spesso portano un elmetto fatto con una mezza zucca vuota che serve sia come copricapo per difendersi dal sole che come contenitore da cui bere la birra. È necessario rubare le foto perché se si accorgono di essere il bersaglio delle nostre macchine fotografiche chiedono un obolo di 5 birr a scatto. Qualcuno, particolarmente interessante, lo abbiamo pagato, mentre la maggior parte delle foto sono state scattate da lontano, le modificheremo poi a casa. Per tutto il tempo che ci siamo intrattenuti nel mercato siamo stati seguiti da una moltitudine di bambini che insistentemente vogliono venderti braccialetti, ti prendono per mano, ti chiedono un paio di scarpe, ti chiedono cibo malgrado la loro situazione non sembri così disperata. Qui abbiamo incontrato 4 o5 gruppi di turisti, molti per lo standard del Sud del paese. Oltre al mercato autentico di granaglie, frutta, verdura, abbigliamento al mucchio, arnesi in plastica, in una zona a monte c’ è una sezione del mercato dove si vendono oggetti d’ artigianato, visitato solo dai turisti, i mercanti partono chiedendo cifre astronomiche e da qui comincia una contrattazione infinita, stressante, che ti toglie la voglia di acquistare. La solita pausa pranzo e alle 14.30 abbiamo ripreso la via verso Turmi; la strada è tutta sterrata anche se le condizioni del fondo stradale sono buone, lungo la strada molte sono le persone che camminano, probabilmente di ritorno dal mercato, tutti nel loro abbigliamento tipico. Alle 16.30 abbiamo varcato la soglia del Turmi Lodge, una cattedrale nel deserto! Dista un paio di chilometri dal centro della cittadina che è poco più che una manciata di case, ma si fa tappa qui per andare a visitare le popolazioni più rappresentative della Valle dell’Omo. Il lodge è proprietà di un italiano che, terminata la costruzione, lo ha lasciato in gestione ad alcuni locali, torna una volta ogni 2 o 3 anni a riscuotere i guadagni e, per il resto se ne disinteressa completamente. Quindi, come ben si può immaginare è in uno stato di degrado incredibile; le stanze sono ampie così il bagno ma il controsoffitto è in parte staccato, la zanzariera è di un colore indefinibile, una coperta a quadretti di dubbio gusto, un bel patio, senza una sedia su cui sedersi a prendere il fresco, aiuole aride con erbacce alte fino al ginocchio! Internet naturalmente non funziona e la luce elettrica sarà erogata da un generatore dalle 18,30 alle 22. Veramente un peccato perché con un minimo di cura in più potrebbe essere un luogo ameno e, soprattutto abbiamo potuto fare una doccia bollente. A novembre il lodge è stato sequestrato dalla finanza per non aver pagato tasse, sono stati apposti sigilli sulla porta della reception e del ristorante, sui frigoriferi ma qui… chiusa una porta, se ne riapre un’altra… sul retro! Anziché entrare dalla porta principale si accede agli uffici dalla porta di servizio, anziché mangiare nel salone ristorante si mangia in terrazza, mentre la cucina è spostata in un locale di servizio staccato dal nucleo / ristorante! Ashu stasera non ha cenato con noi perché non ama la cucina di questo posto mentre noi abbiamo preferito non allontanarci molto da un letto, visto che Roby non si è ancora ristabilito del tutto. Mentre camminavamo lungo il sentiero polveroso che ci portava al ristorante sotto un cielo infuocato da un tramonto mozzafiato, siamo stati raggiunti dalla nostra auto con a bordo Ashu che è tornato per sapere come stava Roby e per assicurarsi che ci venisse servita una cena degna: Roby ha spiluccato solo un po’ di riso in bianco mentre noi abbiamo mangiato un arrosto di agnello veramente buono. In questa terrazza fiocamente illuminata, immersi nel buio più totale, dove si sentiva solo in lontananza il suono di una radio in paese, abbiamo cenato in compagnia solo di un’anziana coppia di francesi, con cui abbiamo scambiato alcune impressioni sul viaggio , che per loro terminerà domani, ma che raggiungeranno Addis Abeba in aereo.

