Giorni malesi
Le potenze europee si spartirono quell’oscura ed affascinante zona del mondo con il Trattato di Londra nel 1824, così l’Olanda assunse il controllo dell’immenso arcipelago meridionale (oggi corrispondente all’Indonesia), mentre l’impero britannico estese la sua autorità sulla penisola malese e nel Borneo settentrionale fino al 1957, anno in cui fu dichiarata l’indipendenza.
Arriviamo all’alba su Kuala Lumpur, dall’alto s’intravedono grandi distese di verde e di luci.
Kuala Lumpur (o KL, come i malesi amano riferirsi alla propria capitale) significa “estuario fangoso”. La sua fondazione risale soltanto alla seconda metà dell’800 a seguito del ritrovamento di miniere di stagno in prossimità della confluenza di due fiumi. L’attività estrattiva attirò un gran numero d’immigrati e ben presto la città crebbe al punto da divenire il centro amministrativo coloniale della British Malaya.
Raggiunto il nostro hotel nel cuore del Golden Triangle, iniziamo ad orientarci nella selva di grattacieli del quartiere più moderno della capitale. Numerosissimi i cantieri aperti per gli alti edifici in costruzione, anche se non mancano parchi e lussureggiante vegetazione. Svettano le Petronas Towers che furono fino al 2004 l’edificio più alto del mondo. Le torri gemelle, vero e proprio simbolo della città, ospitano gli uffici della compagnia nazionale petrolifera con un’architettura ispirata alla tradizione islamica.
Le torri furono concepite come un omaggio allo sviluppo tecnologico ed economico del Paese ed è possibile accedere all’osservatorio acquistando con largo anticipo su internet i biglietti poiché l’accesso è consentito giornalmente solo per un numero limitato di visitatori. Caratteristico il ponte sospeso che unisce le due torri al 42° piano ad un’altezza di 170 metri e che consente di passare dall’uno all’altro edificio senza che sia necessario scendere al piano terra.
Ai piedi delle Petronas Towers e al Bukit Bintang (la strada più vivace del Golden Triangle) si conta un gran numero di centri commerciali dove i malesi amano passare il loro tempo libero tra lo shopping e bei ristoranti. I numerosi passaggi coperti che li collegano permettono di raggiungerli a piedi, evitando l’asfissiante calura esterna che caratterizza il clima a queste latitudini.
Il cosiddetto “colonial district” ospita diversi palazzi edificati durante la dominazione inglese, tra cui la moschea Jamek (cioè del venerdì) ed il palazzo del Sultano Abdul Samadi con le esotiche cupole a cipolla tipiche dello stile moresco in voga nell’India Britannica.
Attorno al vecchio campo da polo trasformato in piazza dell’Indipendenza (Merdeka Square) sorgono la più antica Cattedrale anglicana (la St. Mary’s) ed il vecchio ufficio postale convertito in un’interessante museo di tessuti batik. Oltre al Royal Selangor Club dallo stile tudor, vale la pena dare un’occhiata alla “City Gallery” che racconta la storia di KL, dalla sua fondazione ai progetti di sviluppo futuri descritti in plastici dettagliati dei suoi quartieri.
Più a sud si raggiunge la vecchia stazione ferroviaria, sormontata da cupole e torrette bianche e dichiarata monumento d’interesse nazionale, e l’albergo Majestic che ospitò Herman Hesse, con i suoi inservienti che ancora indossano i caschi coloniali. Alle pareti, le foto in bianco e nero rimandano all’aspetto bucolico e tradizionale che la città conservava ancora 50 anni fa.
I quartieri cinese ed indiano evidenziano il carattere multietnico del Paese, in particolare la popolazione cinese è una minoranza importante pari a circa il 20% del totale dei 22 milioni di abitanti. Con lo sviluppo impresso durante il periodo coloniale, le opportunità economiche spinsero molta mano d’opera a basso costo a trasferirsi nei territori controllati dagli europei dal sud della Cina e dall’India ed oggi le varie comunità hanno convissuto pacificamente grazie anche ai modelli istituzionali inglesi sopravvissuti al raggiungimento dell’indipendenza. Questa realtà ora sembra messa in discussione, soprattutto dalle giovani generazioni musulmane malesi, influenzate anche da un cambiamento dei testi scolastici che vorrebbero marginalizzare le culture che hanno contribuito al decollo economico della Malaysia.
A breve distanza dalla città, si raggiungono le Grotte di Batu dove piccoli templi induisti sono stati realizzati all’interno di una vasta caverna popolata da macachi.
