Un nuovo viaggio in Asia, attraversando Singapore, Indonesia e Malesia

Un viaggio affascinante dove culture, popoli e religioni diverse si incontrano
Scritto da: Evenly
un nuovo viaggio in asia, attraversando singapore, indonesia e malesia
Partenza il: 29/06/2015
Ritorno il: 12/07/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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Devo decidere dove trascorrere le settimane di ferie stabilite a giugno – luglio. Devo ammettere che a seguito del viaggio in Giappone e dopo aver letto i libri di Tiziano Terzani che mi affascinano completamente e che raccontano le storie dell’Asia, non posso scegliere una meta diversa: si va in Asia; ma in due settimane dove posso andare? Questa volta non sono sola ma porto con me il fidanzato che è abituato alla vacanza comoda, quella con il trolley e il letto cambiato tutti i giorni, con i Mcdonalds e negozi Apple ad ogni angolo. Vado un po’ per esclusione e decido per queste due mete: Indonesia e Malesia facendo però tappa obbligata a Singapore. Non facciamo una vera e propria scelta perché alla fine includiamo entrambi i paesi nel nostro itinerario: Singapore, Bali (Indonesia), Malacca e Kuala Lumpur (Malesia). Sono sincera.. la cosa più sensata sarebbe stata quella di visitare un paese o l’altro ma per disguidi vari è andata così. Non chiedetemi altro per favore.

Prenotiamo con qualche mese di anticipo il volo Emirates che arriverà a Singapore il 29 Giugno e ripartirà da Kuala Lumpur l’11 luglio (circa €550 a testa a/r). Non abbiamo bisogno di alcun visto, se come al solito, non rimaniamo nel paese per più di 90 giorni: siamo perciò liberi di circolare tra questi tre curiosi paesi. Decidiamo di non cambiare i soldi anche perché dovremmo metterci in tasca tre diverse monete: il dollaro di Singapore, la rupia indonesiana e il ringgit malesiano. Il fuso orario con Singapore è di 7 ore e il clima.. beh, Singapore non conosce stagioni essendo praticamente all’equatore, ha una sola costante tutto l’anno: l’umidità. L’Indonesia in questo periodo dell’anno è perfetta, mentre la Malesia è a rischio monsoni ed è quindi più consigliato recarsi sulla costa che si affaccia sul mar cinese.

Per quanto riguarda assicurazione e vaccinazioni varie, decidiamo di acquistare una polizza con coverwise e non sottoporci ad alcun tipo di vaccinazione: non andiamo nella foresta pluviale. A parte Bali, staremo solamente in centri cittadini medio-grandi. L’unica cosa che decidiamo di fare è una cura di fermenti lattici da una settimana prima della partenza.

Dopo gli USA, l’Australia, il Giappone, è la prima volta che visito paesi non occidentali (a parte Singapore). Malesia e Indonesia sono paesi piuttosto poveri, che stanno subendo ora una lenta trasformazione e modernizzazione. Da un punto di vista religioso ed etnico incontriamo una varietà incredibile: Singapore così come la Malesia sono paesi estremamente multiculturali, dove convivono etnie (cinesi, malesi, indiani ed europei giunti durante il periodo coloniale) e religioni diverse (buddisti, induisti, musulmani, cattolici); la loro convivenza non è sempre stata semplice. Bali invece è di fede induista anche se l’Indonesia tutta è di religione musulmana.

Nonostante questo non fosse l’itinerario da me inizialmente pensato, devo ammettere che il vedere e mettere a confronto questi paesi, con le loro culture e religioni, è stato estremamente costruttivo e arricchente da un punto di vista culturale e ora vi racconterò perché.

1st stop: Singapore

Arriviamo a Singapore che sono le 8.30 di mattina circa. Il Changi airport di questa città-stato è immenso ed è anche uno dei più efficienti al mondo e all’inizio ci sentiamo un po’ spaesati. Chiediamo informazioni su come arrivare nella zona dove abbiamo prenotato l’albergo… ci consigliano di prendere il taxi ma noi vorremmo prendere la metropolitana che sicuramente costa un po’ meno. Esiste l’ MRT tourist pass, che costa $30 per 3 giorni e che permette di girare liberamente la città, essendo questa capillarmente servita. Se si riconsegna la tessera al termine del soggiorno è possibile riavere indietro i $10 di cauzione (il costo della tessera dipende dai giorni di permanenza). Utilizzare la metropolitana di Singapore dopo quella di Tokyo è un gioco da ragazzi… Arriviamo all’hotel che si trova in Hong Kong street, e lì decidiamo di fermarci qualche ora per fare un piccolo riposino: il fuso orario è di 7 ore e durante il volo non riusciamo a riposare più di tanto..

La Repubblica di Singapore è tale fin dall’agosto del 1965. Prima, Singapore o Singapura (cioè letteralmente la città del leone), era parte dello stato malesiano, e prima ancora fu territorio di scontro tra diverse potenze militari sia asiatiche che europee: portoghesi, olandesi, inglesi e giapponesi ne occuparono le terre. La città-stato è situata in una posizione determinante per gli scambi commerciali tra l’occidente e l’Asia: il suo porto infatti è tra i primi 5 per attività e traffico su scala mondiale. Questo spiega in parte la volontà da parte di più stati di voler entrare in possesso di questo piccolo ma importante avamposto marittimo. La sua popolazione è composta da più di 5 milioni di abitanti ed è una tra le città più multiculturali al mondo: oltre ai singaporiani, vi si incontrano cinesi soprattutto, ma anche malesi e indiani. Singapore è una città estremamente ordinata, pulita, controllata, dove però il divieto di fare questo o quello è presente ovunque: non si può mangiare sulla metropolitana, non si può bere, non ci si può baciare in strada, non si può fumare dove si vuole. In un certo senso mi fa paura: se per essere ordinati e puliti (diciamo pure civili) bisogna adeguarsi e obbedire a questi (e chissà quanti altri) rigidi dettami, allora forse preferisco la sporcizia e il disordine. Singapore è una città super moderna e tecnologica: è uno dei centri finanziari più grande al mondo oltre ad essere una delle città più care al mondo con un PIL pro capite di circa $63.000 nel 2011.

La prima cosa da cui si viene assaliti a Singapore appena usciti di casa è l’umidità: fa talmente caldo che quasi si fa fatica a respirare.