VENERDì 15/02/2019 – TURMI – OMORATE (150 KM)

Stamattina colazione in terrazza davanti ad un’alba dalle mille sfumature di rosa. Abbiamo preso la strada che va verso sud che scende dai 1000 m di Turmi fino ai 300 m di Omorate, ultimo paese al confine con il Kenia. Uscendo da Turmi la strada è sterrata per pochi chilometri poi è tutta asfaltata e attraversa la savana ricoperta di arbusti ed acacie ad ombrello, con termitai alti come ciminiere; incontriamo numerosi stormi di faraone e piccoli dik dik che fuggono spaventati dal rombo del motore. Molti sono gli uccelli che abbiamo avvistato: il bucorvo dell’Abissinia, barbetti, l’astore, il buccero becco giallo, la ghiandaia dell’Abissinia. Questa terra desolata è detta terra di nessuno perché quasi del tutto disabitata, molto arida; incontriamo solo poche persone vestite, o quasi nude, con i loro abiti tradizionali, condurre al pascolo le loro greggi. Dopo un’oretta, sotto un sole infuocate ed una temperatura superiore ai 40°, abbiamo raggiunto Omorate; a detta di Ashu, queste sono temperature miti, la scorsa settimana era decisamente più caldo! Ci siamo fermati subito all’ ufficio turistico per registrarci visto che sconfineremo in territorio keniota. Raggiungiamo la riva del fiume Omo dalle pigre acque fangose, lo attraversiamo con una canoa fatta con un grosso tronco scavato, quindi approdiamo sull’ altra riva in territorio Dassenech, una popolazione che vive in piccola parte in Ethiopia, in Kenia e in Sudan. Per raggiungere il villaggio abbiamo camminato quasi un’ora su una distesa di terra rossa, molte persone, vangavano e dissodavano il terreno, quasi tutte donne. Appena ci hanno visto i bambini del villaggio ci son corsi incontro e ci hanno presi per mano. In questo villaggio, a quasi un’ora di cammino dalla strada carrabile, e quindi poco raggiunto dal turismo di massa, non hanno preteso i soliti 5 birr a foto ma ci hanno lasciati fotografare liberamente ma con una sola macchina o telefono a coppia. Ashu però si è raccomandato caldamente di non donare nulla agli abitanti del villaggio, né magliette, né caramelle, tantomeno denaro in modo da educare queste popolazioni al turismo; ogni volta che noi o altri gruppi entrano a visitare un villaggio si paga una sorta di tassa d’entrata al capo, che poi distribuirà ai vari capifamiglia, e questo deve essere l’unica fonte di guadagno legata al turismo. Viste le temperature, i bambini sono quasi tutti nudi, alcuni hanno la vita cinta con una sorta di pareo e tante collanine colorate. I maschietti hanno i capelli corti con un paio di ciuffetti più lunghi sulla testa; le bambine hanno la testa ricoperta da treccine tirate all’ indietro, mentre le donne sposate le hanno divise da una scrinatura centrale; gli uomini sposati, i guerrieri portano sulla testa un pennacchio bianco che indica l’uccisione di un nemico in battaglia o di un animale feroce. Le donne son quasi tutte a seno nudo, indossano una gonna di pelle di capra e monili fatti di perline colorate al collo e sulle braccia. Il villaggio è delineato da una sorta di recinto spinoso, all’ interno ci sono le capanne a forma di semisfera, fatte con materiale di recupero; rami, pezzi di legno, di lamiera, pelli di capra, facili da fare ed altrettanto facili da smontare perché i dassenech sono per lo più pastori, quindi nomadi, si spostano quando i pascoli sono esauriti. Hanno solo una piccola apertura che serve come entrata in cui si può accedere solo piegati. Il villaggio conta circa 600 persone, ci sono bambini ovunque, che scorazzano e ci girano attorno incuriositi, come le loro giovani mamme, molte poco più che bambine. Nel villaggio si trovano 2 tettoie coperte che fungono da bar o centro di ritrovo dove bere insieme la “borde” un intruglio fermentato di sorgo, luppolo ed acqua, che loro chiamano birra, anche se l’odore ricorda un po’ quello del mosto; è grigio torbido, come la sciacquatura dei piatti, la cosa più triste che lo bevono anche i bimbi perché è fonte di sostentamento. In uno di questi bar c’è una radio a batteria e una moltitudine di bambini di tutte le età si accalca lì attorno e ballano felici. All’interno del villaggio le donne sedute a terra danno vita ad una sorta di mercatino in cui non c’era veramente nulla di acquistabile. Usciti dalla recinzione del villaggio siamo stati attratti dalle urla dei bambini che avevano visto tra le fronde della recinzione un piccolo cobra e, giocavano fra di loro, scagliando pietre