Birmania e un gruppetto di Buddha che si tirano la veste
26.10
Finalmente arriva il giorno della partenza, ma ancora non sappiamo se il nostro volo sarà confermato, dato che è previsto uno sciopero generale per gli aeroporti milanesi e bolognesi. Sembra però che il nostro volo sia tra quelli della fascia “protetta” e quindi quando vediamo confermato il volo 124 della Qatar Airways delle 09.05 per Doha, l’ansia cresciuta i giorni precedenti, lascia il posto alla spensieratezza… forse per la tensione accumulata, o forse solo per sbadataggine, dimentico lo zaino al banco accettazione, ma per fortuna, dei ragazzi che erano in coda con noi, mi rincorrono e me lo riportano. Partiamo con mezz’ora di ritardo, ma atterriamo perfettamente in orario alle 16.10; il volo è stato piacevole, con ogni posto con il proprio video, dove poter scegliere come passare le ore che ci separano dall’atterraggio (costo andata e ritorno 761 euro preso circa 2 mesi prima). Il visto per il Myanmar l’abbiamo chiesto su myanmarevisaonline.com e ottenuto in pochi giorni (50 USD). Volendo però si può andare direttamente all’ambasciata a Roma (25 euro). Prima di partire avevo anche chiesto consigli al centro medicina del viaggio di Milano, perché in alcuni racconti di viaggio avevo letto che consigliavano zanzariere portatili e antizanzare a profusione; il medico del centro però non consiglia neanche la profilassi antimalarica, dato che novembre non è periodo di piogge, almeno che non si visitino le zone rurali. Per quanto riguarda vaccini & co. non c’è nulla di obbligatorio, ma consigliano antitetanica, antitifica, anti epatite A e B e di evitare di bere acqua non imbottigliata. Ultima informazione utile prima della partenza è che le prese elettriche, sono sia tipo schuko, che come le nostre italiane, ma senza messa a terra.
27.10
Il secondo volo da Doha per Yangon, sempre con Qatar, è su un aereo piccolo e senza video… siamo quindi costretti a dormire. Il volo parte da Doha alle 19.55 e arriva a destino alle 6.00. Arrivati all’aeroporto di Yangon, poiché avevo letto su varie fonti, che il cambio migliore era in aeroporto, cambiamo tutti i dollari, trattenendo solo quelli che ci serviranno per pagare gli hotel e l’agenzia, che vogliono i pagamenti in contanti e in dollari perfetti, come se fossero stati appena sfornati dal conio di stato (1 USD=1562 Kyat, si legge ciat, abbreviato MMK). Inoltre prendiamo una tesserina birmana per la telefonia cellulare che paghiamo 3.500 MMK, con la quale non si possono fare chiamate internazionali, ma possiamo telefonare localmente e usare internet; per comodità creiamo un gruppo whatsapp “birmano”, con tutti quelli che hanno preso una tessera. Ci spiegano, ma non credo corrisponda a verità, ma piuttosto alla difficoltà di esprimersi in inglese, che non esistono tessere internazionali, dato che loro per chiamare all’estero usano Viber, che vi consiglio di scaricare, per poter comunicare con gli autisti, via messaggio, perché spesso capiscono meglio l’inglese scritto che l’orale. Andiamo quindi in un ristorante appena fuori dall’aeroporto, dove avevamo concordato di incontrarci con un’incaricata dell’agenzia per saldare il conto (7654 USD = circa 480 USD a testa). L’agenzia prescelta sulla base di esperienze lette in internet è la Adventure Myanmar (adventuremyanmar.com). Ci facciamo poi portare dall’autista in hotel per darci una rinfrescata e mettere abiti più leggeri, infatti, ci sono almeno 30 °C. Notiamo subito che la guida è a destra, ma che molte auto hanno anche il volante a destra, rendendo la visuale non perfetta. Forse anche per questo motivo ci sono ovunque cartelli con immagini cruente di incidenti, che invitano alla prudenza, mentre si guida. Tutti gli hotel sono stati prenotati con Booking.com (anche su Agoda avevo trovato buone proposte), con cancellazione gratuita, alcuni senza neanche bisogno di inserire la carta di credito. Il prezzo che indicherò è per una doppia con colazione, sempre pagata in USD. A Yangon abbiamo scelto, il Crystal Palace Hotel, 219, Shwegon Daing Road, Bahan, Bahan (31,50 USD), camera carina, bagno piccolo, bollitore con occorrente per caffè e the e la migliore colazione di tutta la vacanza.
Ripartiamo quindi alla scoperta della città, che molti considerano ancora la capitale, anche se nel 2005 è stata spostata da Yangon a Naypyidaw. Il primo impatto con il Myanmar è di sorpresa per la pulizia, l’ordine e l’assenza di claxon, forse perché me lo aspettavo più simile all’India; in realtà andando verso il nord, più povero, le cose peggioreranno, ma sempre decorosamente. L’unica nota dolente sono le macchie di saliva rossa a terra, in quanto tutti masticano la noce della palma di betel, una noce ricca di tannini, di cui uno è di colore rosso. Le proprietà sono diverse, come favorire la digestione, come cardiotonico e vermifugo e sono riconosciute fin dall’antichità, tanto che Marco Polo ne parlava già nel 1298. La prima tappa del nostro viaggio è a Chaukhtatgyi Paya (entrata gratis, 20 minuti di visita), un Buddha sdraiato di 65 m, più grande di quello di Bago, purtroppo in restauro, di cui riusciamo solo a intravedere la corona tempestata di pietre preziose e diamanti. Le fattezze sono femminili o è forse lo smalto a mani e piedi che lo fa pensare? Primo incontro con i numerosissimi monaci della Birmania, o meglio con delle giovanissime monache, che portano delle vesti color rosa pallido.
La seconda tappa è completamente diversa: il lago cittadino Kandawgyi, o Royal Lake, con il Karaweik Palace, la riproduzione di una chiatta reale tutta dorata. Passeggiamo per soli 40 minuti, perché siamo provati dalla notte in aereo, ma forse avremmo dovuto passarci più tempo e fare un bel giro sulle passerelle, da cui in lontananza si può vedere anche la Shwedagon Paya, il simbolo della città (shwe significa dorato). Ci attardiamo a guardare dei ragazzi che si allenano in una strana coreografia a suon di musica rap.
Andiamo quindi alla Sule Paya (4000 MMK), un tempio tutto dorato, alto 46 m, di circa 2000 anni. Una specie di carrucola, con attaccato un cestino, porta le preghiere scritte su cartoncino alla parte alta dello zedi (qui chiamano così gli stupa). Gironzoliamo per quasi un’oretta intorno al tempio principale, distraendoci nei piccoli tempietti che lo circondano. Una volta usciti ci rendiamo conto che questo tempio è nel bel mezzo di una rotonda e le macchine ci girano attorno, come fanno da noi con le aiuole!
Seguendo fedelmente la nostra Lonely Planet, guida che ci accompagna ormai in tutti i viaggi, decidiamo di seguire l’itinerario consigliato nella zona coloniale. La zona doveva essere un gioiellino ai tempi del colonialismo inglese, ma oggi è piuttosto decadente. Rimangono a ricordo del passato sfarzoso, i palazzi sulla Strand Rd., ad esempio lo Strand Hotel, che ospitò Kipling e Orwell, il Central Post Office o la Customs House; vagabondiamo in questa zona per un paio d’ore, addentrandoci anche in un mercatino ortofrutticolo, per poi attraversare il Maha Bandoola Garden, dove si affacciano dei bei palazzi e tornare al bus che ci porterà alla Botataung Paya (6000 MMK). Quest’ultimo è al centro di un piazzale bianco, che fa risaltare ancora di più l’oro del tempio e l’amaranto delle vesti dei monaci che in fila indiana, vediamo sfilare verso il Buddha di bronzo, riparato in una grande teca in vetro. Il tempio principale è alto 40 m e all’interno ospita diverse reliquie, che si raggiungono con dei corridoi completamente ricoperti d’oro… un colpo d’occhio pazzesco! Sul piazzale c’è anche un piccolo stagno popolato da centinaia di clemmidi, delle piccole tartarughe.
Dimenticavo, un’informazione fondamentale per la preparazione della valigia! Nei templi si può entrare solo con abiti che coprano le ginocchia e mezze maniche, inoltre bisogna togliersi scarpe e calzini, perché ovunque è ammesso camminare solo a piedi nudi. I primi giorni ci pulivamo con le salviette ogni volta che uscivamo da un tempio, ma ora della fine del viaggio ci si puliva una volta ogni tanto. Vi consiglio, se avrete con voi lo zaino, di mettervi le scarpe, invece di lasciarle all’ingresso, dato che spesso i bagni sono all’interno dei templi, ma i pavimenti sono bagnati, perché non c’è acqua corrente, ma una vasca piena d’acqua, da cui attingere con un mestolo, per far scendere i propri “bisogni”. Anche in Myanmar non si butta la carta igienica nel water, ma negli appositi cestini… quando presenti.
Prima di andare alla Shwedagon Paya, ci fermiamo al Bogyoke Aung San Market (Scott’s Market), un mercato coperto, con bancarelle soprattutto di gioielli in giada e di stoffe per confezionare i longy, le tipiche gonne birmane, che portano sia gli uomini che le donne. Forse è il posto più adatto per gli acquisti di souvenir, ma è il primo giorno e non siamo ancora propensi a comprare tutti i regali. Gironzoliamo un’oretta, prima di raggiungere la Shwedagon Paya (10.000 MMK); ci sono diverse entrate, noi prendiamo quella con l’ascensore, ma la più bella costeggia la collina con un lungo corridoio di legno, decorato in nero e oro, che è solo una piccola parte delle 27 tonnellate del prezioso metallo, che sono state usate per l’intero complesso. Lo stupa principale custodisce otto capelli di Buddha, mentre le altre reliquie si trovano nei templi minori. Fra i numerosi templi attorno allo stupa, ci sono quelli dedicati ai giorni della settimana, disposti non in ordine e con il mercoledì diviso fra mattina e pomeriggio: ognuno prega in quello della propria nascita. Anche questo tempio è in fase di restauro, rendendo quasi invisibile la parte finale dei 98 metri di altezza; anche il puntale ricoperto da 4351 diamanti per 1800 carati, è nascosto dai precari ponteggi di bambù e corde. Anche qui il pavimento di marmo bianco fa risaltare i colori dei diversi tempietti, di cui uno riccamente dipinto con immaginette. Il consiglio è di arrivare qui prima del tramonto, perché la luce del sole fa splendere l’oro, il crepuscolo crea un’atmosfera particolarmente romantica e la notte esalta i templi perfettamente illuminati. Andiamo per cena all’Aung Thukha, 17 (A), West Shwe Gon Daing Road, un ristorantino a buffet da 5000 MMK a testa, dove oltre alla pietanza scelta al buffet, servono di default zuppa, riso bianco, verdure, arachidi e dei dolcetti che sembrano sassolini, i jaggery, di zucchero di palma, che profumano di liquirizia. Torniamo al Crystal Palace hotel e sveniamo fino al mattino dopo, ma questo solo dopo aver incontrato il nipote di padre John (johnbaptistak@gmail.com), un prete che si occupa di una missione, che abbiamo contattato, su segnalazione di racconti precedenti, che volevamo aiutare con medicinali che non riescono a trovare facilmente in Birmania. Personalmente devo ringraziare la farmacia Muzio di Parabiago, che ha voluto contribuire a sua volta.