Terminate le visite della capitale, iniziamo il nostro tour che ci porterà a scoprire le meraviglie della costa occidentale della penisola, utilizzando per gli spostamenti i comodissimi pullman che consentono di raggiungere in economia ogni zona del Paese.
Le Cameron Highlands sono note per il clima piacevole che ne fecero la principale Hill station inglese per sfuggire all’afa estiva. Sulle dolci colline dell’altopiano furono create estese piantagioni di tè che ancor oggi costituiscono un mirabile scenario; purtroppo l’atmosfera in alcune zone è stata gravemente compromessa da un incontrollato sviluppo turistico e dall’edificazione di palazzoni in cemento.
La costosa coltivazione del tè è stata in parte soppiantata da quella di ortaggi e fragole, considerate dai malesi come un frutto esotico, e ciò ha implicato la realizzazione di serre dai teloni plastificati che hanno non poco alterato l’aspetto originario dei luoghi.
Le Cameron Highlands restano comunque un luogo incantevole per gli appassionati del trekking oltre che del tè, perciò è assolutamente imperdibile la visita ad una delle fabbriche della preziosa bevanda. La Bho plantation è ancora diretta dalla famiglia di origine scozzese ed è anche quella che si trova in una posizione più elevata e distante dal disordinato capoluogo regionale Tanah Rata. La lavorazione avviene tramite rumorosi macchinari ottocenteschi con i quali si procede ai diversi gradi di essiccatura delle foglie.
Nel centro di degustazione, si sorseggia il tè accompagnato da classiche fette di torta e circondati dal verde smeraldo delle piantagioni. Il nostro autista indiano ci racconta che ormai per la raccolta si procede tramite macchinari, poiché la mano d’opera è diventata troppo onerosa. Il padre era giunto in Malesia dal Tamil Nadu per lavorare per i ricchi latifondisti europei e la sua famiglia si è perfettamente integrata nel Paese di adozione, tuttavia c’è preoccupazione per il futuro visto che i suoi figli sono costretti ad andare in scuole separate dai malesi oltre alla crescente discriminazione e svalutazione della cultura hindu, nonostante fosse preesistente alla religione islamica importata dai mercanti arabi nel XV secolo.
Interessante la visita del giardino delle farfalle, che consente di farsi un’idea della flora locale oltre che della straordinaria varietà di insetti ed aracnidi che vivono nelle foreste, soprattutto se non si ha molto tempo a disposizione.
Alloggiamo allo Smokehouse, un’originale locanda inglese dallo stile tudor dagli splendidi spazi comuni ed un elegante e curatissimo giardino. Si cena romanticamente a lume di candela, oltre a conversare di fronte ai caminetti accesi con gli altri ospiti dell’albergo o nel caratteristico bar.
Il famoso fabbricante americano di seta thailandese Jim Thompson venne proprio allo Smokehouse per bere due birre prima di inoltrarsi nella foresta per una passeggiata di un paio d’ore e dalla quale sparì misteriosamente senza mai più far ritorno. Era il 1967 e l’esercito inglese, che rimase nel Paese per altri 10 anni successivamente all’indipendenza, lo cercò inutilmente per diversi mesi; alcuni pensano che morì sbranato dalle tigri, altri invece che venne ucciso dalla guerriglia maoista particolarmente attiva anche in Malesia in quegli anni, ma forse è più probabile che la CIA lo fece sparire dandogli una nuova identità visto i suoi trascorsi di agente segreto statunitense. Sia come sia, l’enigma è rimasto irrisolto e la sua casa di Bangkok resta una delle maggiori attrazioni della capitale thailandese.
Raggiungiamo il giorno successivo Ipoh, capitale del sultanato del Perak.
Il nostro resort è contornato da una spettacolare cornice di alti picchi calcarei e lussureggiante vegetazione. I bungalow e le parti comuni sorgono in una specie di eden tropicale nei pressi di una sorgente di acqua termale; laghi, cascate e grotte naturali costellano il vasto giardino, che include anche un breve percorso nella giungla circostante.
Si intravedono piccole scimmie sugli alti rami degli alberi che però non osano avvicinarsi, spaventate da tigri di peluche dalle fauci spalancate che infatti vengono piazzate in diversi punti proprio con questo scopo.
Trascorriamo due giorni di relax, tra massaggi, piscine comuni riscaldate e vasche a 42° in quella che è una vera e propria SPA a cielo aperto, per non parlare delle lussuose stanze equipaggiate con piccole piscine private.
Riusciamo a dedicare un paio d’ore per la visita della città e dei suoi immediati dintorni, dove sono stati edificati dai minatori cinesi nell’800 diversi ed interessanti templi rupestri.