per vedere chi fosse stato capace di ucciderlo! Prima di salutarci i giovani del villaggio si sono esibiti per noi in un paio di danze tradizionali in cui gli uomini fanno salti in alto come i masai. Abbiamo ripercorso i campi sotto un solleone del mezzogiorno, abbiamo riattraversato il fiume Omo ed abbiamo trovato finalmente refrigerio sotto i rami degli alberi che si trovano sulla sponda del fiume e ci siamo dissetati con una coca ghiacciata. Siamo rientrati al lodge perché eravamo impolverati e sudati marci per fare una doccia, siamo andati a fare il consueto spuntino a base di frutta e quindi siamo tornati in stanza a riposare un paio d’ore, infatti i villaggi hamer prima delle 17 / 17.30 sono pressoché deserti, perché gli adulti sono ancora nei campi al lavoro! Oggi, dopo più di 2 settimane di marce forzate, ci siamo regalati un paio d’ore di relax quindi siamo partiti per la visita al villaggio hamer, che dista dal centro di Turmi solo pochi chilometri. Qui è tassativo pagare 5 birr a macchina fotografica per ogni individuo che vuoi immortalare. Gli hamer in Ethiopia sono circa 25.000, indivisi in 7 clan, quindi in 25/30 villaggi, vestono con pelli di capra abbelliti con conchiglie e perline colorate; le donne hanno al collo un pesante collare in metallo con un grande spuntone nel centro , e queste sono le prime mogli, mentre quelle che indossano il collare senza spuntone sono seconde o terze mogli, infatti gli hammer, oltre ad essere poligami sono anche exogami, cioè è lecito che i mariti, in comune accordo, si scambino le mogli. Le donne sposate si acconciano i capelli in caschetti fatti di sottili treccine che colorano con ocra e burro, mente le ragazze nubili portano i capelli quasi rasati. Moltissime girano a seno nudo, altre, risentendo dell’influenza occidentale indossano una t shirt sotto l’abito di pelle. Le loro capanne sono rotonde, fatte di pali con un tetto di paglia spiovente; ogni unità famigliare è delimitata da una recinzione, e, all’interno del cortile, trovano ricovero anche gli animali. Sia i cortili che i sentieri all’ interno del villaggio in terra rossa sono molto puliti, non si vede plastica o cartacce abbandonate. A quest’ora gli uomini si ritrovano seduti in una delle piazzette del villaggio ed insieme, passandosela da uno all’ altro, bevono la tradizionale birra fatta di segale e sorgo fermentati e sniffano tabacco. Qui a differenza degli altri villaggi che abbiamo visitato siamo stai accolti con sufficienza, quando scattavamo una foto e davamo a loro i soldi, li prendevano, senza un sorriso, quasi infastiditi… Il cielo è diventato ad un certo punto scuro scuro, la luce gialla del tramonto ammantava il villaggio conferendo un colore dorato alle capanne e alla terra, una magia che però dopo si è sciolta in uno scroscio di pioggia che ci ha fatto avvicinare velocemente all’auto, anche perché abbiamo attraversato il letto di un fiume in secca e, se la sabbia fosse diventata fango, sarebbe stato veramente difficoltoso rientrare in hotel. Siamo andati a cena in un locale tipico, stasera siamo rimasti gli unici ospiti dell’hotel e cenare lì, in mezzo al nulla, sarebbe stato una tristezza. Abbiamo mangiato l’injera con le verdure e bevuto le solite 2 birre a testa e, poi Ashu ci ha annunciato che domani il salto del toro si svolgerà in un villaggio abbastanza vicino e avremo la possibilità di assistervi!

SABATO 16/02/2019 – TURMI – JINKA (130 KM)

Ieri sera, da sotto le coperte abbiamo sentito piovere a dirotto e, viste le strade sterrate da percorrere ho temuto fossero un mare di fango, impraticabili con il nostro mezzo, cosa, per fortuna che non è capitata. Dopo la colazione siamo partiti per Dinka, cittadina in cui il sabato mattina si tiene un vivace mercato settimanale delle popolazioni Benna e Hamer. Percorrendo la strada verso Dinka abbiamo incontrato moltissime persone con i loro pesanti fardelli avvicinarsi al mercato, tutti nei loro abiti tipici, gli abiti occidentali sono pressoché sconosciuti. Alle 10, giunti in paese, il grosso del mercato doveva ancora essere allestito, così ci siamo fermati in un bar affollatissimo dove abbiamo preso un caffè mentre Ashu ha mangiato la solita injera per colazione sotto lo sguardo attento di alcuni bambini che sono letteralmente volati su ciò che ha lasciato nel piatto il nostro amico. Ci siamo addentrati nel mercato, molti delle persone che hanno fatto chilometri e chilometri a piedi per raggiungerlo, si