Tesori sconosciuti di Persia

Viaggio alla scoperta delle regioni nord occidentali dell’Iran, quasi sconosciute a noi occidentali, ma ricche di capolavori indimenticabili, paesaggi affascinanti e paesini abbarbicati sulle montagne
Scritto da: mapko64
tesori sconosciuti di persia
Partenza il: 29/05/2015
Ritorno il: 09/06/2015
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
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Lo scorso anno avevo visitato le regioni centrali dell’Iran, il cuore del paese nel quale si trovano le città e i siti archeologici più celebri, raccontando il mio viaggio nel diario “Antica Persia”, pubblicato su Turisti per Caso. Si è trattato di un’esperienza indimenticabile, un breve tuffo nella vita e nella cultura di una civiltà millenaria. L’Iran però è una nazione vasta, un crogiuolo di popoli e culture, così ho deciso di tornare anche quest’anno per approfondirne la conoscenza. Sono stati dieci giorni pieni di emozioni, attraverso le regioni nord occidentali del paese molto meno turistiche, soprattutto per noi occidentali. Eppure ho visitato innumerevoli Patrimoni dell’Umanità, attraversato paesaggi variegati e affascinanti completamente diversi dall’arido altopiano centrale, raggiunto paesini abbarbicati sulle montagne. Questa volta ho notato una maggiore presenza di militari, in particolare nelle aree più vicine ai confini; la polizia invece si è concentrata soprattutto sui controlli stradali, tutto sommato benvenuti visto il tasso altissimo di incidenti causati dalla guida spericolata.

Il mio viaggio è iniziato e si è concluso a Tabriz, capitale dell’Azerbaijan iraniano. Gli azeri sono la minoranza etnica più numerosa, perfettamente integrata nella nazione. Anche la regione del Kurdistan mi è sembrata concedere ai suoi abitanti, in questa fase storica, la situazione più tranquilla rispetto alle regioni nei paesi confinanti. Alcune visite sono state magiche: Takht-e Soleiman si presenta come un castello medievale in mezzo a una prateria mongola, ma una volta superate le mura il lago vulcanico e le rovine sassanidi riportano alla mente l’antichissima religione di Zoroastro; il mausoleo di Soltaniyeh è un capolavoro universale, tanto che la sua arditissima cupola avrebbe ispirato un secolo più tardi Brunelleschi nella costruzione di Santa Maria del Fiore a Firenze. Per me ha rappresentato un’altra testimonianza della ricchezza della cultura persiana, della sua capacità di “civilizzare” i selvaggi conquistatori mongoli trasformandoli in una dinastia persiana, gli Ilkhanidi, protettrice di arte e cultura. Il ricordo del primo grande impero persiano, quello degli Achemenidi, è tornato a Bisotun, dove i bassorilievi di Dario, alti sulla montagna, celebrano l’inizio del suo regno con la conquista del potere, anticipando il trionfo di Persepoli ammirato nello scorso viaggio.

Gli iraniani si sono confermati un popolo estremamente ospitale, sempre pronto ad aiutare ed abbracciare lo straniero, ancora considerato una curiosa rarità. Nelle regioni che ho visitato la conoscenza dell’inglese è molto limitata e in un viaggio di movimento le occasioni di conversazione sono state minori. Nel bus notturno per Tabriz comunque ho conosciuto un giovane studente di belle speranze: il suo sogno sarebbe trasferirsi in Europa, ma io gli auguro invece di raggiungere la felicità nel suo paese.

Ed ora il racconto del viaggio. Il mio itinerario in Iran è stato il seguente: Tabriz – Ardabil – Rasht – Qazvin – Zanjan – Takht-e Soleiman – Sanandaj – Kermanshah – Tabriz

Sabato 30 maggio: Roma – Istanbul – Tabriz – Ardabil – Rasht

Un volo notturno da Istanbul mi porta a Tabriz alle cinque e mezzo del mattino. È passato appena un anno dal mio precedente soggiorno ma mi accolgono due cambiamenti: le operazioni di ingresso sono ancora più semplici, non bisogna riempire nessun modulo, ma la mia SIM Vodafone è del tutto inutilizzabile poiché non riesce ad agganciarsi a nessuna rete iraniana.

Ho con me un po’ di rial, che mi ha procurato un amico appena tornato da un viaggio in Iran, così senza perdere tempo dall’aeroporto raggiungo subito in taxi il terminal dei bus, dove acquisto il biglietto del bus per Ardabil delle sei e mezzo. Lasciamo Tabriz, della quale ho percorso solo grandi viali della periferia, seguendo l’autostrada a due carreggiate per Teheran attraverso brulli paesaggi ondulati dall’aspetto decisamente monotono. Dopo un’ora, raggiunta Bostanab, lasciamo la direttrice verso la capitale e puntiamo ad oriente. Passa un’altra ora e siamo a Sharab, città dall’aspetto squallido: la costruzione di molte case sembra ferma a metà, con l’intelaiatura in cemento armato priva dei muri di mattoni. L’autista si concede una lunga sosta, ma lascia comunque il motore acceso. Quando ricompare si sofferma a guardare i lavori delle ruspe che riempiono di terra una buca, in compagnia del giovane aiutante. Alle nove e mezzo finalmente ripartiamo, cominciando a risalire la valle di un ruscello, tra montagne coperte da prati verdi e prive quasi del tutto di alberi. A Sareyn, sotto il ponte moderno della strada ne scorgo un altro più antico in pietra e mattoni. Proseguiamo in un’ampia vallata: sulla sinistra si scorge la vetta innevata del monte Sabalan (4811 m.), sulla destra per un attimo un lago. Alle dieci e mezzo giungiamo a destinazione ad Ardabil.

In taxi mi faccio portare fino al mausoleo Sheikh Safi-Od-Din, principale attrazione della città, inserito dall’Unesco nel Patrimonio dell’Umanità e luogo di sepoltura del patriarca dei Safavidi, fondatore di un ordine sufi. Dopo la morte nel 1334, la sua famiglia divenne sempre più influente finché nel 1501 il discendente Shah Ismail riuscì ad unificare tutto l’Iran sotto il suo controllo, per la prima volta dopo molti secoli; l’islam sciita fu proclamato religione di stato. Sotto la dinastia Safavide il mausoleo dello Sheikh divenne un luogo di pellegrinaggio e fu arricchito da nuovi edifici in particolare dallo shah Tahmasp I, figlio e successore di Ismail.

Varcato l’ingresso, mi trovo in un bel giardino fiorito e ombreggiato, un’oasi di pace nella quale godersi il fresco; la sua sistemazione risale all’Ottocento. Percorrendo un cortiletto decorato da belle maioliche, raggiungo la corte principale; sulla sinistra si trova la moschea con l’interno celato da una grande griglia di legno, mentre di fronte sorge l’edificio principale. Il lato dal quale sono entrato è una successione di nicchie poco profonde con volte; le decorazioni a maioliche sono raffinati puzzle di piccoli pezzi, non “volgari” mattonelle quadrate come nella moschea dell’Imam a Isfahan, visitata lo scorso anno. Il piccolo portale d’ingresso è una vera composizione: sull’arco una cornice di iscrizioni cufiche su sfondo cobalto e intrecci vegetali su sfondo verde negli spazi triangolari; nella nicchia una muqarnas poco profonda in alto, pannelli fioriti a forma di finestrelle più in basso e una fitta iscrizione gialla e bianca sopra la porta.

Dalla corte per accedere all’edificio principale si attraversa un magnifico portale, stretto e alto. Agli elementi tradizionali (pannelli con iscrizioni coraniche, muqarnas, motivi floreali combinati con confusione e grazia) si aggiungono due colonne di marmo chiaro. Si arriva così nella Sala della Lanterna: l’ambiente, meravigliosamente decorato, presenta sui lati lunghi portici e gallerie al piano superiore; nel lato dell’ingresso sotto l’arco si trova una muqarnas, mentre su quello opposto, dietro una cancellata, spiccano un iwan con un’elaborata muqarnas e un’abside che sembra una ruota di pavone capovolta. I colori dominanti sono l’oro e il cobalto, che nelle muqarnas e nell’abside si arricchiscono di rosso. Sulle pareti lisce l’effetto è quello di un arazzo; tutto intorno corre un’iscrizione cufica. Mi soffermo a guardare una foto che riproduce uno dei due celeberrimi tappeti di Ardabil, considerati tra i migliori tappeti persiani mai realizzati e conservati oggi a Londra e Los Angeles.

Una porticina sulla sinistra conduce alla Sala delle Porcellane, un grande ambiente ottagonale con pareti coperte da nicchie di stucco, come nell’Ali Qapu di Isfahan. La grande cupola bianca è stata rifatta nel 1975. Nelle nicchie erano conservate porcellane cinesi, gran parte delle quali sono state trasferite a Teheran nel 1930; solo alcune blu e bianche sono in mostra in una serie di vetrine (risalgono al XVII secolo). La collezione dello shah Abbas contava 1221 pezzi ed era dedicata al suo antenato.

Dalla Sala della Lanterna un’altra porticina consente di accedere ad alcune stanzette che ospitano cenotafi della dinastia Safavide, realizzati in legno intagliato o in alabastro. Il piccolo ambiente più vicino al mausoleo dello sceicco, al quale si accede di nuovo dalla Sala della Lanterna, è rivestito da mattonelle blu cobalto stampigliate con schemi dorati che stanno scomparendo. È occupato quasi per intero dal cenotafio dello shah Ismail I, una grande cassa con schemi geometrici. Secondo la tradizione sarebbe stato regalato dal moghul Humayun allo shah Tahmasp, come segno tangibile di ringraziamento per l’asilo concesso durante l’esilio e l’aiuto fornito nella riconquista del trono. Sulla bellissima cassa sono incastonati esagoni irregolari, disposti in tutte le direzioni, con cornici verdi e minuscoli schemi a bassorilievo in madreperla. La cupoletta è un gioiello, un gioco a incastro di pennacchi e nicchie che incorniciano la stella centrale a molteplici punte; la sua visione purtroppo è disturbata dalla lampadina che pende nel mezzo. Il tutto è decorato con schemi dorati su sfondo blu, mentre la grande iscrizione coranica argentata su sfondo nero con il tempo ha assunto un’affascinante colorazione pastello.

Dall’abside nella Sala delle Lanterne, mi affaccio alla tomba dello sceicco Safi-Od-Din, più volte rimaneggiata e conosciuta come torre Allah Allah. L’ambiente circolare presenta alte pareti e la calotta della cupola in alto. Un grande sarcofago è decorato da motivi geometrici con legni di varie tinte. Un cartello dice che si tratta della tomba del figlio e successore di Safi-Od-Din, Sheikh Sadr al-Din Musa, morto nel 1393 e fondatore del mausoleo.

Tornato nella corte esterna, faccio il giro intorno all’edificio principale. Nella torre Allah Allah le decorazioni geometriche ripetono all’infinito il nome di Dio, giustificandone l’appellativo. Da dietro le cupole dei due mausolei formano un bello scorcio che esalta le linee verticali; la loro semplicità contrasta con la ricchezza dell’interno. Poco oltre la cupola della sala delle porcellane e della moschea si stagliano invece in tutta la loro larghezza.

Completata la visita del mausoleo, mi dedico a qualche incombenza pratica: cambiare i soldi e acquistare una SIM iraniana. Questa seconda operazione, una volta individuato il negozio autorizzato, si risolve molto rapidamente con la compilazione di un modulo dove appongo le mie impronte digitali. Con la nuova SIM posso finalmente telefonare in Italia (ma gli SMS non funzioneranno mai) e confermare l’albergo di Rasht, che avevo prenotato tramite Skype dall’Italia per questa notte.

Ardabil non offre molti altri motivi di interesse. Passeggiando raggiungo la moschea Haji Fakr, con un tozzo minareto di mattoni a forma di macinapepe, e poi la moschea Mirza Ali Akba, nella quale un altro minareto di mattoni per la lanterna sporgente ricorda un po’ un faro ingentilito da una fregio di maioliche. La chiesa Maryam invece ha un’isolita cupola centrale di forma piramidale, che riesco appena a scorgere dietro il muro di recinzione; oggi ospita una zurkhaneh (“casa della forza”). Completo il giro con una rapida esplorazione del piccolo bazar coperto, sempre pittoresco per le sue cupolette di mattoni.

Passate le tre sono di nuovo in viaggio, questa volta su un bus diretto a Rasht mia meta serale. Puntiamo verso Astara e il mar Caspio. Una lunga discesa dai 1500 metri dell’altopiano mette a dura prova i freni del bus. Il miele, prodotto nelle arnie collocate lungo la strada, viene venduto sul posto. Nel frattempo le montagne si sono coperte di alberi, tira un forte vento, che ci accompagna da Ardabil, e il cielo si è coperto. Ormai siamo passati sul versante settentrionale dei monti Elburz, rivolto verso il mar Caspio e coperto da un’abbondante vegetazione grazie al clima molto piovoso.

Al livello del mare, ci accolgono verdissime risaie intrise di acqua. Raggiunto lo svincolo per Astara, città di confine con l’Azerbaijan, facciamo una pausa per poi proseguire verso sud in direzione di Talesh. Mentre comincia a piovigginare, la strada corre arretrata lungo la costa, concedendomi solo per brevi tratti la visione di qualche scorcio di mare, plumbeo come il cielo sopra, in contrasto sul lato opposto con le sterminate risaie che occupano la pianura costiera fin sotto le basse montagne e, illuminate dal sole, rispendono di color smeraldo. La stanchezza comincia a farsi sentire e i paesaggi mi scorrono davanti in dormiveglia. La strada prosegue attraversando alcuni tratti boscosi, in un paesaggio verde e densamente popolato, veramente insolito per l’Iran. Nei numerosi paesi, molte case sono coperte da tetti spioventi di tegole scure, caratteristici del Gilan, che formano una sorta di cappello a piramide con quattro facce.

A sorpresa il bus mi lascia a una ventina di chilometri da Rasht, proseguendo il suo viaggio verso Teheran. Per raggiungere la città, in compagnia di altri passeggeri, ricorro quindi a un taxi collettivo. Il traffico è tremendo. L’hotel Ordibesht si trova proprio dietro il municipio, a fianco di piazza Shardari, ombelico della città. È una curiosa costruzione con torrette ai lati e colonne che reggono un frontone mosso; un tocco di colore lo renderebbe sicuramente più piacevole. Al mio arrivo sono accolto dal manager, un uomo di mezza età molto gentile e affabile che parla un ottimo italiano; ne approfitto per organizzare le prossime giornate, facendomi prenotare una camera nell’hotel Iran a Qazvin, acquistare il biglietto del bus sempre per Qazvin e definire la gita a Masuleh e Rudkahn per domani mattina. Grazie alla WI-FI dell’albergo riesco a contattare mia moglie Stefania, inviandole una e-mail.

Si è fatto tardi e per cena scelgo una soluzione veloce, in un locale sulla strada pedonale che parte a fianco del municipio. È un piacere camminare al fresco lungo la passeggiata allietata da moderne sculture di bronzo (curioso un uomo con ombrello). Quando mi siedo sul bordo di una fontana, due giovani suonatori di tamburo vengono a raccogliere un’offerta. In piazza Shardari un lato corto è occupato dal grande municipio, caratterizzato da semplici linee e una torre con orologio. Di fronte, la statua a cavallo di Kuchak Khan, accompagnata da luminarie, ricorda il nostro Garibaldi.

Domenica 31 maggio: Rasht – gita a Masuleh e Qaleh Rudkahn – Qazvin

In taxi con il giovane Yasser (iraniano non arabo tiene a precisare), superata la cittadina di Fuman, puntiamo verso basse montagne coperte di boschi, per poi infilarci nella valle percorsa da un ruscello ancora tra piacevoli scenari boscosi. Un ristorante ha collocato i piccoli capanni dove consumare i pasti proprio lungo le acque; il posto deve essere molto gradito ai gitanti. Proseguendo compaiono altri ristoranti, mentre il ruscello prende a scorrere tra le rocce e la valle si trasforma in una gola racchiusa da alte montagne sempre boscose.

Masuleh sorge sulle scoscese pendici di una montagna. All’arrivo le case una sopra l’altra, tutte dello stesso colore tra il giallo e il marrone, formano un bel colpo d’occhio. Inizio l’esplorazione a piedi scavalcando il ruscello sopra un ponte. In giro ancora non si vedono turisti e le bancarelle sono in allestimento. I tetti piatti di una casa fanno da spiazzo a quella più in alto. Le abitazioni sono a due piani, quello superiore spesso con veranda di legno. Colpisce l’uniformità dei colori, anche se il marroncino della terra non può regge il confronto con la terracotta del villaggio di Abyaneh, che avevo visitato lo scorso anno.

