India in solitaria, indimenticabile esperienza
La programmazione del mio viaggio non è iniziata molto tempo prima della partenza, ho deciso, ho chiesto il visto, ho acquistato il volo, ho contattato l’agenzia di Jaipur (conosciuta leggendo altri diari di viaggio) e dopo 20 giorni già mi trovavo in India. Ho avuto qualche timore iniziale, visto che sono donna e che sarei partita da sola, ma il tutto si è risolto quasi subito. Non è che sono particolarmente coraggiosa e spericolata, anzi, ma con le normali precauzioni, che si dovrebbero assumere in ogni luogo del mondo, anche a casa nostra, non ho avuto assolutamente nessun tipo di problema.
Ecco come si sono organizzata:
Volo Air India Milano Malpensa – Delhi e ritorno pagato 620 euro. Se avessi comperato prima avrei sicuramente risparmiato parecchio! Hotel puliti con stanze ampie e prima colazione, macchina con autista privato a completa disposizione tramite l’agenzia Mahendra India Travel di Jaipur, mail mahendraindia@libero.it. Primo itinerario abbozzato scopiazzando da chi ci è già stato, perfezionato dall’agenzia. I giorni a disposizione per il tour sono stati 17, da aggiungere ai 2 necessari per il viaggio.
Periodo e clima: in India aprile è l’inizio della bassa stagione, fa già caldo, ma sopportabile. Ho preso anche un paio di acquazzoni, brevi ma intensi, nonostante non fosse periodo di monsoni.
Abbigliamento: leggero e di cotone, per chi come me non è amante dell’aria condizionata è consigliabile un golfino/maglioncino da usare nelle sale dei ristoranti ed in macchina. Per entrare nei templi è preferibile avere le spalle e le gambe coperte, in segno di rispetto dei siti.
Problemi di salute: grazie al cielo nessuno. Non ho nemmeno avvertito punture di insetti. Ho sempre bevuto acqua in bottiglia, evitato il ghiaccio e la verdura cruda, che tra l’altro non mi è mai stata proposta.
L’india non si racconta, è da vivere. E’ un’affermazione che ho letto da qualche parte, niente di più vero.
Il programma di viaggio è stato:
1° giorno: Delhi 1
2° giorno: Delhi – Mandawa (6 ore di macchina)
3° giorno: Mandawa – Bikaner (4 ore di macchina)
4 e 5° giorno: Bikaner – Jaisalmer con passeggiata nel deserto del Thar
6° giorno: Jaisalmer – Jodhpur (5 ore di macchina)
7° giorno: Jodhpur – Jaisalmer – Ranakpur – Udaipur (6 ore di macchina)
8° giorno: Udaipur
9° giorno: Udaipur – Chittorgarh – Puskhar (6 ore di macchina)
10° giorno: Puskhar – Jaipur (3 ore di macchina)
11° giorno: Jaipur – Amber
12° giorno: Jaipur – Fatehpur Sikri – Agra (4 ore di macchina)
13° giorno: Agra – Gwalior – Orchha (4,5 ore di macchina)
14° giorno: Orchha – Khajuraho (3,5 ore di macchina)
15° giorno: Khajuraho – Varanasi tramite volo interno
16°giorno: Varanasi – Satna
17° giorno: Varanasi – Delhi tramite volo interno
Non spaventatevi dal numero delle ore da trascorrere in auto. Gli spostamenti in macchina per dirigersi da una città all’altra sono lunghi, è vero. Per percorrere 300 km ci si impiega il doppio di quello che serve in Italia, causa traffico, ma quello che scorre lungo le strade, che si vede dal finestrino, regala agli occhi dei turisti ottimi spunti per scattare fotografie. Tanti colori, donne che camminano dritte, tenendo in equilibrio sulla testa mega brocche di acqua, dopo averla prelevata dai pozzi. Pastori con il loro gregge, purtroppo a volte bambini, vacche, bus pubblici colmi di gente all’inverosimile, camion con balle di fieno talmente grandi, forse più grandi del camion stesso.