Finito il riposino, decidiamo di inoltrarci tra i grattacieli di questa città: ci rechiamo a Orchard Road, la via dello shopping singaporiano. Sì ma ragazzi… che shopping! Il negozio di Luis Vuitton si sussegue a quello di Dolce & Gabbana che si sussegue a quello di Armani, e così via: Orchard è un fiume in piena di centri commerciali di grandi marche, supermercati ma anche ristoranti e bar sopraffini. Abbandoniamo il lusso e la pacatezza di questa ricca arteria per recarci nel trambusto di Little India, dove decidiamo di concederci un pasto presso il Tekka Centre: il quartiere, così come il centro, è un brulicare di piccoli negozietti gastronomici e ristorantini, da dove proviene un forte odore di cibo e una musica in stile bollywoodiana. Guardandoci un po’ in giro ci accorgiamo di essere gli unici con la pelle chiara, ma nonostante ciò, veniamo accolti con gentilezza e consigliati nella scelta del pranzo: è il nostro primo approccio con il Nasi (riso) con pollo fritto: davvero delizioso ed economico ($5). Con una buona carica di energia data dal pranzo, ci rechiamo a visitare uno dei templi della zona: il Veeramakaliamman Temple, un tempio hindu dedicato alla sanguinaria dea Kali. Non ci sono turisti che entrano nel tempio ma io mi faccio coraggio ed entro, scalza e con la fotocamera in mano: è in corso un preghiera e del cibo (un casco di banane) sta per essere donato alla dea, rappresentata in forma statuaria… il tutto accompagnato da una voce cantilenante che sta presumibilmente recitando una sorta di preghiera. Architettonicamente il tempio è bellissimo: ricchissimo di colori e figure mitiche ben scolpite, è una piacevole scoperta. E’ il mio primo approccio con la religione hindu, per cui mi sembra giusto spendere due parole.. Come già accennato, Singapore è un mix di etnie e religioni. La religione hindu proviene dall’India e si è insediata qui con l’arrivo dei primi indiani: Brahma, l’idea hindu di Dio, significa “origine e causa dell’esistenza”. Brahma appare all’umanità in diverse rappresentazioni fisiche: Brahma il creatore (rappresentato con quattro teste e quattro braccia), Vishnu il conservatore (che si manifesta in diverse incarnazioni di cui le due più importanti sono Krishna e Rama), Shiva il distruttore e rinnovatore (la cui moglie è Parvati detta anche Kali).. Nell’idea hindu non c’è una vera e propria fine alla vita poiché la fine rappresenta in realtà un nuovo inizio.

Sazi da una giornata ricca di cultura e cose nuove, tradizione e modernità, decidiamo di saziare anche i nostri stomaci. Ci lasciamo consigliare dalla guida e ceniamo al Din Tai Fung (un ristorante taiwanese molto frequentato), presso il centro commerciale di Marina Bay dove ce la caviamo con $45 in due. Ammiriamo lo skyline di Singapore, che ad essere sincera non è poi così diverso dallo skyline di altre grandi città visitate.. Decidiamo di aggirare la baia per vedere la bellezza del Marina Bay Sands Hotel illuminato, dal Merlion Park (dove si trova il Merlion, il famoso leone simbolo di Singapore). Sembra incredibile ma fa ancora caldo e noi ci perdiamo per tornare in hotel, dove arriviamo fradici di sudore.

Singapura, the 2nd day

L’afa ti assale appena metti piede fuori dalla porta. Le gocce di sudore iniziano a scivolare lentamente dalla fronte, le forze sembrano venire a mancare subito e l’aria che si respira è talmente pesante che sembra non essere in grado di arrivare ai polmoni. Dopo aver visitato la comunità indiana residente in città, decidiamo di curiosare tra i quartieri di un’altra grandissima comunità, quella cinese. Alla fermata della metro scende dal treno un vero e proprio sciame di persone che con la testa bassa, si affretta a raggiungere l’uscita. Come tutte le chinatown del mondo, anche qui ci si presentano bancarelle che vendono cianfrusaglie, botteghe di antiquariato e mercati ortofrutticoli che si alternano tra abitazioni colorate in tipico stile perakiano. La nostra attenzione è attirata da un tempio.. tanto per cambiare.. il Buddha Tooth Relic Temple, dove, a quanto dicono, è custodito il dente canino sinistro del Buddha. A quanto dicono. Io, permettetemelo, rimango piuttosto scettica ma non è così per i diversi fedeli che si inchinano di fronte alla reliquia custodita in uno stupa in oro massiccio. Il buddismo è la religione dominante a Singapore, seguita dal 33% della sua popolazione. Abbandoniamo la comunità cinese per dirigerci nuovamente nella modernità cittadina, la zona di Marina Bay, trascinandoci per vie del colonial district, dove ci fermiamo a degustare dei piatti giapponesi. Parlando di cucina, Singapore rappresenta un centro dell’alta gastronomia internazionale: il panorama culinario della città offre davvero di tutto, anche se, va detto, sono la cultura cinese, indiana e peranakan a costituire l’essenza della cucina locale. Attendiamo di ammirare il tramonto dall’alto del Marina Bay Sands vagabondando nell’immenso giardino sottostante, che ospita un’ampia varietà di piante provenienti da diverse parti del mondo, curiosando anche in una delle sue serre, atta ad ospitare una riproduzione della foresta pluviale. Il panorama di cui si gode dall’alto del Marina Bay Sands è fantastico. I suoi ospiti possono goderne dalle acque della sua piscina posta sul tetto. Noi infatti siamo provvisti di asciugamano e infradito, convinti che potremo usufruirne anche noi. Illusi. Entrano solo i guest dell’albergo (che per i nostri canoni è piuttosto caro).. Ma a quanto pare i guest sono davvero tanti e sgomitano pur di assicurarsi un posto in prima fila. Ci accontentiamo perciò di osservare l’intera baia dal suo skypark (23$ per persona): il sole si nasconde pian piano dietro i grattacieli che abitano la città e la sua luce, che diventa più tenue, lascia comunque intravedere il sottile strato di umidità che avvolge l’intera metropoli. Osserviamo nuovamente lo spettacolo dei magic Tree nel sottostante Garden by the Bay, accorgendoci che dalla parte opposta del grande hotel c’è un altro spettacolo da non perdere, proprio di fronte allo skyline cittadino: musica, luci, colori e fontane. Chissà quanto ancora avrebbe da offrire Singapore che noi non sappiamo!