Nella piazzetta centrale sorge la moschea del paese, anche questa color terra; lo scenario è completato da una casa dalla grande veranda di legno, da pietre tombali con iscrizioni e sullo sfondo da montagne boscose. I due tozzi minareti della moschea, che sembrano sigari con lanterne dai vetri colorati, accompagnano la cupola verdastra come carabinieri. All’interno c’è persino la televisione accesa, mentre nella stanzetta ottagonale sotto la cupola il sepolcro è protetto dal solito scrigno a griglia, pieno di banconote. Le lunette nelle pareti imbiancate a calce sono decorate da insolite raffigurazioni, tra cui quella di un cavaliere.

Dopo la moschea le case si fanno più antiche, con pareti di terra e fango. Fervono i lavori di manutenzione; alcuni operai stanno sostituendo le travi di legno di un tetto. Mi arrampico tra viottoli e scalette, fino alla parte alta del paese; sotto di me la distesa delle grigie terrazze delle case e la moschea con i suoi minareti ciminiera. Di fronte la parte più moderna illuminata dal sole fa un bell’effetto, una macchia gialla tra il verde dei boschi. Tornando sui miei passi, raggiungo la zona più commerciale dove mi siedo in una delle numerose case del tè, in compagnia di alcune famiglie, mentre i pappagalli in gabbia rallegrano l’atmosfera. Le stradine sono i tetti delle case più in basso; un piccolo museo espone foto, libri e cartoline.

Lungo la strada di ritorno per Fuman, Yasser mi segnala numerose piantagioni di tè; dalla cittadina puntiamo di nuovo verso le montagne, attraversando vaste risaie. L’area di Qaleh Rudkan è stata attrezzata per accogliere grandi flussi di gitanti. Mi racconta inoltre che i venerdì estivi si formano lunghe file di auto. Dal parcheggio percorro un grande spiazzo con file di negozi stile pagoda su entrambi i lati; in fondo parte il sentiero per il castello, una lunga scalinata ciottolata in mezzo a un bosco con alberi di alto fusto, all’ombra dei quali molti iraniani stanno consumando un picnic. Lungo il percorso si succedono bancarelle che spesso propongono svariati dolcetti; strutture pergolate per i gitanti sono collocate persino sulle rocce in mezzo al ruscello. Gli uccelli cinguettano, le acque gorgogliano, ma non mancano le bottiglie di plastica sparse qua e là, nonostante i grandi contenitori per la spazzatura. La salita è decisamente impegnativa, costringendomi in un’ora a superare un dislivello di quasi quattrocento metri.

Finalmente in mezzo agli alberi appaiono due possenti torri cilindriche, a guardia di un portale. Entrato nella corte interna, stretta e lunga, si presenta la magnifica visione di una fortezza abbarbicata sulla montagna. Le costruzioni in pietra nelle parti basse diventano di mattoni in quelle superiori. Il castello sorge in una sella con l’entrata collocata nell’avvallamento e le mura che risalgono le pendici; un grande cartello illustra la planimetria con le innumerevoli torri. Le arrampicate non sono terminate: per raggiungere il bastione superiore, a sinistra dell’ingresso, devo salire altre scale. Due torri proteggono una porta con arco a punta sopra feritoie. All’interno della più alta gli assi di legno del pavimento appaiono poco rassicuranti. Da quassù la vista spazia tutto intorno su boschi e montagne. Sul lato opposto dell’ingresso scendo fino a un grande bastione circolare, sotto il quale si trova una cisterna in cui scorre l’acqua. Il posto è freschissimo, in contrasto con il caldo tremendo all’esterno. Un oculo centrale fornisce la luce all’ambiente. Le fortificazioni proseguono diroccate, risalendo la sella; una torre è puntellata da un grande tronco d’albero. Prima della discesa mi siedo all’ombra nella corte centrale, per godermi la visione di questo vero e proprio nido di aquile. Un cammino di mezzora mi riporta al parcheggio, dove Yasser mi spiega che in tutto ho salito e sceso un migliaio di gradini ogni volta.

Tornato a Rasht, pago la gita direttamente il tassista senza l’intermediazione dell’albergo, come spesso mi accadrà in questo viaggio a testimonianza dell’onestà degli albergatori iraniani. Per pranzo ritorno alla tavola calda della sera prima. Dopo un breve momento di riposo nella strada pedonale, in albergo mi faccio chiamare il taxi per il terminal dei bus. Al suo arrivo l’autista scende lasciando il motore acceso e il portiere dell’albergo prende il mio zaino per sistemarlo sul sedile posteriore. Quando chiude la portiera si accorge però che tutte le altre sono bloccate e anche i finestrini sono chiusi. La situazione è tragicomica e la partenza del bus per Qazvin è fissata tra poco più di mezzora. Il portiere si dilegua; dall’albergo giungono i rinforzi, anche Yasser, il tassista della mattinata, arriva in soccorso. Tutti cercano di forzare le portiere senza successo, poi rimossa la striscia di gomma sotto il finestrino cercano di fare scattare con un gancio la serratura dal lato del passeggero, ma i tentativi si rivelano infruttuosi; comincio a preoccuparmi, ma un tizio dell’albergo mi tranquillizza. Dopo un quarto d’ora finalmente portano al tassista una seconda chiave e la situazione si risolve. Per recuperare il tempo perso il tassista mi lascia proprio davanti al bus in partenza, scusandosi per il contrattempo anche se non è stata certo colpa sua.

Il mezzo con destinazione Teheran è di extra-lusso: i sedili sono talmente grandi che non riesco quasi a sedermi, gli spazi immensi, i braccioli contengono tavolini estraibili come in aereo, i poggia caviglie consentono di sdraiarsi comodamente. Lasciata Rasht percorriamo l’autostrada che collega il Gilan con Teheran. Di fronte si erge l’impressionante mole dei monti Elburz che separano l’umida regione caspica dall’arido altopiano centrale dell’Iran. Paghiamo un pedaggio a un casello come in Europa, proseguendo lungo un’ampia vallata solcata da un fiume e piena di risaie. Dopo un’ora di viaggio il fiume è sbarrato da una diga; la strada diventa a una carreggiata e prende a salire, attraversando dei tunnel, una rarità in Iran. Passiamo proprio a fianco dell’impressionante diga, oltre la quale si estende un vasto lago dalle acque turchesi; siamo a Manjil. Subito dopo ritroviamo l’autostrada a doppia carreggiata. I paesaggi sono diventati più brulli, anche se siamo appena a quota 450 metri. Le montagne sono tornate a essere masse di terra e roccia; nella valle spunta solo qualche ciuffo di erba gialla. Ci ferma la polizia, temo che andassimo troppo veloci; l’aiutante dell’autista porta dei succhi di frutta ai poliziotti. Continuiamo l’ascesa autostradale, finché dopo due ore dalla partenza siamo ormai nell’altopiano a quota 1500 metri. Le ampie distese ondulate sono coperte da coltivazioni; il grano forma un mare giallo che si staglia nel cielo plumbeo di nuvole.

A dieci chilometri da Qazvin ci fermiamo a un autogrill per una sosta dedicata allo shopping e a uno spuntino. Un professore di Teheran mi spiega in inglese che il bus non entrerà a Qazvin, ma mi lascerà a uno svincolo tra qualche chilometro. Cerco in giro qualche taxi per raggiungere subito la città, ma non ne trovo. Il professore è ben felice di fare conversazione e si prodiga per aiutarmi; alla fine mi lascerà persino il suo numero di telefono. Parliamo dell’Iran, delle sue regioni e della sua storia; come tutti gli iraniani anche lui esalta il Gilan, considerato una sorta di paradiso lussureggiante dagli abitanti dell’arido altopiano. Relativismo geopolitico: il professore mi ricorda che l’Azerbaijan un tempo era persiano, è stato sottratto dall’URSS (le cose non sono proprio andate così). Più tardi, il tizio alla reception dell’hotel Iran si lamenterà del nuovo presidente Rouhani, apprezzato in Occidente, esaltando Amadinejad, indignato perché la benzina è arrivata a 10.000 rial al litro.

Lunedì 1 giugno: Qazvin – gita alla valle di Alamut – Qazvin

I monti Elburz intorno a Qazvin furono sede in passato delle imprendibili fortezze degli Assassini, la setta eretica ismailita fondata da Hasan Sabbah (1034-1124). Secondo la leggenda popolare i suoi seguaci, utilizzati come mercenari per omicidi politici e religiosi, erano tenuti da Sabbah sotto l’effetto dell’hashish (da cui l’origine della parola “assassini”, ma si tratterebbe di una diceria messa in giro nel Medioevo dai suoi nemici), convinti di guadagnarsi il paradiso con le loro azioni. Hasan creò un complesso stato teocratico che organizzava attentati mirati a colpire i crociati in Terra Santa, ma ancora di più gli esponenti del potere sunnita, in particolare i Selgiuchidi che gli Ismailiti consideravano i loro peggiori avversari. Nella struttura gerarchica sotto il Gran Maestro dell’Ordine, i fedayn (agenti suicidi) rappresentavano il livello più basso, ma anche il braccio operativo, e questo termine è stato riesumato ai nostri giorni dai guerriglieri palestinesi in lotta contro Israele.

Marco Polo, quasi due secoli più tardi, descrisse la fortezza del Vecchio della Montagna come un vero paradiso, con un magnifico giardino, belle fanciulle e fontane da cui sarebbero sgorgati vino, latte, miele e acqua, a somiglianza dei fiumi del Paradiso. Nel frattempo nel 1256 Hulagu Khan, nipote di Genghis Khan, primo khan dell’Ilkhanato persiano, lungo la sua strada verso la conquista di Bagdad, era riuscito con l’inganno a costringere alla resa il successore di Sabbah dell’epoca (il castello di Lamiasar fu tra i pochi ad opporre resistenza). Le fortezze ismailite, distrutte dai mongoli e dimenticate per secoli, furono riportate all’attenzione pubblica solo nel 1930 dal libro “Le valli degli assassini” dell’inglese Freya Stark.

Per la gita alle valli degli Assassini mi sono organizzato con un’auto prenota tramite l’albergo (sarà l’unico caso in tutto il viaggio in cui dovrò pagare al tizio della reception, un furbacchione). Lasciamo Qazvin alle sette del mattino, puntando verso nord tra colline di terra e sassi. L’autista Said non spiccica una parola; ci sfamiamo con il piatto pane iraniano poggiato sul cruscotto. Dopo mezzora le colline si fanno più verdi, coprendosi di erba; in giro si vede qualche raro gregge. Superato un passo a duemila metri, la vista si apre ampia su montagne e vallate, anche se la mattinata è ancora grigia e il cielo coperto. La strada si srotola alta concedendo un panorama spettacolare, con tornanti e curve mozzafiato. Sotto di noi, molto più in basso, appare la valle di Shahrud con le macchie chiare delle risaie allagate. Quando la raggiungiamo siamo scesi a quota ottocento; attraversato Bahramabad, un paesino di case di fango, e scavalcato il fiume marrone, diamo un passaggio a un vecchietto con bastone. Il centro principale della vallata, Razmiyan, appare moderno.

Per raggiungere il castello di Lamiasar passiamo sull’altro lato della valle e ricominciamo a salire. Dall’alto le case del paese appaiono sparse in mezzo alla macchia degli alberi. C’infiliamo in una stretta gola, per poi deviare a destra. Tutto intorno le montagne hanno bei colori giallo e ocra, sfumati in varie tonalità. Il castello sorge su una roccia a guardia della valle e per accedervi sono state installate delle scalette. Il posto ha il fascino dei luoghi solitari e selvaggi; regna il silenzio. Sul pianoro in cima pochi resti sono sopravissuti alla furia mongola. In un bastione realizzato con grandi pietre, la porta ad arco si apre in uno spesso muro con tre finestrelle e torri angolari circolari; di fianco si trovano le rovine di alcune stanze rettangolari. Mi affaccio verso Razmiyan; le fortificazioni esterne scendevano verso la valle, ma oggi rimane solo qualche isolato brandello di mura. Da questo lato il dirupo appare scosceso ed imprendibile.

Nel paesaggio arido spiccano grandi fiori gialli a campana. In cima, a quota 1140 metri, ho modo di capire perché il sito, isolato da tutti i lati, fosse stato scelto per costruirvi un castello. Mi siedo per consumare qualche biscotto e ascoltare i suoni: un fiume lontano, il verso di qualche uccello e il rombo delle auto, a ricordarmi che la civiltà moderna è appena dietro l’angolo. Di fronte, lontane, le alte montagne che abbiamo valicato venendo da Qazvin chiudono la grande valle; sul lato opposto una macchia di alberi con le case di un villaggio spicca tra brulle montagne.

Alle nove e mezzo siamo di nuovo in viaggio; dalla strada la roccia isolata appare una vera fortezza naturale. Mentre proseguiamo lungo la valle principale, spunta il sole. Le montagne sono masse ondulate prive di vegetazione; quelle più basse davanti hanno l’aspetto di dune solidificate. Dopo una ventina di minuti la strada lascia la valle di Shahrud e prosegue con saliscendi e tratti pieni di curve. Passata un’altra mezzora, deviamo verso il lago Evan. Sui pendii erbosi pascolano pecore e capre, le montagne sullo sfondo si fanno più imponenti con qualche chiazza di neve. All’improvviso appare il lago; ci fermiamo per ammirarne dall’alto la visione, insolita per l’Iran. Lo specchio d’acqua di colore azzurro appare immacolato, circondato dalla macchia verde degli alberi; dietro il paese e ancora più lontane le montagne.

Alle undici raggiungiamo Mohallem Kelayeh, principale centro della regione, conosciuto anche come Alamut anche se l’omonimo castello non si trova qui; in mezzo a una rotatoria spicca una grande aquila. La strada prosegue veloce tra campi coltivati; diamo un passaggio a tre viandanti. Finalmente, raggiunta la valle di Alamut, deviamo per il castello: un grande costone roccioso si erge isolato e sopra si scorgono altissime le rovine della fortezza. Intorno un curioso paesaggio di rocce oblique, arrotondate come fossero state levigate dall’acqua.

Quando imbocco il sentiero per il castello sono le undici e mezzo; gli escursionisti formano una colonna di formiche colorate. L’immensa roccia di profilo appare veramente inaccessibile; sembra di avere di fronte un’enorme astronave parcheggiata sul pendio oppure un’auto di formula uno con un grande alettone posteriore. Per apprezzare in pieno i curiosi profili scelgo di percorrere un sentiero che corre più largo, invece che la scala subito sotto la rocca, per poi ricongiungermi in cima con il percorso principale. Dietro la massa rocciosa spiccano curiose formazioni oblique, come un grande scivolo di strati sovrapposti, seguito sullo sfondo da alte montagne con le cime innevate. Sul lato opposto lo schema si ripete come se una montagna fosse sprofondata mantenendo ferma un’estremità. La scala prosegue costeggiando il costone sotto la parete verticale. Mentre alcuni escursionisti iraniani cantano a squarciagola, l’altimetro mi rivela che siamo quasi a duemila metri di quota.

La fortezza si estendeva per ventimila metri quadrati, sfruttando i diversi livelli della roccia, con due sezioni: il castello inferiore e superiore. Dall’ingresso principale del castello inferiore, una scalinata scolpita consentiva il passaggio anche agli animali. Superate le rovine del posto di guardia, mi trovo di fronte al castello superiore. Le mura diroccate, alte fino a sedici metri, hanno l’aspetto imponente dei resti dei sepolcri sulla via Appia a Roma. Proprio qui per centosettantacinque anni ebbe sede il quartier generale degli Assassini ismailiti, dopo che il fondatore Hasan Sabbah vi aveva stabilito la sua residenza. Un tunnel scavato nella roccia mi porta prima però al sito della Asbi Khaneh, la torre di avvistamento che dominava Gazor Khan proteggendo la fortezza da questo lato. Della torre resta ben poco, ma il panorama è magnifico: sotto i bianchi tetti del paese fiancheggiati sulla destra dalle rocce in declivio, intorno la macchia verde degli alberi, la piana e le montagne sullo sfondo. Da questo lato, verso la piana, il muro esterno del castello superiore ha conservato il suo aspetto liscio per la presenza di mattoni e pietre di rivestimento. Tutto appare comunque precario e protetto da ponteggi. Riattraversato il tunnel, salgo al castello. Da vicino appare chiaro come le mura, perso il rivestimento, hanno portato alla luce il conglomerato interno di pietre. Del portale principale con la scalinata di accesso rimane ben poco. Subito a sinistra la moschea ha conservato alte mura, ma le recinzioni consentono appena di intravederle. Nell’ampia corte centrale sopravvivono mura alte fino a cinque metri; subito dopo si riconoscono le mangiatoie di una stalla di epoca safavide. Si esce quindi dallo spazio protetto dalla tettoia, raggiungendo le riserve d’acqua che, insieme ai magazzino per il cibo, erano un elemento fondamentale per resistere agli assedi. L’estremità settentrionale del pianoro più alto era dotata di torre e altre riserve d’acqua. Nel frattempo i turisti iraniani in gita fanno a gara per farsi fotografare insieme a me.

