In Etiopia sulle orme della Regina di Saba e dell’Arca dell’Alleanza
Giovedì 25 settembre 2014
Arriviamo a Malpensa alle 18.15, tre ore prima del volo Ethiopian Airlines per Addis Abeba. Il volo fa scalo a Roma, da cui riparte a mezzanotte. All’1.30 viene servita la cena mentre io sto crollando dal sonno. Spilucchio una coscia di pollo, dell’insalata di pasta al basilico e torno a dormire. L’aereo non è tra i più comodi perché le file dei posti sono troppo ravvicinate e riposo malissimo. Arriviamo ad Addis Abeba alle 5.15 ora italiana (ore 6.15 ora locale). La coda e il metodo per ottenere il visto sono ortodossi e impieghiamo 2 ore per terminare la pratica. Arriviamo al carosello dove consegnano i bagagli quando ormai la nostra valigia è già stata scaricata dal nastro.
Indice dei contenuti
Venerdì 26 settembre 2014
Fuori dall’aeroporto di Addis Abeba ci aspetta F, la nostra guida. Ci conduce con un piccolo pulmino all’hotel Capital, un hotel 5* in un quartiere in pieno fermento edilizio. Prima di entrare, dobbiamo fare passare tutto sotto il metal detector. L’hotel non è male: stanza e doccia ampia, senza ovviamente il bidet. Facciamo colazione al locale Le Parisien con brioche e cappuccino e poi ci dirigiamo alla Cattedrale della SS Trinità che ospita al suo interno la tomba di Hailè Selassiè, imperatore d’Etiopia, e della moglie. L’affresco della SS Trinità raffigura il divino in 3 rappresentazioni umane identiche, secondo canoni diversi da quelli della religione cattolica: in Etiopia la religione principale è quella cristiana ortodossa. L’interno della chiesa non suscita in me molto interesse, mentre invece osservo con attenzione i partecipanti a un funerale che si sta svolgendo e che sta richiamando molta gente (ho l’impressione che il defunto sia stato una persona molto in vista). Ci rechiamo al Museo Nazionale che ospita il calco di alcune ossa di Lucy, l’ominide fossilizzato vissuto 3,2 milioni di anni fa. La teca, scarsamente illuminata, risulta un po’ deludente e fa capire come i mezzi a disposizione dell’Etiopia per esaltare i propri reperti siano davvero esigui. Nel museo se ne trovano di altri come steli con scrittura sabea, il trono di Hailè Selassiè e quadri dell’artista Afewerk Tekle.
Il pranzo è nel locale italiano Makush, dove c’è un buffet con pasta al forno, cotoletta di manzo, pesce al pomodoro, spezzatino di pollo, patate, carote, fagiolini stufati, spiedini di frutta. Nel complesso il pasto raggiunge la sufficienza.
L’ascesa al monte Entoto è un vero immergersi nella vita di Addis Abeba. Lungo la strada si incontrano donne che portano sulle spalle enormi fascine di legna, asini e, a bordo strada, falò ancora da accendere, in occasione della festa del Meskel che ricorre proprio oggi. Si tratta di piccoli cumuli di legna rispetto al grande falò che verrà accesso alle 18.30 in piazza Meskel. L’aria di festa si percepisce anche osservando le bambine con addosso il vestito della festa e in mano le tipiche margherite gialle. È facile capire che in Etiopia, come in altre parti del mondo non occidentalizzato, la vita si svolge per strada e non tra le mura di casa.
Con due ore in anticipo rispetto all’inizio delle celebrazioni, accediamo come visitatori all’area transennata dove si svolgerà la festa di Meskel per assistere ai preparativi. Meskel è la festa della Croce e commemora il ritrovamento della croce da parte della regina Elena, madre di Costantino, dopo che era stata sepolta dagli Ebrei in mezzo a quella del ladroni. Gli uomini e le donne che sfilano con addosso il costume tipico della tribù di appartenenza intonano canti e danze accompagnati da tamburi. Tutti aspettano le 18.30, quando all’imbrunire verranno accesi sia il mega falò che è stato predisposto al centro della piazza che i bastoncini di cera che quasi ogni partecipante innalza a creare un’atmosfera suggestiva. Nel buio si intravedono tante piccole fiamme che accompagnano il fuoco del grande falò. Per gli Etiopi è festa grande, per noi Meskel diventa l’occasione per confonderci con loro e osservare il fervore con cui partecipano alla ricorrenza e i colori vivaci dei vestiti delle donne: scialli e abiti bianchi dai ricami sgargianti.
La cena è a buffet in hotel: linguine con funghi e pancetta, pollo, manzo, cavolfiori e broccoli scottati, pandispagna al cioccolato e fragole. Anche questi piatti non mi entusiasmano ma mi nutro per necessità: sono altre le cose che mi hanno spinto a visitare l’Etiopia.
