Cambogia & Myanmar

Oriente per niente estremo
Scritto da: maurizio3
cambogia & myanmar
Partenza il: 19/02/2016
Ritorno il: 29/02/2016
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
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19 febbraio 2016

Il volo Milano-Singapore, che abbiamo preso il 18 febbraio alle ore 11, raggiunge Singapore dopo un volo di circa 12 ore, dove aspetteremo per un paio d’ore la coincidenza per Siem Reap. Sempre buio purtroppo: si percepisce una costa frastagliata, un susseguirsi di isole e isolette (Sumatra e altre più piccole): luci acqua, ponti. Tante navi nella rada, che ci sfilano sotto mentre atterriamo.

L’aeroporto di Singapore è immenso e modernissimo, con una serie di attrazioni come il giardino delle farfalle (che vediamo dormire tra le fronde della vegetazione), il giardino delle orchidee, il giardino incantato.

Nuovo volo verso Siem Reap. Dapprima maltempo e foschia, poi il cielo si apre e il sole ci accompagna lungo la risalita sul mare, fino alla distesa pianeggiante della Cambogia.

Motorini (spesso con tre-quattro persone, bimbi compresi), tuk tuk, barettini improvvisati sulla strada, palme, tempietti, baracche, hotel.

Angkor è imponente. Enorme. Decine di siti, tra la giungla e i corsi d’acqua paludosi. Ai tempi degli khmer erano grandi città, templi, sedi di università. Le mura dei diversi edifici, sebbene in molti punti crollate, riportano ancora le fitte decorazioni; numerose le statue e i bassorilievi. Pietre scure, coperture come cupole rudimentali, un susseguirsi di porte. Spesso gli alberi si sono insinuati tra gli edifici, avvolgendoli con le loro radici e le liane. Cani, polli, bambini e donne che vendono di tutto per due o tre dollari (bibite, abiti coloratissimi, frutta tropicale). E musicisti che intonano nenie rituali con strumenti di fortuna.

Il nostro hotel (apsara residence) è molto vicino al fiume e alla zona della movida locale: l’old market, il night market, pub street. Gran via vai di gente, tuk tuk, bancarelle, negozi, ristoranti. Stoffe colorate (grande varietà di colori ma più o meno sempre le stesse cose), frutta, piccoli oggetti; ma anche caratteristici banchini che vendono cibo cotto in strada, tra cui insetti e piccoli serpenti; molti i wellness center, e almeno un paio di esercizi all’aperto dove i clienti possono, mettendo le gambe in grosse vasche piene di pesci, farsi massaggiare i piedi.

Assaggiamo cibo khmer in un bel ristorante: molluschi, pollo, rane ripiene. Tutto leggermente agrodolce, l’aroma di citronella è un po’ ovunque, insistente e pervasivo. Buoni i dolci e la frutta.

20 febbraio 2016

Cominciamo il nostro grand tour da Angkor Wat. Un complesso enorme, ben tenuto, circondato da un fossato amplissimo e coronato da tre alte torri centrali; una prima cerchia di mura e gallerie (in una delle quali assistiamo ad una preghiera rituale presso una statua di Vishnu) racchiude un ampio parco, con stagni e piccole costruzioni, e da un lato le immancabili bancarelle dietro le quali vi è un moderno luogo di culto buddista. La strada lastricata per arrivare al secondo cerchio è lunga e assolata, colma di turisti. Il secondo cerchio (o meglio rettangolo) è come il precedente, impreziosito da intarsi e bassorilievi raffiguranti sinuose apsara (ninfe celesti). Quest’area non era un tempo accessibile se non agli eletti, e dava su cortili e vasche. Infine l’ultimo cerchio, sopraelevato, da cui parte l’accesso alla torre centrale. Tornando indietro ripercorriamo tutto il terzo cerchio in senso antiorario per poter ammirare enormi e straordinari bassorilievi: battaglie terrestri e celesti, rappresentazioni di paradiso e inferno che tanto ricordano mutatis mutandi il poema dantesco.

Tappa successiva il Bayon, nella città di Angkor Thom. Bellissimo. Una miriade di torri, un intrico di gallerie interne su piani sfalsati, porte, stanzine con piccole statue di Buddha, architravi e colonne. Su ciascuna torre è scolpito un grande volto sorridente, sempre lo stesso; che a volte sbuca, di fronte o di profilo, da un’apertura.

Infine il Ta Prohm. Straordinario. Artisticamente diroccato, perché la giungla ha ripreso il posto che l’uomo a suo tempo le aveva rubato. Enormi piante dalle radici sinuose avvolgono le mura cadenti e gli edifici pericolanti del complesso, creando un effetto assai singolare.

La giornata è calda e afosa e noi siamo stanchi, del resto la visita è stata molto lunga. Torniamo in hotel per una doccia, e poi ci rechiamo ad un centro massaggi per un po’ di piacevole relax. Terminiamo la giornata con un’altra visita al mercato locale e poi cena a buffet in albergo.