Completata la visita e tornato al parcheggio, trovo ad attendermi un altro turista italiano. Pietro è arrivato fin qui in compagnia di una coppia di tedeschi, ma loro vogliono continuare l’escursione fino a sera mentre lui deve tornare a Qazvin entro le quattro, per raggiungere poi Teheran dove lo attende un volo per Shiraz. Gli concedo quindi volentieri un passaggio, rinunciando a pranzare nel vicino ristorante in modo da avere più tempo per visitare Qazvin il pomeriggio. Durante il viaggio di ritorno chiacchieriamo a lungo: Pietro è milanese, tra i suoi viaggi mi colpisce il racconto del giro in vespa attraverso il Ladakh. Il contrasto tra le brulle montagne e il verde dei fondovalle gli ricorda proprio quei paesaggi. Dopo un’ora siamo a Rayat Dasht, da dove per tornare a Qazvin seguiamo una strada alternativa. Durante la salita facciamo una sosta per ammirare il panorama che abbraccia la strada piena di tornanti appena percorsa, una montagna verde e rossa, dietro la valle e ancora più oltre monti avvolti nella foschia; Rayat Dasht appare lontana in mezzo a una macchia verde. Ripartiti continuiamo a salire fino al passo, collocato a 2200 metri di quota. Alle tre e mezzo siamo di ritorno a Qazvin, in tempo per consentire a Pietro di rispettare la sua tabella di marcia.

La mia esplorazione della città inizia dalla centrale piazza Azadi, a due passi dall’albergo. Su un lato, arretrato in mezzo a un giardino, sorge il Chehel Sotun, padiglione reale costruito nel 1510 e utilizzato dal secondo shah safavide Tahmasp I che trasferì la capitale della Persia da Tabriz a Qazvin; rimodellato in epoca Qajar, oggi ospita il museo della calligrafia. Esternamente si presenta come un edificio a due piani, con una veranda retta da alte colonne di legno che si leva sopra un portico ad archi; nel giardino intorno cinguettano gli uccelli. All’interno la sala centrale ha un magnifico soffitto a muqarnas che mi riporta ai padiglioni di Isfahan; qualche spicchio ha conservato affreschi di vasi fioriti su sfondo bianco. In mezzo si trova un bacino quadrato di alabastro; due donne in un riquadro sulla parete di fondo recano ceste di frutta su uno sfondo di architetture e ruscelletti, ma sono tutte picchiettate. Anche le stanzette intorno presentano tracce di affreschi. L’esposizione comprende belle calligrafie cufiche realizzate in varie epoche; in mostra c’è anche un “Qazvin carpet instrument”, che può essere suonato a percussione, con un archetto o con un plettro.

Attraversato il giardino, raggiungo subito il museo di Qazvin, ospitato nel piano sotterraneo di un grande edificio. L’esposizione inizia con una bella cornice di specchi, seguita da tessuti decorati con la tecnica del basnesh (“painting block”), importata in Iran dall’India in epoca sassanide. I semplici vasetti di ceramica risalgono all’età del ferro (1300-700 a.C.); i reperti del neolitico (6000 a.C.), figure animali e umane, bastoncini per capelli in osso, provengono dalla piana di Qazvin, come anche le ceramiche con animali da Tepe Ghabrestan (V-III millennio a.C.). Una curiosa statuetta raffigura una specie di gufo con due grossi occhi a palla ed è stata ritrovata nel cumulo Sacz-Abad (2200-500 a.C.). Si prosegue con le ceramiche di Alamut (800-1200 a.C.) e oggetti di metallo.

Rhyton è una parola greca utilizzata per indicare un contenitore per liquidi a forma di animale, ma l’origine di questi oggetti risale proprio all’antica Persia, dove venivano utilizzati nelle cerimonie religiose per le libagioni; la loro diffusione in Grecia avvenne solo dopo le guerre persiane. L’esposizione ne presenta uno affascinante, dal lungo muso. Un piccolo lavoro in oro risale all’epoca achemenide. Segue il periodo islamico con ceramiche nelle quali non mancano rappresentazioni umane, le più antiche risalenti al X secolo, alcune porte e un sedile per la sposa. La raccolta si chiude in bellezza con l’affascinante Uomo Sumero: l’opera in marmo risale al III millennio a.C. ed è conservato solo il busto. La barba e i lunghi capelli a trecce sono tipicamente sumeri, gli occhi profondi, le labbra prominenti, le spalle larghe.

Una passeggiata mi porta alla chiesa di Kantor. La costruzione in mattoni risale al secolo scorso ed ha forme ortodosse insolite in Iran; intorno alcune tombe recano iscrizioni in cirillico. Il campanile con doppia loggia culmina in una calotta di ceramica azzurra smaltata. Dietro spuntano due cupole.

Ritornando verso il Chehel Sotun, riprendo l’esplorazione della vasta area un tempo occupata dagli edifici reali. La Tomba dei Quattro Profeti è una struttura Qajar, con un interno tutto coperto da specchietti sotto una grande cupola. In piccolo ripete lo schema del santuario Shah Cheragh a Shiraz, con la solita separazione tra uomini e donne e la tomba al centro protetta da uno scrigno grigliato. Qualcuno dorme al fresco dei ventilatori.

Da sud l’accesso ai quartieri reali (XVI secolo), sorta di città proibita, avveniva tramite l’Ali Qapu, un grande iwan fiancheggiato da due coppie di arcate. Mi astengo dal fare foto perché secondo la guida Lonely Planet oggi ospiterebbe una stazione di polizia, ma non se ne vedono tracce.

Raggiunta quindi la moschea del venerdì, mi siedo sulla fontana al centro della grande corte con quattro iwan. Il santuario principale a sinistra non è accessibile da anni per i restauri; è un peccato perché la cupola di epoca selgiuchide è enorme, con iscrizioni e decorazioni di mattoni. L’iwan sul lato opposto ha due alti minareti, ma è privo di sala della preghiera; quelli sui lati corti sono molto più piccoli. Intorno alla corte corre un solo livello di arcate a punta. Mi soffermo ad esaminare i particolari. Dietro la grande massa di mattoni dell’iwan principale scorgo la calotta esterna della cupola, coperta da maioliche con un banda di disegni geometrici e sopra un “comignolo” smaltato; appare enorme ma tozza. La luce della sera esalta le decorazioni floreali a maiolica dei minareti dell’iwan opposto, culminanti in lanterne esagonale. La corte non è altro che una grande piazza: i bambini giocano rincorrendosi in bicicletta, gli uccelli cinguettano, il vento stormisce tra gli alberi che danno un po’ di frescura al centro; un ragazzo circola addirittura in moto.

Proseguendo verso sud, in mezzo agli edifici della città contemporanea spicca la Sardar, una grande cisterna coperta da una cupola di mattoni con lanterna. Purtroppo è chiusa e non posso scendere le scale fino alla riserva d’acqua. Non lontano l’Imanzadeh Hossein è dedicato a uno dei figli di Reza, l’ottavo imam sepolto a Mashad; per questo è particolarmente venerato. Il mausoleo sorge al centro di una corte circondata da nicchie con schemi geometrici di maiolica. La facciata in stile Qajar, dietro il portico con alte colonne di legno, è uno sfolgorio di specchietti; sopra il grande timpano reca un’iscrizione centrale racchiusa da una cornice, mentre più in alto si leva la cupola maiolicata. L’effetto è armonico, anche se tutto non sembra troppo antico. Davanti la fontana ottagonale per le abluzioni fa bella mostra di se illuminata dalla luce della sera. Mentre un megafono ripete la preghiera, i bambini giocano e gli adulti chiacchierano seduti all’ombra delle nicchie. Uscito dal complesso dal lato opposto, mi trovo in un vasto piazzale che ospita un cimitero di martiri della rivoluzione sul quale sventola una bandiera nazionale; una grande foto mostra Khomeini e Khamenei che rendono omaggio ai martiri. Un caccia militare collocato su un piedistallo completa l’insieme. Da questo lato l’imamzadeh è particolarmente scenografico: sopra l’ottagono dell’edificio lastricato, la cupola si leva alta e splendente, sormontata da una banderuola verde. Tornando sui miei passi, mi affaccio all’interno. La struttura quadrata, grazie ai soliti grandi pennacchi angolari, si trasforma nel cerchio della cupola. L’immenso lampadario nel mezzo deve essere pesantissimo, ma i ventilatori lo fanno comunque oscillare; la cupola è uno scintillio di specchietti anche colorati, tra i quali si distinguono medaglioni con fiori e iscrizioni cufiche. Un fedele prega davanti a un corano poggiato su un leggio, tutti escono indietreggiando per non dare le spalle, un separé divide uomini e donne. Un tizio prega aggrappato alla griglia; dietro lo scrigno la tomba è coperta di banconote. Regna una grande tranquillità, senza l’affollamento di altri luoghi di pellegrinaggio.

La mia passeggiata attraverso la città, superata la Aminha Hosseiniyeh, residenza privata che risale al Settecento purtroppo chiusa, si conclude al bazar, in una lunga strada coperta da tettoie, meno caratteristica per le sue architetture ma non per questo meno animata. Nello specifico settore la frutta fa bella mostra di se in grandi pile colorate. Un negozio vende magnifici tappeti di grandi dimensioni. Nel bazar la moschea Nabi Shah ripete la struttura della grande corte a quattro iwan. Il santuario principale, chiuso, è sormontato da una grande cupola maiolicata con una lanterna che sembra un macinino del caffè.

La sera piazza Azadi è piena di gente che si gode il fresco. Intorno regna il caos del traffico, ma il giardino centrale è sistemato in modo piacevole con fontane, statue classiche (un busto baffuto) e spiritose (tre pecore che ballano su due zampe), oltre a una grande porta di legno con vetrata colorata. A cena, all’Enghbali Restaurant, il kebab si squaglia in bocca.

Martedì 2 giugno: Qazvin – Zanjan – gita a Soltaniyeh

La mattina raggiungo in taxi il terminal dei bus di Qazvin, solo per scoprire che non ci sono mezzi per Zanjan contrariamente a quanto mi avevano detto in albergo. Con un’altra corsa in taxi mi faccio portare alla piazza dove partono i savari (taxi collettivi) per Zanjan. Sono organizzatissimi, con tanto di negozio biglietteria. Prima di partire devono aspettare l’arrivo di altri passeggeri, sufficienti per riempire un auto, ma l’attesa si protrae solo per una mezzoretta.

Partiamo imboccando l’autostrada a tre corsie proveniente da Teheran. La pianura scorre monotona con i campi arati e qualche distesa coltivata che forma strisce gialle e verdi; in alcuni tratti il grano sembra un mare giallo. Dopo un paio di ore, giungiamo a destinazione.

A Zanjan mi sistemo in un “albergo di lusso”, il Park Hotel; dall’Italia sono riuscito persino a prenotare la camera, la più cara del viaggio (50 dollari), tramite e-mail. La donna alla reception parla perfettamente inglese e per cambiare i rial mi segnala un centro commerciale, che raggiungo subito. Anche questo appare moderno e lussuoso; militari armati di mitra ne presidiano l’ingresso. Il cambio è chiuso, ma alla mia richiesta di informazioni un tizio mi accompagna da un gioielliere che è decisamente ben fornito di contanti e mi cambia senza problemi cento euro.

Per raggiungere Soltaniyeh sono fortunato, riesco a prendere al volo un minibus “scassone”: oggi finalmente viaggio come il popolo. Il mezzo è pieno, ma uomini e donne non appartenenti alla stessa famiglia evitano di sedersi vicini; le donne indossano tutte il chador, un anziano un turbante bianco. Percorriamo a ritroso la direttrice verso Qazvin, seguendo questa volta la vecchia strada invece che l’autostrada. Un’oretta dopo la partenza, lasciamo la statale deviando a destra; in lontananza nella pianura scorgo subito la cupola turchese del mausoleo di Oljeitu che brilla al sole. All’arrivo saldo la corsa, che mi costa appena quindicimila rial.

Soltaniyeh, sotto gli Ilkhanidi, fu per un breve periodo la capitale della Persia. Oljeitu, ottavo Ilkhan (1304-1316) e bisnipote del fondatore della dinastia Hulagu Khan, fece costruire una cittadella della quale oggi sopravvivono solo pochi resti. Sua madre era cristiana e Oljeitu fu battezzato, ma nel corso della vita cambiò più volte fede: in gioventù si convertì al buddismo, più tardi all’islam sunnita e infine allo sciismo. La costruzione del grande mausoleo era finalizzata a traslarvi, da Najaf in Iraq, le spoglie dell’imam Ali, genero di Maometto, ma l’operazione non fu possibile anche perché contraria ai precetti islamici.

Nel grande spazio vuoto che circonda il mausoleo, arrivando da nord attraverso due file di bassi pilastri in mattoni e supero i bassi muri di un edificio absidato. La mole del mausoleo è impressionante, specie se confrontata con gli edifici del paese moderno. L’ottagono in mattoni è sormontato da una loggia sopra la quale si leva la cupola smaltata circondata dai minareti, molti dei quali ormai tronchi. La massa dell’edificio è tale che, dall’angolazione in cui mi trovo, la cupola non sembra così grande come è in realtà (come accade anche per San Pietro a Roma). I bagni Salar, un hammam di epoca Qajar, con le loro cupolette chiare formano un bello scorcio davanti al mausoleo.

La cupola di mattoni del mausoleo è considerata un prodigio dell’architettura, primo esempio di quella struttura a due gusci che sarebbe poi diventata tanto popolare in Iran. Avvicinandomi mi rendo conto dell’altezza delle mura; sul lato orientale la parete di mattoni è movimentata da nicchie e finestre, sparse disordinatamente; subito davanti i resti di un edificio sembrano dei pigmei. Girando attorno al mausoleo, raggiungo il lato meridionale, dal quale sporge un avancorpo, e poi l’ingresso che avviene da occidente.

All’interno purtroppo da molti anni la cupola è parzialmente nascosta da altissimi ponteggi; come nel Pantheon di Roma tutto converge verso la sua immensità, ma in questo caso l’elemento dominante è quello verticale. La cima raggiunge i 52 metri, retta da otto pilastri che non appaiono pesanti per il gioco di archi e gallerie, ma devono essere veramente possenti (la cupola si leva infatti da un’altezza vertiginosa). Intorno all’ottagono corrono due livelli di archi: quello superiore forma una galleria altissima; nel livello più basso le nicchie presentano decorazioni a stucco geometriche, bianche e azzurre. Sopra corre un anello con un’iscrizione cufica bisognosa di restauri e ormai quasi invisibile. Dal lato meridionale si accede al Torbah Kaneh, una sala della preghiera rettangolare aggiunta in un secondo tempo, con il mihrab rivolto verso La Mecca. Tornato sotto la cupola mi soffermo a leggere un cartello. La cupola di mattoni è la terza per dimensioni dopo Santa Maria del Fiore a Firenze e Santa Sofia a Istanbul. Alcuni studiosi sostengono che un secolo più tardi Brunelleschi si sarebbe ispirato proprio alla cupola di Oljeitu. Comincio ad abituarmi ai ponteggi che in realtà non nascondono del tutto la visuale; negli spazi tra i tubolari mi sembra di intravedere la calotta della cupola.

Una scaletta mi porta alla galleria interna, dove le decorazioni sono sopravissute meglio. Tutto è enorme; nelle otto nicchie si alternano muqarnas, che recano brandelli di mosaici a maiolica, e superfici lisce, con disegni geometrici e iscrizioni cufiche su sfondo bianco. Un’altra scaletta conduce alla galleria esterna, nella quale gli stucchi delle volte, foglioline e ghirigori bianchi su sfondo rosso, sono ben conservati. Anche i mattoni recano piccole incisioni che ripetono un simbolo sempre uguale. Le volte presentano schemi di decorazioni tutti diversi: in uno dei più belli all’interno di una stella è racchiuso un cerchio con un altra stella. L’effetto compositivo è ottenuto utilizzando solo due colori, il bianco e la terracotta.

Il mausoleo è la tipica cattedrale nel deserto: il paese di basse case oggi conta appena qualche migliaio di abitanti. Le grandi opere dell’uomo sono le sole a sopravvivere alla brevità del corso della vita e degli imperi, unica forma di eternità consentita sulla terra. Questo monumento illustra una volta per tutte quale raffinato grado di civiltà avessero raggiunto i mongoli Ilkhanidi, giunti a contatto con il mondo persiano. Dalla terrazza scorgo lontana, sotto le montagne, la tomba di Mullah Hasan Kashi, in mezzo al verde dei prati. La sua cupola turchese spicca sopra i mattoni; fu costruita in epoca safavide per rendere omaggio al mistico e poeta vissuto alla corte di Oljeitu, autore di saghe storiche islamiche.