riposano nei loro bar tradizionali, seduti a terra sotto una tettoia di paglia bevendo la birra di sorgo che emana uno sgradevole odore di fermentato. Abbiamo raggiunto la cima di una collinetta dove si tiene il mercato del bestiame: gli allevatori pagano una tassa di 5 birr per ogni capo di bestiame che portano all’ interno della cinta del mercato a vendere, perché fuori da qui è assolutamente vietato vendere, anche se spesso tale divieto viene eluso. Per sveltire le pratiche le capre vengono vendute a peso, pesate con una bilancia spesso truccata. Ovunque regna confusione, animali che scappano spaventati, i propri padroni che li inseguono, un vociare continuo, e, per noi, una scommessa su come scattare le foto senza essere scoperti, pena il dazio di 5 birr! Ci siamo fermati al mulino pubblico dove gli abitanti dei villaggi arrivano con i loro asinelli carichi di sacchi di granaglie da macinare e quindi trasformare in farina. Siamo scesi quindi nel mercato vero e proprio tra granaglie, frutta, verdura, uova. Alcune donne si sono fatte anche 20 km a piedi per portare a vendere una gallina, un cestino di uova, un paio di chili di patate. Una donna, con il suo bambino legato sulla schiena ha chiesto ad Ashu un po’ di granturco per sfamare i suoi 5 figli , che prontamente le ha comprato , con la raccomandazione di non fare più figli, anche se non dipenderà da lei, le donne sono trattate veramente alla stregua di schiave dai mariti; attualmente la media nazionale è di 8 figli per coppia. Ultima tappa è quella del mercato dell’artigianato, anche se qui i turisti sono veramente pochissimi, dopo un’estenuante contrattazione abbiamo acquistato un paio di statuine di legno ed un quadretto. Ci siamo fermati per il solito spuntino per pranzo, al di là del muretto di recinzione del dehors del bar si sono assiepati una folla di bambini che ci hanno seguito per tutta la mattina dandoci la mano e chiedendoci i soldi per una foto, erano lì aspettando gli avanzi lasciati nei piatti dalle persone… un’altra cosa da far male al cuore… Abbiamo lasciato loro la nostra frutta e tutto il pane che avevamo avanzato, ma più distribuivamo e più il numero dei questuanti aumentava, non si poteva veramente offrire un piatto a tutti. Alle 13.30 ci siamo incontrati con la guida locale che poi ci ha accompagnato nel villaggio in cui si svolgerà il salto del toro, che dista pochi chilometri da Dinka. Il salto del toro è una tradizione hamer che ha luogo, senza una data precisa, quando un adolescente diventa uomo e si potrà, quindi, sposare. La famiglia prepara ed istruisce il ragazzo per saltare una fila di 5 o 6 tori affiancati, tenuti per le corna e per la coda dagli amici del ragazzo; il ragazzo, nudo, deve saltare sulla groppa dei tori e tante più volte ripete la sua performance, tanto più aumenta la sua considerazione da parte della comunità. Siamo arrivati sul greto di un fiume in secca dove hanno inizio i festeggiamenti, da lontano abbiamo sentito un baccano infernale, provocato da un nutrito gruppo di donne che ballavano con ai piedi delle cavigliere di campanacci. Le donne della famiglia del festeggiato, sia le nubili con i capelli rasati, che quelle sposate con i capelli impastati d’ocra, saltano, ballano, cantano lodi in onore del festeggiato, mentre il rosso dei capelli per il sudore si scioglie e macchia le spalle delle ballerine. Spesso si ricaricano bevendo, passandosela da una all’ altra birra di sorgo, e talvolta grappa. Nel frattempo il festeggiato si aggirava tra questa confusione con un oggetto di forma allungata in legno infilato nel gonnellino, una sorta di simbolo fallico. Le donne, dopo aver ballato a lungo ed elogiato il giovane, si sono sparpagliate urlando per l’arrivo dei frustatori: essere frustate è una dimostrazione di coraggio ed attaccamento al loro congiunto, facendosi percuotere a sangue con degli scudisci in legno, sono, quindi, le donne stesse a correre incontro ai frustatori e a pregarli di frustarle. Dopo una mezz’ ora di questa “mattanza” molte di loro hanno la schiena coperte di ferite sanguinanti. Nel frattempo, gli amici del festeggiato si dipingono il viso con ocra e calce. Questi rituali durano almeno un paio d’ore, poi si attraversa il letto del fiume e raggiungiamo una radura poco distante dal villaggio in cui vive il ragazzo, si radunano le mandrie di tori per scegliere quelli da sistemare in fila per il salto mentre le donne continuano incessantemente a ballare e a