28/10
Dopo una bella dormita e una colazione spettacolare, prendiamo il nostro bus alle 8.30 e lasciamo Yangon, che a mio parere, sarebbe stata trascurabile, se non avesse avuto la magnifica Shwedagon Paya. Dopo un paio d’ore e 80 km, arriviamo a Bago (scritto anche Pegu, la doppia toponomastica dipende dal colonialismo inglese). La prima tappa della giornata è la Kyaik Pun Paya, dove paghiamo il biglietto cumulativo di 10.000 MMK, che permette di visitare tutto il parco archeologico. Questo tempio del XV secolo, è incorniciato da quattro Buddha di 40 m, che si danno le spalle. Quindi andiamo verso lo Snake Monastery (gratis), dove un pitone di 125 anni e 5 m di lunghezza, sonnecchia in un angolo e si dice sia la reincarnazione o di un nat, cioè di uno spirito, o di un monaco. 15 minuti sono più che sufficienti. Se avete più tempo, addentratevi nel vicino villaggio per vedere la vita vera di queste zone. Arriviamo poi all’Hintha Gon Paya, forse uno dei templi che più mi ha colpito, perché in corso c’è uno spettacolo di danza di uomini travestiti da donna e suonatori di tamburi e piatti. La leggenda dice che qui atterrò l’hamsa, un uccello mitologico, simile al cigno, ed è per questo motivo, che è rappresentato ovunque. Scendiamo le scale, costeggiate da negozietti, e troviamo una lunga tettoia che porta a un enorme stupa dorato, la Shwemawdaw paya. Al momento non c’è chiaro che è il tempio che visiteremo il giorno seguente, quindi per paura di perderci questa bellezza, facciamo un giro veloce e torniamo in ritardo al bus, scusandoci con il gruppo. Non buttate via i biglietti di Bago, perché spesso tonando da Golden Rock, avanza tempo per vedere qualcos’altro nel parco archeologico e i biglietti sono ancora validi.
Ci rimettiamo in viaggio e dopo due ore abbondanti, raggiungiamo la fermata dei camion che portano a Golden Rock. Non sapendo bene quanto tempo ci vorrà per raggiungere la vetta, facciamo tappa in un bagno pulito (100 MMK) e compriamo da bere e mangiare. Ci indicano di attraversare un ristorante e ci ritroviamo alla fermata dei camion. Appena ci individuano, in quanto stranieri, ci accompagnano al primo camion in partenza (dalle 6 alle 18). Delle comode scale permettono di accedere al cassone. Il camion parte solo quando tutte le panche sono piene con almeno sei persone (2000 MMK). Una signora accanto a noi ci offre per tutto il viaggio cose diverse da mangiare e noi chiaramente proviamo tutto! In 40 minuti di tornanti presi a velocità pazzesca, raggiungiamo Kyaiktiyo, detta anche Golden Rock. State attenti a dove mettete i piedi all’arrivo, perché gli stomaci meno resistenti, hanno lasciato le tracce del loro passaggio. Dei bambinetti ci vendono a due lire dei simpatici occhiali fatti di bambù, che acquistiamo premiando più l’inventiva, che l’utilità. Percorrendo l’unica strada che troviamo, arriviamo subito al Mountain Top Hotel, vicino alla Kyaiktiyo Pagoda, non lontano dal Foreigners’ Registration Office, E’ l’unico hotel, dove non ci chiederanno il passaporto, particolare che ricorderemo in un secondo tempo. La struttura è un labirinto di scale e nessun ascensore. La camera è carina con una finestra con vista sulla vallata, un bagno grande e la colazione buona; se avessimo trovato posto altrove, però non l’avremmo mai scelto, perché molto caro, rispetto agli standard birmani (115 USD).
Ci rinfreschiamo un attimo e poi riprendiamo la stessa strada da cui siamo venuti e poco dopo ci fermiamo al Foreigners’ Registration Office, dove dobbiamo registrarci e pagare 10.000 MMK per proseguire (lo stesso biglietto vale anche per il giorno dopo) e raggiungiamo la Golden Rock: una roccia ricoperta d’oro, su cui hanno costruito uno stupa, appoggiata in modo incerto sopra un dirupo e sorretta solo, si dice, da un capello del Buddha. E’ meta di pellegrinaggio e quindi ovunque si trovano persone che pregano e accendono candele; l’entrata più vicina alla roccia, però è preclusa alle donne. La luce del tramonto la rende un posto magico. Proprio sul lato opposto della piazza rispetto alla roccia, parte una vietta piena di ristorantini e bancarelle che porta a un altro santuario. Ci fermiamo per cena in un ristorantino sulla sinistra (tenendo la roccia alle spalle) con l’insegna verde scritta solo in birmano. Non mangiamo male, ma è difficile farsi capire, perché nessuno parla inglese, per fortuna almeno il menù è tradotto (6000 MMK). Il servizio è molto lento e andando in bagno, al piano inferiore, vediamo le cuccette che vengono affittate ai pellegrini per passare la notte. Nell’intera area del Golden Rock non è permesso consumare alcolici. Facciamo un altro giro in mezzo ai pellegrini che con stuoie e coperte si preparano a passare la notte sotto le stelle e torniamo in hotel chiedendoci, se per fede potremmo mai percorrere le quattro ore di trekking che portano fino a qui e dormire poi sul freddo marmo, con i bambini al seguito.
29/10
I meno dormiglioni, prima di colazione, decidono di andare ad ammirare l’alba. Sinceramente pensavo di veder sorgere il sole da dietro alla Golden Rock, in realtà l’alba è esattamente dalla parte opposta, su una bella vallata con nuvolette di bruma, con un non so che di fiabesco. Intanto intorno a noi, emergevano dalle pesanti coperte i pellegrini, svegliati dal via vai. Quando il sole è alto, decidiamo di andare a far colazione in hotel, quindi recuperiamo le nostre valigie e alle 9, ripercorrendo l’unica strada, torniamo ai camion (2000 MMK) e con lo stomaco in subbuglio per le curve, raggiungiamo il fondo valle. Troviamo il nostro bus dove lo avevamo lasciato e tornando verso Bago, ci fermiamo a vedere degli alberi della gomma, con i classici tagli obliqui che servono a incanalare la resina in vaschette. Poi ci fermiamo lungo un fiume, dove ci mostrano l’essicazione del pesce. Arriviamo alle 11 alla Shwemawdaw Paya, il tempio che il giorno prima avevamo scoperto in fondo al lungo corridoio. Qui uno dei nostri compagni di viaggio realizza di aver perso lo zaino con dentro il proprio passaporto, di cui non si era accorto la sera prima, in quanto non ci era stato richiesto. Mi presto per il mio inglese a chiamare l’agenzia e presentare il problema. Lui è convinto di averlo lasciato ai bagni della fermata dei camion per Golden Rock, in realtà due giorni dopo scopriremo che per sbaglio l’aveva fatto caricare sul bus dei tedeschi, che dormivano nel nostro stesso hotel di Yangon, i quali non riconoscendolo, l’avevano fortunatamente lasciato all’hotel. Il personale dell’hotel, molto rispettoso della privacy, come tutti i birmani, non aveva osato aprirlo per cercare indizi su chi potesse averlo perso. Tramite l’agenzia ci aveva però chiesto dettagli, come la marca e il colore, quindi il permesso di poterlo aprire. Con il dubbio che questo disguido potesse farci ritardare e quindi rovinare parte del viaggio, con lo stesso biglietto conservato dal giorno prima, entriamo ugualmente e visitiamo questo tempio tutto dorato, che svetta con i suoi 84 m nel cielo azzurrissimo. Stiamo dentro un’oretta, anche perché è talmente grande che la circonferenza è lunga da percorrere, prestando attenzione anche ai tempietti laterali. Dopo una mezz’ora di bus arriviamo al Kanbawzathadi Palace, che anche se ricostruito, conserva parti delle 176 imponenti colonne in teak, provenienti da tutte le parti del paese. L’effetto creato dalle colonne dorate e dai soffitti a cassettoni è veramente grandioso. Anche dall’esterno l’effetto è molto bello, tante gugliette e i tetti appuntiti che formano un gioco di sali-scendi. Prendendo la strada che parte proprio davanti al palazzo, si raggiunge la Bee Throne Hal, anch’essa ricoperta d’oro. Riprendiamo il bus e poco lontano, ci fermiamo allo Shwethalyaung Buddha, il famoso Buddha sdraiato, lungo 55 m. Non stiamo dentro più di 20 minuti, anche se sarebbe stato carino attardarsi fra le bancarelle di longy e giada lavorata. A soli 5 minuti, ci fermiamo nuovamente per un secondo Buddha sdraiato e ne approfittiamo per il bagno; questo però è all’aria aperta, non è protetto da capannoni come quello di Yangon o quello più famoso di Bago. Il bus ci porta quindi alla fermata del bus notturno per Loikaw (mancia autista e aiuto 10.000+5.000 MMK), ci facciamo prima lasciare a una sorta di autogrill proprio di fronte alla fermata, per andare in bagno e comprare qualcosa da mangiare e bere, perché il viaggio sarà lungo e non siamo ben certi di quando e per quanto si fermerà. Il bus notturno parte alle 15.30 da Yangon e alle 16 circa transita dove lo aspettiamo. Salendo ci viene data una scatoletta con dei dolci. Secondo l’autista del nostro bus arriveremo a destino alle 5 della mattina, ma secondo l’autista del bus notturno della Su Laè High Way Bus (sulaebusticketsalescenter @gmail.com) non si arriverà prima delle 7. Arriveremo invece alle 5.45 h. La guida su per le montagne è molto spinta, sentiamo le curve, ma fuori è talmente buio che non riusciamo a capire dove siamo e in che condizioni sono le strade. Alle 18.30 si ferma per la prima volta in autogrill, mezz’ora di tempo per andare in bagno e spizzicare qualcosa. Tutti vengono fatti scendere dal bus per evitare furti. Avevo letto che il bus era una ghiacciaia, ma fino a questo momento non lo è stato. Alle 23.30 si ferma di nuovo, ma per poco. Scopriamo in questi autogrill che ci sono i bagni per turisti e quelli per i locali, “usual people”, che sono decisamente in condizioni peggiori. Ci rifermiamo intorno alle 2.30, l’aria condizionata è sempre più fredda e la tv non viene mai spenta: ogni posto è dotato di prese USB, coperta e bottiglietta d’acqua.