Sabato 27 settembre 2014
Sveglia alle 5 con colazione alle 5.30. In hotel c’è ogni ben di Dio, ma il tempo è limitato. C’è un ottimo assortimento di dolci (assaggio un muffie, un mini pain au chocolat, mezza fetta di plumcake al cioccolato), cereali, frutta (mangio una bella coppetta di kiwi). C’è persino il cuoco che prepara le omelette sul momento. Riesco addirittura ad ottenere latte e caffè e per oggi è andata bene, per il futuro si vedrà. Alle 6 si parte con destinazione aeroporto-settore voli nazionali e da ora in poi cominciano le attese. Facciamo mezz’ora di coda semplicemente per entrare, facendo passare tutto sotto il metal detector e levandoci obbligatoriamente le scarpe; le leveremo di nuovo al controllo passaporti. Sarà per tutti questi leva e metti che si formano le code? Decolliamo alle 8.05 e arriviamo a Gondar, tappa intermedia per Lalibela, alle 8.55 con un atterraggio tutt’altro che delicato. Si riparte alle 9.20 con arrivo a Lalibela alle 9.50: l’atterraggio è di nuovo traballante e con frenata decisa. L’aereo ripartirà per Axum, una sorta di metropolitana dell’aria che collega le principali città etiopi.
L’aeroporto di Lalibela dista 25km dalla città stessa e la strada sale in tornanti circondati dal verde; ogni tanto si incontrano bambini che corrono a fianco del pulmino per salutarci, caprette che brucano, pastori che accompagnano il pascolo, capanne sparse nella campagna.
L’hotel Panoramic View sorge a ridosso di una vallata dove svolazzano i gipeti che passano molto tempo a lasciarsi trasportare dalle correnti calde. La veduta è strepitosa e l’hotel merita proprio il nome che porta. La nostra stanza, la n° 110 è spartana rispetto a quella di Addis Abeba, non c’è tv, telefono, gel doccia o shampoo.
E’ sabato e F ci porta al mercato dove predomina l’odore di capra. Diventiamo l’attrattiva per i ragazzi del luogo che non ci abbandonano fino alla fine: abbozzano qualche parola in inglese e vogliono farsi una foto con noi. Sotto tendoni improvvisati per proteggersi da un sole cocente ci sono i venditori di vestiti, di spezie, di animali, cereali (tra cui il tef dai granuli piccolissimi da cui si ricava l’injera, il pane etiope), di blocchi di sale proveniente dalla Dancalia.
Il pranzo è al Mountain View, un altro hotel-ristorante panoramico. Il buffet prevede injera (ha un sapore acidulo che stempero con il minchet abesh, tritato di manzo cotto al curry), polpette di manzo, cavolo fritto, panzerotti fritti con carne. Il tè è aromatizzato.
Il pomeriggio si apre con 140 km di strada fatta di pietrisco per visitare una chiesa più antica di quelle che si trovano a Lalibela. Vicino a dove ci lascia il pulmino parte una scalinata nel verde e in circa mezz’ora arriviamo a una grotta con un muro posticcio. Qui dobbiamo levarci le scarpe e con solo le calze ai piedi entriamo in un’anticamera. La chiesa è di legno e gesso con finestre a forma di croci di diverso tipo, mentre il pavimento è fatto di canne. La chiesa prende il nome da Yemrehanna Kristos, vissuto prima di Lalibela, fondatore della chiesa che ospita la sua tomba. All’interno non c’è luce e con l’aiuto di torce e candele scorgiamo soffitti lignei scolpiti e capitelli in stile axumita. Il prete è socievole e ci mostra la chiave d’oro e un antico dipinto sacro. Alle spalle della chiesa, ma sempre dentro la cavità della grotta, si scorgono resti umani di persone che volutamente hanno scelto di morire in questo luogo.
La cena è nel ristorante dell’hotel. Gradisco molto la zuppa vegetale, rinuncio all’injera e assaggio carote in umido , pasticcio di patate e lenticchie, patate a fette in una crema che sembra besciamella, patate in umido e fritte (insomma patate in tutti i modi). Come frutta ci sono banane (buone) e papaya (un po’ meno buona).
A Lalibela non c’è verso che i nostri cellulari funzionino. Il wifi permette di usare whatapp ma non di inviare sms. Nella notte lotto contro le zanzare.
Domenica 28 settembre 2014
Mi sveglio con un’amara sorpresa: sotto il sacco lenzuola ci sono le pulci (le riconosco non perché ne abbia dimestichezza, ma semplicemente saltano come quelle di mare). La colazione in hotel è magra: ottengo il latte con caffè, ma non c’è niente con cui accompagnarlo tranne il pandolce.