chiedere frustate. Si allestisce un arco fatto di ramoscelli intrecciati, si spoglia il ragazzo, gli viene impartita una sorta di benedizione quindi lo si fa passare attraverso questa porta, simbolo di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. A questo punto è tutto pronto: il ragazzo è stato purificato, i tori sono allineati, con una breve corsa salta sul dorso del primo toro, corre sul dorso degli altri e poi scende, si volta e ripete il la corsa sul dorso dei tori, 6 o 7 volte e… ora è finalmente un uomo. Malgrado sia una cerimonia assolutamente autentica e vietato dalla legge farne una ad esclusivo fine turistico, i turisti accorsi da ogni parte della regione sono molti e, malgrado sia spontaneo applaudire le gesta del giovane è sconveniente farlo, l’applauso, per gli hamer, è l’equivalente del nostro fischio, si applaude solo quando l’esibizione è deludente! La cerimonia pubblica è così terminata, molti tornano ai loro villaggi con le mandrie, mentre all’ interno del villaggio si festeggerà ancora per una settimana. Riprendiamo il viaggio verso Jinka percorrendo una pista facile e scorrevole. Alle 18,30 arriviamo al “Nasa Hotel”, aperto da solo un anno, esternamente molto bello ma le stanze sono un disastro… L’arredamento è semplice, è pulito ma… in bagno non c’è una presa, solo fili scoperti, decisamente pericolosi, la porta non sta chiusa se non la si chiude con la chiave, ho aperto un cassetto e il frontespizio mi è caduto su un piede, ma, la cosa peggiore è che malgrado l’avessimo fatta scorrere per un quarto d’ora e ci fossimo assicurati che lo scaldabagno fosse acceso l’acqua calda non è mai scesa ; così dopo una buona dose di arrabbiatura perché avevamo già disfatto le valigie, abbiamo dovuto farci cambiare stanza per poter finalmente fare una doccia. Alle 19.30 Ashu è tornato a prenderci per andare a cena. Abbiamo mangiato riso con pollo e verdure in un grazioso ristorante sito in un giardino; mentre mangiavamo Ashu ci ha parlato della popolazione dei Mursi che visiteremo domani, quindi il discorso è scivolato su tutto ciò che abbiamo visto in questa vacanza e di quanto ci abbia colpito, sorpreso e stupito questo paese. Ci ha poi raccontato la sua storia, di bambino nato sulle rive del lago Tana, allevato da una nonna con altri 44 tra cugini e sorelle, che, quando ha espresso il desiderio di andare a scuola, gli ha negato il vitto perché non se lo guadagnava più lavorando nella piantagione di caffè di famiglia. Si è trovato quindi a 6/7 anni, un lavoro come lavapiatti, percorreva 5/6 km a piedi per raggiungere la scuola ed altrettanti per tornare a casa, e poi lavorava per le restanti ore della giornata. Un felice giorno ha conosciuto un’italiana che, vista la buona volontà del bambino, ha deciso di pagargli gli studi. Ashu studiò per 5/6 anni abbastanza agevolmente poi, la sua benefattrice sparì nel nulla. Egli le scrisse più volte, la cercò a lungo ma nulla, ha dovuto nuovamente aggiustarsi con le proprie forze, facendo ogni tipo di lavoro, anche prestando la propria schiena per trasportare sacchi di farina, per continuare a studiare. Si è diplomato a pieni voti e un professore italiano gli ha fatto avere una borsa di studio per venire a studiare in Italia. Si è laureato a Pisa in astrofisica e, durante il suo soggiorno in Italia si è recato a Courmayeur per cercare la sua benefattrice per i suoi primi anni di scuola, riesce a rintracciarla per una serie fortuita di eventi, le parla e capisce il perché del suo abbandono, si chiariscono e, ancora oggi sono in contatto. Malgrado la laurea conseguita in Italia, torna nel proprio paese, ha preso una seconda laurea in turismo in Ethiopia, ha cominciato subito a lavorare per i più prestigiosi tour operator italiani, poi, finalmente nel 2008 ha aperto la propria agenzia. Attualmente lavora a pieno ritmo esclusivamente con clienti italiani, malgrado parli correntemente anche l’inglese, e sta cercando di accumulare i soldi per l’acquisto di un pullmino, in modo da non doverlo noleggiare ad ogni viaggio e, soprattutto, cerca di dare una mano alle persone che vogliono cambiare la propria condizione studiando: GRANDE ASHU

DOMENICA 17/02/19 – JINKA – ARBAMINCH (370 KM)