30/10
Arrivati a destino, in uno di quei posti che qualcuno definirebbe dimenticati da Dio, vediamo subito il nostro bus. Il nostro hotel è sulla strada principale, non distante dalla collina che ospita lo Taung Kwe Zaide, principale attrazione della cittadina. In hotel, dietro un piccolo compenso ci danno la colazione e, anche se il check-in sarebbe dalle 14, ci danno le stanze subito, per liberarci delle valigie e rinfrescarci. Alle ore 8.00 incontriamo la nostra guida, Htay Aung, obbligatoria per visitare questa zona, una persona molto gentile, che ci spiega in inglese, che questa regione è stata aperta solo 5 anni fa al turismo. Ci porta poi al mercato locale e ci lascia gironzolare per circa 45 minuti: subito compriamo una frittella spugnosa, spolverata di zucchero, appena estratta dall’olio bollente! Gironzoliamo tra le fitte bancarelle tra verdure e frutti mai visti prima; le persone ci guardano, sempre sorridendoci, come se fossimo marziani. La guida poi ci dice che il suo collega si sposa proprio lo stesso giorno e che sarebbe felice di salutarci; così ci imbuchiamo al matrimonio. In realtà la cerimonia è avvenuta al mattino presto e quello dove ci troviamo è il rinfresco, dove ci offrono tè, carne, riso e diversi dolcetti. Non è come da noi, dove tutti gli ospiti sono seduti e partecipano a ore di pranzo con diverse portate, qui la gente arriva, mangia, lascia il regalo o la busta e se ne va e così faremo anche noi (doniamo 10.000 MMK). In ogni caso è stato bello partecipare a un momento di vita comune, vedere i vestiti gialli degli sposi e l’eleganza dei famigliari più stretti e commentare come lo sposo fosse sorridente, mentre la sposa serissima. Ci rimettiamo in marcia, saliamo sul bus che ci porta fuori città, ma prima compriamo sapone, olio e caramelle da donare alla tribù che visiteremo (1.000 MMK a persona). Scendiamo dal bus e la nostra guida ci fa attraversare le campagne per un’oretta. Arriviamo a una casa di legno, dove veniamo accolti dalla nostra prima donna giraffa; la guida però ci fa presente che non sono animali, ma “human beings” e quindi vanno trattate e rispettate come tali. Sono conosciute con questo nome o come donne cigno, in quanto fin dall’età di 5 anni, le bambine chiedono alle proprie madri di iniziare a portare le spirali di ottone, che via via si fanno più numerose e di dimensione maggiore, finché la pressione non provoca uno slittamento della clavicola e una compressione della gabbia toracica, dando l’effetto ottico del collo allungato, quando invece sono le spalle a scendere. Le donne adulte riescono a portare fino a venticinque anelli al collo e a volte li portano anche alle gambe. La signora si posiziona per le foto in un angolo ben illuminato, è talmente abituata a farsi fotografare che si mette in posa e si presta a farsi immortalare, pazientemente, con ognuno di noi; questo un po’ mi delude, perché mi aspettavo qualcosa di meno contaminato, speravo di vederle mentre compivano gesti quotidiani, di poter “rubare” loro immagini di momenti ordinari. Passeggiando ed entrando in diverse case, la sensazione che il turismo sia arrivato anche qui a rovinare tutto, si fa sempre più forte. Visitiamo anche la scuola del paese, i bambini ci accolgono festosi, forse perché sanno che arriviamo con tante caramelle per loro. Subito dopo la scuola, ci ritroviamo in una sorta di piazzetta, con delle bancarelle gestite da donne giraffa che vendono souvenir fatti da loro o made in China, ma è comunque bello vederle filare o tessere serie, mentre l’unica bambina giraffa ci fa le boccacce! Il bus nel mentre ha fatto il giro e ci recupera alla fine del villaggio, appena oltre le bancarelle. La nostra giornata è stata perfettamente organizzata dall’agenzia, con l’aggiunta di tappe non da noi richieste, ma comunque interessanti. Ad esempio ci fermiamo due minuti a vedere una pozza, dove si rinfrescano dei bufali e dove fuori da una casa vediamo appesi a essiccare dei vegetali, che sembrano cresciuti sotto terra, come carote; la guida ci chiede di indovinare cosa sono, ma non ne abbiamo assolutamente idea. Appena ne prende uno, toglie le radici e sbuccia le palline attaccate, capiamo subito… Sono arachidi! Nessuno di noi sapeva che nascessero quasi sotto terra.
Proseguiamo la nostra visita verso una diga che forma un bel laghetto, costruita per poter allagare al momento giusto le campagne dove si coltiva riso. Qui vediamo un elefante, legato in modo che i turisti possano salire e farsi fotografare in groppa, ma noi passiamo dritti. Tornando verso la città. Ci fermiamo in un cimitero animista, dove l’altezza delle colonne ha un significato ben specifico per questa religione. Proseguiamo verso una fabbrica tessile, ma purtroppo, nonostante il governo stia lottando contro il lavoro minorile, vediamo lavorare al telaio anche una bambina. Acquistiamo delle belle stoffe e ci viene spiegato che ogni disegno è tipico di una tribù. Proseguiamo verso Christ the King Church, che, nonostante sia in restauro, ricorda come in queste zone sia stata forte l’opera di conversione cattolica, ma anche come si sia dovuta integrare con il buddhismo; piccola nota di orgoglio nazionale, la campana della chiesa è di origine italiana. Saliamo allo Taung Kwe Zaide, su delle scale che abbracciano la collina calcarea, ma che non ci danno molta fiducia. Arriviamo quindi in cima, attorniati da stupa bianchi e oro e ci godiamo il panorama a 360 gradi sulla vallata. Sconsiglierei la salita a chi soffre di vertigini, perché per passare da uno stupa all’altro ci sono ponti su dirupi. All’entrata bisogna pagare solo se si vuole fotografare. La guida ci lascia qui, dopo averci detto che è menzionato anche sulla Lonely Planet ed è vero! Gli lasciamo una mancia di 5000 MMK. Lungo la via principale di Loikaw è pieno di ristorantini invitanti, che grigliano pesce e carne, ma noi siamo un gruppo troppo numeroso per questi localini, così decidiamo di andare al Pho Kwar Pho Kwar restaurant, 106 Shwe Hwar Street (4700MMK), dove, sotto un pergolato, mangeremo un po’ di tutto: pesce, maiale, tofu, pollo, verdure e delle patate veramente piccanti! All’uscita veniamo colti da un acquazzone, probabilmente la coda del monsone. La proprietaria si offre, dietro compenso (300 MMK), caricandoci otto alla volta sulla sua auto, di riportarci all’hotel, il Myat Nan Taw Hotel, No.54, Gannayawady Street, Main Lone Quater, che è carino, in una comoda posizione, con una buona colazione a buffet (40,50 USD).
31/10
Lasciamo l’hotel alle 8.30 e dopo un paio d’ore raggiungiamo Kakku, che mi sorprende veramente con i suoi 2478 stupa, tutti in stile diverso, semplicissimi o molto decorati, forse anche perché dopo chilometri di niente, ci si ritrova inaspettatamente davanti a questo complesso. Gironzoliamo per un’oretta, cercando di sfruttare al massimo la prospettiva creata dalle file perfette di stupa, ogni volta che scattiamo una foto (5000 MMK). A pochi minuti da questa meraviglia, ci fermiamo a un mercato e qui mi sembra veramente di mischiarmi fra la gente; molte bancarelle vendono semi tostati, così compriamo fave, ceci, lenticchie, fagioli, semi di zucca e girasole da mangiare come snack e neanche a dirlo… erano buonissimi! Dopo una mezz’ora in bus, ci fermiamo a un villaggio Pa-o, ma purtroppo piove a dirotto e tutti si stanno riparando nelle proprie case. Vediamo, mentre tornano dai campi, poche donne con il caratteristico turbante, alcune hanno anche un cappellaccio di paglia e ne sorprendiamo un paio che si lavano in cortile, con i copricapo appoggiati alla staccionata delle proprie case. Arriviamo nel tardo pomeriggio a Nyaungshwe, che abbiamo scelto come base per la visita del lago Inle. Non lontano dal lago, il pullman si ferma per pagare il biglietto di accesso alla zona dell’Inle Lake (15.000 MMK). L’Inlay Palace Hotel, Middle School Road, Nyaung Shwe, è uno dei più sporchi hotel che abbia mai visto e sicuramente il peggiore del nostro viaggio. Ognuno di noi ha trovato qualcosa che non andava, dalle pattumiere puzzolenti, il cui odore impestava la stanza, ai panni sporchi nell’armadio, al frigo sudicio, lenzuola e asciugamani con macchie di sangue, ruggine e quant’altro; oltre a questo l’acqua nella doccia era pochissima e fredda e il Wi-Fi debole (17,85 USD). Per fortuna invece qui faremo le migliori cene del viaggio. Per la prima sera siamo stati allo Sin Yaw Restaurant, Mingalar Ashae Street (7100 MMK), pollo, maiale, pesce di lago, riso, noodles, sempre gli stessi piatti, ma cucinati molto bene e ci hanno anche regalato due magliette, che poi abbiamo regalato alla guida del Chin State e a un mendicante. Dopo cena nessuno aveva voglia di restare in camera, ovviamente, così in un supermarket non lontano dal ristorante, sempre sulla via principale, abbiamo preso rum, Coca Cola e stuzzichini e sulla terrazza dell’hotel abbiamo improvvisato un cocktail bar: l’hotel, nonostante fosse incredibilmente sporco, aveva invece una bellissima struttura, con due terrazze e un giardinetto interno con fontana e camere belle ampie. Per completezza diremo anche che la colazione è stata scarsa e con servizio particolarmente lento, ma che il personale è sempre stato molto gentile.