Lasciando il mausoleo, da una posizione più elevata la cupola mi appare finalmente immensa. Una passeggiata mi conduce fino al monastero e mausoleo di Chalabi Oghlo, anche questo di epoca Ilkhanide. Nella corte le porticine delle celle si aprono sotto un portico; in fondo il mihrab della sala della preghiera è crollato, lasciando intravedere il mausoleo di mattoni subito dietro. La struttura ottagonale con cupola ed archi ciechi è molto aggraziata. L’interno imbiancato a calce è privo di decorazioni, ma anche di impalcature; proprio per questo è affascinante. La cupola si leva sopra la classica struttura ottagonale con nicchie; una con muqarnas funge da mihrab. Sono solo, accompagnato dal fischio del vento. A Soltaniyeh non resta nient’altro da vedere, così ritorno alla rotatoria dove fermano i bus; una nuova corsa in minibus mi riporta a Zanjan.

In città l’edificio più interessante è il Rakatshor Khaneh, un lavatoio pubblico incentrato su una grande sala coperta da volte, con canali nei quali scorre l’acqua. Alcuni manichini indossano abiti tradizionali, cercando di ricreare l’atmosfera del passato. Al complesso sono annessi laboratori artigianali per la lavorazione di cuoio, argento a sbalzo, legno e coltelli. Ne approfitto per acquistare un pendente per Stefania. È il primo posto dove incontro un gruppo di turisti occidentali di un viaggio organizzato.

La piazza centrale di Zanjan è una trafficata rotatoria con al centro un monumento che ricorda il simbolo raffigurato nella bandiera nazionale. Nei paraggi, una moschea sfoggia due minareti brillanti di maioliche; l’interno moderno presenta una grande cupola spoglia e la solita separazione tra uomini e donne che utilizzano due ingressi distinti. In un caravanserraglio, ridotto a parcheggio, risuonano i martelli degli artigiani impegnati a realizzare vasi di rame. Il piccolo bazar è formato da gallerie coperte dalle tipiche cupolette di mattoni, questa volta più basse e dotate di belle lanterne esagonali, con un effetto pittoresco. Si sbuca nella moschea del venerdì che risale all’Ottocento; nella sua corte tuttavia tutto appare eccessivamente moderno. Coppie di mullah con mantello marrone e turbante bianco chiacchierano tra di loro; sono i primi che incontro durante questo viaggio. Le celle del cortile sono abitate, probabilmente mi trovo in una scuola coranica; sbirciando al loro interno, intravedo i letti.

Ripresa la passeggiata, raggiungo la piccola moschea delle donne, caratterizzata da una coppia di bassi minareti che sembrano dei macinapepe. Nel bazar riesco a scovare la Sofrakhane Sonati Abache, una casa del tè. Scendendo una scala, si accede a un locale ottagonale con divani iraniani tutto intorno e nel mezzo quella che forse un tempo era una vasca. Dal soffitto pendono lampade a olio, bilance, samovar e altre chincaglierie. I giovani, tutti maschi, fumano il narghilè; ordino il tè ma insieme non mi portano nulla e come zucchero delle volgari zollette.

A cena, in un locale nel bazar dalle caratteristiche ambientazioni, ordino il dizi, piatto tradizionale iraniano: in un pentolino di terracotta mi servono un brodo al sugo pieno di carne, legumi e verdure. Devo versarlo in una scodella, schiacciando tutto con un pestello e aggiungendo pezzetti staccati dal tipico pane sottilissimo. Tutto sommato risulta meno saporito del previsto.

Mercoledì 3 giugno: Zanjan – Takht-e Soleiman – Bijar – Sanandaj

Oggi ho in programma la visita di Takht-e Soleiman, sito archeologico sperduto in mezzo alla campagna. Per questo, già per e-mail dall’Italia, tramite l’albergo mi sono organizzato con un auto privata, con la quale mi farò portare fino a Bijar cercando poi di raggiungere Sanandaj con i mezzi pubblici. La partenza è fissata per le otto e mezzo.

Lasciando Zanjan, non mi sfugge un bel ponte in pietra a schiena d’asino; ci dirigiamo poi verso basse montagne erbose. Questa regione dovette piacere molto ai conquistatori mongoli, sempre alla ricerca di pascoli per cavalli e bestiame; saliti a duemila metri di quota, i paesaggi si fanno ancora più verdi con vaste praterie. Reiza, alla guida di un taxi giallo, con le sue quattro parole di inglese riesce a manifestarmi il suo scontento: “Iran no good”. Vorrebbe trasferirsi in Turchia; sul cellulare mi mostra la foto della figlia Aida, precisando che è un nome turco. Nel frattempo riprendono le distese di campi coltivati, alle quali si aggiunge qualche albero. Il paesaggio contrappone alla macchia verde dei campi di grano, il marrone dei terreni dissodati, sullo sfondo di una striscia di montagne; una vista insolita per l’immaginario comune dell’Iran. Ci fermiamo a fare benzina: il prezzo, settemila rial al litro, corrisponde a circa venti centesimi di euro. Sembra poco, ma non lo è per un iraniano e il prezzo è salito moltissimo in poco tempo.

Il viaggio prosegue con una successione di salite e discese e continui cambiamenti di paesaggio. Riprendiamo a salire; la vista si apre su una distesa di collinette marroni che formano una lunga striscia ondulata. Subito dopo il passo a quota 2100, il paesaggio si fa più brullo con cucuzzoli di terra rossa. Spunta Ghraey, un villaggio di case di fango. Reiza nel frattempo fuma già come un turco!

Ci stiamo muovendo lungo una direttrice secondaria, ma la strada è ugualmente perfetta. L’alternarsi di paesaggi prosegue, completamente aridi nelle montagne da un lato e coltivati nella valle. Alle dieci, in una piana bruciata dal sole appare la moderna Dandy, centro principale della regione. Subito dopo incrociamo una lunghissima funivia, utilizzata per trasportare chissà cosa. Molto più pittoresco è Shikhlar, un paesino di case grigie di fango, scenograficamente collocato in una vallata sotto montagne che formano una tavolozza di colori (bianco, verde, terracotta); tra esse spicca il picco piramidale del Tozludagh (Monte della Polvere). Passiamo di nuovo sotto la funivia: è lunga decine di chilometri e sembra terminare a una grande cava. Il paesaggio si fa spettrale, caratterizzato dal bianco della pietra (per qualche minerale?), il verde dell’erba e il marrone della terra. Al nuovo passo, a quota 2400 metri, due asini che si stanno accoppiando suscitano grande ilarità in Reiza. La pietra assume una colorazione verdastra; i prati fioriti formano immense distese erbose.

Poco dopo appare Qaravolkhana: le case di fango, in mezzo alle montagne coperte di erba, costituiscono un bello scorcio. Lo scenario ricorda un po’ la Mongolia; ecco perché questa regione piacque tanto agli Ilkhanidi che stabilirono una loro residenza estiva proprio a Takht-e Soleiman. Il paese si trova quasi a 2200 metri di quota e decido di fare una sosta per visitarlo. Lungo i viottoli in terra si alternano edifici moderni e case diroccate di fango e pietra, coperte da tetti di travi. Le foglie degli alberi dai tronchi sottili stormiscono al vento; le poche auto sono parcheggiate in un grande prato.

Ripresa la marcia, alle undici, ecco finalmente apparire Takht-e Soleiman: il giro di mura con le torri circolari, sopra una bassa e larga collina, stupisce come se un castello dell’Europa medievale fosse stato trasportato nelle praterie mongole. Il sito ha vissuto due principali periodi costruttivi, in epoca sassanide e ilkhanide. Il nome, Trono di Salomone, non ha niente a che vedere con la realtà storica e sarebbe stato introdotto dai sacerdoti zoroastriani solo per salvare il sito dagli invasori arabi, sempre rispettosi nei confronti dei personaggi biblici. Le mura risalgono all’epoca più antica ed alternano tratti formati da grandi blocchi ad altri di piccole pietre. L’ingresso meridionale fu creato dai mongoli: una porta ad arco in un muro di grandi blocchi di pietra, decorata da una linea di arcatelle cieche. L’entrata moderna si trova poco più il là, dopo un bel tratto di mura.

Nel vasto pianoro le rovine si stagliano sulle acque turchesi di un lago vulcanico, racchiuso da sponde rocciose. Durante l’antichità il sito era considerato un luogo sacro, tanto da essere utilizzato per l’investitura degli imperatori sassanidi; le acque, canalizzate in condotti di pietra fuori dalle mura, erano utilizzate per scopi cerimoniali.

L’iwan meridionale, costruito dai mongoli, costituiva l’accesso al lago da questo lato, ma è del tutto scomparso. Ad ovest sopravvivono invece alcuni resti del palazzo ilkhanide: alte e isolate pareti con porte squadrate e finestre. La council hall ilkhanide è stata ricoperta con un tetto di legno ed appare troppo moderna. Al suo interno sono conservati frammenti di stucchi mongoli, un quadro con una visione aerea del sito e suggestive fotografie di Takht-e Soleiman sotto la neve. Proseguendo, la vista si apre magnifica sulla montagna di Zendan-e Soleiman che si erge isolata dietro le case di fango del paese di Nosratabad. Nei prati spuntano fiori viola e gialli. Una base alta un paio di metri presenta due livelli di pietre, sopra color terracotta, sotto bianche, ma sulla piattaforma sopravvivono scarsi resti.

Raggiunto il portico occidentale, conosciuto come di Cosroe, si passa all’epoca sassanide. Sopra alcuni filari di blocchi di pietra si levano alti i resti della mura di mattoni, bisognosi di essere puntellati. Una deviazione mi porta a una struttura ottagonale, di nuovo di epoca mongola, dal quale la vista si apre di nuovo magnifica su Zendan e il paese. Sul lato opposto la visione d’insieme dei bassi resti sassanidi è abbastanza confusa. Un edificio accanto all’ottagono appare invece ancora integro: la sala ha il pavimento a un livello molto più basso e le altissime pareti in blocchi di pietra proseguono in mattoni formando una magnifica volta a botte. Scendo la scala; a cosa saranno serviti gli alti e stretti banconi sui lati lunghi? Immagino sacerdoti sontuosamente abbigliati, seduti mentre attendono a una complessa cerimonia religiosa.

A nord del lago sorge il complesso principale degli edifici sassanidi: il settore residenziale a sinistra, il tempio del fuoco al centro e quello dedicato ad Anahita a destra. Tornando sui miei passi, raggiungo per prima l’area residenziale, nella quale spicca una sala con grandi basi circolari in mattoni. Il tempio del fuoco di Azar Goshnasb era un ambiente quadrato, nel quale i quattro pilastri creavano una pianta cruciforme con un corridoio intorno. Le mura di fango e pietra poggiano su basi di mattoni; la loro calda tonalità produce un effetto molto bello. Chiudo gli occhi e cerco di immaginarmi l’ambiente ancora integro: doveva essere spettacolare con i quattro pilastri che reggevano gli archi oggi scomparsi; uno solo puntellato s’intuisce ancora.

Uscendo dal tempio dal lato opposto al lago, mi trovo in un’ampia corte limitata da mura formate da grandi blocchi squadrati di pietra bianca. Sopravvivono anche le basi quadrate dei pilastri che sicuramente limitavano un porticato; al centro le pareti di un edificio quadrangolare con diverso orientamento, sono forse di epoca successiva. Proseguendo lungo l’asse centrale tra altre confuse rovine, raggiungo la porta settentrionale delle mura, ingresso principale in epoca sassanide. Poco prima una magnifica galleria stretta e lunga è coperta da una volta a botte. Per me costituisce una vera sorpresa: le pareti di grandi blocchi di pietra culminano in una volta di pietre lunghe e sottili. Dopo tanti secoli è ancora incredibilmente integra. Il luogo freschissimo forse aveva la stessa funzione dei criptoportici romani, permettendo alla corte di passeggiare al riparo dalla calura esterna. Il percorso forma una “L” e passando sotto l’area residenziale alla fine mi riporta all’iwan di Cosroe e all’ottagono mongolo. Da questa angolazione lo scorcio sulla volta di fango a bauletto della sala già visitata è ancora più affascinante.

Passando nel settore orientale raggiungo il tempio dedicato alla dea Anahita. Dai tre ingressi si accedeva a un ambiente quadrangolare con otto pilastri, quattro angolari e quattro centrali, che limitavano un deambulatorio coperto tutto intorno. I pilastri reggevano archi oggi scomparsi, mentre lo spazio centrale doveva essere a cielo aperto.

Il giro mi riporta al lago, in corrispondenza dell’iwan settentrionale; al centro del grande spazio si trova una scala, ma sopra non è rimasto nulla. L’edificio costituiva l’accesso monumentale agli edifici sassanidi: subito dietro si trova il tempio del fuoco, dove ritorno attratto dalla magia del luogo. Le basi degli archi dovevano essere molto basse, sopra i banconi di mattoni dei quattro pilastri cruciformi, creando un bell’effetto. Chissà se anche lo spazio centrale era coperto da una volta oppure era a cielo aperto. A destra del tempio la fiamma eterna bruciava in un’ara quadrata, alimentata da un gas vulcanico. Prima di lasciare il sito mi siedo sul bordo del lago, cercando di cogliere il fascino del luogo attraverso l’immaginazione del suo passato.

Con il taxi raggiungo Zendan-e Soleiman, la Prigione di Salomone. Prima dell’ascesa, Reiza mi raccomanda di non dilungarmi troppo nella visita, come ho fatto a Takht-e Soleiman. La montagna si erge isolata un centinaio di metri sopra la piana. L’ascesa è rapida ma impegnativa, con la vista che spazia fino al Trono di Salomone. Arrivato in cima mi affaccio oltre le rocce su una cavità profondissima dalla quale si leva odore di zolfo. La montagna è completamente cava, con impressionanti pareti a strapiombo che formano un anello; sembra di avere di fronte, anzi di sotto, il vero ingresso dell’inferno. Il vento spira forte e mi scoraggia ulteriormente dallo sporgermi troppo. Prima di lasciare la zona, forse per premiarmi della “visita lampo” a Zendan, Reiza mi accompagna con l’auto davanti a una pozza di acqua bollente e gorgogliante.

Sono quasi le due e mezza e ci aspetta ancora un lungo percorso: il tempo nel frattempo si è annuvolato. Procediamo veloci; il paesaggio si è aperto e la vista spazia ampia. A Takab ci accoglie uno spruzzo di pioggia. Reiza pensava che il mio tour si sarebbe concluso in questa cittadina, ma gli accordi con l’albergo erano invece che proseguissi con lui fino a Bijar, dove dovrei trovare più facilmente un mezzo per Sanandaj. Sembra un po’ seccato e il tono delle sue telefonate con il cellulare tradisce un po’ di nervosismo. Proseguiamo comunque attraverso un altopiano verdissimo; di nuovo mi stupisco dei paesaggi completamente diversi rispetto all’altopiano centrale.

Bijar è preannunciata da una grande fabbrica (di cemento?), la prima incontrata finora in questo viaggio. Le case moderne sono sparse in mezzo agli alberi, mentre tutto intorno si levano brulle montagne dai cocuzzoli rocciosi. Sono le quattro del pomeriggio e Reiza mi lascia a una grande rotatoria, dove sono parcheggiati i taxi. Alle mia richiesta di un savari per Sanandaj le facce appaiono molto dubbiose; seguo invece il consiglio di andare al terminal, poco più avanti sull’altro lato della strada, dove scopro che l’unico minibus in partenza è diretto proprio a Sanandaj! Davanti al piccolo edificio staziona un gruppo di uomini; alcuni indossano i caratteristici pantaloni curdi, alti in vita e larghi sulle ginocchia. Sono molto sorpresi della mia presenza e vorrebbero vedere il mio passaporto; quando gli mostro una fotocopia, sono contenti di scoprire che vengo dall’Italia e da Roma in particolare, la città di Francesco Totti! Prima di partire faccio in tempo a scattare una foto alle montagne; un ragazzo mi chiede stupito cosa mai stia fotografando. Fino all’ultimo un tizio cerca di convincermi a prendere un savari, facendomi capire che sarebbe molto più veloce, ma non ho fretta e del resto sarei il solo passeggero visto che tutti prendono l’economicissimo minibus. Sopraggiunge l’autista curdo: non saprei certo distinguerlo da un persiano, nonostante i baffi, ma indossa i pantaloni giusti! Dopo appena un quarto d’ora di attesa, sono di nuovo in viaggio.

Alle cinque ci immettiamo nella strada che collega Tabriz e Kermanshah. Il paesaggio si è fatto meno spettacolare, alternando tratti brulli a ondulate colline verdi. Viaggiamo tutti con le cinture di sicurezza allacciate, come richiesto dall’autista alla partenza. Durante la sosta per il rifornimento, mi accorgo che il gasolio costa tremila rial al litro, meno di dieci centesimi di euro! Dopo un’ora di viaggio verso sud, prendiamo a seguire il corso di un ruscello tra montagne rocciose completamente prive di vegetazione. Tutto ha il colore della terra; il bus arranca in salita. In mezzo ai brulli paesaggi, in basso appare un lago, probabilmente artificiale. Più tardi due grandi ciminiere, dall’aspetto di quelle di una centrale nucleare, preannunciano la città. Sono le sei e mezzo.