La giornata è dedicata alla visita delle chiese di Lalibela, io sono piena di aspettative visto che il motivo del mio viaggio sta proprio in questo posto, dopo avere visto alcuni anni fa un documentario di Alberto Angela su questi luoghi. In mattinata si visitano le chiese nord-occidentali. Si comincia dalla chiesa di San Salvatore (Bet Medhane Alem) che simboleggia la salvezza ed è esposta a est per finire con la tomba di Adamo a ovest. Il percorso andrebbe fatto al contrario, dal buio del peccato di Adamo alla salvezza offerta dal Salvatore. Bet Medhane Alem ha all’esterno dei pilastri, alcuni dei quali artigianali. All’interno troviamo dei tamburi. F ci ha spiegato che tutti gli strumenti musicali sono dei simboli. La parte più stretta del tamburo rappresenta la richiesta del fedele, la parte più larga la risposta del Signore. Tramite una galleria si passa a un cortile con al centro Bet Maryam con due ordini di finestre: quelle superiori rappresentano la Trinità, quelle inferiori Gesù e i due ladroni. Internamente Bet Maryam è molto bella per i suoi intarsi dipinti sulla pietra e gli affreschi che rappresentano la fuga in Egitto di Maria e Giuseppe, attraverso l’Etiopia. Avendo alle spalle Bet Medhane Alem, a destra di Bet Maryam si trova la cappella della croce (Bet Meskel) e a sinistra Bet Danaghel, dedicata alle suore martirizzate nel IV secolo a Edessa in Turchia. Le due cappelle sono molto piccole e il loro interno non è molto interessante. Dal cortile di Bet Maryam si arriva a Bet Mikael (S. Michele) e a Bet Golgotha. Le donne possono accedere solo alla chiesa di San Michele. Bet Golgotha è molto venerata e al suo interno c’è la tomba del re Lalibela. Di fronte alla facciata di Bet Golgotha c’è la tomba di Adamo, un blocco di pietra estratto dalla roccia.
Tramite un sentiero immerso nel verde si giunge a Bet Giyorgis, S. Giorgio: l’emozione nell’intravedere l’edificio a croce greca interamente scavato nella roccia per 3 livelli è veramente grande; quello che sto vedendo corona un sogno alimentato da tanto tempo e mi sento euforica. I miei occhi contemplano la bellezza di un’opera d’arte, le finestre finemente scolpite denotano un’attenzione ai particolari e l’uso di maestranze che sapevano il fatto loro. La sensazione che provo è paragonabile al tuffo al cuore che ho avuto vedendo spuntare il tesoro di Petra dal canyon roccioso. La bellezza degli esterni, ahimè, non trova adeguata corrispondenza negli interni che si rivelano piuttosto spogli. Finora Bet Maryam rimane la chiesa con gli interni più curati, mentre Bet Giyorgis è la più scenografica.
Pranziamo al ristorante Seven Olives, struttura circolare con tetto conico che ricorda i piatti di portata etiopi fatti di giunchi intrecciati. Ordino il tibs sheukla (spezzatino bollente di manzo stufato in una terrina), la shirq (purè di ceci bollente e spaziato), l’awazi (salsa piccante con senape e peperoncino). Il tutto è accompagnato dall’immancabile injera. Dopo pranzo facciamo una breve pausa in hotel e alle 14.30 si riparte per la visita del gruppo di chiese sud-orientale. Attraverso un sentiero sterrato in salita, si attraversa il ruscello che è stato chiamato Giordano (Lalibela ha voluto riprodurre una seconda Gerusalemme in terra d’Etiopia) e si scorge la prima chiesa (Bet Gabriel-Rufael) che si pensa potesse essere una prigione. Si incontra poi Betlemme dove si racconta venisse ospitato il cavallo di Lalibela. Cunicoli stretti, bassi e bui, scale dai gradini sconnessi conducono alle rimanenti chiese. Dentro Bet Merkorios c’è un bell’affresco deturpato dal tempo in cui sono rappresentati i Re Magi o gli Apostoli. Bet Amanuel è in stile axumita con muri sporgenti e rientranti che imitano gli strati di pietra e legno visti ieri a Yemrehanna Kristos. L’ultima chiesa che visitiamo è Bet Abba Libanos con il tetto e il pavimento uniti alla parete di pietra. L’interno è molto piccolo rispetto a come potrebbe apparire dall’esterno.
Terminate le visite, ci rechiamo in paese che non somiglia per niente a un luogo turistico dell’immaginario collettivo: Lalibela è ancora un villaggio dimenticato e i negozi di souvenir vendono pochi oggetti artigianali, soprattutto riproduzioni abbozzate delle chiese rupestri. Il nostro shopping in cerca di souvenir si rivela infruttuoso per una perfezionista come me e riesco a trovare solo 2 cartoline della chiesa di S Giorgio.