01/11
Alle 8.00 ci viene a prendere direttamente in hotel uno dei barcaioli incaricati dall’agenzia di farci fare il giro del lago Inle. A metà strada verso l’imbarcadero, rompo i sandali, impossibilitata a camminare, se non a piedi nudi, dico al resto del gruppo di andare avanti e corro all’hotel a cambiare le scarpe. La proprietaria mi vede rientrare e chiede il perché, le mostro la scarpa e chiedo che mi chiami subito un taxi per raggiungere il gruppo e non far ritardare la gita, si offre invece di portarmi con il motorino e non accetta neanche la mancia che volevo darle per la gentilezza. Recupero il gruppo che non è ancora arrivato all’imbarcadero e alle 8.45 partiamo. Su ogni barchetta ci possono salire fino a 5 persone. Purtroppo l’unica cosa che non riusciremo a fare rispetto al programma, è il famoso mercato dei 5 giorni, in quanto siamo capitati nel giorno peggiore, il mercato è piccolo e molto lontano e finisce alle 10, quindi non vale la pena andarci. Purtroppo non ho trovato da nessuna parte una sorta di calendario per poterlo organizzare correttamente. Nyaungshwe, da dove partiamo, non si trova sul lago, ma su di un canale collegato al lago, così come altri luoghi degni di nota come Inthein, Nampan, il villaggio di Ywama, la Shwe Inn Dain Pagoda, etc.
Percorrendo il canale da Nyaungshwe verso il lago Inle (inle significa piccolo lago), attraversiamo la Bird Preservation Area e vediamo come delle barriere di corda impediscano alla vegetazione di invadere i canali, che qui fungono da strade, per raggiungere le case su palafitta che costeggiano i canali. Entrati nel lago, davanti a noi vediamo subito due pescatori, nella famosa posizione con le reti fatte a cono, che manovrano con le gambe, che vengono fotografati da chiunque sia stato in Birmania e che si trovano su ogni guida del paese. Peccato che sono lì solo per le foto, non stanno pescando veramente e per di più chiedono 1000 MMK a chiunque sorprendano con la macchina fotografica in mano. Entriamo in un nuovo canale che porta al villaggio In Phaw Khone, famoso per la tessitura del loto. Molto interessante vedere le varie fasi della lavorazione al Khit Sunn Yin, hand weaving centre: come viene spezzata la canna e ricavato il filamento che poi viene filato e tessuto, a volte con la seta. Le signore ai telai hanno tutte un fiore nei capelli e muovono i pedali fatti di bambù, come se fossero tasti di un pianoforte. Alla fine del giro, un negozietto dai prezzi proibitivi, anche per noi stranieri, vende sciarpe e longy di loto. Usciamo da un canale ed entriamo in un altro, arriviamo al villaggio di Nampan, dove su un’altra palafitta scendiamo a vedere la lavorazione del tabacco e come a questo vengano aggiunti profumi come l’anice o il miele, per renderne il consumo più gradevole. Chi ha provato a fumarli ne ha decantato il sapore. Anche in questo caso c’è la possibilità di acquistare sia i sigari, sia le scatolette fatte di lacca, la cui lavorazione vedremo a Bagan. Qui e là vediamo anche vasi di orchidee… meravigliose! Proseguiamo la nostra visita verso gli orti galleggianti, che mi hanno ricordato le isole del lago Titicaca, infatti, sfruttando le radici della vegetazione galleggiante che ricopre il lago, come un materasso, hanno piantato dei veri orti; noi ad esempio abbiamo attraversato filari di pomodori, che ci hanno detto sono quelli che poi vengono serviti nei ristoranti della terra ferma. La cosa singolare è che chi coltiva, lo fa stando seduto sulla propria barca, probabilmente perché questi “materassi”, non reggono il peso di una persona. Percorrendo i canali, vediamo uscire alcuni bambini da scuole e i genitori che li aspettano fuori… in barca!
Proseguiamo facendo tappa al villaggio di Ywama, conosciuto per la lavorazione dell’argento, purtroppo ci insegnano solo a riconoscere il vero argento, senza darci nessuna nozione di come viene lavorato, ma questo ci lascia più tempo per acquistare monili veramente belli a prezzi bassi. Nello stesso villaggio ci fermiamo anche per vedere la lavorazione degli ombrelli di carta, che se non erro è ricavata dalla corteccia del gelso, ma vediamo soltanto un artista, mentre li decora dipingendo dei fiori: l’esposizione però è un bellissimo colpo d’occhio multicolore. Qui per far presa sui turisti, ci sono anche delle donne giraffa. Prossima tappa il villaggio di Inthein, dove c’è sempre un mercato che, nel giorno in cui è toccato dal mercato dei 5 giorni, si ingrandisce. Qui andiamo a vedere la Shwe Inn Thein paya, che si raggiunge in 20 minuti percorrendo un corridoio coperto, pieno di bancarelle gestite anche da donne dell’etnia Pa-o, con i loro bellissimi copricapo, che noi, irrispettosi, chiamavamo asciugamani. Il complesso è impressionante dato che è composto da 1054 stupa, una sorta di piccola Kakku. Se si vuole fotografare all’entrata bisogna pagare una tassa irrisoria. La nostra giornata è veramente intensa e la prossima tappa è la Phaung Daw Oo Pagoda, con le sue cinque statue di Buddha irriconoscibili sotto tutte le foglie d’oro sovrapposte dai pellegrini uomini, dato che le donne non sono ammesse. L’oro la fa da padrone in questa pagoda, tanto che fuori c’è persino una chiatta reale tutta in oro, parcheggiata in un capannone sull’acqua. Sembra quasi impossibile, che in una sola giornata abbiamo visto tanto, ma visitiamo anche il monastero dei gatti saltanti, Nga Hpe Kyaung, chiamato così, perché i monaci in passato, addestravano i gatti a saltare nei cerchi, ora invece i gatti dormono e basta. Rientriamo al tramonto verso Nyaungshwe, mentre stiamo attraversando il lago, si rannuvola e temiamo di venire sorpresi dal temporale, mentre siamo ancora in barca, ma per fortuna arriviamo asciutti a terra. Lasciamo una mancia di 1000 MMK a ogni barcaiolo. La sera precedente eravamo indecisi fra due ristoranti, uno accanto all’altro, quindi per questa cena scegliamo quello che avevamo escluso la sera precedente, il Sunflower Restaurant, Ashae Streets, Corner of Yone Gyi and Mingalar, dove ci cucineranno anche piatti senza cipolla, per un’amica allergica, cosa non evidente nel regno della cipolla! Ci offriranno anche un dolcetto a base di arachidi e una scatola intera da portar via dello stesso dolcetto (5400 MMK).
02/11
Ci dobbiamo trasferire dall’aeroporto di Heho a Bagan (aeroporto Nyaung-U), quindi l’ora di partenza viene fissata alle 7.20 dall’hotel. Sulla strada verso l’aeroporto ci fermiamo a un tempio molto vecchio in legno (Shwe Yaunghwe Kyaung), ma lo vediamo solo da fuori, perché il gruppo ha paura di far tardi per il volo. Sulla strada rimaniamo fermi per una mezz’ora a causa di lavori, le ruspe sembrano non volersi spostare e temiamo di perdere il volo, ma non sappiamo che il nostro aereo è già un ritardo di un’ora, forse per questo l’autista è tranquillissimo. Prima di entrare in aeroporto, lasciamo una mancia all’autista e all’aiuto (5000+2500 MMK), recuperiamo le bottiglie d’acqua avanzate e le arance comprate al mercato e le infiliamo nel bagaglio da stiva, ma visti i controlli, potevamo anche lasciarli nello zaino. Il volo K7 235 della Air KBZ che era previsto alle 9.10 con atterraggio alle 9.50, in realtà patirà alle 11 con atterraggio alle 11.37. Sul volo interno possiamo portare 20 kg di bagaglio da stiva, informazione che non ero riuscita a ottenere né dalla compagnia aerea via mail, né dall’agenzia che sembrava sempre ignorare la mia richiesta. Arrivati a Bagan, ci viene a prendere la nostra guida in lingua inglese, Kotte (bravissimo!), che invece a sorpresa ci parla benissimo in italiano, di quest’area di 42 km², disseminata di 2217 templi. Decidiamo di non perdere ulteriore tempo andando in hotel e iniziamo subito la visita della tappa clou del nostro viaggio. Paghiamo l’entrata al parco archeologico, che ora vale per 3 giorni, ma che fino al 01.07.18 valeva per 5 giorni (25.000 MMK). La guida ci spiega che la leggenda vuole che chi avesse potuto far costruire una pagoda, si garantiva l’entrata al Nirvana, per questo re e regine erano tanto generosi e ne favorivano la costruzione. Kotte ci ricorda i momenti storici salienti nella storia di Bagan, come l’arrivo dei mongoli di Kublai Khan nel 1267, come il terremoto di magnitudo 6.8 del 1975, che danneggiò irreparabilmente la zona o come il terremoto del 2016, permise di rimettere mano ai restauri approssimativi fatti dopo il 1975, usando materiali non adatti, come il cemento.
Quattro tipi di monumento sono presenti a Bagan: 1 – la pagoda o stupa, in mattone pieno che custodisce reliquie del Buddha e dove non si può entrare; 2 – la biblioteca; 3 – il tempio Mon, dove si può entrare, ma è buio; 4 – il tempio birmano, luminoso e decorato con quattro Buddha, di cui il più grande è posizionato sempre a est.