Che dire di questa Singapura. Una città totalmente moderna, pulita, ordinata. Sicuramente vuole fare un’ottima impressione al suo visitatore, e ci riesce. Una città-stato nuova, che sembra voler eliminare ogni traccia del passato… sembra quasi finta tanto che è moderna. Numerosi sono i suoi centri commerciali, che con la loro aria condizionata, vogliono probabilmente alleviare il senso di spossatezza causata dalla temperatura ai propri abitanti. Una città ricca, dove i capitali stranieri giungono a fiotti, e si vede. Il lato che mi ha colpito di più di lei è la sua multiculturalità… Indiani, cinesi, occidentali vivono insieme pacificamente, ognuno mantenendo i propri culti e le proprie tradizioni. E in questo la Malesia è molto simile.. ma ne parleremo più avanti!

Bali

Ci vogliono circa 3 ore di volo da Singapore. Bali è l’unica isola indonesiana a essere di religione induista. O meglio.. A Bali la religione induista giunta dai vicini di casa, si è trasformata e modellata in base alle tradizioni e credenze della popolazione locale.. Rimane perciò una pratica che si rifà al culto induista ma assume dei tratti completamenti originali e per questo unici. Strano. Perché tutte le altre isole dell’arcipelago sono invece di religione musulmana. Bali è la meta d’eccellenza dei surfers di tutto il mondo che popolano in qualsiasi momento dell’anno la bellissima spiaggia di Kuta, a sud dell’isola, i suoi bar e le sue moderne strutture turistiche. Sbagliando, pensiamo che sia di dimensioni piuttosto ridotte. Sappiamo che le sue strade, come in qualsiasi paese asiatico, sono popolate da una scia interrotta di motorini che scorrazzano a destra e sinistra senza un’apparente logica stradale. Il rumore fastidioso del clacson si ripete in continuazione e il caos è snervante ed evidente. Fin dalle prime luci dell’alba i suoi abitanti sono in moto, letteralmente. Sui loro mezzi a due ruote trasportano di tutto: tronchi di alberi lunghi metri, cestini o cassette contenenti ogni genere alimentare, persone. Sì perché su un motociclo si possono contare fino a 4 persone, solitamente una famiglia composta da mamma, papà e figlioletti piccoli. Tutti rigorosamente senza casco. Noi abbiamo il nostro angelo custode che in quel traffico infernale si destreggia come un esperto e con una calma inconsueta: si chiama Komang, ha una ventina di anni e parla inglese come io parlo il francese: così così. Estremamente gentile, fin troppo servizievole; la dote che di lui mi stupisce immediatamente è la sua pacatezza e capacità di lasciare che la confusione che lo circonda non si impossessi di lui. Alla giuda, al suo posto, avrei inveito non so quante volte. Komang vive a nord dell’isola, a Lovina, ma lavora a sud, dove l’afflusso turistico rimane maggiore, ed è solito affittare un piccolo van con cui porta in giro i suoi clienti. Potete contattarlo direttamente dalla sua pagina facebook: Komang Sumadika. Eccoci. Prima tappa consigliata da lui e non troppo lontana dall’aeroporto di Denpasar è l’Uluwatu Temple. E’ il primo tempio che visitiamo, dove notiamo fedeli inginocchiati in preghiera e un gran numero di turisti seduti sui muretti della sua struttura pronti ad ammirare e immortalare il magnifico tramonto. Che è effettivamente magnifico. Indossiamo il Sarong, che è un indumento che solitamente si indossa in Indonesia e Malesia sia da uomini che donne e che consiste in una fascia di tessuto piuttosto colorata che si lega in vita e che arriva fino ai piedi: necessario se si vuole entrare nei templi, garantisce una sorta di rispetto nei confronti di chi lo abita. Non riusciamo a cogliere davvero la religiosità che circonda questo posto.. i turisti si sono impossessati dell’intera struttura, ce ne sono davvero troppi. Così ci limitiamo a fare due passi e ammirare un bel tramonto per poi tornare nel caos stradale e puntare verso l’hotel. La decisione di pernottare a Ubud è stata azzeccata: la zona è molto bella e permette di raggiungere in un tempo accettabile i templi sparsi per l’intera isola. Il bungalow che ci ospiterà per qualche giorno è piccolo ma molto accogliente, con il tetto in paglia, tipico delle costruzioni balinesi. La finestra, che si apre su uno stretto balcone, permette di ammirare una piccola risaia a terrazza e le anatre che il mattino girovagano tra le sue piante. Veniamo accolti con un gustoso cocktail di benvenuto e dal sorriso contento dei suoi proprietari. Il ristorante dove ceniamo è a pochi passi dall’hotel ma anche piuttosto caro: vero che assaggiamo di tutto e annaffiamo la ricca cena con qualche birra di troppo ma il fatto che sia un locale piuttosto turistico si fa sentire sul conto finale. Ad allietare la nostra serata c’è anche un ottimo gruppo che suona musica occidentale. Sono sincera, avrei preferito qualcosa di più caratteristico ma suvvia, è solo la prima sera.

Mystic Bali

Ci sono diversi modi di vivere l’isola. Chi va a sud, a Kuta, è alla ricerca di surf, spiaggia, ottimi hotel e massaggi da favola per poche rupie. C’è chi invece è alla ricerca della sua natura rigogliosa e i suoi riti religiosi.. Della parte un po’ meno turistica e un po’ più autentica. Alcune zone di Bali sono ancora così, autentiche e lontane dallo sviluppo economico fortemente legato al turismo occidentale. Una delle maggiori attrattive di Ubud, dove pernottiamo, è la sua foresta di macachi, dove turisti incuriositi si recano ad osservare il comportamento di questi mammiferi incredibilmente così simili a noi.. Queste scimmiette dispettose sono ormai fin troppo abituate all’arrivo di turisti che offrono loro banane in quantità pur di fare una foto in loro compagnia. Bisogna stare attenti a questi simpatici animali che, tra una spulciata e un’altra, non perdono tempo a infilare le loro esili mani nello zaino di qualche sprovveduto per rubare oggetti di ogni sorta. Anch’io vengo sorpresa da un macaco che mi osserva mentre chiudo lo zaino e che, insospettito e incuriosito, si avvicina con l’intento di appropriarsi di qualche mio avere. Nonostante l’orda di turisti, passeggiare tra questi simpatici animali è un’esperienza molto piacevole.