Il Perak Cave Temple ospita una grande statua del Budda seduto con disegni ed affreschi tradizionali dipinti sulle pareti di roccia. Una lunga scalinata s’inoltra sulla sommità della rupe da cui si ammira il panorama della città.
Ipoh è anche nota per i suoi palazzi d’epoca coloniale e gli isolati ben conservati di shophouses, dove i commercianti cinesi abitavano nei piani superiori e gestivano i negozi sul piano terra. Alcuni di questi edifici si trovano in stato di decadenza, ma conservano l’atmosfera caratteristica tipica della zona dello Stretto e che altrove è ormai in via di sparizione. Merita senz’altro girovagare nelle due stradine parallele di Concubine lane e Market lane, dove un tempo i ricchi mantenevano le proprie concubine, anche per i divertenti esempi di “street art” in cui ci si imbatte. Terminiamo la serata nel mercato notturno, dove una miriade di bancarelle offrono l’opportunità di assaggiare l’economico cibo di strada, per il quale la città è famosa in tutto il Paese. La cucina si ispira per lo più a quella cantonese, visto che gran parte degli immigrati cinesi ad Ipoh sono originari della provincia del Guandong.
Dal porto di Kuala Perlis, in prossimità del confine thailandese, ci imbarchiamo per Langkawi, la grande isola malese nel Mar delle Andamane.
Trattasi di una meta molto battuta non solo dal turismo, ma anche dagli stessi malesi nel fine settimana. La spiaggia più celebre di Pantai Cenang è estremamente affollata e gli stessi locali rimpiangono come questo luogo si sia trasformato in peggio negli ultimi 8 anni.
Nei pressi vasto litorale di finissima sabbia bianca si trovano gran parte delle sistemazioni economiche e sulla strada principale parallela ristoranti e negozietti rendono questo luogo piacevole per le passeggiate serali.
La confusione regna sovrana durante il tramonto: le moto d’acqua, amate dai turisti cinesi della Repubblica Popolare, sfrecciano continuamente ed alcuni raggiungono la battigia addirittura con le proprie auto private. Il mare, non molto invitante un po’ in tutta l’isola non è sempre balneabile a causa della frequente presenza di meduse.
La zona più tranquilla di Langkawi si trova nelle spiagge semi-deserte del nord, in particolare a Tanjung Rhu dove il litorale privato dell’unico resort garantisce un relax assoluto. All’orizzonte spuntano grandi faraglioni e, nei pressi, le foreste di mangrovie del Kilim Geopark meritano di essere esplorate in barca osservando da vicino le aquile di mare e branchi di scimmie arrampicate sulle radici aeree degli alberi.
La rigogliosa vegetazione si lascia ammirare soprattutto dalla sommità del monte Machinchang nel nordovest dell’isola, raggiungibile tramite la cabinovia più ripida al mondo. Dalle stazioni di osservazione spazia una vista a 360° sull’arcipelago, poco più in basso si trova lo skybridge, il famoso ponte sospeso ad un’altezza di 100 metri che, in alcuni tratti, ha una pavimentazione in vetro con scorci vertiginosi sui sottostanti dirupi.
Con il traghetto veloce in poco più di due ore arriviamo a Penang, la nostra ultima tappa.
L’isola, conquistata da Sir Francis White, fu il primo possedimento britannico in Malesia che, assieme a Malacca e Singapore, faceva parte dei cosiddetti Strait Settlements, i chiavistelli che permettevano all’impero britannico di controllare lo Stretto.
Penang attirò un gran numero di immigrati cinesi, che infatti costituiscono tutt’oggi il 60% della popolazione locale. I frequenti matrimoni misti con le donne malesi diede luogo anche qui alla nascita della cultura Peranakan determinata dalla fusione delle tradizioni locali con quelle cinesi e coloniali che si rispecchia nello stile di vita ancora documentato nelle grandi magioni ottocentesche dei ricchi commercianti trasformate in musei.
Dalla terraferma, Penang e la sua capitale Georgetown (così battezzata in onore del re inglese Giorgio III) appaiono come un moderno agglomerato di alti palazzi e grattacieli. Il centro storico però conserva l’originario impianto coloniale grazie alla progressiva perdita d’importanza dell’isola in favore di Singapore.