Partenza presto, attorno alle 7 per andare a visitare un villaggio Mursi. I mursi vivono all’interno del parco Mago e sono divisi in Hanna Mursi, cioè i Mursi puro sangue e Omo Murdi, cioè i “bastardi” nati da un Mursi e da una delle numerose donne rapite dalle altre tribù, loro nemiche. I mursi sono prevalentemente allevatori ed hanno una particolarità, le donne hanno infilato nel labbro inferiore un piattello di terracotta di diversi centimetri di diametro, che considerano ornamento di bellezza. Le donne, fin da bambine tagliano il labbro inferiore, vi inseriscono dentro un bastoncino, che via via sostituiscono con uno più grande, e per aumentare ulteriormente il diametro del piattello estraggono anche i 2 incisivi inferiori. La tradizione del piattello, diventato ora elemento di bellezza, pare fosse nato durante la tratta degli schiavi, in modo da rendere il più brutte possibili le donne ed evitarne quindi il rapimento. Lasciata Jinka, la strada è diventata quasi subito pista, all’interno del parco abbiamo fatto salire in auto la solita guida locale e dopo aver percorso un breve tratto di strada abbiamo forato: il pneumatico era così liscio che si è squarciato. Brooke è stato bravo e veloce nel cambiarlo, abbiamo ripreso la via, ci siamo fermati dopo poco per far salire anche la guardia armata obbligatoria (a cosa servirà poi!) e poi abbiamo cominciato a vedere i primi villaggi mursi vicino alla strada ma non abbiamo neppure rallentato perché sono particolarmente bellicosi e, vogliono denaro per essere fotografati e, se si accorgono che tu li fotografi da lontano, lanciano sassi contro l’auto. Abbiamo così raggiunto un piccolissimo villaggio, fuori dalle rotte turistiche, che non chiedono soldi per essere fotografati. Il villaggio è costituito da poco più che una decina di capanne semisferiche fatte di paglia, basse, in cui si entra carponi. Le donne sono le creature più brutte mai viste: hanno questo labbro penzoloni come una gigantesca asola; poche di loro indossano il piattello, perché intente nelle faccende quotidiane, il piattello si indossa nei momenti di festa; i bambini, quasi tutti nudi, hanno già i lobi delle orecchie deformati da enormi cerchi, le donne hanno il corpo fasciato da pezze di stoffa in cui il colore predominante è il blu. Abbiamo visto le donne nelle loro attività giornaliere, preparare il cibo, macinare le granaglie con una pietra, allattare i neonati. Abbiamo acquistato un po’ dei loro piattelli ben decorati che appenderemo nella nostra collezione di piatti. Contrattare è stato faticosissimo, tutti ti saltavano quasi addosso con le loro merci e se non fosse stato per l’intercessione di Ashu non saremmo riusciti ad acquistare nulla. Tornando verso Jinka ci siamo fermati a fare una foto ad un gruppo di ragazzini nudi con il corpo dipinto con calce bianca, come si agghindano durante le cerimonie., appostati sul ciglio della strada per farsi fotografare, 5 birr a testa. Tutto ciò che non era accaduto in 18 giorni di viaggio è capitato oggi: abbiamo forato un’altra volta! Per fortuna che l’auto era dotata di 2 ruote di scorta, quindi rientrati a Jinka, malgrado sia domenica, la priorità è stata trovare un gommista per sostituire i 2 pneumatici. Mentre Brooke si è attivato al meglio per risistemare le ruote, noi ci siamo fermati nel ristorante di ieri sera e, all’ ombra, abbiamo mangiato un buonissimo panino con le verdure. Alle 14 le gomme erano a posto e siamo potuti ripartire per raggiungere Arbaminch. Abbiamo attraversato villaggi tsmey, konso, darashe, con strade attraversate da greggi e da persone che passeggiano per godersi il giorno di festa. A circa 50 km dalla meta, in un tratto di strada sterrata in forte pendenza ci siamo imbattuti in un incidente stradale: un autobus usato dai locali si è capovolto ingombrando per intero la strada. Sulla strada c’erano feriti, molte persone erano ancora all’ interno del mezzo ma la folla anziché prestare soccorso, si è armata di pietre e cercava di linciare l’autista. Per fortuna Brooke è stato lestissimo a fare inversione e ritornare indietro prima che finissimo in una rissa, dove, facilmente sarebbe finito in guerriglia armata. Per fortuna esiste un’altra strada che porta ad Arbaminch, siamo tornati indietro di una decina di km e poi abbiamo imboccato l’altra strada che , a detta dei nostri amici era molto brutta, invece , con gioia , abbiamo scoperto essere stata ripristinata di recente, ma, per tutti gli inconvenienti di oggi abbiamo raggiunto il “tourist Hotel” al tramonto. Le nostre stanze sono di nuovo nell’ala vecchia ma stavolta l’acqua c’è… Abbiamo cenato nel bel giardino con pesce alla griglia ed abbiamo bevuto un numero esagerato di birre alla spina.