21 febbraio 2016

L’aereo lascia la Cambogia, piatta sotto di noi, solcata da pochi fiumi sinuosi e avvolta da una cappa di foschia. Dopo un breve volo atterriamo a Bangkok: sotto di noi la Thailandia appare verde, molto urbanizzata, piena di corsi e specchi d’acqua. Come la Cambogia è piatta e densa di foschia, ma qui le rare case basse lasciano il posto ad industrie e alti palazzi. La sosta è breve, si riparte subito sempre con Bangkok Airways, ma stavolta non ci viene proiettato il kitschissimo video di saluto. Il cielo è nuvoloso per cui non si vede nulla fino quasi all’atterraggio: pianure abbellite da colline verdi, in lontananza montagne. Piccoli appezzamenti di terreno irregolari, mentre in Cambogia erano grandi e squadrati. Domina il verde e non il secco. Un fiume sinuoso accarezza la pianura e si getta in un fiume enorme, dalle vaste sponde sabbiose, attraversato da due ponti in acciaio di foggia abbastanza moderna non lontani tra loro. La sabbia, in questa stagione secca, firma qua e là degli isolotti. La campagna sembra deserta, solo pagode dorate qua e là, alcune piccole talune molto grandi. Alcuni agglomerati di baracche tra gli stagni non lontani dal fiume, rare strade bianche e una grande superstrada diritta ma dal fondo irregolare che solca il paesaggio.

Atterriamo. I birmani sono più scuri dei cambogiani e parlano una lingua meno cantilenante. La loro scrittura è più tonda, sebbene anche questa indecifrabile. Molti uomini indossano una specie di pareo a quadretti piccoli. Saliamo sull’auto con l’autista che è venuto a prenderci. Il posto di guida è a destra ma curiosamente anche la guida su strada. La strada che dall’aeroporto conduce alla città è diritta, non molto frequentata: rare auto, molti motorini (anche qui taluni indossano il casco altri no). Molti motocarri aperti, dotati di tettoia, carichi di persone; sul tetto recano merci e in qualche caso anche le persone stesse, che comunque spesso si vedono aggrappate all’esterno dei veicoli. Arriviamo a Mandalay. La città è preceduta da una baraccopoli, poi iniziano le case, gli hotel e gli esercizi commerciali. Edifici sgarrupati, bancarelle, donne col volto coperto di biacca gialla, monaci vestiti di stoffa cremisi, monache in stole rosa. Auto, motorini, traffico e colpi di clacson; gente seduta ai bordi della strada con cappelli di paglia, donne che portano in equilibrio sul capo cibo, pietre, carichi vari.

Veniamo accompagnati subito a visitare alcune pagode, dove occorre entrare scalzi (e non è una gioia considerate le condizioni generali di igiene). Il primo è in tek, scuro, molto intarsiato: nella zona del culto non è ammesso l’accesso alle donne! Il secondo è un tripudio di colori, sui quali domina l’oro. Ben 700 stupa circondano la pagoda d’oro principale, nella quale riposa un Buddha di grandi dimensioni circondato da doni dei fedeli e da luci coloratissime ed intermittenti. Nel grande tempio, numerosi fedeli in preghiera; donne e bambine che fermano le turiste per disegnare loro foglie d’oro sulle guance, con un unguento ricavato da cortecce d’albero: oltre alla funzione estetica, questo impasto protegge la pelle dai raggi del sole e la rende morbida.

La tappa successiva è Mandalay Hill: un tripudio di pagode di tutte le dimensioni e fogge lungo la strada tortuosa che sale sulla collina. Il tempio che la sovrasta non è dissimile dagli altri, con colori e specchi e statue del Buddha circondati da luci psichedeliche da luna park; la vista che si gode sulla città, nonostante la foschia, è molto bella, e il sole al tramonto accende di rosa le acque del grande fiume lontano. Molti monaci e monache rasati, dai visi sorridenti e distesi.

Tornando verso l’hotel circumnavighiamo il palazzo reale: una grande fortezza merlata circondata da un vasto fossato e sormontata qua e là da pagode di foggia tradizionale.

Dopo cena una breve passeggiata tra le strade intorno all’hotel fino al night market: un mercato il cui target sono i locali, data la scarsa qualità e la misera apparenza delle merci esposte, su bancarelle improvvisate e illuminate da lampade al neon. Gente che mangia per la strada cibo cucinato in grandi pentoloni di latta, cianfrusaglie, libri usati, motorini, donne anziane magre e dai denti sciupati che vendono direttamente dalle loro sporte; miseria e immondizia.

22 febbraio 2016

Si parte con la visita al mercato della giada. Un delirio di persone, bancarelle improvvisate, altre più definite; gente che mangia, gente che taglia il materiale con dei macchinari rudimentali, motorini che passano in ogni dove; blocchi di giada verde chiaro, prodotti finiti; mendicanti, monache questuanti, venditrici di cibo già cotti portato su grandi vassoi che portano in equilibrio sul capo. L’autista ci porta a visitare alcuni negozi/fabbriche di artigianato locale. Legno intarsiato, ricami tradizionali e luccicanti, marionette, scalpellini: metodi e attrezzature tradizionali, basati sul lavoro umano, come da noi un centinaio di anni fa. Nessuna protezione, fatica, perizia e dedizione. Dopodiché ci fermiamo a visitare il tempio del Buddha dalle foglie d’oro: una pagoda kitsch, ornata da un grande Buddha su cui gli uomini – solo i maschi – hanno applicato e stanno applicando lamine d’oro, mentre i numerosi fedeli sono inginocchiati a pregare. L’ingresso al tempio è accompagnato da negozietti che vendono per lo più soggetti sacri. Un grande cortile dove alcuni bambini suonano delle campane, ed un altro annesso dove vi è una ricostruzione molto grande dell’Asia.