La Shwezigon paya è a solo un quarto d’ora dall’aeroporto, famosa per lo spettacolare zedi dorato su tre terrazze, per le più antiche rappresentazioni del Buddha di tutta Bagan (XII sec) e per la rappresentazione di 37 nat (spiriti). Kotte ci insegna che le campane vanno suonate battendo prima il bastone a terra e poi suonando con colpi sempre in numero dispari, inoltre che la posizione delle mani del Buddha ha sempre un significato, ad anello indicano insegnamento, una sopra all’altra meditazione, mentre quando il Buddha tira la propria veste è un viaggiatore, proprio come noi. A Buddha viene offerto riso, che poi non viene buttato, ma dato ai poveri. Lo zedi è fatto di pietra arenaria, portata per 7 km giù dalle montagne e l’oro che lo ricopre viene rinnovato ogni 5/6 anni. Sotto a un portico vediamo rappresentata la storia di Siddharta e ci viene fatto notare come, a protezione, all’entrata dei monumenti ci siano sempre dei leoni con zampe di ippogrifo e sugli angoli degli orchi. Andiamo a visitare nella piana settentrionale l’Htilominlo: maestoso, con i suoi 45 m di altezza e gli esterni ornati da stucchi del XIII sec. con fiori e orchi. La leggenda vuole che venne costruito là dove si piegò l’ombrello, da cui il tempio prende il nome, che designò come re il giovane Nantaugmya, prescelto fra i suoi cinque fratelli maggiori.
Ci fermiamo alle bancarelle e ci facciamo spiegare da un artista la particolare tecnica usata per suoi quadri, che sono di sabbia, che viene incollata in 10 sottili strati e quindi dipinta. Il tempio che forse mi ha sorpresa di più a Bagan è l’Ananda Pahto, alto 52 m, imperdibile per il suo hti (pinnacolo) a forma di pannocchia, per i quattro Buddha ricostruiti in teak, alti almeno 9 m, di cui il primo che si incontra, per un effetto ottico da lontano sembra felice e diventa sempre più triste man mano che ci si avvicina. Kotte ci spiega che prima del XVII sec. non si usava mettere l’oro sul Buddha. La tappa seguente è il Dhammayangyi Pahto, il più grande di Bagan. La leggenda racconta che il re non volesse che tra un mattone e l’altro passasse nulla, neanche un ago; per questo faceva amputare le braccia a coloro che lasciavano fessure e per questa crudele usanza, rimane il buco d’appoggio, su cui veniva appoggiato il braccio prima del taglio. Viene anche chiamato la grotta dei pipistrelli, in quanto i soffitti ne ospitano tantissimi. Il bus si ferma quindi al villaggio di Minnathu; gli autisti e alcuni del gruppo si fermano a pranzare e altri ne approfittano per visitare il villaggio, dove vediamo donne che filano e altre che fumano il sigaro, altre ancora che trasportano pesi in una specie di bilancia e, per la prima volta dal vivo, una pianta di cotone. Proseguiamo con la visita del Manuha Paya con i suoi tre Buddha seduti, con alle spalle il grande Buddha sdraiato, che danno una sensazione soffocante, quasi claustrofobica, dato che questi grandi Buddha si trovano in uno spazio piuttosto angusto; quindi tappa al Nan Paya, ex tempio indù, che conserva ancora bassorilievi che lo testimoniano, come ad esempio le facce di Brahma. All’esterno vediamo incisi nell’arenaria orchi e hansa (uccelli che ricordano le anatre, cigni). Ogni tempio ha la sua particolarità e il prossimo, il Gubyaukgyi, vicino al villaggio Myinkaba, di tipo Mon, è famoso per i dipinti: tra i soggetti, le 147 vite del Buddha sotto forma di animale, come l’elefante bianco; le fattezze con cui viene rappresentato il Buddha hanno tratti indiani. L’Unesco ha messo a disposizione per 6 anni, 40 lavoratori che usavano l’acetone per ripulire i dipinti, che essendo tossico, non permetteva di lavorare in maniera continuata. Finiamo la nostra prima giornata di visita di Bagan, guardando il tramonto da una collinetta vicino a un laghetto, superaffollata di turisti di tutte le nazionalità. Salutiamo quindi Kotte (mancia 10.000 MMK). Chiedo consiglio per la cena al gestore dell’hotel, che mi carica sul suo scooter e mi porta allo Yummy Restaurant, Anawratha Rd, dove mangeremo molto bene, anche se alcuni piatti sono molto piccanti (5200 MMK). L’Anawratha Rd incrocia una strada che è piena di locali e ristoranti.
La notte la passeremo al New Large Golden Pot – East of Sapada Pagoda, Lanmadaw 2 street, Nyaung U, Bagan, dove veniamo accolti da un cartello che annuncia “Mara’s group welcome” solo perché avevo fatto io la prenotazione. La camera è molto carina, curata e pulita, con un bel bagno, la colazione, rispetto ad altri posti, risulterà invece scarsa (27,90 USD). Una cosa che mi ha un po’ infastidita, è che finché il proprietario vedeva la possibilità che noi prendessimo altri servizi da loro, ad esempio i motorini per il giorno dopo, era gentilissimo e servizievole, mentre una volta capito che non intendevamo spendere altri soldi nella sua struttura, è diventato quasi maleducato. In diversi hotel in Birmania, come ad esempio questo, ci è capitato di dover chiedere che venisse rifatta la stanza, quando ci passavamo più notti, ma ci è capitato solo qui di sentire all’esterno un disco con una sorta di preghiera ripetuta per tutta la notte. Forse si trattava di una comunità mussulmana di Rohingya, la più maltrattata e ignorata del Myanmar.
03/11
La sveglia suona prestissimo, infatti, abbiamo appuntamento alle 4.55 per il volo in mongolfiera sulla piana di Bagan. Il pulmino arriverà però alle 5.10, perché prima di noi ha caricato altri stranieri di altri hotel. Il volo ci è costato 315 USD tramite l’agenzia, ma se avessimo dovuto acquistarlo direttamente, l’avremmo pagato 350 USD su balloonsoverbagan.com (palloni rossi). Ci sono altre compagnie come Oriental Balooning (palloni verdi, 380 USD) e Golden Eagle (palloni gialli, 330 USD). Ci portano a un terreno, dove sono appoggiati i cesti con i palloni sgonfi. Il pilota si presenta a noi e un altro ragazzo ci fa il briefing, dandoci istruzioni tipo di non lasciare mai la zona delimitata, non avvicinarsi con le sigarette al pallone, dato che c’è la bombola di gas; inoltre ci spiegano la posizione da assumere nel caso il cesto non atterri bene o addirittura venga trascinato una volta a terra. Il briefing termina alle 5.50. Osserviamo a distanza di sicurezza le prime manovre di gonfiaggio del pallone, intanto il buio lascia spazio alle prime luci dell’alba.Emozionante vedere tutti questi enormi palloni in fila, che pian piano prendono forma. Una volta gonfio, ci fanno cenno di salire. Ogni cesta può ospitare fino a 16 persone, ma chi pesa più di 125 kg, deve pagare doppio biglietto. Riproviamo la posizione di atterraggio e quindi iniziamo lenti la nostra ascesa, qualche mongolfiera si trova già sopra di noi, altre di colore verde e giallo partono da zone diverse. Raggiungiamo i 450 m di altezza: entusiasmante vedere Bagan dall’altro, volando dolcemente. Il pilota fa girare lentamente la cesta in modo che tutti possano godere di una visuale a 360°. Questa compagnia prevede anche un servizio fotografico, scaricabile direttamente dal loro sito: sarà bellissimo rivedersi immortalati con quella faccia stupita su un mezzo di trasporto tanto speciale!
Il volo dura un’ora, dopo di che, una volta atterrati, ci viene offerto del prosecco e qualche dolce, nonché un attestato di partecipazione. Veniamo quindi riaccompagnati ai rispettivi hotel. Sul nostro pulmino ci sono persone che soggiornano in uno degli hotel più esclusivi di Bagan, l’Aureum Palace Hotel, quello con la torre panoramica, Nan Myint Tower, che è uno scempio per questa zona, ma è anche un’alternativa per chi non se la sente di prendere la mongolfiera. In hotel facciamo colazione e poi ripartiamo in esplorazione: prima tappa, il mercato locale, con i suoi colori, le sue bancarelle di frutta, verdura e le montagne di stoffe per confezionare i longy. Sulla strada principale, contrattiamo, ma neanche più di tanto, con due ragazzi che guidano dei risciò a motore, per portarci in giro tutto il giorno (20.000 MMK per tre persone). La guida del giorno precedente, ci aveva lasciato una lista di templi da non perdere, così decidiamo di seguire i suoi consigli e di farci consigliare anche da uno dei due ragazzi che guidano, che parla abbastanza bene inglese. Iniziamo con il Gubyaukgyi, un tempio non lontano dall’hotel, che conserva all’interno dipinti con colori ancora vivi e begli stucchi all’esterno. Consiglio di portarvi una torcia, perché l’interno è poco illuminato. Proseguiamo sempre sulla strada principale verso Old Bagan, recintata da forti mura. La attraversiamo fino alla riva del fiume Ayeyarwady, dove sorge il Bu Paya, uno stupa, tutto d’oro, forse il più antico di Bagan, se non fosse stato ricostruito in seguito al terremoto del 1975. Davanti a questo stupa dalla forma inconfondibile di “supposta”, si trova la Mahabodhi paya, con le sue nicchie, che ha come modello un tempio indiano.