LUNEDì 18/02/19 – ARBAMINCH – AUASA (270 KM)

Partenza alle 7, è una giornata di trasferimento, ci sono quasi subito fermati in una piccola cittadina di Humbo, in cui veniamo guardati come marziani, gruppi di bambini ci seguivano incuriositi. Ci siamo poi fermati nel villaggio di Shenkiko di etnia Wolayta, dove Ashu ha fatto costruire una scuola per gli alunni che fino ad allora studiavano seduti a terra sotto le fronde di un albero. La scuola è costituita da 2 edifici in fango abbastanza sconnessi, con pochi banchi rispetto al numero dei bambini e molti dei quali in pessime condizioni. Oggi è il primo giorno di scuola dopo le vacanze di fine semestre ma le aule erano deserte, qui, di consueto, gli alunni si prendono un giorno di vacanza in più. Abbiamo conosciuto il capo villaggio che ha creduto molto in questo progetto e il corpo insegnante al completo. Ogni classe conta dai 60 ai 70 alunni per classe, dalla I alla VI; il progetto è però stato ostacolato da moltissime famiglie che vedono la scuola come inutile e soprattutto dannosa in quanto toglie 2 braccia in più al lavoro nei campi. I genitori mandano a scuola i loro figli solo se è la scuola a provvedere al loro sostentamento, quindi, gli insegnanti, a turno, si occupano anche di preparare il pranzo agli studenti. La scuola non riceve alcun aiuto dallo stato, solo lo stipendio per gli insegnanti; il preside ha detto però di voler costruire un altro caseggiato in modo da far arrivare la scuola fino all’ VIII e, quindi cerca fondi per attuare il progetto. Simona ha promesso che organizzerà una giornata di beneficenza in gelateria questa estate per raccogliere fondi. A Soddo abbiamo camminato per la strada principale, caotica, affollata, rumorosa da far girare la testa; abbiamo acquistato pane e frutta e… i bomboloni tanto bramati da Giò! Abbiamo proseguito verso nord e ci siamo fermati per lo spuntino in una bettola sulla strada con sgabelli di plastica colorata e un impianto elettrico da brivido poi abbiamo viaggiato altre 2 ore attraverso la campagna. Alle 15 siamo arrivati ad Auasa, capoluogo della regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud, una cittadina verde, elegante, che conta 500.000 abitanti. Il nostro hotel è l’“Heron International”, nuovissimo, molto elegante, la stanza è spaziosissima con un letto a 3 piazze, parquet per terra, una doccia enorme e un terrazzino da cui si vede il lago. Doccia e poi pomeriggio libero, Ashu e Brooke avevano da fare a risistemare l’auto ed organizzarsi per l’arrivo del prossimo gruppo di turisti che arriverà il giorno successivo alla nostra partenza. Rilassarsi neppure a dirlo, dopo una bella doccia ho letto sulla Lonely Planet che esisteva un servizio di barche private che ti portavano con una navigazione di un’ora e mezza a vedere la fauna del lago omonimo. Come prima cosa abbiamo cercato il lungolago, secondo le indicazioni di Ashu, abbiamo svoltato alla sinistra del nostro hotel e dopo 10 minuti ci siamo trovati in un parco ma, che non si affacciava sul lago. Abbiamo preso un tuk tuk che ci ha però portato davanti ad un hotel e, qui ci siamo accorti che ciò che cercavamo era proprio lì di fronte. Abbiamo camminato sul lungolago ombreggiato da alti alberi, affollatissimo di persone, con bar con un’infinità di tavolini che si affacciavano sul lago e suonavano musica. Abbiamo quindi trovato le barche per il tour del lago, Roby era un po’ diffidente ma, alla fine abbiamo deciso di provare l’avventura! Una grande barca a motore, nuova, pulita, ci ha portati attraverso canneti dove erano nascosti o pescavano decine di uccelli diversi. Molti i pescatori in piedi su piccole zattere tenute a galla da fusti vuoti; abbiamo navigato un bel po’ oltre il limite della città quando abbiamo visto spruzzi d’acqua abbastanza vicini alla riva. Il barcaiolo si è avvicinato piano piano, abbiamo raggiunto così un branco di ippopotami che alzavano il muso sopra il pelo dell’acqua per poi inabissarsi. Siamo rimasti lì fermi, in silenzio assoluto ad ammirare le loro evoluzioni mentre il sole cominciava ad abbassarsi e a tingere di rosa il cielo. Ritornati a riva ci siamo deliziati con una birra davanti al più bel tramonto etiope, dal rosso intenso, quasi violento, commuovente… Ci sarebbe piaciuto molto fermarci qua per la cena, ogni locale aveva una griglia su cui arrostivano il pesce ed il profumo era veramente invitante, ma avevamo appuntamento in hotel con Ashu e Brooke… Ottima la cena, a base di pesce, nell’elegante sala ristorante dell’hotel e… essendo l’ultima cena abbiamo festeggiato ed abbiamo dedicato ad Ashu una canzone che descrive il suo essere “provolone” con tutte le ragazze che incontra, naturalmente sulla musica di “10 Ragazze” di Battisti, che tra l’altro, è il suo cantante italiano preferito!