Riprendiamo il nostro viaggio in direzione Amarapura. Lungo la strada baracche, bancarelle, polvere, cani, mucche. La benzina venduta in bottiglie di plastica. Traffico, non si capiscono le regole della circolazione, pare tutto molto confuso e casuale: precedenze, sorpassi, corsie di marcia; colpi di clacson continui per avvertire della propria presenza. Centinaia di motorini con tre/quattro passeggeri, qualcuno a capo scoperto, i più con elmetti improvvisati, anche da cantiere o militari. Visita a un monastero dove centinaia di monaci, tutti in fila, di ritorno dalla questua mattutina, attendono di entrare in refettorio, tra due ali di folla. Amarapura è famosa per i suoi coloratissimi tessuti: visitiamo una filanda artigianale dove giovani donne lavorano al telaio. Come le nostre trisavole. Ci rechiamo al fiume dove un lunghissimo ponte di legno collega le due sponde e l’isoletta centrale. Lungo le rive una partita di calcio con i giocatori in divisa ma per lo più scalzi, e bancarelle di tessuti. Ci fermiamo ad acquistare degli acquerelli e dei piccoli oggetti fatti con i semi di anguria.

Tappa successiva Sagaing, piccola città sovrastata da una collina piena di monastero, cui si può accedere facendo una lunga scalinata coperta e costeggiata da piccoli negozi di cianfrusaglie e ninnoli sacri che li collega tutti. Tra i vari templi merita sicuramente una visita quello contenente una sfilata di statue del Buddha, una accanto all’altra, entro una lunga stanza curva carica di piastrelle quasi a specchio di color verde acqua. Dalla terrazza una magnifica vista sul fiume e sulla città di Mandalay, avvolta nella foschia.

Raggiungiamo poi Ava o Inwa: per accedervi occorre fare un breve tratto in barca, essendo su una isola del grandissimo fiume. Una volta sbarcati prendiamo un piccolo calesse, che ci conduce per stradine polverose tra i campi e le risaie verdissime fino ad un tempio in tek. Qua e là tra le risaie degli stupa. Proseguiamo il giro passando vicino ai resti delle antiche mura della città imperiale, la cui presenza e testimonianza anche da alcune vasche e da una imponente scalinata sovrastata da un grande edificio bianco e severo. Tornando ci fermiamo un attimo presso la torre, lievemente inclinata perché danneggiata da un terremoto, e poi riattraversiamo il misero paesello, con il suo contrasto tra le baracche e i manifesti delle compagnie telefoniche sulle pareti di bambù.

Torniamo a Mandalay incontrando alcuni mercati di strada: colori, frutta, fiori, odore acre di cibo, polvere, donne accovacciate vicino alle ceste, autocarri carichi di gente e merci.

Ultima tappa la terrazza del river view hotel, da cui si gode un magnifico tramonto sul fiume.

23 febbraio 2016

Prima di lasciare Mandalay ci fermiamo da un artigiano a vedere la fabbricazione delle foglie d’oro, con le quali molti fedeli ricoprono il Buddha di uno dei templi visitato il giorno prima. Piccoli pezzi d’oro vengono martellati per allargarli e assottigliarli fino ad una consistenza di velo. Imbocchiamo poi l’autostrada verso sud. Non solo auto ma anche calessi e motorini; il traffico comunque scema rapidamente via via che ci allontaniamo dalla città. Lungo la strada il paesaggio ci regala la vista di qualche stagno con alcuni pescatori, di un fiume dove una piccola barca trasporta legna recuperata dal fondo del fiume stesso da una persona che vi si è immersa, mentre un’altra conduce l’imbarcazione; e poi palme, banani, piante di the, sterpaglie. Qua e là nella campagna spiccano degli stupa dorati. Palafitte, carri trainati buoi, pecore, qualche mucca bianca e magra, poche persone chine sui campi aridi con cappelli di paglia spioventi, ricoveri per animali costruiti in paglia. Mentre viaggiamo, l’autista mette un cd di musica popolare birmana: corda pizzicata e flauto. A tratti quasi western o peruviana più che orientale, ma anche simile alle nostre canzoni popolari. Rare baracche, qua e là grandi alberi spogli con fiori simili a magnolie rosse. Più a sud lievissime colline, un dolce saliscendi. Paesaggio che si fa più arido, arbusti e alberelli stenti.

Nessun autogrill, nessuna pompa di benzina sull’autostrada. Più ci si allontana da Mandalay il traffico si dirada e le auto in transito sono ora pochissime. A volte capannelli di persone sedute ai bordi della strada, forse aspettano l’autobus, sotto il sole cocente e tra la polvere.