Ritorniamo sui nostri passi e riavvicinandoci alle mura, troviamo prima lo Shwegugyi, una versione in piccolo dell’Ananda Pahto, con begli stucchi e un Buddha in teak, e poco dopo il Mimalaung Kyaung, con all’entrata due cinthe (divinità tra il leone e il grifone) e una biblioteca per custodire i tripitaka, le scritture classiche buddhiste. Il panorama è molto bello ed è consigliato anche per vedere il tramonto. Fuori dal tempio, oltre a diverse bancarelle di souvenir, c’è una venditrice di cocco fresco, che lo apre e mette il contenuto di succo e polpa in un sacchetto con cannuccia, come avevo visto fare anche in Sudamerica. Sulle nostre motorette a risciò, percorrendo le strade sterrate, vediamo da lontano il Thatbyinnyu temple, il più alto, su due livelli. Ci fermiamo a visitarlo, quindi proseguiamo verso il cuore di Bagan, dove si trova il Sulamani, uno dei più belli, con cinque porte, noto anche per gli affreschi e gli stucchi, che qui si possono fotografare. Ripassiamo dal Minnathu Village, visitato il giorno precedente, dove i due ragazzotti chiedono di potersi fermare a mangiare, sperando di guadagnare qualcosa anche dai nostri pasti, ma quando siamo in viaggio, noi raramente mangiamo a mezzogiorno. Poco lontano c’è un prato pieno di piccoli tempietti e in attesa che i due si rifocillino, facciamo due passi tra l’erba alta. Su consiglio dei nostri “piloti”, ci fermiamo prima al Laimyethna Pahto, un tempio bianco, perché dipinto con calce, poi al Payathonzu, un tempio composto da tre santuari collegati, con bei dipinti di ispirazione tibetana, ma anche con influenze indù, quindi al Tayok Pyi Paya, dove gli stucchi sono degni di nota e infine davanti al Tham Bula Pahto, che troviamo chiuso, ma che non nasconde un passato di grandezza, nonostante sia in pessime condizioni. Ci fermiamo anche al Narathihapate Paya, maestoso, ma non menzionato sulla nostra guida. Su mia richiesta ci fermiamo a una fabbrica d lacche, la Mya Thit Sar Lacquerware Work Shop, dove ci spiegano il processo di stesura degli strati di lacca, da 8 a 16, su oggetti di legno, bambù o addirittura di crine di cavallo, questa lavorazione li rende impermeabili, flessibili e molto resistenti. La lacca è ottenuta dalla polpa di un legno delle montagne, con aggiunta di resina. Alla fine della visita, dopo aver visto come a ogni passaggio la superficie viene levigata e posta ad asciugare in speciali cantine, vediamo che la decorazione avviene graffiando la superficie con un ago. Alla fine della presentazione c’è un negozio con tutti questi manufatti, che costituiscono una delle principali produzioni di Bagan. Forse i due fanciulli sono stanchi di scarrozzarci, perché cercano in tutti i modi di non andare alla Dhammayazika, dove abbiamo intenzione di vedere il tramonto, perché ci si allontana rispetto al nostro hotel, dove siamo d’accordo che ci riporteranno. Vinciamo noi, forse perché non li abbiamo ancora pagati. S’infilano in viette improponibili, ricoperte di sabbia e finalmente arrivano al tempio, con la sua campana dorata. Ci sono tante persone venute qui con il nostro stesso scopo, ma riusciamo comunque a vedere bene il tramonto. Attenzione a rimanere di sera, perché è infestata dai fantasmi! Cena da Sanon (sanon-restaurant.org), un ristorante concepito per insegnare a ragazzi disagiati un lavoro e imparare l’inglese; mangiamo bene, ma se non fosse che è a scopo benefico, non lo avremmo scelto, perché il conto è caro (8900 MMK).
04/11
Forse anche Marco Polo aveva lasciato Bagan a malincuore, con la sensazione di aver visto solo una millesima parte di quello che poteva offrire; su tutti prevarrà il dubbio, se era il caso di visitare anche il Bagan Golden Palace, che si trova anch’esso all’interno delle mura di Old Bagan. Partiamo per il Chin State alle ore 8 e verso le 9.30, ci fermiamo al mercato di Chauk. E’ un mercato locale, praticamente senza traccia di souvenirs per turisti, ma proprio per questo troviamo tanto da riportare a casa con noi: stoffe, tovagliette di bambù, braccialetti e collane. Una ragazzina mi vende “Burmese days” di Orwell e mi spalma il viso di thanakha, una crema che funge da tonico e da protezione solare, di colore giallo, quasi di argilla dorata che tutte le donne birmane e i bambini portano sul viso da mattina a sera. Facciamo rifornimento di acqua e banane (le bottigliette da mezzo litro costano al massimo 500 MKK e un casco 1000 MMK). Per contrattare meglio portate con voi rossetti o smalti anche usati, farete contente le venditrici che consentiranno ad applicare sconti maggiori. Risaliamo a bordo e attraversiamo la zona rurale di Saw, breve tappa bagno dal benzinaio, per poi arrivare, dopo circa due ore e mezzo, a un villaggio, dove vediamo la nostra prima tatoo woman. La mia prima impressione non è buona. L’autista bussa a una casa ed esce una vecchina di 91 anni, che scende a fatica dalla scaletta della sua casa a palafitta e si mette in posa per le foto. Mi sembra di essere allo zoo e fotografare gli animali in gabbia, non c’è naturalezza in quest’incontro, il turismo ha già contaminato irreversibilmente la zona e ne ha fatta una farsa. Sono le 13 e facciamo due passi nel villaggio e vediamo un’altra donna e già l’incontro sembra più casuale, rispetto al primo; anche questa donna ha il volto completamente ricoperto dal tatuaggio, senza alcun disegno o pattern. La tradizione delle tatoo women nasce per imbruttirsi e rendersi quindi meno attraenti per gli uomini delle tribù avversarie, nel caso di rapimento nel caso di sconfitta. Oggi questa pratica è vietata per legge. Dopo un breve tragitto in bus, intorno alle 14.30, attraversiamo una sorta di dogana per il Chin State; ci fermiamo 10 minuti davanti ad un tempio nel primo paese che incontriamo e attendiamo la guida locale (Tam Best), che è obbligatoria per visitare questa zona. Conosciuta la guida che ci porta in un altro villaggio, i bambini ci corrono incontro e ci guardano con curiosità; una famiglia ci fa segno di entrare in casa loro; è una visita organizzata e ci fanno sedere sul balcone in bambù della loro palafitta. Siamo un po’ titubanti, perché temiamo che il bambù non ci regga. Notiamo subito che i tatuaggi delle donne hanno un disegno diverso, sono a pois. La più anziana si esibisce suonando il flauto, in una maniera molto originale… con il naso! Poi suona anche un’armonica di bambù accennando qualche passo di danza (donazione 10.000 MMK). La nostra visita nel secondo villaggio è durata circa un’ora, ma dobbiamo rimetterci in moto, dato che l’hotel è a due ore di distanza. Arriviamo al Win Unity Hotel, Natmataung Chin State – Myoma 2 Quaeter No 118 a Kanpetlet; il personale è gentilissimo, la colazione è buona e la camera spaziosa con un bel bagno, ma con odore di umido e muffa, inevitabile in questa zona umida, in mezzo alla foresta (58 USD). Siamo in mezzo alla foresta, lontano da tutto e pioviggina, decidiamo quindi di cenare direttamente al Win Unity Hotel (11700 MMK), caro rispetto alla media, ma abbiamo cenato ottimamente, con piatti a base di verdura, pollo, riso e noodles.
5/11
Partiamo alle 8,30 alla volta del Mount Victoria, il cui campo base non è lontano dall’hotel (entrata Natmataung National Park 10.000 MMK). La guida ci dice che per arrivare in cima, ci vuole un’ora, mentre l’agenzia mi aveva detto 2 ore, in realtà ci metteremo più di due e mezza. Inoltre, l’agenzia mi aveva detto che era un “light tracking”, in realtà non lo è, non è certo difficilissimo, ma dato che avevamo con noi una persona cardiopatica, che dopo 5 minuti ha dovuto abbandonare, e una asmatica che ha avuto serie difficoltà, forse era il caso di dare risposte più aderenti alla realtà. Solo al ritorno abbiamo scoperto che si poteva percorrere anche con moto con autista noleggiate per 10.000 MMK. Fate conto che si parte da 2400 m e con un dislivello di 600 metri si raggiungono i 3053 m. La guida si ferma per una prima tappa a mostrarci la pianta di yem, da cui si ricava una sorta di carne artificiale. Durante la seconda guerra mondiale, i giapponesi, che lottavano in queste zone, ne mangiarono e morirono, perché non sapevano che andava cotta 5 volte in acqua e sbucciata con guanti, perché altamente urticante e velenosa. Ci viene raccontato anche che il Chin State è in prevalenza cristiana, infatti, vedremo più chiese che templi. Consiglio di venire in questa zona in maggio, quando fioriscono i rododendri: deve essere bellissimo, dato che fino a 3000 m, i crinali sono ricoperti da diverse specie di queste piante. In novembre però non ci ha entusiasmato, in quanto il paesaggio è carino, ma non imperdibile, e non si incontrano le popolazioni locali. In cima comunque c’è la statua di un Buddha. Arriviamo in cima alle 12 e ci fermiamo una mezz’ora per una pausa ristoro, quindi scendiamo. Arriviamo dalle 14 dove sono parcheggiate le nostre auto, dopo aver percorso 13 km e qui vediamo alcuni ragazzi giocare a chinlone con una palla di rattan, che si può colpire con mani e piedi e che si trova in vendita in tutti i mercati. Proseguiamo la nostra visita in altri villaggi, dove vivono le tatoo women. Nel primo vediamo una vecchietta, che poco dopo essere stata fatta uscire dalla sua casa, ci chiede di poter rientrare, perché sente freddo. Credo che questo sia stato il momento peggiore della mia vita da viaggiatrice, costringere un’anziana signora a lasciare il tepore della propria casa per il nostro egoistico bisogno di vedere etnie diverse dalla nostra, mi ha sinceramente fatta vergognare di me stessa. Il villaggio sarà il più bello visitato, perché forse più vero, con le sue anziane donne che girano con la pipa in bocca, le più giovani con il marsupio sulle spalle con il proprio bambino addormentato e bellissimi cuccioli di cane ovunque (donazione 15.000 MMK).
La guida ci spiega che dal 2012, anno di apertura della zona al turismo, al 2017 sono stati tanti i turisti arrivati in queste zone, ma adesso, a causa della cattiva informazione, pochi sono quelli che arrivano fin qui, perché hanno paura degli scontri tra Banglalesh e India, che non interessano il Chin State, ma sono particolarmente vicini.