A Bali ogni villaggio ha un proprio pura puseh (il tempio delle origini), un pura desa (il tempio del villaggio) e il pura dalem (il tempio dei defunti). Si trovano templi ovunque: sulle pendici dei vulcani, sulle scogliere, sulle spiagge, nel bel mezzo della foresta. Inoltre ogni casa balinese ha proprio piccolo tempio, uno spazio dedicato alle divinità e alle preghiere. I balinesi, infatti, hanno un forte attaccamento religioso e riti e cerimonie occupano una parte importante della loro vita, scandendo i ritmi delle loro giornate. E’ facilissimo trovare donne e uomini agghindati con gli abiti da festa e le mani occupate da offerte da portare al tempio, dove rimangono a pregare con la famiglia. I riti a cui si può assistere sono molteplici e non facilmente comprensibili, ma da ciò che siamo riusciti a cogliere anche grazie alle spiegazioni di una guida, è che i diversi colori che si vedono sventolare sulle costruzioni sacre, si riferiscono alle diverse divinità, che a loro volta si rifanno ai diversi momenti della vita dell’uomo. I templi si trovano solitamente in zone paesaggisticamente mozzafiato come ad esempio il Pura Ulun Danu Bratan o il Pura Besakih, il tempio madre, costruito sulle pendici dell’inquietante vulcano Agung. L’entrata a quest’ultimo tempio, che a parer mio è uno tra i più belli, è obbligatorio con guida, e il cui compenso dipende solo dai suoi ospiti. La nostra guida è piuttosto giovane e ha due figli che incontriamo strada facendo: la figlia un po’ più grandicella cerca di venderci cartoline chiedendoci in italiano “comprare cartoline?” mentre il bambino, dalle guanciotte paffute, indossa una piccola maglietta blu con il tricolore sul braccio e il nome di Balotelli sulla schiena. Più che un tempio è un vero e proprio complesso, fatto di diversi tempietti. La sua visita è piuttosto lunga ma anche molto affascinante e spirituale. E’ facile incontrare fedeli in preghiera o in lunghe processioni. Benché il fatto di essere obbligati a prendere una guida inizialmente mi infastidisca parecchio, ammetto che la sua presenza e la sua spiegazione risultino fondamentali per capire più profondamente il pensiero e la religione balinese. La nostra guida è molto preparata e disponibile oltre ad essere una persona piuttosto colta: conosce bene la propria gente ma sembra conoscere altrettanto bene la cultura dei suoi visitatori. Vestita nel tipico sarong, camiciola bianca e turbante in testa, porta il figliuolo sulle proprie spalle. Alla nostra domanda: “ci sono animali pericolosi sull’isola?” la sua risposta è diretta “sì. L’uomo”. Non lontano da questo posto incantevole, dove venditori ambulanti fin dalla tenera età proveranno a vendervi qualsiasi cosa, dai fiori per le offerte ai sarong colorati, è possibile ammirare un’altra meraviglia naturale: il vulcano Batur, il vulcano più attivo dell’isola, le cui eruzioni sono ancora visibili sul suolo della bella isola. Circondato da una vegetazione rigogliosa e da un lago dalle limpide acque, la sua scalata è possibile in un paio di ore. Noi ci limitiamo ad ammirare la sua maestosità da Kintamani.

Tempo di templi

Svegliarsi con il cielo azzurro, circondata da risaie verdeggianti e dal suono seppur poco soave delle anatre che si aggirano per i campi, mi dà una sensazione di profonda pace. La colazione della struttura dove alloggiamo è abbondante e solitamente ci basta per tirare fino quasi a sera. Come ogni mattina, con estrema puntualità, il nostro Komang ci aspetta pazientemente nel parcheggio dell’hotel. L’itinerario del giorno lo decidiamo insieme: noi scegliamo i templi da visitare, lui decide le fermate interessanti lungo il tragitto. I templi che visitiamo in questi giorni sono magnifici, ognuno presenta una propria peculiarità: l’Ulun Danu Bratan sorge sulle rive di un piccolo lago impreziosito di ninfee che ancora devono fiorire. La cornice all’interno della quale è dipinto questo santuario è magnifica: lambito dalle acque, circondato dalle montagne. La sensazione che provo è ancora quella di pace. Ci imbattiamo in una lunga processione e una solenne celebrazione. Tutti sono vestiti a festa: gli uomini indossano una camicia bianca in lino e un turbante bianco in testa, le donne portano degli abiti in pizzo dai colori particolarmente accesi. Come al solito trasportano le proprie offerte in cestini di vimini posizionate sulle proprie teste. Noi invece indossiamo indumenti occidentali in aggiunta al nostro sarong, che ci permette l’ingresso al tempio. Qui incontriamo un gruppo di turisti indonesiani coi quali discorriamo di religione e di Papa Francesco. Al loro cospetto sembriamo particolarmente alti (notare che io sono solo 1.63m) e bianchi. Siamo talmente diversi e loro sono così curiosi ed entusiasti di averci conosciuto, che ci chiedono di fare foto di gruppo con loro: confesso di sentirmi la Julia Roberts della situazione. Il Pura Tanah Lot è un altro tempio, arroccato sulla sommità di una scogliera che scende a picco sulle onde battenti. Prima di salire sulle sue rocce ci consigliano di metterci in coda per avere una vera e propria benedizione indù, a seguito della quale ci troviamo la testa bagnata e dei chicchi di riso sulla fronte. In realtà è solo un modo per attirare i turisti e farsi fare un’offerta… Altro che benedizione indù! Ammirare il tempio al tramonto è un’esperienza indimenticabile. L’ultimo tempio che visitiamo è il Tirta Empul, non lontano da Ubud. Uno dei templi più suggestivi visti sull’isola. Anche lui immerso in una verdeggiante e incontaminata natura, è un angolo di pace ed equilibrio. E’ un insieme di colori brillanti, acqua sacra che scorre, preghiere che giungono all’orecchio. E’ un luogo speciale per i suoi abitanti che con le mani giunte, si rivolgono agli dei e con l’acqua del tempio si liberano dai propri peccati. La sua visita, come quella di tutti i luoghi sacri visitati, è a pagamento. La nostra parte di richieste si esaurisce qui. E’ Komang che ora prende in mano la situazione e ci porta alla scoperta di un paio di posti imperdibili. Uno di questi è la coltivazione di caffè Luwak. Questo caffè è uno dei più costosi al mondo: è un tipo di caffè prodotto con le bacche, ingerite, parzialmente digerite e defecate dallo zibetto comune delle palme, un simpatico animaletto peloso somigliante a un furetto. I semi di caffè sono raccolti dagli escrementi degli animali selvatici. Quest’insolito e raro processo estrattivo ha determinato ben presto un aumento del suo prezzo, ed è per questo motivo che nel sud-est asiatico sono sorti allevamenti intensivi di zibetti tenuti in gabbia in batteria e alimentati forzatamente. Le loro condizioni sono spesso pessime purtroppo. E’ Ayu, una ragazza giovanissima, un po’ paffutella, dal sorriso contagioso, che ci precede nella dimostrazione della piantagione di caffè, immersa in una vallata dalle molteplici sfumature verdeggianti. Ancora una volta, si respirano un senso di pace e serenità distanti anni luce dal mondo frenetico in cui viviamo. Qui i sensi sembrano riposare finalmente, appagati. Non vorrei più alzarmi dal tavolo, vorrei che i discorsi con Ayu non finissero così presto. Degustiamo il famoso caffè e tante altre varietà di tè, tutti davvero eccezionali per poi ripercorrere a ritroso le strade che ci portano nella bella Ubud.