MARTEDÌ 19/02/2019: AUASA – ADDIS ABEBA (270 KM)

Ultimo giorno in Ethiopia. Dopo una colazione alla rassegna della lentezza e della disorganizzazione Ashu è venuto a prenderci alle 8 per condurci a visitare il mercato del pesce, che per noi, gente di mare, non è stato particolarmente entusiasmante. 3 sono i tipi di pesci pescati nel lago: la tilapia, il persico e il pesce gatto; abilissimi i pescatori lo puliscono e lo sfilettano alla velocità della luce, talvolta lanciano le interiora ai marabù che attendono con i loro gozzi penduli e i lunghi becchi aperti e si aggirano speranzosi sulle rive del lago, dove, altri pescatori, per la maggior parte bambini, puliscono, rattoppano e piegano le reti. Ci sono ristorantini che malgrado l’ora antelucana arrostiscono il pesce, altri lo mangiano crudo, tipo tartare. La visita è durata meno di mezz’ora, quindi siamo saliti sull’auto diretti ad Addis Abeba, ci siamo fermati a Shashamana, il paese in cui nacque il Rasta faresimo, luogo considerato sacro dai giamaicani perché è il luogo in cui Heilè Salassiè donò ai suoi seguaci un appezzamento di terra dove possono coltivare liberamente la marijuana, la loro pianta sacra. Qui si trova un museo che narra la nascita di tale movimento, ma l’ingresso costa 300 birr (quasi 10 €) e a detta di Ashu non è così interessante. Ci siamo fermati però in un negozio sulla strada che esponeva magliette per acquistarne una per i ragazzi, anche se poi la scelta era veramente poca, in compenso ci è stata offerta… dell’erba da fumare! Abbiamo fatto una sosta pipì in uno degli hotel della prestigiosa catena “Hailè Hotel e Resots” creata dal maratoneta etiope Hailè Gabreselassiè , quindi, dopo un’ altra ora ci siamo fermati per lo spuntino di mezzogiorno. Per raggiungere Addis Abeba ci sono volute altre 2 ore ma gli ultimi 100 km li abbiamo percorsi in autostrada, sembra un sogno! Attraversare la capitale è stata un’impresa ardua, il traffico è veramente congestionato, siamo rimasti più volte bloccati in vari ingorghi ed abbiamo impiegato quasi un’ora per raggiungere la chiesa di San Giorgio su di una collinetta. Fu costruita alla fine dell’800 per commemorare la vittoria di Adua, quindi la chiesa è moderna, è di forma ottagonale con i soliti 2 camminamenti concentrici ricoperti da tappeti che son ex voto. Al centro c’è il Sancta Santorum tutto dipinto con scene del nuovo e vecchio testamento da Afewek Tekle, uno dei più celebri pittori contemporanei etiopi. Una delle immagini migliori è quella di una Madonna dai tratti etiopi con uno sguardo dolcissimo. Abbiamo visitato velocemente l’interno perché alle 17 iniziava una preghiera sul sagrato della chiesa e quindi le visite turistiche sono sospese. Il sole sta tramontando su Addis Abeba e sul nostro fantastico viaggio, un’ultima birra al Nexus nostro alloggio 10 giorni fa, che si trova a pochi km dall’aeroporto, con i nostri amici, compagni in questa incredibile avventura. Sono le 19, è quasi buio, e malgrado volessimo che questo momento non arrivasse mai abbiamo dovuto congedarci da Ashu e Brooke. Ci siamo abbracciati con le lacrime agli occhi, colmi di gratitudine per come ci hanno accompagnato, coccolato ed aiutato in questo viaggio faticoso ed affascinante. Ancora commossi abbiamo varcato le porte del terminal, trascinando valigie pesanti, piene di ricordi, che non so come riusciremo a sistemare in casa. Solite procedure d’imbarco, controlli, check in con 2 hostess alquanto spaesate, quattro passi per l’affollatissimo aeroporto, punto di snodo per quasi tutti i paesi dell’Africa del Sud. Abbiamo cenato nell’unico ristorante, dove regnava il caos più totale, abbiamo impiegato più di un’ora per mangiare un piatto di noodles e pagato 85$. Poi la lunga attesa fino alle 23.30 ora dell’imbarco; l’ultimo inconveniente siamo saliti sull’aereo per ultimi perché, sempre le 2 hostess stordite ci avevano assegnato 4 posti diversi da quelli che ci aveva riservato Federica con il check in on line. A mezzanotte siamo decollati e, malgrado non ci fosse un sedile libero siamo riusciti a dormire abbastanza, io ho aperto gli occhi solo quando ci hanno servito la colazione. Abbiamo fatto uno scalo tecnico a Roma, l’aereo si è svuotato, abbiamo potuto sdraiarci sui sedili, peccato ci fosse solo più un’ora di volo! Alle 6, 20 siamo atterrati in una Milano baciata dal sole, con temperature quasi primaverili; i bagagli sono arrivati puntuali, tutto è andato secondo le regole ma… È veramente strano non sentire la risata contagiosa di Ashu alle nostre spalle!



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