La cena è in hotel con zuppa, pasticcio di patate, verdure, spezzatino di carne con riso, frittelle di verdure, banane e tè. Dopo cena viene acceso un falò nel cortile. Qui assaggiamo un liquore estratto dal miele. Non perdiamo l’occasione di salire in terrazza per ammirare la Via Lattea, visto che Lalibela non è proprio una città in cui l’inquinamento luminoso la fa da padrone.
Lunedì 29 settembre 2014
Colazione verso le 7, ma c’è veramente poco: un succo di frutta poco allettante, pandolce (tostato o indurito?), burro dal gusto troppo forte e miele. Ordino latte e caffè e vi inzuppo i miei biscotti. Dei pancake di ieri non c’è traccia (era l’unica cosa buona nella colazione di questo hotel).
Partenza in pulmino alle 8 con destinazione il monastero di Nakuto Leab, che dista 7 km di sterrato difficile da Lalibela. Un sentiero in discesa di circa 10 minuti con gradini sconnessi conduce al monastero costruito sotto una grotta naturale da cui gocciola abbondantemente acqua ritenuta sacra (infatti in una stanza ci sono vasche piccole dove aspergersi). Ci sono inoltre tamburi, bastoni, una corona indossata dal prete che vive nella chiesa insieme alla famiglia. Ci mostra un libro vecchio di 500 anni dedicato alla Madonna con dipinti di persone i cui occhi grandi ricordano l’affresco dei Re magi a Bet Merkorios.
Si riparte e ci aspetta un lungo viaggio in autobus (330 km di cui 40 sterrati). Il primo pezzo è in altura con tornanti che svelano un paesaggio verdissimo, punteggiato da margherite gialle (le stesse che adornavano la festa di Meskel) e campi coltivati con cereali (mais, tef, fave, orzo). La seconda parte del tragitto è più pianeggiante e più ci si avvicina a Bahir Dar più il terreno diventa acquitrinoso e popolato da svariate tipologie di uccelli. Verso le 11 ci fermiamo a visitare il villaggio da cui proviene l’autista. Nel frattempo mi accerto se il promesso sposo della ventisettenne F sia proprio l’autista. Ebbene, ecco il risultato: F il prossimo aprile non sposerà lui, quindi il mio fiuto ha fallito.
Il pranzo è a sacco. Ieri sera ho ordinato un panino vegetale: è il solito pandolce con delle verdure e non mi entusiasma. Fuori dal pulmino i ragazzi dal posto aspettano da noi qualsiasi cosa. Come si fa a non dargli l’uovo sodo, anche se piccolo come le uova di quaglia o la patata bollita che fanno parte del nostro pic-nic?
Il viaggio riprende e si arriva a Bahir Dar verso le 17.15. Siamo vicinissimi al lago Tana.
Immerso in uno splendido parco, il Lodge Abbay Minch offre agli ospiti bungalow doppi che mi ricordano quelli sudafricani. Ci danno il benvenuto con un ottimo succo di frutta. Approfittiamo ancora della luce per fare un giro nel parco popolato dalle scimmie e dare un’occhiata all’annesso negozio. Mio marito trova una maglietta che gli piace ma ci sono solo taglie grandi.
Il ristorante del lodge è un grande bungalow. Prendo 2 volte la minestra, degli spaghetti al pomodoro (per essere in Etiopia non sono niente male), dell’insalata di riso, patate stufate, verdure lesse, torta e tè. Per stasera la cena è andata più che bene. Dopo in camera comincia la caccia alla zanzara con torcia di avvistamento. Andiamo a dormire cosparsi di autan e prima che faccia giorno abbiamo stecchito 6 zanzare.
Martedì 30 settembre 2014
Sveglia alle 7 e colazione alle 7.30 con qualcosa di interessante: gauffre con succo d’acero, torta variegata al cacao, caffè-latte. Alle 8 si parte, ma bisogna ritornare indietro perché qualcuno del gruppo ha dimenticato una cosa in hotel. Il battello parte alle 8.30 e dopo meno di un’ora di navigazione arriviamo alla penisola di Zeghe. Percorriamo un sentiero ombroso circondato da bancarelle per turisti e raggiungiamo il monastero di Una Kidane Meheret dalla forma circolare e fatto di paglia e fango. All’interno ci sono 13 porte che rappresentano i 12 apostoli e Cristo. In cima 7 uova di struzzo simboleggiano i giorni della creazione. Al di sotto, dei sonagli agitati dal vento ricordano la strage degli innocenti. Internamente la struttura ha forma quadrata e le pareti sono ricoperte da tessuti dipinti (maqdas) con scene del Vangelo o immagini della Madonna. La rappresentazione di profilo delle persone con un solo occhio indicano i cattivi. Riprendiamo la navigazione e dopo due ore arriviamo all’isola di Dek dove una torre annuncia la presenza del monastero Narga Selassie del XVIII secolo. La struttura è identica al precedente, solo che questo è in muratura.