Templi a parte…

Il secondo luogo dove ci conduce il nostro piccolo ometto, sono le cascate di Gigit, nemmeno nominate nella mia Lonely Planet: dopo una camminata immersi nella natura attraversando piccolissimi villaggi dove vivono poche e povere famiglie, si arriva a queste meraviglie naturali. Impressionante la massa d’acqua che cade dall’alto e sotto la quale gente in costume fa il bagno. L’altezza della cascata principale non è esagerata, ma è il contesto in cui siamo che la rende particolarmente affascinante. Camminiamo tra le rocce, affiancando la pozza d’acqua fredda creata dalla cascata, nel bel mezzo della foresta: l’umidità è altissima, i fitti alberi che ci sovrastano permettono a malapena alla luce di filtrare e ogni tanto si sente il verso di qualche animale in lontananza: ancora una volta si prova una sensazione di profonda pace. Anche qui troviamo riferimenti alla religione.. Piccoli tempietti ricoperti di fiori. Immancabile se si visita Bali, è una visita alle sue risaie e il suo sistema di irrigazione chiamato subak che risale al XVIII secolo: le Tegalalang rice terrace. Semplicemente WOW. Il panorama che si presenta ai nostri occhi è meraviglioso.. Decidiamo di camminare e perderci tra questa rigogliosa natura, tra palme, acqua e riso. Purtroppo però l’afflusso di turisti in questa zona è incredibile: enormi bus sono parcheggiati ai lati delle strade in attesa che i propri clienti rientrino dalla loro passeggiata. Troppi turisti. Bali è un paradiso in terra ma ahimè gli occidentali se ne sono accorti.. Il turismo di massa è arrivato. La zona di Kuta, pur bella che sia, è già molto occidentale: bar, ristoranti, discoteche, resort 5 stelle. Quanto ci vorrà perché l’isola si trasformi completamente? Tra 10 anni Bali non sarà più l’isola che ho visto. Parliamoci chiaro, non è che io sia contro il turismo. Ma il turismo porta inevitabilmente ricchezza, e la ricchezza, se non gestita bene, può portare a grossi cambiamenti, soprattutto nella mentalità delle persone.

Alla zona più turistica di Bali decidiamo di dedicare una giornata: la prima tappa, dopo tanto vagabondare alla ricerca di templi ed esperienze mistiche, è la spiaggia di Nusa Dua, di cui una parte è completamente riservata ai lettini e gli ombrelloni di resort 5 stelle. La parte di spiaggia agibile a tutti è stretta ed essendoci il mare grosso, per il momento è anche impraticabile. Come tanti, ci mettiamo al riparo dal sole sotto degli alberi a poca distanza dal mare. Pranziamo in uno dei piccoli baretti a poca distanza dalla battigia divertendoci a sfamare scoiattoli che non hanno nessun timore ad avvicinarsi a noi. Lasciata la fin troppo calda Nusa Dua, ci dirigiamo verso Jimbaran, una piccola località costiera famosa per i suoi ristorantini a lume di candela sulla spiaggia. Il litorale qui è davvero ampio ma al momento non si vedono turisti: solo un grosso traffico nel piccolo e buio mercato dove l’odore del pesce è particolarmente forte. Il mare è costellato da una distesa di barche colorate intenzionate a raccogliere dalle acque le prelibate prede fresche da vendere ad affamati visitatori stranieri.

Ed infine eccoci a Kuta, dove arriviamo giusti giusti per assistere a un tramonto da favola. La spiaggia, nonostante sia popolata da soli turisti che con birra in mano rimangono in attesa di ammirare il sole cadere nel mare, è una vera e propria meraviglia: è ampia e permette a tutti di assistere allo spettacolo del cielo che lentamente si dipinge di colori rosati. Di Kuta, a parte la sua spiaggia, non vediamo altro e sinceramente non ci interessa nemmeno. Ciò che invece ci interessa (o meglio, mi interessa) è lo spettacolo della danza barong che si tiene all’Ubud Palace. La danza è accompagnata dal suono di strumenti musicali mai visti prima e mette in scena la lotta tra il bene e il male. Ballerine e ballerini si alternano sul palco a un lento ritmo di musica e muovono scrupolosamente mani e piedi in piccolissimi e a volte impercettibili gesti. Il mio compagno di viaggio non è molto rapito da questa rappresentazione che è tutto sommato singolare. L’ultima notte a Bali ci regala un’emozione forte: al rientro in camera troviamo un geko grande almeno 15 cm nel nostro bagno. Sappiamo che è un animale assolutamente innocuo ma devo ammettere che fa un po’ impressione e si muove da un muro all’altro alla velocità della luce. Dobbiamo utilizzare il bagno ma lui non sembra al momento intenzionato a lasciarci procedere. Non sapendo cosa fare decidiamo di chiamare qualcuno che con questi simpatici animali ha più esperienza di noi.. facciamo perciò intervenire un addetto della reception dell’hotel che provvede a far uscire il nostro ospite da una piccola finestrella. Tutto è bene ciò che finisce bene. Possiamo farci la doccia, preparare la valigia per la ripartenza e dormire quelle poche ore che ci separano dal prossimo volo.

Time for Malaysia

Ci svegliamo che il sole ancora non ha fatto capolino. Il volo per la ricca Singapore parte il mattino presto. Lasciamo l’isola giusto in tempo perchè a distanza di qualche ora chiudono l’aeroporto a causa dell’eruzione di un vulcano sull’isola di Java: traffico aereo in tilt, voli cancellati per giorni. Lasciamo la bella Bali per tornare solo temporaneamente nella città stato dove abbiamo un bus prenotato che ci porterà in Malesia e che terminerà la sua corsa nella calda Malacca.