Si esce dall’autostrada per dirigersi verso il monte Popa. Un villaggio con un mercato improvvisato lungo la strada: colori, ceste colme di frutta; autocarri carichi di persone; giovani che escono da scuola con le loro gonne verdi, sia maschi che femmine; artigianato di oggetti fatti in bambù, come stuoie, cesti, pareti delle case. E di terracotta, come orci e bracieri. Ci si avvicina al monte e il paesaggio lentamente cambia: più collinare, in lontananza quasi montagnoso. Di nuovo predomina il verde, tornano le palme, si moltiplicano i greggi al pascolo. Mount Popa, eccolo in lontananza, con la rocca aguzza sulla cui sommità si erge un monastero. Si riesce a vedere anche il percorso coperto che consente di raggiungerlo, abbarbicato sulle ripide pendici. Arrivati ai piedi della Rocca, numerose scimmie che, libere, si aggirano tra le persone facendo dispetti. La scalinata che porta alla sommità della Rocca è ripida e attorniata dai soliti negozietti di cianfrusaglie. Dall’alto, pur nella lattiginosa foschia, si gode la vista di tutta la valle. Lasciato mount Popa, attraversiamo una zona poverissima: arida, popolata di rare capanne di paglia. Poche sparute mucche nei pressi delle baracche, persone magrissime e dalle bocche devastate dall’uso di betel siedono ai bordi della strada polverosa elemosinando. Breve sosta presso una piantagione di palme dove, con metodi antelucani, si lavorano cocco, latte di cocco e bambù.

In breve tempo arriviamo a Bagan. Sono già le 16 passate quando usciamo, per visitare i primi templi in mattoni rossi, uno dei quali internamente affrescato con pitture che descrivono la vita del Buddha e che risalgono ai primi secoli del secondo millennio. A ogni ingresso troviamo nugoli di bambini e bambine che cercano di venderci cartoline, piccoli oggetti laccati, dipinti fatti con la sabbia, ed altri oggetti di artigianato locale. Ci godiamo il tramonto dall’alto di un tempio: sotto di noi, nella luce rosata, la pianura svela centinaia di cupole, quali grandi quali piccole, di diverse fogge e dimensioni, per lo più in mattoni rossi ma qua e là spiccano stupa dorati. Si ergono quasi dal nulla, a perdita d’occhio, tra le sterpaglie, in un silenzio quasi irreale. Meraviglioso.

24 febbraio 2016

Visitiamo numerosi templi di Bagan. Ognuno diverso dall’altro: templi in mattoni rossi o di colore bianco o dorati; templi più slanciati e con numerose guglie ed altri abbellimenti (statue di leoni, draghi, ed altre creature) ovvero più tozzi e semplici; templi più spogli ed altri recanti ancora traccia di antichi affreschi; templi ad un solo piano o a più terrazze, alcune delle quali accessibili per consentire la vista panoramica dall’alto, talvolta attraverso ripidissimi gradoni. Una stupa inclinata, ironicamente chiamata Leaning Pisa. In ogni tempio almeno una statua di Buddha, di varie forme e dimensioni. Presso ciascun tempio nugoli di venditori ambulanti; in qualche caso vere e proprie bancarelle di oggetti in legno, in bambù, in carta di riso, di dipinti in sabbia, di tessuti, di cianfrusaglie, di oggetti in lacca colorata. Talvolta gli oggetti in vendita sono esposti appesi ai rami degli alberi, come ad esempio le marionette. Una bancarella con una filatrice in tempo reale: sia lei che l’altra donna presente portano numerosi grossi anelli al collo, che ne risulta così allungato in modo irreale.

Ci spostiamo tra i templi con l’auto, come altri turisti, mentre taluno preferiscono noleggiare bici o motorini e si vedono arrancare tra la polvere e la sabbia delle stradine che conducono alle pagode. Che si trovano un po’ ovunque, disseminate qua e là. Passiamo, tra gli altri, davanti ad un orfanotrofio, dove alcuni giovanissimi monaci si stanno preparando a uscire per la questua quotidiana. Veniamo accompagnati in una fabbrica di oggetti di lacca, dove ci viene spiegato l’interessante e laborioso procedimento che porta alla creazione di bellissimi oggetti colorati, e possiamo vedere alcune persone impegnate nelle diverse fasi di lavorazione.

Facciamo un salto al Minnatu village: un vero villaggio di contadini birmani, che ci mostrano le loro case ed il loro modo di vivere. La spettacolarizzazione della povertà. Case misere, costruite in legno, con tetti di paglia e pareti di bambù, montate su palafitte e con tetti di lamiera per proteggerle dalle piogge monsoniche; all’esterno ricoveri per gli animali e aie dove conservare e lavorare i prodotti della terra (frutta, cotone, sesamo, bambù). Un rozzo ambulatorio dove il medico della città visita una volta a settimana. Bambini giocano nella polvere, donne con le bocche rovinate ed i visi segnati trasportano pesi sulle spalle o sul capo.