Non sto a raccontare giorno per giorno quello che ho visitato per praticità e per non annoiare troppo chi mi leggerà.
Arrivo all’Indira Gandhi International Airport nella prima mattinata. Vicino al Costa Coffe intravvedo il ragazzo in uniforme da autista con in mano il cartello che riporta il mio nome. Andiamo verso la macchina ed iniziamo il percorso verso il centro città, che dista un’oretta di strada. Guardo fuori dal finestrino, causa l’orario mi illudo che il traffico sia sempre così, tutto sommato accettabile. In seguito capirò che la mia fu solo un’illusione. Ci sono bambini per strada che giocano, fanno la ruota, mi chiedo se vanno a scuola, come dovrebbero fare tutti a quell’età. Nella hall dell’albergo incontro la mia guida che parla italiano ed insieme iniziamo il tour. Delhi, la porta dell’India, dove gli edifici islamici si mescolano all’architettura Moghul, città distrutta e ricostruita varie volte, occupata da diverse dinastie nel corso degli anni. La prima visita è la tomba di Humayun, esempio di perfezione e simmetria, costruita in arenaria rossa e marmo bianco. Continuamo con la moschea più grande dell’India, Jama Masjid, proseguiamo con il vicino mercato di Chandni Chowk, un dedalo di viuzze affollate di negozi e bancarelle che vendono di tutto e di più. Viaggiando da sola ho apprezzato molto il fatto di essere stata accompagnata dalla mia guida, altrimenti avrei rischiato seriamente di perdermi. Stordita nei mie sensi, non sapendo più dove guardare e a chi dar retta, coinvolta da una miriade di commercianti che cercavano di attirare l’attenzione dei passanti, gli odori, il cibo di strada, i fili della luce penzolanti, un vero spaccato di India autentica, ben diversa dai centri commerciali con aria condizionata d’estate e riscaldamento d’inverno a cui siamo abituati noi italiani e di cui, a volte, facciamo fin troppo ricorso. Visitiamo anche il Red Fort, il museo nazionale dedicato a Gandhi, Lodi Garden, un grande parco dove, fin dalle prime ore del mattino, chi può viene per correre e fare esercizi fisici, per giocare a cricket, per fare yoga.
Arrivata a Jaipur, the “pink city”, l’approccio con la città non è stato dei migliori, anche qui traffico caotico ed inquinamento alle stelle. Però, dal punto di vista architettonico, Jaipur vanta alcuni dei migliori esempi di architettura del Rajasthan e magnifiche fortificazioni, risultando molto interessante da visitare. Il monumento più famoso e veramente bello è il forte di Amer, sontuoso palazzo del 16 ° secolo che si trova in cima ad una collina, regalando una notevole vista sui dintorni. L’interno del palazzo dimostra la ricchezza ed il potere dei signori del tempo, con camere con intarsi di specchi, per riflettere il cielo delle notti, sistemi di raffreddamento ad aria, sapientemente progettati.
Il Hawa Mahal o palazzo dei venti, visto dalla strada si presenta come una struttura massiccia, ma in realtà l’edificio è solo una facciata elaborata, con ben 953 raffinate finestre a nido d’ape in arenaria rosa, bordate di bianco. Secondo il volere del maharaja le finestre così ideate dovevano avere uno scopo pratico: consentire alle donne della casa reale di osservare lo svolgimento delle processioni e della vita quotidiana nelle strade, senza essere viste.
«Una lacrima di marmo, ferma sulla guancia del tempo» queste sono le parole che il poeta indiano Rabindranath Tagore ha usato per descrivere quella che oggi è considerata una delle meraviglie del mondo: il Taj Mahal, il mausoleo simbolo dell’India. Il Taj Mahal è un palazzo che racchiude tante storie: la storia di un grande amore, quella di una morte e quella di una promessa, divenuta poi ossessione.
L’amore: quello tra l’imperatore moghul Shah Jahan e sua moglie Arjumand Banu Begum. Lui indiano musulmano, lei di origini persiane, giunti a nozze da ragazzini tramite un matrimonio combinato, ma che poi si è rivelato un vero amore.