Il pranzo è a sacco sul battello: viene servita insalata di riso, uovo sodo e banana.
Dopo altre ore di navigazione su un lago dove si avvistano pochissimi uccelli, arriviamo a Gorgora: ci troviamo di nuovo sulla terraferma dalla parte opposta a Bahir Dar. Qui si trova il 3° monastero di Debre Sina del XIV secolo e ricostruito nel XIX. A essere onesti una volta che se ne è visto uno è come averli visti tutti, in quanto non si discostano molto l’uno dall’altro e per di più la navigazione sul lago limaccioso è noiosa.
Alle 16.30 comincia l’avventura: mancano 60 km per arrivare a Gondar, la nostra prossima tappa e comincia a piovere. Non è proprio una pioggerellina che inumidisce il terreno, è uno scroscio che rende impraticabile lo sterrato che stiamo percorrendo a fatica. Spiove in lontananza e lo spettacolo che l’Africa ci regala è indimenticabile: il sole buca nuvole grigie all’orizzonte per illuminare un campo verdissimo e fresco di pioggia mentre un uomo guida l’aratro trainato da un bue. Per noi sembra un salto nel passato. In un tratto in salita il pulmino comincia a slittare nella fanghiglia. Vengono in soccorso degli uomini che stanno tornando a casa dal lavoro e mettono delle assi di legno sotto le ruote per aiutare il nostro mezzo a uscire dal pantano. Noi viviamo l’esperienza con un po’ di preoccupazione mista ad adrenalina: anche questa è Africa, problemi e solidarietà. Ritroveremo la strada asfaltata solo nell’ultima parte del nostro tragitto. Arriviamo a Gondar quando è ormai buio, verso le 18.30. L’hotel Taye è una struttura demodé con camere ampie, odore di fogna in bagno e asciugamani consunte.
La cena però si salva: prendo 2 volte la minestra di funghi e lenticchie, involtino di cavolo, spezzatino di vitello, spezzatino di pollo, patate stufate, crema di ceci, banane e una torta non entusiasmante. A cena una compagna di viaggio racconta che si è trovata addosso delle pulci. Al rientro in camera l’amara sorpresa: dentro il sacco lenzuolo viaggiano 1 o 2 pulci, clandestine probabilmente da Lalibela. Auguri!
Mercoledì 1 ottobre 2014
Sveglia “naturale” verso le 6.30, poi doccia per scacciare eventuali pulci (anche se sanno nuotare), caccia ad uno scarafaggio e poi colazione verso le 7.30 con caffè-latte e torta variegata al cacao.
Partenza alle 9 a piedi per la cittadella imperiale, circondata da mura e da mendicanti (sembra di essere in India). Protetta dall’Unesco dal 1979, la cittadella ha una serie di edifici sparsi nel verde. Fasiladas spostò a Gondar la capitale nel 1636, dove fece costruire il suo palazzo di più piani, adesso spoglio. Di fronte il suo archivio e la biblioteca, voluta dal figlio Johannes I. Poco distante sorge il palazzo voluto dal nipote di Fasiladas, Iyasu I. Ogni sovrano che si avvicendava al suo predecessore faceva costruire un palazzo, come Bakaffa e la regina Mentewab, alla morte del marito. Poco distante c’è la chiesa di Debre Berhan Selassie, in origine di forma circolare, poi riplasmata a ricordare un’arca di Noè rovesciata; è circondata da mura possenti con 12 torri che simboleggiano i 12 apostoli e l’ingresso a rappresentare Cristo. Al suo interno ammiriamo un soffitto ligneo con tanti cherubini dipinti e la rappresentazione rarissima di Maometto sopra un cammello.
Passeggiamo per la piazza (il nome è proprio in italiano in quanto gli edifici in muratura vennero costruiti durante la colonizzazione dagli italiani in stile razionalista); al centro c’è la statua di Tewodros, considerato il Robin Hood etiope. Nonostante fosse stato bandito dal paese e essere stato defraudato del feudo paterno, riesce a riacquistare il potere, unificare l’Etiopia e proclamarsi imperatore nel 1855. Non riuscendo a coinvolgere gli inglesi nelle sue opere di rinnovamento, preferì suicidarsi che concedersi a loro.
Pranzo in hotel con minestra vegetale, minestra di pomodoro, spaghetti al pomodoro, musaka (reinterpretazione del piatto greco con manzo, pomodoro, formaggio, ma non c’è neanche l’ombra delle melanzane), pollo al curry (dal sapore delicato), patate e bietole stufate, lenticchie, banane.