Malacca è stata tra i porti commerciali più importanti del sud-est asiatico prima di Singapore che l’ha soppiantata e costretta a trasformarsi in una città sonnolenta. Diversi popoli europei tra cui portoghesi, olandesi e inglesi, si avventurarono alla conquista di questo importante centro economico: il loro passaggio è evidente in alcuni degli edifici cittadini. Culturalmente si respira un’aria multietnica: i cinesi così come gli indiani trasferiti in questa zona sono molti e distinguere le diverse etnie è a tratti difficile, se non impossibile. Il viaggio in bus è lungo e dobbiamo scendere e risalire due volte per poter passare la dogana e collezionare un altro bel timbro sul passaporto. Il viaggio è piuttosto lungo e ci costringe a stare seduti sui seppur comodi sedili del lento mezzo di trasporto per un totale di circa 5 ore. Arriviamo a Malacca che il sole sta quasi tramontando ma l’afa che ci colpisce come un cazzotto in faccia appena sbarcati ci ricorda che a prescindere dal movimento della terra intorno al sole, qui la temperatura è quasi sempre la stessa: troppo alta. Appena scesi dal bus veniamo circondati da autisti di taxi pronti a guadagnarsi pochi ranggit: ringraziamo e andiamo avanti verso il bancomat dal quale abbiamo bisogno di prelevare contanti nella nuova moneta locale. C’è un taxista che tenace, a differenza degli altri, non ci molla e ci segue bombardandoci di domande. Cerca di convincerci a cambiare hotel comunicandoci che il posto da noi scelto è fuori dal centro, ma con pessimi risultati: il massimo che riesce a ottenere è un passaggio in macchina per pochi spicci. Arriviamo a destinazione, la Driftwood guesthouse: una graziosa casa in un quartiere apparentemente molto tranquillo, dove una donnina dagli occhi a mandorla ci apre la porta di quello che sarà il nostro alloggio per le prossime due notti. C’è un grosso ventilatore sul soffitto che cerca di muovere invano l’aria del locale. Lily è molto simpatica ed estremamente gentile. Vive con il marito inglese originario di Newcastle, dove ho vissuto io per un certo periodo.. Guarda te che coincidenza. Dopo essersi presentati e averci illustrato su una cartina le principali attrazioni della zona, ci mostrano l’ampia camera da letto attentamente arredata e ci lasciano andare a mangiare, perchè siamo affamatissimi, in un ristorantino a pochi passi da lì: il B&B sarà anche lontano dal centro ma è vicino al mare e a qualche ristorantino spartano dove si mangia dell’ottimo pesce fresco. Per oggi è qui che terminiamo la giornata: mangiando pesce e bevendo birra riconoscendo finalmente l’odore del mare e seguendo distrattamente il rumore delle onde che sommessamente giungono a riva.

Vagando per Malacca

Abbiamo lasciato acceso il condizionatore tutta la notte. Ci aspetta un’abbondante colazione sul tavolo della sala, dove Lily, oltre a caffè, succhi di frutta e torte, ci ha lasciato un biglietto spiegandoci per filo e per segno cosa stiamo gustando. Lei non c’è ma il marito, con il quale scambiamo qualche parola, è lì presente. James è inglese mentre Lily è di origine cinese; si sono conosciuti a Kuala Lumpur quando lei lavorava come segretaria e lui era in servizio temporaneo: un ingegnere con esperienza nella costruzione di grandi aeroporti. Fin dalla giovinezza il suo lavoro l’ha portato a vivere per medi-lunghi periodi lontano dalla sua Inghilterra dove comunque ha lasciato due figli ormai adulti e provenienti dal precedente matrimonio. Un inglese e una cinese che vivono in Malesia: qui non è affatto strano. Malacca, così come la Malesia, è stato un territorio ambito da diverse nazionalità, europee e non, che qui hanno messo piede e hanno piantato le proprie radici: è un gran bel mix di etnie e razze diverse. La presenza dei cinesi è massiccia: il centro della città è attraversata da Chinatown, ma esiste anche una Little India a poca distanza. James ci porta in un garage pieno di accozzaglie varie, dove noleggiamo due biciclette: 1€ per l’intera giornata. La bici ci permette di muoverci velocemente in città e vedere tutto ciò che ci interessa. Malacca non è grandissima e un giorno ci basta per vederla tutta: Porta de Santiago, St Paul’s church, Studthuys, Chinatown: i classici. Notiamo numerosi trishaw con luci sfavillanti e musiche ritmate succedersi alla ricerca dell’attenzione di qualche stanco turista. Tra tutte le cose viste, mi sento di consigliarne un paio: Villa Sentosa. Situata in un kampung (che significa villaggio) a qualche minuto di bicicletta fuori dal centro, questa colorata villa è ancora abitata da una simpatica donna ormai anziana che è disponibile ad aprire la porta per mostrare la propria dimora. La sua casa, come le altre del quartiere, risale agli anni ’20 e rappresenta ancora qualcosa di caratteristico in un contesto in cui la modernità sta pian piano soffocando ciò che risulta essere desueto. La casa è ampia e piena di oggetti antichi: servizi di piatti, vasi, porcellane, lenzuoli. Tutto curato nei minimi particolari, tutto perfetto; non sembra una casa vissuta e infatti ci racconta che viene aperta solo ai turisti: la nostra piccola donnina vive ormai sola da qualche anno dopo la perdita del marito, mentre la figlia viene a trovarla solo ogni tanto. Continua a dircelo in quell’inglese un po’ stentato: forse non vuol darci l’idea di essere sola. Ci intima a suonare un grande gong presente nella stanza che dovrebbe portarci fortuna. Le lasciamo un’onesta mancia e, inteneriti dai suoi racconti e dalla sua gentilezza, ci allontaniamo. Dopo un breve e piccante pasto in un ristorantino locato tra le vie principali della città, ci dirigiamo al Baba-Nyonya Heritage Museum, che in realtà è una tradizionale casa peranakan, ovvero appartenuta a commercianti di discendenza cinese. Baba sta per papà e Nyonya sta per mamma. Una guida ci accompagna con altri ospiti tra i muri di questa ampia dimora che, finemente arredata, ospita una ricca collezione di artefatti, utensili, oggetti di arredo, abiti, giochi, fotografie. Si nota come la casa fosse appartenuta a una famiglia particolarmente abbiente, di ceto elevato e ricco: come molti altri baba, Chan Cheng Siew riuscì ad accrescere le proprie fortune nei commerci con gli inglesi. La famiglia Chan nel 1985 decise di convertire la dimora stessa in un museo, mostrando i cimeli di famiglia ed altri reperti antiquati al pubblico. Una visita che ci riporta indietro negli anni in cui gli abiti erano ancora molti voluminosi, le fotografie in bianco e nero e lo scambio di etnie ed oggetti erano considerati una grande ricchezza. Prima di consegnare le biciclette e andare a cena, ci fermiamo a parlare con un indiano che ha voglia di raccontarci qualche chicca su Malacca e sulla propria vita. Vive qui da anni e ci indica la scuola che frequentò da bambino “Da lì potevo vedere il mare”. Ora il mare non c’è più: è stata importata la sabbia sulla quale poter costruire ed espandere dei centri commerciali. Malacca, così come la Malesia, mi dà l’impressione di volersi uniformare all’occidente e alla sua cultura basata sul consumismo, perdendo pian piano la propria tradizione e peculiarità.