Nel pomeriggio saliamo sulla torre panoramica e lì ci si offre uno spettacolo grandioso. Una pianura estesissima, arida eppur fittamente punteggiata di alberi e palmizi, che digrada nella foschia, rotta solo dal dolce massiccio del mount Popa sulla cui vetta si intuisce il bianco santuario. Da un lato, lontano, il luccicare del fiume tra i suoi banchi sabbiosi, protetto dalla cornice azzurrina dei monti. Nella pianura sotto di noi centinaia e centinaia di pagode e stupa, di cui in lontananza si percepiscono i soli profili come emergenti dalla leggera foschia in un silenzio irreale. Qua e là spiccano le pagode di colore bianco e gli stupa dorati, e qualche tempio più grande si impone alla vista rispetto alla miriade di guglie che galleggiano nella foschia. Una vista straordinaria, da mozzare il fiato. Rimarresti ore a godere della serenità che questo panorama infonde: il lavoro imperituro dell’uomo che rende eccezionale un paesaggio di per sé abbastanza banale. Una sensazione che non sarà possibile dimenticare.

Discesi – a malincuore – dalla torre ci rechiamo al fiume e prendiamo una barca a motore. Il fiume é davvero enorme. Placido, animato di barche grandi e piccole. Durante la stagione delle piogge si intuisce come possa divenire impetuoso, minaccioso e ruggente. Non lontano dalla riva, dove giocano i bambini e dove alcune donne sono chine a lavare i loro panni, un grosso banco sabbioso che costeggiamo. Un piccolo villaggio di pescatori costruito su palafitte dal tetto di paglia, ricovero temporaneo per la bella stagione: durante la stagione umida certamente verrà spazzato via e il banco di sabbia tornerà ad immergersi nelle acque grigiastre. Il motore viene spento e rimaniamo a lungo in balia della dolce corrente, godendo della vista delle pagode lontane, le cui guglie emergono dai palmizi. Proprio sulla riva uno stupa dorato dal grande basamento bianco pare far da guardia alla città intera. Il sole sta per tramontare, accendendo d’argento e oro le acque, dove galleggiano altre piccole barche con turisti che come noi hanno deciso di godere della vista della città. Di nuovo la sensazione di pace e serenità si fa strada tra di noi, cullati dalle onde leggere.

Dopo il tramonto e una breve visita al guardiano dorato del fiume, rientriamo in hotel. Sulla strada ci fermiamo incuriositi a guardare una sorta di carro carnascialesco che sta allontanandosi da una piccola folla. Si tratta di una cerimonia funebre: vicino ad un piccolo tempio in mattoni rossi, numerose persone sono sedute a terra. Al centro un falò: é il corpo di un monaco, adagiato su un sarcofago di pietra, che arde grazie alla legna postagli intorno e data alle fiamme. Non c’è tristezza negli astanti, più una sensazione di accompagnamento verso questo viaggio che, per i birmani, porterà ad un nuovo inizio.

25 febbraio 2016

Prima di partire per il lago Inle, ci rechiamo a vedere l’alba dalla terrazza di un piccolo tempio. Al momento di uscire, incontriamo Raz Degan, che probabilmente è lì per lo stesso motivo. Mentre ci rechiamo all’aeroporto, vediamo numerose mongolfiere che si levano in volo per consentire ai turisti di vedere Bagan dall’alto. La torre panoramica è sulla strada per l’aeroporto, decidiamo di salirci una ultima volta. Il paesaggio é sempre fantastico, e anzi la bruma mattutina sembra rendere i templi ancor più eterei. Dall’alto possiamo vedere le mongolfiere che sorvolano i siti più importanti: sono decine e la loro vista nella foschia, sopra le sagome dei templi, è affascinante, quasi onirica. Infine andiamo al piccolo aeroporto e ci imbarchiamo per Heho.

Sotto di noi il paesaggio è piano e brullo: terra rossa appena increspata, solcata dal letto irregolare e sinuoso di fiumi in secca. Gli alberi sono disposti per lo più in filare, e l’effetto complessivo è di forme quadrangolari dai contorni puntinati.

Il viaggio è breve, appena mezz’ora. Dopo le immancabili nubi, si cominciano a vedere colline verdi, e villaggi sinuosi tra le valli. Nella pianura gli alberi sono invece rari; il terreno è suddiviso in appezzamenti regolari, di colori che vanno dal verde al marrone passando per il rosso mattone, che predomina: un bellissimo patchwork. Qua e là dei solchi sul terreno, probabilmente scavati dai fiumi. Heho è nella regione Shan, una zona agricola piuttosto ricca, dal clima leggermente più fresco. La maggior parte delle case è infatti in muratura, i campi per lo più lavorati, greggi e mandrie punteggiano i pascoli. Una delle prime cose che incontriamo è infatti un mercato all’aperto degli animali: strani buoi con grosse gobbe ed altri molto pelosi e scuri. Passano numerosi motocarri ed autocarri carichi di merci e persone, tra cui alcune donne con copricapi a scacchi colorati. Curiosamente i motocarri e i moto trattori sono tutti scarenati. Nei campi molte persone sedute ai lavori nei campi, con carri ed attrezzature rudimentali.