Alle 14.30 con il pulmino raggiungiamo il complesso di Kuskuam, fatto edificare dalla regina Mentewab in un posto defilato per mettersi al riparo dai pettegolezzi (si vociferava che le piacessero i ragazzi di corte). L’edificio è ancora più fatiscente di quelli della cittadella, ma qualche decoro ancora visibile rivela che l’architettura doveva essere molto raffinata. Nel vicino museo in una teca ci sono le sue ossa e il suo letto. Ci spostiamo ai bagni di Fasiladas, una vasca scavata con all’interno un bell’edificio. Più che una piscina per nuotare, è una struttura per festeggiare il timkat, festa che dura 3 giorni che rievoca il battesimo nel Giordano. I fedeli sono soliti tuffarsi nella vasca piena d’acqua benedetta dal prete. Attorno alla vasca, alberi secolari avvolgono la pietra nelle spirali delle loro radici. Poco distante sorge il mausoleo di Zebel che ospita le spoglie del cavallo di Yohannes I che riportò a casa il corpo di suo figlio Iyasu, dopo la morte del padre.
Facciamo un giro al mercato di Gondar: le bancarelle di lamiera si susseguono disordinatamente mentre in mezzo alla strada scorre un rigagnolo con lo scolo fognario che riduce in poltiglia la terra della strada. Il mercato è destinato alla popolazione del posto, niente di più lontano da un mercato turistico come il Gran Bazar di Istanbul o i raffinati bazar iraniani.
Cena in hotel con zuppa di lenticchie, tagliatelle al sugo, pollo in umido, pizza, verdure, banane, tè. Rientrati in camera, si apre la caccia alle pulci: ne scoviamo 3 che finiscono nel wc. Sono fiduciosa di riuscire a dormire, ma passerò tutta la notte a svegliarmi ad ogni ora, accendere la luce e scoprire che sul materasso cammina sempre qualcosa: è praticamente impossibile stanare tutti gli insetti che hanno eletto il mio materasso come tana.
Giovedì 2 ottobre 2014
Colazione verso le 6 con latte e caffè, torta al cacao, pancake con miele. Alle 7 lasciamo Gondar per raggiungere l’aeroporto; l’aereo parte in ritardo alle 10.30 invece delle 9.15. Arriviamo ad Axum alle 11.45, con un’ora di ritardo. Dopo avere recuperato i bagagli, raggiungiamo il Sabien Hotel che dista 8 km dall’aeroporto.
Pranziamo in hotel, ordinando in anticipo le portate: spaghetti al pomodoro, filetto di pesce arrosto con spinaci e patate, arancia.
Alle 14,30 visitiamo le antiche vestigia della città. Il parco delle stele settentrionali stupisce per la grande stele che al momento di essere sollevata, cadde e si ruppe in alcuni pezzi: adesso le sue parti giacciono indisturbate sull’erba e allo spettatore non rimane che immaginare quanto sarebbe stata imponente a svettare in cielo se non si fosse rotta. La stele di Roma spedita in Italia nel 1937 è ritornata in Etiopia nel 2005. A onor del vero è la meglio conservata. Alcune stele presentano decorazioni che rappresentano la luna o l’uomo (le stele risalgono a un periodo antecedente alla religione cristiana). L’adiacente museo ospita oggetti rinvenuti duranti gli scavi, incluso quello in corso in cui i Tedeschi stanno lavorando a una tomba.
La tomba della Falsa Porta si trova nello stesso complesso del parco delle stele; si chiama così perché l’ingresso è arretrato rispetto alla tomba scolpita. Per i locali è la tomba del re Ramhai. Percorriamo una strada sassosa che conduce alla tombe dei re Kaleb (il padre) e Gebre Meskel (il figlio): quello che sorprende di queste costruzioni è la precisione con cui combaciano tra loro i blocchi di pietra. Lungo la strada dentro una capanna si trova quella che viene considerata la stele di Rosetta etiope: l’iscrizione di re Ezena è in sabeo, ga’ez e greco. Risale al 330-350 d.C. ed è stata scoperta da un contadino. Sulla strada c’è la piscina della regina di Saba, un grande serbatoio idrico.
Dove sorge la chiesa di Santa Maria di Sion (quella nuova è stata voluta da Hailè Selassiè) c’è un museo ricco di croci e corone davvero male illuminato: di nuovo, come per i reperti di Lucy, emerge la scarsità di mezzi a disposizione, un vero peccato. La vecchia chiesa di Santa Maria di Sion è visitabile solo dagli uomini: (a malincuore mi devo adeguare!).
Di fronte ci sono la vecchia e la nuova cappella che ospita l’arca dell’alleanza, che ovviamente non può essere visitabile da nessuno. Secondo la leggenda, chi dovesse vedere l’arca, rimarrebbe folgorato. Questo luogo è il fulcro delle credenze etiopi, in quanto il popolo si ritiene discendente del figlio Menelik I nato dall’unione della regina di Saba e di Salomone. Fu lui, Menelik che portò in Etiopia l’arca dell’alleanza, dopo una visita a Gerusalemme al padre Salomone. La nostra guida afferma che è inammissibile per un Etiope pensare che la regina di Saba non sia mai esistita perché sarebbe come ammettere che non esista il popolo etiope, considerandosi il suo discendente.