La morte: quella della bella principessa che, alla nascita del 14° figlio, non superò il parto, lasciando il marito nel più totale sconforto. Fu un vera tragedia, al punto che i capelli e la barba dell’imperatore, nel giro di poco tempo, divennero completamente bianchi per il dolore. Per otto giorni non mangiò. Per due anni niente musica e svaghi.
La promessa: la principessa la chiese al marito prima di morire: quella di non essere mai dimenticata e che per lei venisse costruito un monumento funebre degno del loro amore. La promessa si trasformò in una vera e propria ossessione per l’imperatore, il quale dopo 22 anni di lavori, utilizzando migliaia di operai che intagliavano pietre, elefanti e bufali per il trasporto dei materiali, riuscì senz’altro a mantenere la propria promessa, ma soprattutto a donare al mondo intero un vero capolavoro, unico.
Dopo tanto romanticismo una domanda mi è venuta spontanea: fino a dove arriva la storia e dove inizia la leggenda?
La guida mi dice che recenti ricerche storiche accreditano la tesi secondo la quale la motivazione alla costruzione del Taj Mahal non è riferibile all’amore eterno, ma alla megalomania ed alla sfrenata vanità dell’imperatore moghul. Comunque sia andata, personalmente, voglio continuare a pensare alla vena romantica e poetica, la preferisco. Certamente la bellezza di questa costruzione è resa ancor più affascinante dalla leggenda che la avvolge, come una bellissima fiaba.
Arrivo a Varanasi, svolto l’angolo della stretta viuzza che inconsapevolmente imbuco e mi trovo di fronte il fiume Gange. Anzi, prima di intravvedere le acque del fiume sacro, incontro tante persone intente nei loro riti religiosi. Comprendo che la devozione è totale, l’atmosfera è surreale. Inizia la preghiera serale, i bramini volteggiano le loro torce di fuoco, l’aria è impregnata di incenso.
La mattina seguente, mi alzo molto presto, ho appuntamento con la mia guida che mi accompagnerà nel giro in barca. Dal fiume osservo e contemplo i rituali dei fedeli che si immergono nel Gange e nemmeno si accorgono di noi turisti. L’emozione è forte, una miriade di fiammelle adornate di fiori galleggia nell’acqua, chissà quale desiderio esprime chi le lascia andare: una vita, attuale o futura, meno dura? Maggiore agiatezza? O, qualcosa di meno terreno, come la richiesta di perdono per i propri peccati e una reincarnazione dignitosa? Il barcaiolo mi conduce nei pressi del ghat dove avvengono le cremazioni, non noto scene di delirio da parte di chi assiste alla cerimonia funebre, solo silenzio, tristezza negli occhi, ma non angoscia, la morte è l’unica cosa certa nella vita, il popolo indiano la affronta con grande dignità e come pochi riescono a fare. La pira funeraria viene accesa dal figlio maggiore, con la testa rasata, dopo aver compiuto i vari rituali religiosi. Il corpo viene avvolto dalle fiamme, si trasforma in cenere che viene raccolta, sempre dal figlio più grande, e gettata nelle acque sacre del fiume.
Avere un’auto ed un autista a disposizione non ha prezzo, ci si può fermare per scattare fotografie ed ogni volta che scendevo dalla macchina mi veniva subito incontro qualcuno per salutarmi, per chiedermi di fare una foto insieme, ho incontrato un popolo veramente ospitale. Viaggiare accompagnati da una persona del luogo inoltre permette di conoscere meglio il paese che si sta visitando e di farsi raccontare aneddoti che sicuramente non si trovano scritti nelle guide.
E’ stata un’esperienza che mi ha toccata profondamente, ho visto scene di miseria, ma anche tanta dignità e tanti sorrisi che difficilmente dimenticherò.
Grazie a chi mi ha permesso di vivere questa esperienza e per non avermi fatto pesare il fatto di essere sola.