A Sanandaj, capitale del Kurdistan iraniano, in taxi raggiungo piazza Enqelabi, ombelico cittadino. Il tassista curdo è molto divertito dalla presenza di un italiano. All’arrivo rifiuta di essere pagato, insisto ma lui continua a rifiutare. Prendo ventimila rial e glieli consegno; allora accetta. Stavo per cascarci, poi mi sono ricordato di aver letto che si tratta di una pantomina usuale: non pagando, avrei commesso un grave sgarbo. Mi sistemo all’hotel Hedayat, dove la camera singola senza bagno ma con lavandino, è spartana ma pulita. L’albergo, nonostante appartenga alla fascia economia, è dotato comunque di WI-FI.

Contrariamente alle mie aspettative, ho dovuto pagare Reiza in rial e quindi sono a corto di valuta locale; domani inoltre è festa, si commemora la “straziante dipartita” di Khomeini. Il tizio alla reception mi segna su una cartina con scritte solo in farsi dove trovare un cambio (per farmi capire gli ho chiesto “dollar rial!”), ma naturalmente ho difficoltà ad individuarlo. Chiedo allora a un ragazzo di passaggio che mi accompagna in una gioielleria, dove anche questa volta riesco a cambiare senza problemi gli euro. È sera e in giro c’è grande animazione: per la calca non si riesce quasi a camminare, mentre il traffico sembra impazzito. Molti uomini indossano i pantaloni curdi, alcuni anche la fascia tradizionale in vita. Passeggio per le vie intorno a piazza Enqelabi e per il bazar, sempre caratteristico anche se brutalmente tagliato a metà dalla strada moderna. Per cena al Jahannaha ordino il takchin august, un tortino di carne, uvetta e bacche di crespino tra strati riso allo zafferano. All’inizio lo apprezzo, ma alla fine risulta un po’ stucchevole.

Giovedì 4 giugno: Sanandaj – Palangan – Kermanshah

A Sanandaj la mattina le strade sono deserte ed è tutto chiuso. Anche la moschea del venerdì sembra serrata: la porta, da cui pende la tradizionale catena per fare inchinare i fedeli all’ingresso, è sbarrata con una foto di Khomeini bardata a lutto. Seguo allora un operaio che entra da un ingresso posteriore, raggiungendo così la corte dove sono in corso lavori di restauro. La moschea ottocentesca presenta due bassi e tozzi minareti che sovrastano l’iwan centrale; di fianco incombe la brutta costruzione di un’enorme moschea moderna. L’iwan è pieno di iscrizioni, molte entro cartigli attorno a una lastra di pietra che reca a sua volta incise altre scritte. Mentre aggiorno il diario di viaggio seduto nella corte, sopraggiunge un tizio che apre la porta nell’iwan; posso così entrare nella grande sala della preghiera. Senna, come la chiamano i curdi, fu per secoli la capitale del principato curdo di Ardalan, governato dagli omonimi potenti emiri, indipendente nel medioevo e poi vassallo dell’impero persiano. Nel 1813 l’emiro Amonulla Khan, finanziatore della moschea, fece accecare l’architetto in modo che non ripetesse più una costruzione tanto perfetta (così almeno si racconta). La selva di colonne a tortiglione regge trentadue bianche cupolette; tra quattro di esse è collocato una sorta di baldacchino sospeso, ma la sala non può certo competere per bellezza con quelle di altre moschee più antiche. Nel frattempo il tizio passa l’aspirapolvere sui tappeti, in vista delle cerimonie per la festa. Anche il portale principale della moschea viene aperto; ero semplicemente arrivato troppo presto!

In giro qualche negozio comincia ad aprire; evidentemente tra i curdi la festività è meno sentita. In compenso la Casa dei Curdi e il museo di Sanandaj sono chiusi. Raggiungo allora la Moshir Divan, antica dimora, ma riesco a vedere solo il muro di cinta in mattoni con il portale di accesso poligonale. Pian piano i negozi continuano ad aprire; alcuni espongono lavori artigianali in legno (scacchiere, backgammon), caratteristici di Sanandaj. I pezzi degli scacchi sono molto belli: un re persiano con la barba, elefanti (al posto dei cavalli?). Anche il museo curdo, ospitato nella casa Asef di epoca Qajar, ha aperto i battenti, ma solo per consentire l’accesso alla sala da tè ospitata nella corte un tempo destinata alla servitù. Nella struttura di mattoni, perfettamente restaurata, i divani sono collocati sotto il portico. Tornando al museo di Sanandaj, mi affaccio dalla porta chiusa riuscendo a intravedere la facciata con le finestre di legno della casa che lo ospita.

Terminata la mia breve esplorazione della capitale del Kurdistan iraniano, alle dieci e mezzo sono in viaggio con un minibus alla volta di Kamyaran. Lasciando la città, verso sud lungo la strada per Kermanshah, non possono sfuggirmi i palazzoni che sorgono sulle pendici di montagne bruciate. Un curdo mi indica lo spettrale paesaggio, avvolto nella foschia, e mi dice sarcastico “Italia”. Scesi di quota, il verde degli alberi si concentra nel fondovalle, mentre con l’avanzare della giornata la foschia si dirada. A mezzogiorno siamo a Kamyaran. Un passeggero mi segnala dove scendere e si offre di aiutarmi a trovare un savari per il paesino di Palangan, che intendo visitare. Fermata un auto di passaggio saliamo a bordo, ma arrivati in centro scende lasciandomi da solo a trattare con l’autista. Hossein propone di portarmi fino a Palangan; dopo un po’ di incomprensioni linguistiche (mi scrive il prezzo in numeri persiani incomprensibili), gli faccio vedere le banconote e ci accordiamo per 190.000 rial. Puntiamo verso occidente attraverso una piana nella quale le distese di grano hanno tonalità poco più gialle delle montagne riarse. Mi aspettavo un percorso di montagna, mentre procediamo spediti in un’ampia vallata. Un paesino sul fianco di una montagna è appena distinguibile nell’arsura. Poco dopo passiamo sotto un secondo paese con le case in pietra disposte a schiera una sopra l’altra. I villaggi si susseguono, tutti del colore delle montagne. Prima di arrivare a destinazione iniziamo una ripidissima discesa; in basso appare Palangan. Hossein mi lascia appena inizia la fila delle macchine parcheggiate. Sono ovunque: Palangan è una meta molto popolare per un picnic in un giorno di festa.

Una scalinata conduce in basso verso il fiume; il paese appoggia le sue case sugli scoscesi pendii rocciosi ai lati. È una vera visione da presepe, con le case in pietra dai tetti piatti addossate le une alle altre. Dal ponte moderno si gode una visione panoramica; subito a fianco un chiosco offre la possibilità di un pranzo alla griglia. Sono sceso sotto i mille metri di quota e fa molto caldo, inoltre ho con me lo zaino; non mi lascio così sfuggire l’occasione di sedermi nei tavolini all’ombra ad ammirare lo spettacolo. Le case affacciano tutte a mezzogiorno, evidentemente l’inverno deve fare molto freddo. Per pranzo mi portano un grande pesce piatto, aperto e cotto alla brace; la pelle è quasi bruciata, ma la polpa è morbidissima. In giro per il paese di fronte a me non si vede nessuno, né locali né tanto meno turisti che non si azzardano ad affrontare i ripidi viottoli al sole e preferiscono banchettare all’ombra chissà dove (lungo il ruscello scorgo qualche comitiva). Palangan è assediata dalla modernità e dal turismo di massa iraniano. Quanto potrà resistere? Un osceno ponte in cemento taglia la valle per agevolare il passeggio, ogni spazio in piano è stato trasformato in parcheggio (oggi è festa e sono tutti stracolmi). Nel frattempo al mio tavolo si aggregano due iraniani in gita da Kermanshah.

Il paese è diviso in tre “quartieri”: due, sopra altrettanti cucuzzoli, dal lato dove mi trovo, collegati dal ponte pedonale in cemento e separati dalla scala che ho percorso arrivando; il terzo sull’altra sponda del fiume. Dopo pranzo sono l’unico a scavalcare il ruscello e ad avventurarmi per scale e stradine. Una lunga scala piena di sassi taglia a metà il “muro delle case”; molte sono rovinate, altre certamente abitate. In giro non si vede nessuno, anche perché sono le due del pomeriggio e fa molto caldo. Ogni tanto mi giunge il suono di qualche voce; il canto di un gallo rompe il silenzio. Come a Masuleh, anche qui i tetti delle case sono gli unici spazi piani dove sostare; alcuni sono in pietra e terra, ma altri hanno una copertura in lamiera. Una nonnetta si affaccia per un attimo a una finestra, si ode un bimbo piangere; qualche antenna parabolica sembra identificare le case abitate. Volgendo lo sguardo, i quartieri di fronte appaiono decisamente più abitati: le case sono tutte sistemate, mentre quello dove mi trovo sembra semi abbandonato e per terra non manca la spazzatura.

Riattraversato il fiume mi siedo all’ombra del ponte, insieme a una famiglia di Hamadan. Il papà parla un po’ di inglese e rimane sorpreso che non abbia visitato la sua città con le vicine grotte di Ali Sadr, apprezzate dagli iraniani. Sono molto cordiali e così gli mostro le fototessera dei miei bambini e di Stefania.

Tornato alla strada non ho difficoltà a procacciarmi un taxi per Kamyaran. Habib mi fa spendere meno rispetto al driver dell’andata e per allietarmi il viaggio propone una serie di canzoni di Eros Ramazzoti; i paesaggi mi scorrono davanti agli occhi mentre si ripete il ritornello “In quest’aria densa c’è qualcuno che pensa …”. Al terminal di Kamyaran il minibus per Kermanshah è già partito e così Habib mi lascia al punto di ritrovo dei savari, raccomandandomi di non pagare più di 40.000 rial. L’attesa dura una mezzoretta, durante la quale la mia presenza costituisce un motivo di distrazione per un gruppo di curdi sfaccendati.

Arrivato a destinazione a Kermanshah, raggiungo in taxi il terminal dove acquisto senza problemi il biglietto del bus notturno di domani per Tabriz. Per spiegarmi mi è sufficiente una parola di farsi: fardana, domani. Un’altra corsa in taxi mi porta fino all’Hotel Resalat, prenotato e pagato su internet tramite il sito Hotelyar. L’albergo si trova a due passi da piazza Ferdowsi, nei quartieri meridionali della città.

Per raggiungere il centro ricorro di nuovo a un taxi, chiedendo di essere lasciato al bazar. Il tassista mi scarica in piazza Safavi, ma non è facile orientarsi nei lunghissimi viali paralleli che caratterizzano la planimetria cittadina. Un passante, che mi vede in difficoltà, mi viene in soccorso indicandomi come raggiungere Modarres, la strada principale. Davanti al bazar si concentrano i negozi di dolciumi, tra cui i nan berenji (letteralmente “pane riso”) biscotti gialli sofficissimi aromatizzati allo zafferano. Mentre passeggio me ne offrono un paio da assaggiare.

Per cena al ristorante Homa ordino la specialità del posto, il fesenjum, pollo cotto in salsa di melograno e noci; non è male. Alla televisione un canale in inglese trasmette il discorso di Khamenei in occasione dell’anniversario della morte di Khomeini. La Guida Suprema condanna i terroristi che utilizzano la religione come pretesto per la violenza ed esalta la pace. Sembra di sentire il papa: i tempi stanno veramente cambiando oppure è solo una facciata? Ampio spazio viene dato alla guerra civile in Yemen tra sciiti e sunniti, con la notizia dell’uccisione di civili tra cui alcuni bambini.

Un economicissimo taxi collettivo mi riporta a piazza Ferdowsi. La gente siede a godersi il fresco nel giardinetto con prato all’inglese, in mezzo alla rotonda assediata dal traffico. Al centro su un alto piedistallo l’autore dello Shahnameh (Libro dei re), epopea nazionale dei re persiani, volge lo sguardo in alto con aria altera e un libro in mano. La statua bianca è illuminata con effetti di azzurro e violetto. Dopo l’arsura del giorno mi godo il fresco grazie a un bel venticello.

Venerdì 5 giugno : Kermanshah – gita a Bisotun

Per raggiungere Bisotun ricorro a un taxi chiamato dall’albergo, visto che la sera mi aspetta il bus notturno per Tabriz e non voglio rischiare di perderlo. Lasciando la città imbocchiamo la veloce autostrada per Hamadan, puntando verso i monti Zagros, come mi segnala Reza il driver di oggi. Si ergono imponenti sulla vasta piana di Kermanshah e proprio per questo furono utilizzate nell’antichità per scolpirvi i celebri bassorilievi di Bisotun e Taq-e Bostan, lungo la strada che collegava Babilonia a Ectabana, la capitale dei medi, attuale Hamadan. Durante il tragitto incrociamo varie fabbriche, attraversando uno dei pochi poli industriali in tutto il viaggio. A Bisotun – mi spiega Reza – la parete rocciosa che si erge verticale è utilizzata per le arrampicate.

Il sito archeologico, patrimonio dell’umanità, si trova subito prima della città moderna. Un sentiero in piano, ai piedi dell’alta montagna, lo attraversa tutto. Attratto dai celebri rilievi di Dario, raggiungo subito la parete sulla quale sono scolpiti. Prima però mi soffermo ad analizzare quanto resta di altri bassorilievi, realizzati durante l’impero dei parti, più in basso all’altezza del sentiero. Purtroppo sono stati quasi cancellati dall’iscrizione dello Sheikh Alikhan-e Zangeneh, cancelliere dello shah safavide Suleiman I, datata all’anno 1093 dall’egira. Nel piccolo rilievo a destra Gotarzes II, sovrano dei parti tra il 38 e il 51 d.C., sconfigge Mitridate. Lo scontento causato dalla crudeltà e dal lusso in cui viveva il re spinse la fazione a lui ostile ad appellarsi all’imperatore romano Claudio affinché inviasse in patria il principe Mitridate, che viveva a Roma come ostaggio. Attraversato l’Eufrate, però Mitridate fu sconfitto e preso prigioniero da Gotarzes, che gli fece mozzare le orecchie. Nel rilevo si intravedono la figura di Gotarzes a cavallo che brandisce una lancia e una Vittoria alata. A sinistra dell’iscrizione safavide le due grandi figure barbute sono quanto resta di un altro rilievo che raffigurava quattro satrapi mentre rendevano omaggio a Mitridate II il Grande, il più importante tra i re parti, sotto il quale l’impero raggiunse la massima estensione (123-87 a.C.). Sopra si intravede ancora un brandello di iscrizione greca con i nomi dei personaggi.

Il rilievo rupestre di Dario si erge molto più in alto sulla montagna e per questo è di difficile lettura, anche per le impalcature che reggono una piattaforma collocata alla sua base. Rappresenta la celebrazione della sua problematica ascesa al trono. Dopo la morte di Cambise nel 522 a.C., Gaumata si era impossessato del potere sotto le mentite spoglie di Bardiya (meglio conosciuto come Smerdi), il fratello di Cambise fatto uccidere da questi in segreto alcuni anni prima. Dario, che apparteneva a un ramo cadetto della dinastia achemenide e in quel momento ricopriva il ruolo di ufficiale tra gli Immortali Persiani, la famosa guardia reale persiana, proprio grazie all’appoggio di alcuni commilitoni riuscì a sconfiggere ed uccidere l’usurpatore. L’iscrizione che accompagna il rilievo racconta che, grazie all’aiuto divino di Ahura Mazda, Dario sorprese Gaumata in una delle sue fortezze in Media. Questi rivolgimenti tuttavia furono interpretati dai governatori delle province come segnali della possibilità di riottenere la propria indipendenza. In Susiana, Babilonia, Media e Margania comparvero nuovi usurpatori che pretendevano di appartenere alla discendenza reale e riunivano intorno a se grandi eserciti. Nella stessa Persia, Vahyazdata imitò Gaumata e gran parte del popolo lo identificò con il vero Bardiya. Dario, malgrado disponesse solamente di un piccolo esercito di persiani e medi, comandato da un ristretto numero di generali fedeli, riuscì a sedare tutte le ribellioni e ristabilire la sua autorità sull’impero.