La giornata si conclude con la visita di quello che era il palazzo della regina di Saba o Dungur, di cui sono visibili solo le mura perimetrali delle camere. Alcune ragazze del luogo di svariate età mettono in vendita piatti fatti di fili intrecciati dai colori vivacissimi: ottimi come portafrutta.
Cena in hotel con passato di spinaci, verdure stufate, patate, pollo, arrosto di manzo, arancia. La notte è stata “pulci free”: che sollievo!
Venerdì 3 ottobre 2014
Colazione alle 7, ma il trattamento è deprimente: ho chiesto l’omelette cotta al momento, ma mi viene indicato di mangiare quella già pronte nella pentola sopra il fornello. In mancanza di altro mangio anche quelle con latte e caffè e del pane tostato con marmellata di arancia. Alle 8 si parte. Lungo il tragitto c’è una piccola sosta per vedere il monumento ai caduti italiani di Adua. La tappa successiva è Yeha, la prima capitale axumita (si trattava di un regno etiope o d’Arabia?). Il Grat Beal Gabri, datato tra l’VIII e il V sec. d. C. assomiglia al tempio della Luna di Ha’reb nello Yemen. Il tempio, in restauro, stupisce per l’aderenza tra loro dei blocchi. Poco distante c’è la chiesa di Abuna Aftse costruita su una chiesa preesistente. Accanto c’è un piccolo museo con iscrizioni sabee. La strada (asfaltata per nostra fortuna) verso Adigrat offre un panorama incantevole: montagne che ricordano le Dolomiti, canyon rossicci, aloe fiorite. Il pranzo ad Adigrat è nel ristorante tipico Geza Gebreslase. A causa della luce soffusa assaggio per sbaglio il kifto (carne cruda con berbere, pot-pourri di spezie dove la fa da padrone il peperoncino) convinta che fosse una sorta di ragù di carne. Mangio inoltre patatine fritte, shiro (purè di ceci), lenticchie, tibs sheukla, riso con verdura, banane, tè. Un’ora e mezzo di autobus e giungiamo al monastero Medhame Alem Kesko dopo 15 min di camminata in salita in mezzo a pietre e massi. Il panorama che si gode è spettacolare: vallate verdi e monti dai profili singolari. Il monastero è stato scavato in una grotta alcuni secoli fa. All’interno i soffitti sono scolpiti con motivi geometrici.
Arriviamo a Makallé all’hotel Planet (costruito da appena 6 mesi) verso le 18. L’hotel appare molto lussuoso, ma come tutti gli hotel in Etiopia ha le sue magagne. Osservando i particolari è molto imperfetto. La cena delude le attese: minestra di pomodoro, verdure, pasticcio di pasta (immangiabile), arrosto di vitello, pollo, pesce, papaya, anguria. È il primo posto in cui dicono che il caffè non è compreso nella cena.
Sabato 4 ottobre 2014
Colazione alle 6.30 e la scelta di dolci è di tutto rispetto: pluncake, muffies, pasta frolla, poi c’è latte, caffè, pane da tostare sul momento, marmellata, omelette preparata a vista.
Si parte alle 7.30 per evitare la scarpinata con il sole cocente. Il sentiero, stimato in 50 min, si trasforma in un’ora e mezza a causa delle soste obbligate per riposarsi dall’affanno. Nei momenti di riposo ne approfitto per guardarmi intorno ad ammirare un paesaggio sconfinato e dalle striature rossicce che mi ricordano Petra. Quando l’obiettivo è raggiunto, la bellezza della chiesa di Debre Tsion Abraham ricompensa la fatica. All’interno soffitti scolpiti e affreschi. Impieghiamo un’altra ora e mezza per il ritorno. In uno spiazzo consumiamo il pranzo a sacco (è ormai l’1.30 del pomeriggio). Darò mezzo panino con le verdure ai bambini che ci guardano con occhi imploranti e che si sono raggruppati attorno a noi in un battibaleno.
La successiva chiesa è di nuovo raggiungibile tramite sterrato e si distingue per un portico aggiunto dagli Italiani. Abraha Atsbeha è anch’essa scavata nella roccia con soffitti scolpiti e affreschi. La terza chiesa del Tigray che visitiamo è Wukro Chirkos, facilmente raggiungibile dalla strada, ma meno bella: tracce di soffitti scolpiti e nessun affresco.
Rientriamo in hotel verso le 18. La cena è davvero di basso livello e non si riesce a mangiare granché. A sorpresa i nostri compagni di viaggio ci offrono la torta per il nostro anniversario: davvero un pensiero gentile!