Proseguendo verso nord incontriamo le montagne, e qua e là laghi e laghetti. Sulle pendici di un monte un grande complesso monastico, formato da più monasteri tra loro collegati da percorsi pedonali coperti con tetti a pagoda. È il Pindaya: presso il monastero principale, cui si può accedere anche attraverso grandi ascensori, vi è una grotta naturale contenente più di ottomila statue del Buddha, di varie forme e dimensioni, per lo più dorati. Molte delle statue sono collocate nelle nicchie della grande grotta affollata di turisti e pellegrini.

Riprendiamo la strada, non senza prima fermarci ad ammirare grandissimi alberi dai rami contorti, sotto i quali alcuni mercanti espongono numerosissimi cocomeri. La strada è stretta, e le auto si scambiano con difficoltà; molti motorini, su cui viaggiano anche più di due persone, talvolta donne con bambini piccolissimi. Ci fermiamo presso un artigiano che facendo sfoggio di una grande abilità ci mostra il procedimento per costruire i tipici ombrelli di carta: questa è ottenuta attraverso la lavorazione della corteccia di un albero, che viene lessata, pestata, disposta su appositi sostegni e poi asciugata. L’artigiano ci mostra poi come vengono lavorati, con attrezzi d’altri tempi, i componenti di bambù che andranno a costituire il telaio degli ombrelli.

Continuiamo il nostro viaggio tra le montagne e sbocchiamo in un’ampia valle. Un fiumiciattolo attraversato da ponti in legno e costeggiato da capanne fa da preludio ad una vasta palude nella quale sono ricavate risaie; palude che a sua volta è preludio del lago Inle, dove piccole imbarcazioni leggere scivolano elegantemente sulle acque guidate con un elegante e quasi impercettibile mossa del piede del barcaiolo.

Ci fermiamo nella città di Nyaung Shwe, principale centro abitato sul lago. Una cittadina piuttosto brutta, piena tuttavia di turisti stranieri. Auto, motorini, confusione, smog fanno da contorno ad un nugolo di case, alberghi e ristoranti e ad uno squallido mercato di cianfrusaglie.

26 febbraio 2016

Ci imbarchiamo su una imbarcazione lunga e stretta guidata da un giovane birmano con un lieve prognatismo. Imbocchiamo il canale che ci porterà al lago; è molto trafficato, numerosi altri turisti su barche simili alla nostra stanno uscendo per la gita. Il canale è piuttosto lungo, e qua e là vi si affacciano altri piccoli canali laterali. Il lago è punteggiato di piccolissime isole, probabilmente superficiali: immagino siano agglomerati di piante acquatiche che galleggiano sulle acque scure del lago, appena increspate dal transito delle tante barche. Peccato per il tempo, si intuisce appena il profilo azzurrino delle montagne attorno. Gabbiani, papere, schizzi d’acqua delle imbarcazioni a motore: pescatori, turisti, barche più lunghe cariche di gente del posto. Qualche pescatore con il tradizionale cappello conduce sottili barche a remi, aiutandosi con le mani o più spesso con il piede, così da avere gli arti superiori liberi per poter maneggiare le reti, tradizionali o coniche.

Sulle rive verdi alcuni villaggi, palmizi, guglie di pagode: in prossimità delle sponde, sui terreni paludosi, spoglie palafitte con pareti e tetti di paglia, probabili postazioni di pesca.

Il lago a un tratto si restringe, ci insinuiamo in uno dei canali. Ci vengono incontro alcune piccole imbarcazioni: venditori ambulanti che cercano di agganciare la nostra barca, che ora procede più lentamente, per mostrarci la loro merce. Attracchiamo a Yawma, dove c’è il mercato galleggiante. Si tratta di un colorato mercato su palafitte tra loro collegate, nella stagione più umida deve essere effettivamente sull’acqua. Oltre alle solite cianfrusaglie per turisti, alcune donne vendono derrate alimentari, poste su ceste piatte e pesate su rudimentali stadere. In una palafitta più grande, proprio sul fiume, alcune donne Padaung, con i loro colli allungati dagli anelli metallici ed i copricapi colorati, si mostrano come in uno spettacolo di dubbio gusto.

Risaliamo in barca e veniamo condotti tra i canali di un villaggio interamente di palafitte, dalle pareti di bambù e tetti di paglia e lamiera; talune tra loro collegate da pontili di legno, altre sono raggiungibili solo via acqua. Alcune donne con delle ceste remano sulle loro imbarcazioni; un’altra si sposta da una palafitta all’altra camminando sulle barche che sostano in prossimità. Una famigliola, su uno dei gradini di legno esterni alla loro palafitta, fa il bagno ai bambini rovesciando loro addosso l’acqua del lago.

Il barcaiolo, come nei più triti giri turistici, ci fa fermare prima ad una filanda (dove vediamo il processo di lavorazione del loto e la filatura di seta e cotone con attrezzi rudimentali) e poi presso la palafitta di un fabbro, dove alcuni uomini stanno martellando il metallo scaldato su un fuoco che arde nel centro della stanza. Ripartiamo e quasi subito comincia a piovere. Il barcaiolo ci fa fermare presso una locanda a palafitta, proprio sul canale: del resto è ora di pranzo. Il locale è lievemente flottante ed il pranzo non è granché. Appena spiove ripartiamo per il nostro giro. Adesso si vedono le montagne verdi e irregolari in lontananza, il cielo é schiarito anche se la minaccia della pioggia non è del tutto scansata.