Nel pannello nove personaggi con le mani dietro la schiena e una catena al collo procedono verso Dario: si tratta di otto governatori ribelli, mentre l’ultimo della fila con un alto cappello a punta è il re degli sciti Skunkha, aggiunto in un secondo momento. Dario schiaccia sotto i piedi Gaumata che alza le braccia in segno di resa, mentre in alto si distingue la figura alata di Faravahar, simbolo di Ahura Mazda. Dario barbuto è rappresentato più grande degli altri, seguito da due generali. Sopra le figure si intravedono i caratteri cuneiformi dell’iscrizione trilingue. Per fortuna sono venuto la mattina e il pannello è in piena luce; da lontano sembra piccolo, ma misura 18×7 metri. Con il binocolo cerco di esaminare i particolari; le figure sembrano veramente ben delineate.

Mi arrampico per il sentiero che porterebbe al rilievo, ma alla fine è sbarrato; da sotto non si vede assolutamente nulla per la piattaforma sopra le impalcature. Un cartello spiega che le iscrizioni in elamita, babilonese e persiano antico sono tutte intorno al pannello e non solo sopra le figure, come mi era sembrato di intravedere. Queste iscrizioni hanno avuto per le scritture cuneiformi la stessa valenza della stele di Rosetta per i geroglifici egiziani: nel 1835 l’ufficiale britannico Henry Rawlinson si fece appendere per mesi davanti all’iscrizione per realizzarne dei calchi in cartapesta, che gli consentirono di tradurre prima il testo in antico persiano e poi le versioni elamita e babilonese. I testi raccontano le vittorie riportate da Dario (“Combattei diciannove battaglie, con il favore di Ahura Mazda, sgominai e presi prigionieri nove re. Uno era Gaumata; egli mentì e disse ‘Io sono Smerdi il figlio di Ciro’ e fece ribellare la Persia”); il diritto di Dario al trono (“Otto della mia famiglia furono re prima di me; io sono il nono”), stabilendo promesse e minacce (“L’uomo che collaborerà con la mia casa, io lo ricompenserò per bene; chi la ingiurierà io lo punirò per bene”).

Anche se non posso vedere i bassorilievi da vicino il luogo emana un fascino profondo: la parete rocciosa verticale è impressionante e la macchia bianca del pannello suggestiva, anche per il pensiero della sua antichità. I turisti iraniani fanno un gran vociare divertiti attorno al laghetto alla base della montagna, mentre gli alberi concedono una piacevole ombra.

Proseguendo la passeggiata raggiungo le rovine di un palazzo sassanide sullo sfondo del quale si erge un caravanserraglio safavide. Il palazzo non fu mai completato e risale all’epoca di Cosroe II Parviz (il Vittorioso) che regnò dal 590 al 628, come risulta dai capitelli ritrovati con la sua effigie. Il grande re persiano, grazie a una serie di campagne militari, aveva occupato quasi l’intero impero bizantino, ma la riscossa di Eraclio segnò la sua fine. Dopo la sconfitta nella battaglia di Ninive venne rovesciato e rinchiuso in un sotterraneo per ordine del figlio Siroe, spirando dopo cinque giorni di torture. Solo qualche anno più tardi la Persia sarebbe caduta sotto gli arabi e Maometto avrebbe soppiantato Zoroastro.

Del palazzo di Cosroe sono sopravissute le mura in pietra delle stanze attorno a una vasta corte centrale. Più oltre il caravanserraglio, anche se restaurato, costituisce uno scorcio pittoresco con lo sfondo dell’immensa parete rocciosa a strapiombo. Attorno si fa un gran consumo di acqua per innaffiare un prato verdissimo, mentre nella corte interna fervono i lavori anche oggi che è venerdì. Alcuni ambienti a volta recano pavimenti con mattonelle smaltate azzurre.

Dal caravanserraglio raggiungo la parete della montagna, sulla quale è stato ricavato un immenso spazio liscio. Mi piace immaginare che un imperatore sassanide si stesse preparando a realizzare giganteschi bassorilievi, come non si erano mai visti, ma l’arrivo degli arabi fermò i suoi progetti. Sarà solo la mia fantasia? L’origine tradizionale del sito, ricordata anche dal suo attuale toponimo Farhad Tarash, è ancora più romantica, legata a un personaggio della travagliata storia d’amore tra Cosroe e la principessa armena Shrin. Lo scultore Farhad era perdutamente innamorato di Shirin, che Cosroe non poteva sposare perché promesso a un’altra. Lo shah decise allora di mandare in esilio il pericoloso rivale proprio a Behistun (Bisotun), assegnandogli il compito impossibile di scolpire delle scale nella montagna. Farhad non si scoraggiò, iniziando l’impresa titanica nella speranza di ottenere come ricompensa il permesso di sposare l’amata. Passarono molti anni e Farhad rimosse metà della montagna, finché Cosroe gli inviò un messaggero annunciandogli la falsa notizia della morte di Shirin. Lo scultore disperato lanciò l’ascia contro la montagna, baciò il suolo e morì. La sua ascia era fabbricata con il legno preso da un melagrano e dove l’arma atterrò nacque un albero i cui frutti erano in grado di curare le malattie.

Un cartello illustra le ipotesi più scientifiche degli archeologi, suffragate dal ritrovamento di tracce di fori e ganci, tipicamente utilizzati dagli scultori, e di alcune colonne incomplete, mentre l’unico bassorilievo scolpito è una testa di donna. Probabilmente fu proprio Cosroe a finanziare il progetto interrotto e la roccia rimossa fu utilizzata per costruire il palazzo. Nella città di Bisotun sono state ritrovate altre opere sassanidi incompiute, segnale dell’improvvisa caduta dell’impero sassanide.

Tornato al rilievo di Dario, mi siedo all’ombra del laghetto. Sotto il pannello scorgo fittissime le iscrizioni; perché mai saranno state scolpite così in alto, dove nessuno poteva leggerle? Procedendo verso l’ingresso, questa volta non mi sfugge il rilievo di Ercole, disteso come se si riposasse su una roccia, la clava poggiata di fianco, una coppa in mano, la testa barbuta (rifatta da poco) e dietro un’ara con un’iscrizione greca. L’opera, datata 148 a.C., risale all’epoca seleucide, la dinastia ellenistica succeduta al conquistatore Alessandro Magno in queste terre; ho così completato la panoramica sulle dinastie persiane dell’antichità (achemenidi, seleucidi, parti e sassanidi). Gli attributi maschili dell’eroe sono scomparsi; mi sarei sorpreso del contrario in un paese terrorizzato dalla nudità!

Prima di lasciare il sito, un’ultima deviazione mi porta fino al rilievo di Belash (I-III secolo d.C.), scolpito su un macigno isolato. La figura principale, alta un metro e ottanta, raffigura il re dei parti Belash, ma ci sono stati ben sei re con questo nome ed è difficile stabilire quale sia quello rappresentato. Belash con barba ed elmetto indossa ricche vesti che sembrano di foggia rinascimentale: pantaloni larghi a pieghe, una tunica stretta in vita da un cinturone. I lunghi capelli sono raccolti in una sacchetta, secondo l’usanza dei parti; in una mano reca una coppa, con l’altra porge un’offerta a un altare. Sulla roccia sono raffigurate altre due figure, più semplici e rovinate.

Completata la visita, ritrovo il taxi al parcheggio. Lungo la strada di ritorno per Kermanshah noto molte torrette militari e aree recintate. Ci troviamo infatti lungo la direttrice di comunicazione con Bagdad e durante la guerra con l’Iraq Kermanshah fu bombardata dalle truppe di Saddam Hussein. Alla periferia nord della città attraversiamo un quartiere di palazzi tristissimi, molti in rovina, quasi tutti con i mattoni e i pilastri di cemento in vista, per poi raggiungere Taq-e Bostan sede un tempo dei giardini di caccia sassanidi.

Per l’ingresso pago i soliti 150.000 rial, mentre il costo per gli iraniani è di appena 10.000 rial. Dietro un bel laghetto, nel quale guizzano pesci rossi, su una parete rocciosa sono state ricavati un pannello scolpito e due “grotte”, strutture ad arco scavate nella montagna. A sinistra, la più grande reca sui pilastri dell’arco esterno una rappresentazione dell’Albero della Vita, simbolo zoroastriano, mentre in alto due vittorie alate spiccano il volo da una cornucopia. La parete di fondo presenta due livelli di bassorilievi: in quello più grande un gigantesco cavaliere con armatura, lancia ed elmetto chiuso sembra anticipare il nostro medioevo, mentre sopra Cosroe II è rappresentato tra Anahita e Ahura Mazda. Sulla parete di sinistra riconosco una scena di incoronazione, mentre in basso una selva di personaggi è impegnato in una battuta di caccia (si distinguono alcuni elefanti, ma l’ombra e l’impossibilità di avvicinarsi rende difficile la lettura).

La seconda grotta è molto più semplice. Nella parete di fondo Shapur III (383-8 d.C.) e il nonno Shapur II recano entrambi il bastone del comando e un disco sopra la testa, ma le sculture appaiono abbastanza grossolane. Molto più belle sono invece quelle del pannello a cielo aperto, nel quale Ardashir II (379-383 d.C.) è raffigurato tra Ahura Mazda e Mitra, quest’ultimo con i raggi che gli circondano il capo e un fiore di loto sotto i piedi. Lo shah calpesta un nemico sconfitto, da alcuni identificato con l’imperatore romano Giuliano l’Apostata che invase la Persia arrivando fino a Ctesifonte prima di essere sconfitto. La sua morte tuttavia avvenne sedici anni prima dell’ascesa di Ardashir. Ahura Mazda consegna al re l’anello del comando, mentre Mitra gli porge un lungo scettro. Il volto dello shah con i baffetti ricurvi, privato del naso sembra avere tratti mongoli. La sua corona, come quella di Ahura Mazda, è sormontata da un disco. I personaggi hanno uguale dignità e dimensione.

Sotto le sculture scorre un’acqua cristallina. Torno ad esaminare la prima grotta. Nella parete di fondo i volti sono consumati: Anahita, avvolta da lunghe vesti, versa il contenuto di un vasetto effettuando una libagione, mentre con l’altra mano porge un anello allo shah, come fa anche Ahura Mazda. Le tre figure indossano tutte ricche vesti; lo shah ha uno spadone “medievale”. Nella bella scena di incoronazione sulla parete laterale sono sopravissute tracce di colore: il re sul trono indossa una veste rossa e sfoggia una barba nera, circondato da tre personaggi con vesti verdi. Nel frattempo il sole alto in cielo ha cominciato a illuminare le belle bardature della schiera di elefanti.

Per pranzo scelgo uno dei tanti locali davanti al sito. Seduto all’ombra su un divano, ordino un barbecue, specialità di Kermanshah, accompagnato come sempre dal riso bianco e da una Coca Cola (nonostante il boicottaggio, in Iran si trovano senza problemi sia la Pepsi che la Coca, prodotte localmente).

In taxi mi faccio portare in centro. Il Takieh Moaven ol-Molk è un hosseinih, cioè un santuario dove nel mese di Muharram si ricorda il martirio a Kerbala di Hossein, nipote di Maometto e terzo imam dello sciismo, origine del dissidio tra sciiti e sunniti. Il portale d’ingresso presenta piastrelle con quadretti di palazzi tra composizioni floreali. Si accede quindi a un cortile anche questo con piastrelle, tra cui spicca una grande rappresentazione del martirio di Kerbala: una moltitudine di uomini a torso nudo, altri vestiti di nero con velo davanti agli occhi, una grande figura barbuta su un trono (Hossein?), guerrieri insanguinati con le spade. Alcuni quadretti riproducono varie scene tra cui un cavaliere con velo bianco e aureola (Hossein?), che porta in braccio un bambino in fasce. Il santuario è deserto; per entrare nella sala con cupola centrale evito quindi di togliermi le scarpe, seguendo l’esempio di un tizio che sta innaffiando il pavimento. Proseguono i pannelli di maioliche: due ufficiali europei siedono davanti allo shah, mentre in basso sono raffigurate donne velate e guerrieri. Una cappella tutta coperta di specchi contiene un piccolo baldacchino e una lastra di alabastro con iscrizioni. Un’altra immagine di Kerbala raffigura corpi distesi senza testa, un esercito di cavalieri, un cavaliere velato che mostra un bambino trafitto al collo da una lancia, donne velate vestite di nero. Un secondo cortile reca al centro un giardino fiorito.

Ripresa la passeggiata, attraverso strade deserte per il giorno festivo e l’ora calda; i negozi sono quasi tutti chiusi. Un signore mi avvicina, chiedendomi in un buon inglese se posso fare una foto. Mi porta al negozio di fronte e si fa immortalare insieme alla madre novantenne. Vicino al bazar, la moschea del venerdì ricorda quella di Yazd, per lo stretto e alto portale racchiuso da due minareti; purtroppo è chiusa.

A Kermanshah non mi resta altro da farse, così in taxi faccio ritorno a piazza Ferdowsi. A quest’ora solo poche persone trovano ristoro nel giardino all’ombra degli alberi; che differenza rispetto alla folla della sera! Mi siedo su una panchina e ripenso alla mia visita a Bisotun: nei miei due viaggi in Iran ho percorso tutta la “carriera” di Dario, dagli esordi con la celebrazione dell’ascesa al trono, alla sua tomba a Naqsh-e Rostam visitata l’anno scorso.

Il tassista che mi porta al terminal è giovane ed onesto. Gli chiedo quanto costa la corsa, mostrandogli 100.000 rial (ieri ne ho pagati 150.000); lui tira fuori una banconota da 20.000 e all’arrivo me la consegna come resto.

Il bus per Tabriz parte alle sei e mezza, con mezzora di ritardo. È una vettura Scania abbastanza confortevole, anche se non di lusso. Percorriamo di nuovo la strada verso nord che porta a Sanandaj. Nella luce della sera scorrono montagne rocciose e distese coltivate nella valle. Al mio fianco siede Behdad, un ragazzo di ventitre anni che studia educazione fisica a Tabriz. È inseparabile dal maxi cellulare che definisce il suo migliore amico. Il suo sogno sarebbe studiare in Europa, così mi chiede più volte se la vita in Italia è cara e alle mie risposte sembra intristirsi. Cerco di incoraggiarlo, dicendogli che potrebbe lavorare e studiare, ma mi contraddico perché ho appena detto che in Italia è difficile trovare lavoro per la crisi economica. Dopo un po’ si scusa dicendomi che domani ha un esame difficile e deve studiare: tira fuori un libro sulla storia dei dodici imam, spiegandomi che l’esame è di cultura generale!

Le montagne si aprono e le coltivazioni si estendono ampie; dopo un’ora di viaggio ripassiamo per Kamyaran. Behdad mi spiega che ieri la festa era doppia, perché coincidevano la morte di Khomeini e la nascita del dodicesimo imam, Mahdi, l’imam nascosto. Questa seconda festa segue il calendario persiano e quindi cambia data ogni anno. Finalmente comprendo la frase di chi mi aveva detto sarcasticamente che il quattro giugno non avrebbero saputo se piangere o ridere. Behdad sembra un ragazzo dolce e un po’ timido, rispetto alla tipica spacconeria degli iraniani; quando gli mostro la foto di Giulio, il mio bambino di due anni, la carezza a lungo.

Il bus su cui viaggiamo non è della categoria VIP e in salita l’autista spegne l’aria condizionata. Per me comunque è meglio così, perché non regna il gelo dei mezzi di lusso. Alle nove, quando attraversiamo Sanandaj, è quasi buio, poi cala la notte. Più tardi facciamo una sosta in un locale lungo la strada che attira molti bus di passaggio; per la mia cena ordino pollo con il riso, mentre Behdad consuma il pasto che gli ha preparato la mamma. All’alba siamo ormai vicini a Tabriz, dove giungiamo a destinazione dopo dodici ore di viaggio.

Sabato 6 giugno: Tabriz

Il tassista che mi aggancia al terminal non ha la minima idea di dove si trovi il Park Hotel, dove gli chiedo di portarmi, ma per non perdere il cliente non lo dà a vedere. Alla fine mi lascia davanti a un albergo, da tutt’altra parte, e devo ricorrere a un altro taxi. Nonostante siano le sette del mattino, in albergo mi mettono subito a disposizione una camera; per riprendermi dalla notte in bus, pago la colazione extra.

Tabriz è una città di un milione e mezzo di abitanti, capitale dell’Azerbaijan iraniano. Gli azeri sono la minoranza etnica più numerosa del paese, ben integrati nella società iraniana: basti pensare che la grande dinastia degli shah safavidi era azera, originaria di Ardabil, e anche l’attuale Guida Suprema Khamenei è azero. Spira un bel venticello e il clima appare più fresco; in giro si vedono moltissimi giovani e per la prima volta anche qualche gatto.

Il mio tour della città inizia insolitamente con due chiese. Il campanile a cannocchiale della chiesa anglicana in mattoni spunta dal muro di recinzione. Anche l’armena San Sergio non è accessibile; questa volta oltre il muro si vede appena il tetto conico sormontato da una croce. La cappella è ancora utilizzata da una piccola comunità armena.