Il museo nazionale, che documenta lo sviluppo di Georgetown dalle sue origini è purtroppo chiuso per restauri. Di lato, la chiesa anglicana di St. George in un vasto piazzale erboso biancheggia assieme ai colonnati dell’edificio dell’High Court, grazie alle riparazioni eseguite negli anni ’50 dopo i bombardamenti giapponesi che l’avevano danneggiata durante il secondo conflitto mondiale. L’eredità coloniale prevale anche sul lungomare, dove sorgono gli edifici del municipio, le mura del forte Cornwallis e la torre dell’orologio in stile moresco, costruita per il giubileo della regina Vittoria.
Conviene perdersi nelle strade per scoprire gli angoli caratteristici di questa pittoresca città, all’ombra dei porticati delle shophouses che, come in passato, consentivano ai viandanti di mettersi al riparo dal sole cocente o dagli improvvisi scrosci di pioggia. Numerosi i piccoli alberghi, ricavati nelle vecchie case ed i templi cinesi dove sopravvivono i culti tradizionali dell’impero di mezzo che ormai in Cina sono stati spazzati via dalla Rivoluzione Culturale. Nella Love lanela sera è animata dai locali frequentati da giovanissimi avventori e da piccoli negozi, ricavati negli ambienti allungati delle antiche abitazioni, ancora pavimentate dalle piastrelle originali.
Nei pressi di Armenian Street è possibile ammirare le numerose opere dell’arte di strada, oltre a diversi edifici di culto delle principali religioni professate a Penang ed interi quartieri abitati dai più potenti clan della città che un tempo vivevano sulla base di regole proprie. Retaggio di quell’antica organizzazione sociale sono le congsi, cioè gli edifici dedicati agli antenati oltre che luoghi di aggregazione, pesantemente decorati da lanterne, mosaici di porcellana e delicati intagli lignei.
Tra i luoghi più affascinanti di Georgetown c’è la casa museo di Cheong Fatt Tze, altrimenti nota come “Blue Mansion“. Trattasi anche di un meraviglioso boutique hotel con poche ed intime stanze e dove conviene alloggiare per apprezzare in pieno il fascino di un luogo così speciale.
Cheong Fatt Tze era un ricco commerciante che finanziò la costruzione di diversi templi sull’isola e che rappresentò la Cina in occasione dell’inaugurazione del Canale di Panamá. L’edificio, con la morte nel 1990 del suo ultimo figlio, si trovava in grave stato di decadenza ma gli acquirenti lo restaurarono meticolosamente riportandolo allo splendore originario. Il cortile interno, con le colonnine e le balaustre di ghisa realizzate a Glasgow, evidenziano lo stile eclettico della casa ma è soprattutto l’intenso blu il colore che avvolge le ovattate atmosfere dei vari ambienti, che perciò furono scelti per allestire parte del set cinematografico del film “Indochine” cui partecipò l’attrice francese Catherine Deneuve. Meritano una visita anche il vecchio cimitero protestante, dove è sepolto il fondatore di Georgetown, ed il mitico Hotel Eastern & Oriental (fondato dagli stessi costruttori del Raffles a Singapore) che però è parzialmente chiuso per restauri che si concluderanno nella sua ala storica soltanto a dicembre 2019.
Alle spalle di Georgetown si innalza la Penang Hill, la cui cima si raggiunge tramite una ripida funicolare realizzata in epoca coloniale. Trattasi di un luogo piacevole dove passeggiare e godersi il panorama sull’isola e sulla città di Butterworth nella terraferma.
Ai piedi della collina, il complesso buddista di Kek Lok Si con templi, pagode e padiglioni dai colori sgargianti e piuttosto kitsch è il più grande della Malesia.
Terminiamo le visite con il famoso Tempio dei Serpenti, a breve distanza dall’aeroporto.
Dedicato alla divinità taoista Chor Soo Kong, un tempo l’edificio di culto si trovava nel mezzo della foresta. Poco dopo la sua edificazione, dei serpenti velenosi lo elessero come rifugio ed i fedeli non li scacciarono, ritenendo che ciò fosse di buon auspicio.
Ai lati degli altari, su piccoli trespoli sono avviluppate delle vipere verdi che si dice siano anestetizzate dal fumo degli incensi, tuttavia i visitatori sono sconsigliati dallo stimolare la loro reattività… da molti considerato come poco significativo, il piccolo tempio in realtà è da sempre una specie di trappola per turisti sin dalla seconda metà dell’800, ma forse continua ad essere una meta irrinunciabile per la sua fama di luogo unico nel suo genere e che da quell’illusione del pericolo che tanto piace ai viaggiatori temerari.
Il nostro viaggio volge ormai al termine, mentre il nostro aereo si allontana lentamente all’ora del crepuscolo che ammanta di magia Penang e le non più misteriose terre malesi.