Domenica 5 ottobre 2014
Sveglia alle 6 e colazione con mezza omelette, latte, caffè, pluncake, torta al cacao. Partenza alle 8 per l’aeroporto di Macallé. Alle 9.05 si decolla con destinazione Addis Abeba. Il volo dura un’ora. Arrivati nella capitale, visitiamo il Museo Etnografico, che sorge nella residenza di Hailè Selassiè. Attraverso gli stadi della vita, infanzia, età adulta, aldilà, vengono illustrati gli oggetti quotidiani, le varie etnie, i metodi di sepoltura. Alcune sale sono rimaste così com’erano con lo scopo di illustrare la vita di Selassiè. Il 2° piano ospita una mostra di icone, croci, strumenti musicali.
Pranzo al club Juventus Abeba, dove i tifosi del Toro storcono il naso, nonostante non ci sia nessuna attinenza con la squadra di calcio. Il ristorante Linda è gestito da un’italiana che vive da sempre in Etiopia, ha sposato un etiope adesso defunto, che l’ha lasciata con 4 figli. Scegliamo dal menu: lasagne al ragù, filetto alla pizzaiola, macedonia. La ricerca di souvenirs è infruttuosa sia in un negozio specializzato in oggetti per i turisti che nelle bancarelle, sempre per turisti, che ci sono in una zona di Adis Abeba. Alle 16.30 ritorniamo al Capital, dove abbiamo alloggiato all’inizio del viaggio. Alle 19 incontriamo il corrispondente dell’agenzia in Etiopia che ci regala mezzo kilo di caffè a persona. Cena nel locale tipico 2000 Habesha (per me troppo turistico) con canti, balli e cena a buffet (i piatti si ripetono, in più c’è la trippa, per gli estimatori di quel piatto).
Arriviamo in aeroporto verso le 21. I negozi dell’aeroporto sono cari, ma questo non garantisce che i prodotti siano di qualità. Finalmente trovo qualcosa che mi aggrada: un magnete che riproduce la chiesa di S. Giorgio a Lalibela, che rimarrà per me la cosa più bella che ho visto qui in Etiopia. L’aereo decolla alle 0.45 con arrivo a Roma alle 5.30 (4.30 ora italiana). Riparte alle 6.30 con arrivo all’aeroporto di Malpensa alle 7.30.
L’Etiopia vista con i miei occhi
Il primo impatto con il “sistema” Etiopia è stato per ottenere il visto d’ingresso. I computer sono accatastati e tutto viene gestito a mano, con una pletora di impiegati e secondo un metodo incomprensibile. Il mio passaporto stava finendo in mano a una francese!
Addis Abeba, capitale da poco più di un secolo, è una città che sta crescendo senza un piano preciso. Tanti palazzi in costruzione hanno le impalcature in legno di eucalipto e non in metallo. Simbolo di questa città senza storia rimarrà per me l’immagine di un ragazzo seminudo disteso per terra sul ciglio della strada. L’ho rivisto, passando con il pulmino a distanza di poco tempo sempre immobile nello stesso posto. Nessuno l’aveva soccorso. Non saprò mai se era morto, ubriaco o fatto. E tutto questo è successo nelle prime due ore che ho trascorso in territorio etiope.
Scopriamo subito che le costruzioni decadono molto in fretta (l’hotel a Gondar aveva 2 anni ma ne dimostrava 50!), perché i lavori vengono affidati a manodopera a basso costo.
Fuori dalla capitale strade e case in muratura diventano evanescenti, quasi un miraggio. L’unica città che gode di un centro e di case in muratura è Gondar, grazie al periodo in cui l’Etiopia è stata una colonia italiana.
Di fede cristiana ortodossa, bisogna levarsi le scarpe per entrare nelle chiese (chissà se sono state le stuoie o i tappeti delle chiese che ci hanno regalato le pulci a Lalibela, a Gondar o sul lago Tana). Solo i bambini e gli anziani possono ricevere la Comunione, perché gli unici a essere liberi dalle tentazioni della vita (sicuramente si allude a quelli della carne…).
Le donne etiopi vivono meno degli uomini perché sottoposte ai lavori più pesanti.
I ragazzini sono vestiti con abiti per la maggior parte rattoppati, eppure i loro visi sono luminosi, oltre ad avere dei bei lineamenti: pelle olivastra dai tratti somatici delicati. E’ proprio vero che non sono le cose a dare la felicità.
I paesaggi etiopi levano il fiato per quanto sono belli e vasti. Distese di campi di grano, orzo, tef, mais, campi gialli con le margherite di Meskel, speroni di roccia che sembrano bucare il terreno, crepacci profondi e dalle striature rossicce. Uccelli variopinti che rapiscono gli occhi.
Gli Etiopi si salutano con una singolare sequenza di gesti, tra cui quella di appoggiare la spalla destra di uno sulla spalla sinistra dell’altro. Paese che vai, usanza che trovi.
Arrivederci, Etiopia.