La guida ci dice inoltre che il Chin State è la zona più fredda del Myanmar, tanto che alcuni dei miei compagni di viaggio, alla sera indossavano il piumino.
Torniamo al Win Unity Hotel per la cena e la notte e proviamo oltre ai tipici piatti che ormai conosciamo bene, anche la carne di mython, una specie di bisonte (15.400 MMK).
06/11
Partiamo alle ore 8.30, ma il proprietario dell’albergo prima di congedarsi da noi, ci fa una foto ricordo.
Lo stesso proprietario mi ha chiesto più volte la mia felpa, ma dato che per me i regali sono sacri, mi rifiuto di dargliela, dato che mi è stata portata da New York da alcuni amici.
Ci fermiamo subito con i nostri Grand Cabin G in un villaggio, dove i tatuaggi sono composti da piccoli cerchi e semicerchi. Sbirciamo dalle finestre all’interno di una scuola: i bambini imparano cantando a squarciagola in piedi sulle panche… le maestre devono avere l’indennità usura timpani!
Ci rimettiamo in moto intorno alle 9.30 e la nostra prossima tappa dista 4 ½/5 ore. Intorno alle 11.30, ci fermiamo per ammirare un paesaggio spettacolare, su una delle vallate che stiamo attraversando, il tutto incorniciato da alberi di teak e mucche al pascolo, e ne approfittiamo per un pipì stop nella natura.
Poco dopo essere risaliti, buchiamo e gli autisti provvedono velocemente a mettere la ruota di scorta. Per poter riparare la gomma, ci portano però prima in hotel (ore 12.10h), così riescono ad andare dal gommista mentre facciamo il check-in al Mountain Oasis Hotel di Mindat, camere in bungalows con terrazzino e magnifiche tende con Winny the Pooh, il bagno è vecchiotto e non c’è acqua calda per tutti, colazione buona, ma non a buffet (80 USD). Sconsigliatissimo agli aracnofobici come me, ci sono ragni ovunque e spessissime ragnatele … guardare a terra aiuta!
Ripartiamo alle 13. La strada è sterrata e serpeggia lungo un burrone, senza guardrail… non ci sentiamo molto al sicuro, ma gli autisti sono esperti.
Il primo villaggio che visitiamo è un mix di tatuaggi, alcune hanno delle righe e dei puntini, altre i cerchietti. Ci fermiamo in un cimitero molto particolare con delle rocce fitte fitte che mi ricordavano Stonehenge in miniatura, all’altezza del ginocchio. Qui vediamo anche diversi maiali liberi, ma sono molto più piccoli dei nostri e tutti neri.
La guida ci fa notare dei grossi rami a forma di fionda con appesi dei teschi di mython, che mostrano la bravura come cacciatori della famiglia che li espone fuori dalla propria casa (donazione 5000 MMK).
Il villaggio sembra meno abituato ai turisti e ci fermiamo a vedere i bambini che escono da scuola, alcuni più audaci si avvicinano e ci salutano, altri più timidi scappano al nostro saluto. Lasciamo anche qui delle penne alla maestra, in modo che possa distribuirle, come meglio crede. In ogni casa, anche il giorno precedente avevamo lasciato anche sapone e tutti i kit di benvenuto che trovavamo nei bagni degli hotel.
Una scena simpaticissima è stata la donazione di spazzolino e dentifricio a una tatoo woman completamente sdentata, che ci ha fatto capire che apprezzava il regalo, ma l’avrebbe dato al nipote!
Al ritorno dal villaggio ritiriamo la gomma lasciata a riparare dal gommista di Mindat e ci fermiamo presso una scuola superiore, dove i ragazzi vivono come in collegio, per 400 dollari l’anno. Osserviamo dalle finestre una lezione e nell’aula ci sono almeno 120 alunni. Davanti alla scuola, c’è la residenza della fondatrice, con la madre che ci mostra con orgoglio i grandi orecchini infilati all’interno dei lobi. Quando ne toglie uno, il lobo si presenta ciondolante con un buco di almeno 7 cm di lunghezza… impressionante.
Ultima tappa della giornata è il museo etnico (2000 MMK), dove ci vengono mostrati reperti, resti animali e abiti tipici di queste aree. Salutiamo quindi la nostra guida (mancia 15.000 MMK).
Ceniamo sulla strada principale a poca distanza dall’hotel Mount Oasis (7000 MMK) in un locale con una grande scritta in verde Dagon Beverage. Non c’è molta scelta a Mindat, ma a regola abbiamo mangiato bene.
07/11
Partiamo alle 8.30 e questa giornata sarà di trasferimento, via Kyaukhtu e Pauk per arrivare a Bagan e poi proseguire verso Mandalay. Perciò ci attrezziamo con il tablet e ci guardiamo un bel film, mettendolo in pausa ogni qualvolta attraversavamo vallate verdi con palme, zone rurali con aratri ancora trainati da buoi e greggi di caprette.
Per sgranchirci le gambe, ci fermiamo per una mezz’ora a un mercatino locale e ripartiamo verso le 12.
Alle 13.30 attraversiamo il lunghissimo ponte di Pakokku sul fiume Irrawaddy (scritto anche Ayeyarwaddy), vicino a Bagan… ben 3,4 km!
Alle 13.45 arriviamo a Bagan, lasciamo i nostri Gran Cabin (mancia autista 15.000 MMK), trasferiamo i bagagli sul bus e ci dirigiamo verso Mandalay, dove arriviamo alle 18 al Royal Yadanarbon Hotel No.36, 89 Road, Between 22nd & 23rd Street – Mandalay (11,70 USD). Il mio lenzuolo è sporco, ma me lo cambiano subito. La stanza è un po’ piccola, ma con tutto il necessario anche per farsi un caffè, in compenso il bagno è spazioso, Ogni piano ha la propria terrazza, dove con gli altri ci troviamo per il post cena a bere qualcosa preso al supermarket proprio dietro all’angolo.
Siamo a circa 700 km da Yangon e il nostro viaggio è quasi terminato, ma sentiamo già aria di casa quando alla reception conosciamo un ragazzo italiano che sta facendo uno stage, che ci consiglia di andare a cena da Golden Shan, un “all you can eat” a buffet, dove abbiamo mangiato benissimo, anche se l’ambiente era piuttosto basic (fisso 5000 MMK + bevande).
08/11
Oggi ci aspetta la visita di Mingun (5000 MMK), quindi partiamo con il bus alle 8.00. L’imbarcadero non è lontano dal parco acquatico: che effetto vedere le tende, dove vivono persone poverissime, davanti a una sorta di Aquafun con piscine e scivoli.
Alle 8.30 siamo già sulla barca che ci permetterà di attraversare il fiume, ma salire sulla stessa è stata una piccola impresa; infatti, sulla riva era appoggiata un asse di alcuni metri che finiva sul parapetto di una bagnarola e noi come equilibristi l’abbiamo percorsa, titubanti perché potevamo cadere in acqua e perché era veramente in pessime condizioni, così come la barca su cui ci trovavamo. In realtà la nostra era dietro a quella su cui siamo saliti, quindi su un’altra asse abbiamo fatto una seconda attraversata di pochi passi per raggiungere la nostra barca, non perfetta, ma sicuramente in migliori condizioni.
Una volta a bordo, qualcuno decide di dormicchiare sulle sdraio sul molo, altri fotografano ogni angolo di vita quotidiana del fiume e altri semplicemente chiacchierano prendendo il sole e facendosi dondolare dolcemente per tutta l’attraversata. Alle 9.40 arriviamo a Mingun.
Appena arrivati, veniamo assaliti, per la prima volta, da donne locali che ci vogliono vendere i propri manufatti, ma sono troppo insistenti. Le dribbliamo e approfittiamo delle toilettes, prima di iniziare la nostra visita. La prima cosa che vediamo sono le rovine di un cinthe enorme, di cui rimangono solo le anche.
Prima di accedere alla Pahtodawgyi Pagoda, dobbiamo pagare il biglietto cumulativo (5000 MKK) che ci permetterà di visitare anche Sagaing. Questo stupa buddhista del XIII sec. doveva diventare la pagoda più grande dell’intera Birmania, ma rimase incompiuta. A destra dell’entrata c’è una scalinata a fondo cieco che permette di vedere Mingun dall’alto, mentre sulla sinistra si vedono chiaramente delle profonde crepe causate dal terremoto. Tenete presente che quello che vedrete è solo un terzo di quello che doveva essere e guardarlo dal retro lo fa sembrare ancora più imponente.
Attraversando dei giardinetti a destra della pagoda, incontriamo l’edificio che custodisce la Mingun bell, fatta fondere sempre dal re Bodawpaya, che come abbiamo già capito, aveva manie di grandezza: 4 m di altezza e un diametro di 5 m, per 90 tonnellate. Un consiglio? Carponi passate sotto e aspettate che qualcuno da fuori la suoni.
Proseguendo sulla stessa strada che unisce la pagoda alla campana, troviamo anche la Hsinbyume Paya, una delle pagode che più mi ha colpito. Bianchissima, forse perchè sullo sfondo c’era un cielo azzurrissimo. Composta da sette terrazze che rappresentano le sette catene montuose intorno al mitico monte Meru, sacro ai buddhisti. Salendo, si possono vedere tanti mini tempietti e una vista a tutto campo della Pahtodawgyi Pagoda.
Ritorniamo sui nostri passi, sulla stessa strada, soffermandoci però alle varie bancarelle, qualcuno compra dei cappelli in paglia, altri frutta mista già sbucciata, io personalmente ho comprato anche dei righelli dipinti a mano, un regalo utile per i piccolini che vanno ancora a scuola.
Alle 12 riprendiamo il traghetto, sempre attraversando su delle assi e arriviamo alle 12.30 al bus, che ci riporta a Mandalay. Prima fermata alla Shwe In Bin Kyaung, questa pagoda tutta in teak, è un po’ isolata rispetto al centro di Mandalay, ma questo la rende un posto molto tranquillo, dove meditare. La costruzione si appoggia su decine di pilastri e guardandola da sotto sembra una palafitta (entrata gratis).