Getting to the capital, Kuala Lumpur

Siamo quasi al termine delle due settimane. Questa è la nostra ultima tappa prima del rientro: prendiamo nuovamente il bus che in qualche ora ci porta da Malacca a Kuala Lumpur. Kuala è una metropoli frenetica e multiculturale, dove donne in chador si confondono con affrettati uomini d’affari in giacca e cravatta. Ammiriamo stupiti la grandezza imponente delle Petronas Tower dalle quali, soprattutto se illuminate, non riusciamo a togliere lo sguardo: sono magnetiche. Attorno ad esse è stato costruito un ampio parco dove bambini e adulti possono correre e le giovani coppie dichiararsi il proprio amore. Il nostro hotel è a pochi passi dal parco e dalla sua piscina possiamo intravedere, tra gli alti e numerosi palazzi in costruzione o già ultimati, le due belle torri che sono diventate vero e proprio simbolo della città. Le torri ospitano, oltre a centinaia di negozi di grande marche nel centro commerciale sottostante, la sede della compagnia nazionale del gas e del petrolio Petronas: 88 piani distribuiti su quasi 452m di altezza e rivestimento in acciaio. Sembrano essere due razzi spaziali pronti a decollare: una perfetta metafora dell’ascesa della città da baraccopoli di minatori a metropoli lanciata nel futuro. La loro forma di stella a 8 punte richiama uno dei principali motivi iconografici della tradizione islamica. E’ la prima volta che mi trovo in un paese di religione musulmana. E’ la prima volta che mi sento circondata da donne che indossano lunghi abiti dalle fantasie più diverse e veli che coprono i capelli. A tratti mi sento un tantino osservata. In Malesia tuttavia, l’islam non è così rigido come in altri paesi dove anche per i turisti è consigliato un abbigliamento adeguato. E’ evidentemente un paese abituato al confronto sociale, culturale e religioso. Anche la metropolitana ci ricorda di essere in un paese musulmano, un paese in cui la differenza tra uomini e donne è ancora piuttosto netta: alcuni vagoni sono ben distinti. Ce ne accorgiamo solo una volta a bordo. Non c’è un solo uomo nel vagone femminile e tutte le donne presenti ci guardano con occhi piuttosto disorientati. Stiamo tornando verso l’albergo dopo aver visitato la moschea Masjid Negara, che rappresenta il principale luogo di culto della città: i non musulmani non possono accedere alla moschea durante gli orari di preghiera e devono essere vestiti adeguatamente. Ci fanno indossare il chador (io devo coprirmi anche i capelli) e siamo così liberi di visitare la bella struttura. La moschea è piuttosto ampia, con la sala delle preghiere coperta da un tetto a 13 punte (sempre un riferimento all’islam) e i pavimenti bianchi lucidi, che danno un senso di leggerezza e pace. C’è chi prega, chi legge un libro, chi chiacchiera con le amiche. Dopo un’intera giornata di visita, decidiamo di cenare nel quartiere di Jalan Alor, caldamente e giustamente consigliato dalla nostra Lonely. Jalan Alor è un’ampia via che dalle 17.00 in poi si trasforma in un vero e proprio ristorante a cielo aperto, con tavoli e sedie di plastica dove i passanti sono caldamente invitati ad accomodarsi, dove le bancarelle si susseguono senza interruzioni ed è possibile osservare, annusare, assaggiare prelibatezze mai viste ne sentite prima. E’ un vero e proprio tripudio di sapori, odori, colori. Mangiamo e beviamo egregiamente presso il Restoran Beh Brothers. Qui siamo in una zona molto diversa da quella di KLCC: ristorantini alla buona con sedie plastificate e dai diversi colori dove lavoratori instancabili si affannano a lavare i piatti sporchi a mano, sono circondati da palazzi datati e decadenti. E’ questo il mio quartiere preferito, che sembra appartenere a una Kuala Lumpur distante da quella costruita recentemente e dove sorgono imponenti le Petronas Towers.

Kuala

Dopo aver pernottato nel fin troppo lussuoso Impiana Hotel, decidiamo di dedicare la mattinata alle Batu Caves, che si trovano ai margini della città e si possono raggiungere in circa un’ora di metro. Le Batu Caves sono enormi grotte calcaree che ospitano al proprio interno diversi templi induisti dove i fedeli si recano in preghiera. In realtà rappresenta un sito religioso di primaria importanza per la regione induista in quanto è epicentro del Thaipusam: una festa indù celebrata ogni anno nel mese di Gennaio-Febbraio in cui migliaia di fedeli si sottopongono a dolorosi rituali (tra i quali trafiggersi con aghi affilati) per ringraziare e manifestare il proprio apprezzamento a uno dei loro dei, Lord Murugan, figlio di Shiva. Popolate da un’ampia comunità di macachi dispettosi, le grotte offrono la frescura meritata dopo la scalata di più di 250 scalini sotto il sole cocente: sono enormi e al loro interno ci si sente davvero minuscoli. La luce riesce appena a penetrare tra le poche cavità e permette ai pipistrelli di fare di queste grotte la loro dimora. Ai loro piedi si trovano negozietti di souvenir, di tatuaggi all’hennè e di snacks. Mi tatuo anch’io, da un’espertissima ragazza che riesce a riprodurre un disegno sulla mia pelle in modo tanto dettagliato quanto rapido. Riprendiamo la metro per tornare in centro città e incontrare i nostri amici in viaggio di nozze anche loro di passaggio a KL. Non esiste una tessera o un abbonamento alla metro: per ogni corsa e cambio di linea (anche qui sono gestite da diverse compagnie) bisogna rimettersi in coda e fare il biglietto. Tant’è che una volta rientrati in città rimaniamo fermi e nervosi alle macchinette per diversi minuti perchè il via vai di persone a quest’ora è importante e sono tutti in coda come noi per cercare di fare un biglietto. KL sembra una città talmente moderna in apparenza che questa lacuna sui trasporti mi lascia basita. Torniamo in zona Petronas e cerchiamo di salire insieme ai nostri amici sullo Skybridge: al contrario di quanto affermato dalla Lonely Planet per cui sarebbe necessario recarsi presto in biglietteria per poter aggiudicarsi uno dei 960 biglietti a disposizione, riusciamo facilmente a procurarci l’ingresso alle torri con visita guidata. Veniamo portati prima sullo Skybridge, un ponte che collega le due torri al 41° piano, a un’altezza di 171m, dove possiamo ammirare il panorama per 15 minuti, poi saliamo fino in cima a una delle due torri, ad un’altezza vertiginosa di 452m.