Imbocchiamo uno dei tanti canali e ci rechiamo nei pressi di una grande pagoda il cui ingresso da direttamente sul canale. Non scendiamo, ormai di templi ne abbiamo visti tanti: bianco, rosso e oro. Piuttosto ci colpiscono due grandi imbarcazioni dorate a forma di dragone, ricoverate sotto grandi tettoie di legno: certamente si tratta di barche usate per la celebrazione di qualche festa religiosa.

Riprendiamo la strada restando tra i canali. Attraversiamo villaggi di palafitte posti su entrambi i lati dei canali, collegati da ponti di legno, più o meno rudimentali. Le verdi sponde, su cui intravvediamo palme e coltivazioni, sono qua e là protette dall’erosione della corrente con pali di bambù. Alcuni alberi di medie dimensioni, posti proprio al limitare della riva, mostrano l’intrico delle radici.

Incontriamo spesso piccole dighe di pali di bambù e sterpaglie, con aperture per far passare le barche; talvolta oltrepassandole percepiamo un lieve dislivello, come fossero delle chiuse. Le dighe proteggono i canali ed i villaggi, all’interno dei quali talvolta vi sono una sorta di dissuasori di velocità per le imbarcazioni a motore, costituiti da pali galleggianti posti in orizzontale perpendicolarmente alla via d’acqua.

Arriviamo a Inn Dain: un villaggio con templi simili a quelli visti a Bagan ma non restaurati, sormontato da una rocca sulla quale vi è un monastero bianco con numerosi stupa dorati.

Donne e uomini con copricapi tradizionali colorati, gente che si lava nel fiume, bancarelle, venditori ambulanti. Intravvediamo un interessante giardino di bambù, ma sta per mettersi nuovamente a piovere e torniamo dunque alla barca.

Prossima tappa gli orti galleggianti: una meraviglia dell’ingegno umano. Strisce di terra flottanti su un sistema di pali dove gli abitanti del luogo coltivano ortaggi. Gli orti sono lavorati direttamente senza scendere dalle piccole imbarcazioni, che scivolano tra gli stretti canali. Qua e là le palafitte spoglie che avevano visto all’inizio del giro, e che ora svelano il loro essere: ricoveri temporanei per gli attrezzi e gli ortaggi, punti di appoggio per questi originalissimi contadini.

Proprio di fronte ai floating gardens c’è il Monastero dei gatti danzanti: una grande palafitta in tek, contenente pregevoli statue del Buddha diverse e più leziose di quelle viste sinora. All’interno, oltre all’ormai solito mercatino per i turisti, con i monaci vivono alcuni gatti che si aggirano tranquillamente tra i visitatori.

Rientriamo infine alla base, riattraversando il grande lago: nel tramonto la silhouette dei pescatori sulle acque placide del lago è affascinante.

27 febbraio 2016

Ripartiamo in auto verso Heho. Nella luce argentata del mattino il lago ci saluta luccicando quieto. Su una collina non lontana un monastero bianco con le sue stupa. Attraversiamo villaggi traboccanti di barettini improvvisati sulla strada, cani randagi, motocarrozzette che portano donne con balle e pacchi, autocarri carichi di persone e di colori, scolari con il loro longi verde, motorini, donne con ceste in equilibrio sul capo e le guance sporche di thanaka, trattori scarenati, case sgarrupate, manifesti pubblicitari delle compagnie telefoniche o della birra Myanmar. Qua e là piante dalle foglie rosse e carrubi. Sulle colline incontriamo un treno che lentamente si inerpica trasportando merci e viaggiatori. L’aeroporto di Heho è piccolo e squallido. Siamo in grande anticipo per cui ci viene proposto di prendere un aereo diverso, che fa scalo a Ngapali beach dove purtroppo non abbiamo tempo di sostare per qualche giorno. Accettiamo.

L’aereo decolla sugli appezzamenti colorati di Heho poi entra tra le nuvole e vi si posiziona sopra, nel sole. Il volo per Ngapali è breve, e atterrando possiamo vedere colline boscose, tanto verde, un grande fiume sinuoso con una isola centrale, piccoli appezzamenti regolari color sabbia, e il mare azzurro sempre più vicino. L’aeroporto è infatti praticamente sulla spiaggia, ci permettono di scendere dall’aereo per fare alcune foto.

Ripartiamo. Arriviamo a Yangoon praticamente subito: grandi latifondi verdi e risaie lasciano presto spazio ai capannoni della zona industriale, preludio della città, moderna, trafficata e afosa. Una metropoli di 5 milioni di abitanti, che sorge sulle rive del sinuoso e vastissimo fiume Ayarwaddy. Un laghetto in città, circondato da aiole e grattacieli; l’università ed il suo parco; palazzi, strade, macchine. Pochi invece i motorini. Tra gli alberi appare il grande piazzale della Shwedagon Pagoda, un grande complesso simbolo del Myanmar, con la sua enorme cupola dorata. Per strada molte donne camminano con l’ombrello aperto, per ripararsi dal sole cocente. Il mercato Bogyoke sorge entro un grande edificio coloniale. Una miriade di negozi e negozietti straripanti di merci e colori: scarpe, tessuti, gioielli (ecco dove finisce la giada di Mandalay!). E gli immancabili venditori ambulanti di cibo: spiedini di pesce fritto, prugne speziate, frutta. Un odore penetrante e dolciastro avvolge l’atmosfera.