Avevo letto che il Jade Market era molto interessante, così convinco tutti a fare una sosta anche qui. L’entrata costa 2000 MKK. Subito si vede chi contratta i prezzi dei gioielli, delle statue, etc. parlano tutti con il cellulare in funzione video e sembrano mostrare a distanza i pezzi che devono valutare. Gironzolando nel mercato vediamo chi taglia, lima, fresa e liscia i pezzi grezzi; ci sono anche dei negozietti per comprare gli ultimi souvenirs. Alla fine tutti sono stati contenti di questa visita inattesa.
Andiamo quindi verso il centro, al Mandalay Palace, dove paghiamo il biglietto cumulativo per visitare i monumenti principali di Mandalay (10.000 MMK), lasciamo come cauzione un passaporto, in cambio di un pass per l’intero bus, solo dopo questa procedura possiamo accedere al palazzo. Tutto è perfettamente ricostruito in legno e filigrana dorata, dato che nulla è sopravvissuto a incendi e terremoti. Salire sulla torre di guardia è indispensabile, perché solo così si può capire la vastità e bellezza del luogo.
Proseguiamo visitando le pagode che si trovano tra il palazzo reale e la Mandalay Hill. Il primo è lo Shwenandaw Kyaung, un monastero interamente costruito in teak, tutto intarsiato e con numerosi bassorilievi. Proseguiamo verso la Kuthodaw paya, conosciuta come il libro più grande al mondo, in quanto custodisce 729 lastre di marmo con il testo dei tripitaka, protette in piccoli stupa.
Poco lontano la Sandamuni paya, fatta di tantissimi stupa, una sorta di Kakku in miniatura, che custodisce altre 1774 lastre di marmo.
I continui ritardi accumulati durante la giornata a causa delle persone meno puntuali, ci fanno arrivare alla Mandalay Hill in ritardo sulla tabella di marcia, per questo facciamo fatica a trovare i grandi tuk tuk con panche per trasportare i pellegrini (15.000 MMK x 10 persone), che ci portano al parcheggio da cui parte l’ascensore (1000 MKK). Arriviamo in vetta che il tramonto è già iniziato e la vista è a 360° sulla vallata che ospita Mandalay. Volendo in mezz’ora si potrebbe salire a piedi. Ci perdiamo a gironzolare fra i vari tempietti e bancarelle e non manchiamo di fare tappa al bagno, che come sempre è presente nei templi maggiori.
Facendoci consigliare dalla Lonely Planet, andiamo alla ricerca per cena del ristorante Lashio Lay, un posto non proprio invitante, scelta a buffet, dove tutti mangiano bene, tranne me, che credo di aver scelto il piatto sbagliato (4.000 MMK).
Dopo questa lunga giornata, torniamo al Royal Yadanarbon Hotel.
09/11
Anche l’ultima giornata sarà fitta d’impegni. Perciò alle 8 siamo già sul bus e visitiamo subito la Mahamuni Paya di Mandalay (1000 MKK). Prima di entrare, a tutti gli uomini viene messo il longy, dato che i pantaloncini sono considerati troppo corti. Questa pagoda custodisce un Buddha seduto di 2000 anni, alto 4 m e ricoperto da 15 cm di foglia oro applicata dai fedeli. Quest’usanza, preclusa alle donne, ne ha deturpato le fattezze, ad eccezione del viso su cui non può essere applicata. Dopo circa mezz’ora raggiungiamo Amarapura, la città dell’immortalità. In lontananza vediamo il famoso U-Bein Bridge, che rivedremo al tramonto. Entriamo alle 9.45 al Maha Ganayon Kyaung, un grande monastero che visitiamo e lasciamo intorno alle ore 10.30, dopo aver visto servire il pasto a centinaia di monaci, che pazientemente si mettono in coda con la propria gamella. Arriviamo alle 11.10, all’attracco, dove prendiamo una barchetta (1500 MKK) sul fiume Irrawaddy per raggiungere Inwa in 10 minuti (la troverete scritta anche Ava), che è ora un’isola, da quando è stato scavato il canale Myittha Chaung. Arrivati, ci viene mostrato un cartello con il prezzo dei calessi (10.000 MMK x 2 persone), che vengono utilizzati per fare un giro prestabilito e circolare, che copre tutte le tappe più interessanti. L’alternativa è andare a piedi. La prima tappa è il Bagaya Kyaung, monastero tutto in tek, poggiato su 267 pali, di cui il più grande raggiunge 3 m di circonferenza. Attenzione dove camminate, perché alcuni chiodi sporgono. Ci fermiamo poi allo Yadanasimi con i suoi tre Buddha e gli stupa in mattoni, per poi proseguire verso il Maha Aungmye Bonzan, un grande monastero in mattoni, ricoperto di stucchi, dove abitano oltre a monaci anche molti pipistrelli. Ci rendiamo conto che ormai i nostri piedi sono abituati a camminare nudi e a non essere immediatamente puliti, come invece facevamo all’inizio. Ci attardiamo un po’ in questo monastero e il nostro cocchiere è un po’ spazientito, dato che vorrebbe terminare presto la corsa per prendere altri clienti. Alle 13.15 riprendiamo la barchetta e arriviamo al bus che ci porta a Sagaing, che raggiungiamo alle 13.35. L’autista del bus ci fa capire che dobbiamo scendere, perché il bus è troppo grande per salire e che dobbiamo prendere dei pick up (18.000 MMK x 8 persone) per continuare verso il Soon U Pon Nya Shin Paya sulla Sagaing Hill. Non capiamo bene il perché, ma i pick up si fermano a un museo, per poi ripartire. Arrivati al monastero, vediamo all’interno i contenitori per le elemosine a forma di grosse rane, tutte diverse una dall’altra e sulle colonne sono disegnati dei cobra. Fuori invece volano miriadi di farfalle e libellule, mai viste tante libellule tutte insieme!
Scendendo dalla collina, ci fermiamo al Tilawkaguru Monastery, che chiamano anche grotte, forse perché si scende verso stanze buie, tutte decorate con dipinti rupestri. Anche qui è meglio avere delle torce con sé. Spesso quando si cercano notizie sulla Birmania, le foto che propongono sono quelle dei pescatori del lago Inle, quelle di Bagan e quelle dell’U-Bein Bridge, quindi credo che finire il nostro viaggio con quest’ultimo, sia stata una scelta perfetta e di incredibile bellezza. Lasciamo i pick up e riprendiamo il bus che ci porta all’U-Bein Bridge alle 15.50. Avevo letto che data la grande richiesta per le barche, da cui si può vedere il tramonto, è meglio prenotarle il prima possibile e così abbiamo fatto proprio sulla spiaggia a ridosso del ponte (15.000 MMK x 4 persone). Vedendo poi quante barchette c’erano nel Taungthaman Lake al tramonto, ho pensato che era stata una fortuna aver letto questo consiglio. Per percorrere andata e ritorno il ponte, a passo sostenuto, ci vuole circa un’ora. Così prima dell’appuntamento alla barca delle 16.45, facciamo in tempo a percorrerlo e goderci la vita che transita da qui: i monaci che provengono dal monastero visto la mattina stessa, i bambini che tornano da scuola, le coppiette che cercano un posticino romantico e naturalmente la miriade di turisti provenienti da tutto il mondo. Sotto vediamo in alcuni punti acqua e in altri orti, che nella stagione delle piogge verranno completamente sommersi. Arriviamo puntuali all’appuntamento all’imbarcadero, ci sono alcune barche su cui offrono anche champagne, ma la nostra è per Turisti per Caso e quindi ci accontentiamo felicissimi di ricevere un fiore dal nostro “gondoliere”, che si ferma nei punti perfetti per scattare foto da incorniciare. Ci fermiamo poi in fila con tutte le altre barche a goderci il tramonto… il nero del ponte di teak più vecchio al mondo, con i suoi 1200 m di lunghezza, contrasta con il rosso del tramonto sullo sfondo. Dopo circa un’oretta di barca, rientriamo e ci fermiamo alle numerose bancarelle per gli ultimissimi regali e rientriamo sempre al Royal Yadanarbon hotel alle 18.30. Rientrati in hotel, conosciamo padre John, con il quale volevamo cenare, ma che colpito da un grave lutto famigliare, ci ha tenuto a venirci a ringraziare, ma non era dell’umore di fermarsi a festeggiare. L’ultima sera ci siamo voluti trattare bene, quindi andiamo a cena in taxi al Mingalabar, rd 71st, bet 28 st and 29 st (12.100 MMK), dove ci troveremo molto bene e proveremo i soliti piatti, presentati però in maniera più carina e con ingredienti diversi e piatti nuovi come l’insalata di foglie di tè (Lahpet Thoke) di cui avevo letto e la Mohinga, la tipica zuppa di noodles in brodo di pesce. Rientriamo in taxi (myolaymm.mdy@gmail.com, taxi service 5000 MMK x 4 persone).
10/11
Partiamo alle 8.30 per l’aeroporto di Mandalay, che ora non si trova più in città, ma a 30 km dal centro, che si coprono in circa un’ora. Salutiamo il nostro autista con l’aiutante (mancia 10.000+5000 MMK). Il nostro volo Thai Air Asia parte in orario alle 12.55 per Bangkok-Don Mueang, qui dobbiamo prendere però la navetta che ci porta in un’ora all’aeroporto di Bangkok-Suvarnabhumi. Questo passaggio mi metteva un po’ di ansia prima della partenza, ma in realtà, dopo aver ritirato le valigie, abbiamo chiesto in aeroporto e ci hanno indicato i cartelli in azzurro da seguire verso lo shuttle. Prima di salire però, ancora all’interno delle porte (uscita 6), c’è un banchetto dove va presentato il biglietto e il passaporto, in cambio fanno un timbro sulla mano che l’autista della navetta pretende di vedere, prima di far salire a bordo le persone. Arrivati a Bangkok-Suvarnabhumi, facciamo il check-in dei bagagli e prendiamo alle 20.20 la Qatar Airways fino a Doha, dove arriveremo alle 23.59, per poi ripartire alla 01.35 verso Milano Malpensa, dove atterreremo in perfetto orario alle 6.25, con un bagaglio oversize di ricordi in più.
Se ci ripenso ora, negli occhi ho ancora l’oro dei templi, il rosso dei tramonti, l’azzurro del cielo e il bianco dei sorrisi della gente di questi luoghi, sempre cortese e gentile e curiosa quanto noi, di avere un contatto con una cultura diversa.