Torniamo a pranzare nella Jalan Alor dove le apprezzatissime alette di pollo leggermente piccanti cucinate sulla strada si alternano alle birre che con il caldo che fa vanno giù che è un piacere. Ordiniamo anche qualche piatto di Nasi Goreng che consiste in riso in padella accompagnato da un insieme di carne (pollo o manzo) verdure, gamberi e uova, il cui sapore particolare, è insospettabilmente delicato e gradevole anche al nostro palato. Ci alziamo da tavola dopo ore, soddisfatti come pochi dal pranzo appena ultimato e un po’ alticci a causa della copiosa birra bevuta. Ci rechiamo in una delle piazze più significative nella storia del paese, Merdeka Square, dove nel 1957 venne dichiarata l’indipendenza malese e issata una delle bandiere più grandi al mondo. La piazza è circondata da fiabeschi palazzi dalle forme arabeggianti, tra cui il Sultan Abdul Samad Building che ora è sede del ministero dell’informazione, della comunicazione e della cultura.

Giunta ormai sera, ci godiamo lo spettacolo delle fontane colorate a ritmo di musica presso KLCC, per poi bere un caro cocktail a ritmo di musica presso il maestoso Traders Hotel, che dalla sua sommità garantisce una visuale unica sul parco e sulle ammalianti torri illuminate.

Il mio viaggio in Asia: thoughts

Iniziamo col dire che adoro l’Asia, e più la visito, più me ne innamoro.

Il viaggio che ho deciso di fare attraverso tre paesi culturalmente e socialmente diversi mi ha dato modo di accostare tre realtà tra loro piuttosto differenti: la prima, Singapore, sembra una città finta, fin troppo perfetta e curata, dove tutto funziona alla perfezione e niente è lasciato al caso: sembra un set cinematografico, dove tutto è estremamente pulito, dove è vietato baciarsi in pubblico o bere e mangiare sui mezzi di trasporto pubblico. Singapura è una città calda e con un altissimo grado di umidità, alla quale gli abitanti cercano di sfuggire rifugiandosi nei numerosi centri commerciali fin troppo climatizzati. Lo shopping rappresenta lo svago principale di molti dei suoi facoltosi abitanti provenienti da qualsiasi parte del mondo: un mix multiculturale evidente, dove tuttavia etnie e razze diverse sembrano vivere in totale armonia e rispetto reciproco. I suoi alti palazzi riflettenti circondano l’ampia baia diventata ormai attrazione turistica imperdibile.

A pochissime ore di aereo ci si può imbattere in una realtà estremamente diversa, fatta di povertà e stenti, l’Indonesia. Bali è l’isola indonesiana più conosciuta, un vero e proprio gioiellino immerso nell’Oceano Indiano; un gioiellino ahimè scoperto anche dal turismo di massa che, se non limitato, rischia di compromettere la bellezza e l’autenticità di questo posto. Il sud dell’isola è infatti preso d’assalto da turisti occidentali pronti a far festa: la sua costa sud è per la maggior parte costellata da locali, hotel di lusso, discoteche. I balinesi si sono abituati alla presenza dello straniero che porta ricchezza e si comportano di conseguenza: cercano di fregarti, di venderti qualsiasi cosa: a volte, ammetto, è davvero fastidioso. Ma questa non è che una conseguenza del cattivo modo di fare turismo che abbiamo importato su quest’isola. Tuttavia, se si guarda oltre, al suo interno, alle sue parti più inesplorate, allora è possibile intravedere una Bali più autentica, fatta di riti e cerimonie religiose, di piantagioni di caffè, di posti incantati dove assistere a tramonti mozzafiato. A differenza di Singapore dove il ritmo della vita di ciascuno è scandito dall’orologio, a Bali il tempo sembra essersi fermato: non c’è stress, non si corre. A Bali si cammina e anche lentamente… Ci si perde ad ammirare le verdissime risaie a terrazza o i surfisti che al tramonto ancora tentano di affrontare le onde. Bali è un’isola carica di spiritualità e religione: non è raro imbattersi in una cerimonia in uno dei tanti templi costruiti sull’isola.

Il terzo paese, la Malesia, è a uno sputo di distanza dalla elegante Singapore. L’elemento comune che ho riscontrato in entrambi i paesi è la multiculturalità: anche la penisola Malese, essendo stata terreno di battaglia tra diversi imperi coloniali e una terra di commerci, è caratterizzata da una popolazione mista: cinesi, inglesi, indiani; ma anche qui questa mistione etnica e culturale non sembra essere un problema. La Malesia è un paese musulmano e non lo si può non notare: i vagoni delle metropolitane sono a volte divise a seconda del sesso, le donne portano il velo, i minareti fanno sentire il proprio richiamo ai fedeli. Eppure ci sono anche donne “occidentali” che indossano pantaloncini corti o che portano il rossetto rosso sulle labbra: non sembra esserci risentimento verso di loro. Lo sviluppo che stanno vivendo è molto evidente soprattutto nelle metropoli: a Kuala Lumpur le Petronas Tower stanno a simboleggiare questa ormai avviata tendenza. Lo sviluppo offre molto ma a volte toglie anche molto: nelle città i grattacieli la fanno ormai da padroni. Della vecchia città, dove è possibile ammirare l’architettura tipica malese, non rimangono che piccoli quartieri o villaggi detti Kampung che sembrano resistere strenuamente, almeno per il momento, alla sprezzante modernizzazione verso la quale sta correndo l’intero paese.

Un viaggio questo, che mi ha fatto riflettere sul turismo di massa, su questa corsa pazza verso la modernizzazione, sulla convivenza etnica e religiosa. Ho scoperto le storie di tre paesi diversi e ho conosciuto le sue stupende persone.

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Bali

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Kuala Lumpur

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Singapore



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