Al piano di sopra, come qua e là in taluni negozietti del piano terra, numerose ragazze animano quella che in pratica è una sartoria: macchine da cucire, forbici, modelli. Vanno molto di moda gonna e casacchina corta, di colori vivaci e con trine e fiocchi: molto femminili ma estremamente leziosi e démodé. Usciamo ubriachi di colori e odori.

Palazzi fatiscenti vicino a costruzioni nuove, per lo più hotel. Ci addentriamo in alcune stradine laterali: case orribili e cadenti, squallore, sporcizia, qua e là macerie e cumuli di cose vecchie;

Centinaia di parabole alle finestre e sui tetti, panni stesi, graticci alle finestre e sui terrazzini, come piccole prigioni (forse per i piccioni?); schizzi di betel sull’asfalto, barettini di strada, venditori di cibo. Molti gli indiani. Casermoni abitati da famiglie numerose, probabilmente vivono tutti pigiati in una stanza: ma in ognuna di intravvedono tempietti domestici, a riprova della religiosità di questo popolo. Torniamo sulla strada principale, animata da persone, auto, bici con annesso carrozzino, insegne colorate. Un tempio induista coloratissimo e carico di piccole statue.

Riprendiamo l’auto per dirigersi verso la pagoda Shwedagon. Per contrasto con quanto visto sinora, attraversiamo una zona verde, con ambasciate, villette, giardini, parchi giochi.

La pagoda è immensa e sontuosa. All’ingresso due grandi leoni fanno da cornice alla scalinata, che conduce ad un lungo corridoio con colonne e finestre arabescate. Poi alcune rampe di scale mobili ci conducono fino alla cima, dove ai nostri occhi si offre un tripudio di stupa e pagode: per lo più dorate, ma ve ne sono anche di bianche, rosso mattone, gialle. Statue di Buddha di ogni foggia e dimensione, altarini votivi per ogni giorno della settimana, campane e gong; e la gigantesca cupola appuntita della pagoda centrale, luccicante d’oro. Moltissimi i visitatori, tra cui scolaresche con le loro gonne color mattone. Molti spazzano, tutti in contemporanea è disposti in fila, il piazzale: probabilmente è un rito benaugurale. In un’area dell’ampio piazzale si stanno disponendo fiori e tappeti: ben presto sopraggiungono numerose piccole monache rasate e vestite di rosa, che si inginocchiano e intonano un canto di preghiera.

Intanto il sole sta tramontando, una sfera rosso arancio: ripercorriamo la strada inversa e, usciti, come sempre ci puliamo i piedi con salviette umidificate, suscitando il riso dei birmani presenti.

Ceniamo poi nell’ottimo ristorante Monsoon, godendoci l’ultima sera in Myanmar.

28 febbraio 2016

Torniamo in centro abbastanza presto, prima che si levi il caldo torrido del pomeriggio precedente, e ci aggiriamo nelle vicinanze della pagoda Sule, posta al centro di una rotonda, per ammirare l’architettura coloniale di alcuni edifici del centro città. Il giardino Mahabandoola, con i suoi alberi bassi ed i giochi d’acqua, ospita al centro una colonna bianca, monumento all’indipendenza del Paese. Nei pressi del giardino alcuni pregevoli edifici restaurati: il municipio, di colore azzurrino e di foggia orientaleggiante; la Chiesa Battista con le sue bianche guglie aguzze; la Corte suprema, di colore rosso scuro con la sua torre orologio. Il contrasto con gli edifici coloniali non restaurati é evidentissimo, essendo questi ultimi sporchi e cadenti, con alcune piante che spuntano dai muri.

Giriamo tra gli ex edifici ministeriali, certamente occupati da famiglie: lo testimoniano le parabole ed i panni stesi e più in generale lo stato di degrado. Per la strada molte bancarelle e cucine all’aperto improvvisate.

Siamo proprio vicino al grande fiume, che intravvediamo solcato da enormi navi cariche di container.

Ci rechiamo infine al Secretariat, un imponente palazzo in mattoni rossi entro un grande giardino di palme; purtroppo non visitabile in quanto in corso di restauro. Un vero e proprio palazzo reale, sebbene sobrio e dalle forme pulite; un palazzo che rappresenta la storia di questo Paese: proprio qui nel 1947 è stato assassinato Aung San.

Concludiamo la nostra visita con un passaggio veloce al Lucky Seven, un tipico tea shop nella zona cinese della città, immerso tra piante, orchidee e lampade di carta di riso. Un uomo si fa pagare per liberare alcuni passerotti che tiene in una gabbia, si tratta di un rito propiziatorio locale.

Torniamo all’hotel per una doccia, facciamo la valigia e ci rechiamo all’aeroporto, la vacanza è ahimè finita.



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