Raggiungo quindi l’Arg, uno dei simboli cittadini, che si erge isolato in un piazzale con lavori in corso. Da sud il suo aspetto trasmette una sensazione di sobrietà e pesantezza: sembra di avere di fronte un’immensa e massiccia porta di mattoni con due arcate e un torrione centrale. In realtà si tratta di tutto ciò che resta della Masjed-e Shah, costruita da un visir della corte di Oljeitu. La moschea a quattro iwan doveva essere enorme, ma ciò che resta oggi fa pensare a un forte più che a un edificio religioso (infatti nell’Ottocento il governatore Qajar utilizzò le rovine per ricavarne una cittadella). Passando sull’altro lato, l’Arg assume una aspetto meno militaresco, grazie a due avancorpi sporgenti e alla nicchia della preghiera, dalla quale si intuisce come in origine la struttura fosse un immenso iwan. Davanti oggi si trova un vasto spazio vuoto, in corrispondenza della corte in marmo della moschea antica, che le cronache riportano fosse enorme. Come è accaduto per il palazzo di Tamerlano nella sua città natale in Uzbekistan, la mania di gigantismo non concede lunga vita a questi monumenti. Su un lato del piazzale è stata quasi completata una grande moschea moderna: i due minareti sono a buon punto, come anche l’esterno, ma non mi è consentito sbirciare dentro.

Proseguendo la passeggiata lungo il viale intitolato all’Imam Khomeini, raggiungo l’hammam Nobar, oggi sede di un ristorante, lo Shahriar Traditional Restaurant. Per ora mi limito a guardare le foto degli affascinanti ambienti, ma prendo nota e tornerò più tardi. Più in là il Municipio riporta alle architetture occidentali con ampie finestre; fu progettato da un tedesco e se non fosse per le foto di Khomeini e Khamenei sembrerebbe di avere di fronte un teatro europeo. Dietro spunta la torre dell’orologio.

Sempre camminando su Imam Khomeini raggiungo la Moschea Blu. All’epoca in cui il resto dell’Iran era sotto il controllo dei timuridi, eredi di Tamerlano, Tabriz divenne la capitale di una federazione tribale turcomanna, curiosamente denominata Qareh Koyunlu (“Pecora Nera”). Il sovrano più importante della dinastia, Jahan Shah, nel 1465 fece realizzare questa moschea, denominata “Turchese dell’Islam” per la magnificenza delle maioliche blu che ricoprivano ogni superficie. Purtroppo l’edificio fu distrutto da un terremoto nel 1776 ed è stato ricostruito solo negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, rispettando la struttura originaria, ma senza il rivestimento delle famose maioliche. All’esterno l’unica parte antica è il portale: oggi il grande arco è racchiuso da una cornice con iscrizioni coraniche e motivi floreali su sfondo blu, ma in vari punti si sono aperti squarci senza mattonelle. Avvicinandomi mi rendo conto che le parti più chiare spesso sono cadute; per questo i vuoti hanno il colore marrone dell’intonaco, invece del candido bianco di un tempo. La moschea ha un’architettura insolita, essendo una struttura interamente coperta, come accade in Turchia ma raramente in Iran. La planimetria è quadrata: si accede a un corridoio, per poi passare alla sala centrale coperta dalla grande cupola di mattoni; di lato si trovano due navate. Corridoio e navate sono coperti da cupolette, in modo che le cupole in totale sono nove considerando anche quella centrale. Nella grande sala il passaggio dalla base quadrata al cerchio della cupola avviene attraverso archi disposti in diagonale negli angoli, che si aggiungono ai quattro al centro delle pareti; sotto corre una galleria. Le superfici sono rivestite di maioliche fino agli archi, ma la cupola è stata lasciata nuda. Un’altra particolarità è costituita dalla seconda sala, che si apre dietro la qibla, anche questa coperta da una cupola di nudi mattoni. Le sue linee geometriche con quattro pennacchi agli angoli sono molto belle. Nell’arco verso la sala centrale una sezione di mattonelle spicca per il blu intensissimo; peccato per l’orrenda lampada che pende al centro rovinando tutte le foto. Le iscrizioni cufiche, conservate sulle lastre di alabastro tutto intorno, fanno pensare che l’ambiente fosse destinato alla sepoltura.

A fianco della moschea, separato da un bel giardino di recente sistemazione con una candida statua del poeta persiano Shirvani Khaqani (1121-1190), si trova il museo dell’Azerbaijan. L’esposizione include alcuni reperti veramente magnifici. Si inizia con oggetti preistorici in ossidiana, proseguendo con ceramiche delle civiltà Esmail (5000 a.C.). Le “borse di pietra” risalenti al 3000 a.C. sono veramente curiose: la più grande reca la rappresentazione di due leoni che azzannano un toro, un’altra due serpenti intrecciati con grazia. Tra i numerosi reperti provenienti da Hasanlu, a sud ovest del lago di Urmia, spicca un piccolo leone accovacciato. La statuetta di una dea, scoperta a Rostanabad, presenta fianchi larghi, seni piccoli e una testa con cerchi attorno agli occhi; è un simbolo di fertilità che risale al I millennio a.C. Gli scheletri mummificati di un uomo e una donna sono stati scoperti nella Moschea Blu a otto metri di profondità (1000 a.C.). Il magnifico elmo di rame a punta appartiene al periodo Urartu (I millennio a.C.); un grande rython ha la forma di un toro con corna e gobba (1000 a.C.). Le vetrine proseguono con la successione delle dinastie storiche: la riproduzione di una specie di castello con due torri risale all’epoca dei parti; un’iscrizione achemenide, accompagnata dal duplicato elamita, ricorda Xerexes I.

Cambiando completamente genere, nel piano seminterrato sono esposte moderne sculture di bronzo, realizzate da Ahad Hossein tra il 1975 e il 1980. Un grande drago a più teste insegue la gente terrorizzata, mentre dalla sua pancia spunta una moltitudine di teschi; le rappresentazioni dei prigionieri politici in gabbia e degli affamati sono veramente inquietanti. Il piano superiore è dedicato all’arte islamica. Tra gli oggetti esposti spicca una copia del Chelsea Carpet. L’originale, conservato all’Albert&Victoria Museum di Londra e contemporaneo al celebre tappeto di Ardabil, è enorme, realizzato in seta e lana, con motivi floreali e scene di animali tra cui una tigre che addenta un cerbiatto. Il numero di nodi per pollice quadrato è pari a 21×22.

Tornando sui miei passi, non lontano dal Municipio mi avventuro nei cortili della facoltà di arte, ospitata in tre belle dimore Qajar. In un cortile, un alto portico presenta slanciate colonne bianche con capitelli “doppi” decorati da motivi floreali a stucco che proseguono nel frontone; la sala dietro ha grandi finestre di legno con vetrate colorate. Mi siedo nel giardino all’ombra degli alberi, davanti a rose intensamente rosse. Mentre mi aggiro tra i vari cortili, un signore mi invita ad entrare nella grande sala di una di queste dimore. È un professore e mi conduce proprio nel suo studio, pieno di opere d’arte da lui realizzate (calligrafie, busti). Parla francese ma non inglese, così manda a chiamare uno studente che possa tradurre, anche se il suo francese per me è comprensibile. Mi spiega che tutte le case avevano due corti, una interna per la famiglia e una esterna per gli ospiti. La sala di rappresentanza dove ci troviamo era collocata tra le due: gli uomini sedevano per terra, le donne si affacciavano dalle finestre interne in alto. Le vetrate colorate e le pitture realizzate con colori naturali sono molto raffinate. L’accoglienza del professore sembra un’altra testimonianza dell’ospitalità iraniana, ma appena lo studente se ne va mi chiede 50.000 rial per la visita! Vicino all’università un’altra dimora Qajar ospita il museo della calligrafia, ma è chiuso per i lavori in corso. Il giardino è una profusione di fiori colorati e il giardiniere aziona anche la fontana apposta per me.

Per pranzo scelgo il ristorante ospitato nell’hammam Nobar. Nella pittoresca sala dove si mangia, dalla candida cupola centrale pende un grande lampadario a cerchio, mentre ai lati sono disposti divani coperti da tappeti sui quali poggiano tavolini, che preferisco ai banali tavoli all’occidentale collocati nel mezzo. Le mattonelle azzurre ricordano la funzione originaria di hammam. Il menu è solo in farsi, ma ci sono le foto e per i prezzi non ho problemi perché ormai padroneggio i numeri persiani! Sto diventando un vero iraniano, comincio ad apprezzare anche i loro divani che l’anno prima trovavo scomodissimi.

La grande attrattiva di Tabriz è costituita dall’immenso bazar, un labirinto di gallerie, sale coperte da cupole e caravanserragli, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Per raggiungerlo percorro Tarbiat, la strada pedonale dedicata allo shopping. La mia visita inizia con il settore dei gioiellieri, incentrato attorno a una vastissima tymche, sala coperta da una cupola che si innesta su vari pennacchi. Una lunga galleria è tutta una successione di gioiellerie. Questa parte del bazar appare perfetta, grazie probabilmente ai soldi dei gioiellieri, ma già passando nel settore delle spezie tutto si fa più sordido, come si addice a un mercato.

Interrompendo temporaneamente l’esplorazione del bazar, raggiungo il museo Costituzionale. Durante la rivoluzione costituzionale (1906-11), la dimora ottocentesca ospitò il quartier generale degli oppositori agli ultimi shah Qajar. Si trattò del primo evento del genere in tutto il Medio Oriente, segnando di fatto l’ingresso del paese nell’età moderna. In contrasto con i tentativi degli shah di cancellare l’identità azera, la rivoluzione consentì anche agli azeri di lingua turca di affermare per un breve periodo i loro diritti. Su pressione del movimento, nel 1906 lo shah Mozaffar al-Din aveva concesso la costituzione, ma i costituzionalisti furono ben presto abbandonati al loro destino dai britannici che si accordarono con i russi per la spartizione della Persia in zone d’influenza. Il nuovo shah Mohammad Ali abolì la costituzione e sciolse la Majlis, il parlamento iraniano che fu bombardato dai cosacchi russi. I costituzionalisti resistettero a Tabriz, riconquistando la capitale e deponendo lo shah, che fu sostituito dal figlio Ahmad Shah, ultimo della dinastia Qajar. Tuttavia quando il banchiere statunitense William Morgan Shuster, chiamato a risanare le finanze pubbliche, cercò di esigere il pagamento delle imposte alla grande nobiltà, questa invocò nuovamente l’aiuto della Russia e le truppe zariste intervennero una seconda volta per schiacciare i costituzionalisti e imporre la monarchia assoluta. Qualche anno dopo comunque i persiani tornarono ad eleggere un nuovo Majlis (il terzo) e il sistema parlamentare sopravvisse alla repressione.

L’esposizione del museo include svariati documenti e racconta la storia di molti personaggi, troppi per un italiano all’oscuro di quelle vicende. Viene ricordato come in questa casa furono prese importanti decisioni: Sattar Khan, un eroe nazionale per molti iraniani, chiamò alle armi contrò il dispotismo dei Qajar; il movimento costituzionalista decise di arrendersi allo shah Mohammad Ali. I busti dei leader della rivoluzione sono stati realizzati durante la repubblica islamica, quando sono stato rivalutati tutti i nemici degli shah. La foto che ritrae uomini armati di fucile è stata scattata a Tabriz nel 1908; un’altra mostra le agghiaccianti impiccagioni effettuate dai russi occupanti, con i condannati che penzolano da un albero e la gente tutto intorno. Dopo la vittoria dei costituzionalisti sullo shah, i russi occuparono Tabriz nella cosiddetta guerra dei quattro giorni.

Di fronte al museo, verso il bazar, la moschea del venerdì ha un portale con due altissimi minareti di mattoni, dotati addirittura di tre terrazzini e una lanterna in cima. I minareti sono di recente costruzione, ma la moschea (o l’ingresso?) verso il bazar è chiusa. Nei vari edifici intorno si trova una biblioteca piena di studenti.

Per visitare le attrazioni nei dintorni di Tabriz, dall’Italia ho contatto per e-mail Nasser Khan, segnalato dalla guida Lonely Planet. Sfruttando la SIM iraniana, questa mattina gli ho telefonato e ci siamo dati appuntamento all’ufficio turistico all’ingresso del bazar. Mentre mi trovo vicino alla chiesa armena un signore mi chiede se ho bisogno di aiuto: è Nasser! Raggiungiamo così insieme il “suo ufficio”; ha cinquantasette anni, una figlia di dieci e parla otto lingue, tra cui l’italiano, grazie a un soggiorno a Perugia. Assomiglia a Carlo Verdone ed è il classico tipo intraprendente che ha trovato nel turismo il suo business. Nell’ufficio un suo collaboratore dorme sul divano e non si scompone al nostro arrivo. Concordate rapidamente le gite dei prossimi giorni, Nasser passa al francese per rispondere alle domande di Gerome: è partito in bici dalla Francia a dicembre ed è arrivato a Tabriz attraversando tutta la Turchia! Ora deve decidere in quale direzione proseguire (Turkmenistan, Iran Centrale). Nasser cambia poi di nuovo lingua, passando a una coppia di turisti tedeschi.

Salutati Nasser e i suoi “ospiti”, ritorno alla chiesa armena per visitarla. Quando suono il campanello, come mi ha consigliato di fare Nasser, viene ad aprirmi un anziano signore. La chiesa appare moderna: davanti, la prima cupola triangolare è un padiglione con due campane, dietro, la chiesa è un parallelepipedo da cui spunta il cono della cupola. Anche all’interno non c’è assolutamente nulla di antico; eppure le sue origini sono antiche, tanto che è citata persino da Marco Polo. Nei pennacchi della cupola sono affrescati i quattro evangelisti con i loro simboli. Ioannes, il vecchio che mi ha aperto, ha un’aria afflitta; è armeno ma non si scuote dal suo torpore rassegnato neppure quando gli dico che qualche anno fa sono stato a Ejmiatsin, il Vaticano armeno. Dietro la chiesa incombe un palazzone.

Ripresa l’esplorazione del bazar, scopro che molte sezioni sono chiuse e l’unica parte affollata è quella più commerciale. Tutto sommato la sua visita risulta abbastanza deludente. Dall’ingresso settentrionale raggiungo il museo del corano, ospitato in una ex moschea di mattoni con due bei minareti decorati da giochi di mattoni.

Dopo la notte in bus le energie si sono ormai esaurite, così mi faccio riportare in taxi all’hammam per un chay. La sala per il tè ha una fontana nel mezzo con un bacino a stella; un bambino si diverte a schizzare l’acqua, bagnandosi tutto. La raffinata cupola di mattoni poggia su arcate a punta ed è decorata da mosaici geometrici azzurri; nel mezzo pende un grande lampadario ad anello.

Domenica 7 giugno: Tabriz – castello Babak – valle Aras – Jolfa – Tabriz

La prima giornata di escursioni da Tabriz prevede un lungo giro che mi porterà fino ai confini del paese. La partenza è fissata alle otto. Nasser si presenta davanti all’albergo insieme al driver per le ultime spiegazioni. Propongo di fare il giro al contrario, rispetto a quello concordato ieri, andando prima a Jolfa, perché ho letto che la facciata della chiesa armena è rivolta a oriente, ma mi lascio convincere a mantenere il programma originale, in modo da effettuare l’impegnativa ascesa al castello di Babak la mattina con il fresco.

Attraversata la vasta periferia di Tabriz, puntiamo a occidente verso Ahar. Il driver è azero, ma non riesco a memorizzarne il nome. Procediamo in piano tra basse colline di terra con qualche cespuglietto. In mezzo alla prateria c’è un assembramento di auto; è in corso un “bazar sheep” – mi spiega il driver. Ha due figli, un bambino e una bambina; sul display dell’autoradio mi mostra un video del figlio che balla una sfrenata danza azera. Ci fermiamo per una foto a una bellissima montagna dalle tonalità rosse, verdi e gialle; peccato solo che la giornata nuvolosa non ne esalti i colori. Il paesaggio si apre poi in una vasta conca erbosa e coltivata.

Dopo un’ora di viaggio siamo ad Ahar, apprezzata per le sue mele come si intuisce dalla moltitudine di alberi. Da qui proseguiamo verso nord tra ondulate distese coltivate: il grano oscilla al vento come onde del mare. Procediamo con continui saliscendi; il paesaggio verdissimo con le macchie rosse dei papaveri attrae le famiglie per un picnic, passione nazionale degli iraniani. Lungo la strada si distinguono le arnie colorate per l’apicoltura. Alle dieci e mezzo siamo a Kaleybar, che appare una cittadina moderna; siamo scesi a quota 1085 metri. Per raggiungere il castello di Babak, distante sette chilometri, saliamo per poi infilarci in una stretta valle tra monti boscosi.

Quando inizio l’ascesa per il castello sono le dieci e quaranta e siamo a quota 1750 metri. Il castello occupa un posto rilevante nel cuore degli azeri, perché fu la roccaforte del loro eroe nazionale, Babak Khorramdin, che si pose a capo della rivolta contro il regime arabo degli Abbasidi (815-837). Una ripida e interminabile scalinata mi mette subito a dura prova. Poi inizia il sentiero che segue i pali della luce, puntando proprio verso le nuvole; speriamo che non facciano brutti scherzi. La vista spazia su una grande conca poco più in basso, il silenzio è rotto soltanto dal lontano concerto degli uccelli, tra l’erba spuntano fiori viola, gialli e bianchi. Il sentiero sarebbe tutto al sole, ma oggi non ci sono problemi: spira un venticello fresco e il termometro dell’orologio al mio polso segna ventisei gradi. Dopo l’ultimo palo della corrente, ho appena superato una famiglia seduta sull’erba, quando sento il lontano latrato dei cani; proviene da un gregge al pascolo. Il latrato si fa sempre più forte e capisco che i cani si stanno avvicinando. Faccio in tempo a estrarre l’ombrello dallo zainetto, mia unica arma di difesa, che due cani mi raggiungono e cominciano a seguirmi da pochi centimetri, abbaiando furiosamente. Cerco di fare l’indifferente e non guardarli negli occhi, proseguendo lungo il sentiero che per fortuna non punta verso il gregge. Dopo un po’ si fermano e mi lasciano proseguire; sono uscito dal loro territorio. Tirato un respiro di sollievo, davanti a un passaggio poco chiaro, decido però di fermarmi ad aspettare la famiglia che sta sopraggiungendo (mamma, papà e bambino di otto anni). A loro i cani non hanno dato nessun fastidio; racconto cosa mi è successo, ma il papà non si scompone facendomi capire che se mi fossi seduto per terra i cani si sarebbero allontanati (sarà vero?).

Dopo un’ora di cammino, raggiungiamo una casetta da cui sbuca un signore; al suo interno ha una cassa piena di bibite da vendere agli escursionisti. Proseguiamo fino a incrociare un altro sentiero. Una scala in pietra tra grandi macigni conduce su una cresta rocciosa dove due mucche pascolano tra le rocce. Siamo quasi a quota 2200 metri, ormai in mezzo alle nuvole. Proseguiamo tra sentieri e scale; sulla sinistra si apre un burrone spaventoso, peccato per le nuvole che limitano la visuale. Una seconda cresta è chiusa da un muro di sbarramento in pietra nel quale è crollata la porta; sulla vetta, tra le nuvole spuntano resti di costruzioni. Poco dopo una torre si appoggia su una roccia che si sporge sul vertiginoso strapiombo.

Un’ultima scalinata ci porta sulla vetta più alta, ormai sopra le nuvole. Sul piccolo pianoro si staglia un grande edificio in pietra: una finestra quadrata è racchiusa da un arco cieco, una tozza torre quadrata presenta due finestre e due feritoie. Superata una porta tra due colonne, passiamo dietro l’edificio, raggiungendo prima una corte e poi la stanza nella torre dove il soffitto di legno è retto da una trave centrale. Ma la salita non è ancora finita: l’ultimo edificio si trova ancora più in alto. Una scala conduce all’ingresso, collocato tra due torrette circolari, dal quale si raggiunge una piccola piazza d’armi a cielo aperto. Il mio orologio segna le 12:45, quota 2240 metri e una temperatura di 23 gradi (l’ascesa è durata in tutto due ore). Affacciandomi sullo strapiombo, vedo la gente che cammina in mezzo alle nuvole; la parete verticale è impressionante, come anche la vista sugli edifici più in basso con le scale che si arrampicano seguendo le rocce. Ogni tanto le nuvole si levano come fumi di alambicchi, senza però riuscire mai a salire fin quassù. La famiglia fa uno spuntino; mi offrono un panino con sedano e formaggio che ricambio con qualche biscotto. Sono gentilissimi: lui mi vuole sempre scattare foto, lei ha un’espressione arcigna che raramente concede un sorriso.

Dopo un’occhiata a una cisterna coperta, iniziamo la discesa. Continuo ad aggregarmi alla famiglia per paura dei cani. Quando però siamo sorpassati da due locali, saluto la mia famiglia “adottiva” e seguo loro che procedono più veloci. I cani non si fanno né sentire né vedere; forse molestano solo gli stranieri solitari. Alle due e venti concludo le mie fatiche; per sfamarmi mi concedo un rapido spuntino al chiosco alla partenza del sentiero.

Ormai è tempo di proseguire per le prossime tappe. Riprendiamo così la marcia verso il confine con l’Azerbaijan lungo una strada perfetta, tutta curve e saliscendi, che si snoda come un solco tra prati verdissimi e monti boscosi. Superiamo alcuni paesi di case moderne. Lungo la strada incrociamo molte arnie; il miele è in vendita direttamente sul posto. I boschi si fanno sempre più fitti, mentre scavalchiamo qualche ruscello. Saliti oltre la linea boschiva, i prati riprendono il sopravvento. Dal passo, a quota 2100 metri, in lontananza si scorge la valle dell’Aras, che raggiungiamo dopo una discesa dalle forti pendenze. Siamo a soli 300 metri sul livello del mare, ormai non più sull’altopiano iraniano. La valle si presenta ampia, il paesaggio brullo specie sull’altra sponda del fiume; l’aria si è fatta calda e pesante, ma splende di nuovo il sole.

Il fiume Aras ha rappresentato a lungo il confine tra due imperi: la Persia degli shah e la Russia degli zar, seguita poi dall’Unione Sovietica. Ai nostri giorni sulla sponda ex sovietica la situazione si è estremamente frammentata. Qualche anno fa avevo visto il fiume scorrere nella piana sotto il monte Ararat, dove segna un altro punto caldo, il confine tra Turchia e Armenia. Ora di fronte a me si trova il Nagorno Karabakh, in passato enclave armena nell’Azerbaijan. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la sua questione riemerse prepotentemente. Lamentando l’azerificazione forzata della regione operata da Baku, la popolazione armena cominciò a mobilitarsi per l’unificazione alla madrepatria. Il soviet locale dichiarò la nascita della nuova repubblica, dopo che l’Azerbaijan aveva deciso l’uscita dall’Unione Sovietica. Seguirono un referendum ed elezioni, ma la reazione militare azera fece esplodere il conflitto che si concluse con la vittoria armena e un accordo di cessate il fuoco nel 1993. Da allora la situazione è rimasta congelata e il Nagorno Karabakh è una repubblica indipendente autoproclamata, non riconosciuta dalla comunità internazionale e rivendicata dagli azeri come parte integrante del loro stato.

Finalmente la strada si avvicina al fiume; le acque scorrono ampie e fangose. Su questo lato della valle non mancano coltivazioni e torrette militari, ma sull’altra sponda non scorgo altro che belle montagne dalle intense tonalità marrone, oltre a un paesino abbandonato. Il driver si ferma per acquistare un po’ di ciliegie; io ne approfitto per fotografare il fiume che luccica al sole. Poco dopo, oltre il fiume compare l’edificio di una postazione militare armena, mentre da questo lato incrociamo alcuni camion con targhe azere; per entrare nel loro paese devono procedere molto più a oriente nella valle. Ormai anche la sponda iraniana ha cambiato aspetto adeguandosi ai paesaggi “biblici” di quella settentrionale. Nel Nagorno Karabakh una macchina solitaria transita lungo la strada lungofiume; non è abbandonata, come mi era parso! Da quel lato una recinzione arrugginita di filo spinato corre per chilometri, proprio come avevo visto in un altro punto caldo dei passati confini sovietici, il passo del Torugart (oggi in Kirghizistan) con la Cina. Dopo un altro paese abbandonato, verso occidente appaiono montagne dal profilo seghettato; non sono né in Azerbaijan né in Iran, ma in Armenia. In corrispondenza del villaggio di Duzal, passiamo sotto il castello di Mirza; le mura di pietra e fango risalgono una collina a fianco della strada. Sull’altra sponda spicca un grande costone roccioso.

Il lato settentrionale della valle si è animato, infatti abbiamo raggiunto il breve tratto di confine tra Iran e Armenia. Siamo a Norduz, valico di frontiera tra i due paesi; sul lato armeno si scorge il paese di Agarak. Il driver mi sintetizza la complessa situazione politica della regione: “Iran Azerbaijan good, Iran Armenia good, Azerbaijan Armenia no good!”. Subito dopo Norduz la valle si stringe tra altissimi picchi e attraversiamo il tratto più spettacolare, una successione di bellissimi scorci. Compare una postazione militare armena, ma l’Armenia finisce poco dopo e ritorna l’Azerbaijan. Di fronte a noi questa volta si trova il Nakhchivan, regione separata dal resto della nazione, con una postazione militare e una ferrovia (vi passeranno dei treni?).

Usciti dal canyon, la valle si apre sempre bruciata dal sole. In fondo alla piana, sul lato azero si ergono belle e alte montagne; davanti la striscia più bassa forma macchie bianche e rosse, mentre quelle più dietro hanno tracce di neve sulla cima (ma saranno in Armenia?). In Nakhchivan, lontana sullo sfondo, appare una montagna isolata dal curioso profilo. Si tratta dell’Ilan Dag (Montagna del Serpente); secondo una tradizione locale, quando le acque del Diluvio cominciarono a ritirarsi, prima di arenarsi sull’Ararat, l’arca di Noè avrebbe urtato proprio questa montagna strappandone una parte e creando il suo caratteristico profilo. Più oltre la valle si fa larghissima e sembrerebbe facile scavalcare il confine attraversando il fiume. Un ponte ferroviario collega Iran e Azerbaijan.

Finalmente raggiungiamo la cittadina di Jolfa. Nel 1604 la sua popolazione armena fu deportata dallo shah Abbas a Isfahan, in un apposito quartiere a cui fu assegnato lo stesso nome. La mente corre alla bellissima chiesa visitata lo scorso anno. Per raggiungere Santo Stefano proseguiamo oltre la città verso ovest, sempre lungo la valle dell’Aras, di nuovo stretta tra alte montagne. All’arrivo mi si presenta di fronte una sorta di cittadella, protetta da mura e torri come una fortezza. Le parti più antiche risalgono al XIV secolo, ma secondo la tradizione la chiesa sarebbe stata fondata da San Bartolomeo nel 62 d.C. Nel complesso per primo raggiungo il fianco destro della chiesa, sul quale si appoggia un aereo campanile, con tre livelli di arcate tutte aperte. Subito colpiscono le calde tonalità dei differenti colori dei blocchi di pietra; sul fianco alcuni recano iscrizioni armene. Le decorazioni sono poche e si concentrano nel magnifico tamburo poligonale che sovrasta la chiesa: colonnine a tortiglione limitano le varie facce che recano quadretti di santi sotto un livello di arcate di corde intrecciate; sopra, serafini con la sola testa fra le ali e, ancora più in alto, la corona con una croce su ogni punta. La facciata di pietra è esaltata dalla luce del tardo pomeriggio che le fa assumere meravigliose tonalità. L’indicazione della guida Bradt era completamente sbagliata: la facciata è rivolta a occidente e devo ringraziare Nasser che mi ha convinto a mantenere il programma iniziale; la visita di Santo Stefano nella luce della sera è qualcosa di indimenticabile! Il portale centrale presenta una muqarnas, quelli laterali sono finti; in alto dentro un riquadro è raffigurato Cristo in croce. Completo la visione degli esterni con il lato posteriore, che presenta in alto una scena di lapidazione (immagino si tratti di Santo Stefano, primo martire cristiano).

L’interno della chiesa appare invece abbastanza malmesso, con pareti imbiancate a calce scrostate e un’alta cupola centrale con qualche decorazione floreale. Nell’abside, movimentata da nicchie poco profonde, è collocato un grande tabernacolo; una tela-poster raffigurante Gesù e Maria cerca di dare un tocco di colore. Le braccia della croce sono cortissime e ospitano due semplici baldacchini di pietra. Sul lato dell’ingresso si trova una balconata, mentre il soffitto sarebbe bisognoso di restauri. Manca il gavit, il nartece tipico delle chiese armene. Un grande poster riproduce la Qareh Qalisa (conosciuta anche come San Taddeo), considerata la chiesa medievale meglio conservata in Iran. Si trova vicino il paese di Maku, ancora più a nord lungo la strada che porta in Turchia; purtroppo non sono riuscito a includerla nel mio itinerario per mancanza di tempo.

Aggirandomi tra le fortificazioni, raggiungo un ambiente quadrato, coperto da una cupola che poggia su quattro pilastri, tutto in mattoni anneriti. Il sito dell’antico chiostro ospita un giardinetto fiorito, circondato su tre lati dalle fortificazioni e aperto sul quarto verso il campanile. Stanzette numerate ospitavano le celle dei monaci.

Ormai sono le sette di sera ed è tempo di intraprendere la strada di ritorno verso Tabriz. Percorrendo di nuovo la valle dell’Aras verso Jolfa, questa volta il sole finalmente è alle spalle e le tonalità rosse del canyon appaiono meravigliose nella luce della sera. Anche la torretta militare verde degli azeri, sospesa come su trampoli, ha il suo fascino. La piccola cappella di Chupan (1518), in pietra, chiude in bellezza lo spettacolo della natura.

Superata Jolfa la strada corre pianeggiante e veloce verso Tabriz, dove giungiamo alle nove. La giornata è stata lunga, ma per fortuna so già dove cenare: ripetendo l’esperienza del giorno prima, torno al Modern Restaurant, a due passi dall’albergo. Le polpette ripiene di Tabriz sono ottime; le accompagno con la birra analcolica iraniana, dolce ma passabile.

Lunedì 8 giugno: Tabriz – lago Urmia – Maraqeh – Kandovan – Tabriz

Anche oggi la partenza è fissata per le otto. Questa volta però procediamo verso sud, lungo una trafficata autostrada. Dopo il bivio per Kandovan il traffico diminuisce. Attraversiamo una piana vasta e monotona, per poi deviare a destra verso la città di Orumiyeh e il ponte sull’omonimo lago salato (“conosciuto” in italiano come lago di Urmia), puntando verso una striscia di montagne isolate. La distesa completamente piatta è priva di vegetazione; stiamo infatti attraversando un’area prosciugata, un tempo occupata dal lago. Scendo dall’auto per una foto: c’è un vento pazzesco e gli occhi mi bruciano, probabilmente per il sale. Raggiunta quella che un tempo doveva essere la sponda occidentale, proseguiamo verso sud. La distesa prosciugata, color cenere e marrone, è impressionante. Un cartello segnala che mancano ancora venticinque chilometri al ponte che scavalca quello che resta del lago.

Dopo una salita, all’orizzonte si profila una striscia bianchissima e dietro il blu delle acque con un’isola montagnosa. Arrivati al ponte, il lago appare ancora immenso, verde e turchese con le rive bianchissime per il sale. Paghiamo il pedaggio e, attraversato il ponte, ci fermiamo davanti a una nave arrugginita che giace ormeggiata. A riva i cristalli di sale sono purissimi, l’acqua un velo chiaro; la tocco è salatissima. Sull’altro lato del terrapieno percorso dalla strada, l’acqua è più profonda ma lo spettacolo della natura è disturbato dalla spazzatura e dalla schiuma a riva. Qua e là emergono “scogli” di sale; mi bagno le mani che subito si ricoprono di sale.

Sono le dieci e non ci resta che tornare indietro fino alla strada che collega Tabriz e Kermanshah, proseguendo poi verso sud. Superata Bonab, raggiungiamo in pochi chilometri Maraqeh. Hulagu Khan, il mongolo conquistatore della Persia, ne fece la sua capitale, scegliendo poi di essere sepolto nell’isola di Shahi in mezzo al lago di Urmia. La città vantava un celebre osservatorio, costruito dall’astronomo e matematico Nasir-al Tusi al servizio di Hulagu. I suoi studi, che spaziavano su tutto lo scibile, gli permisero di calcolare con grande precisione il diametro della terra. Oggi il motivo di interesse di Maraqeh è costituito dalla torri funerarie sparse nella città moderna. Per prima raggiungiamo Gonbad-e Qaffariyeh: sopra una base formata da grandi blocchi di pietra, si erge un parallelepipedo di mattoni con due arcate cieche per lato, colonne angolari e finte finestre con decorazioni turchesi. Il lato di accesso è movimentato da altre decorazioni turchesi; la porta sopraelevata ha una piccola muqarnas, ma è chiusa. In auto raggiungiamo Gonbad-e Kabud, probabilmente il mausoleo della madre di Hulagu. La struttura poligonale presenta nicchie cieche con decorazioni turchesi e schemi di mattoni che formano griglie reticolate; la cupola è scomparsa. Al piano terra si trova una sorta di cripta, un ambiente coperto da una bassa volta. Mi soffermo a guardare le belle decorazioni di mattoni. Una scaletta conduce alla porta rialzata, ma anche in questo caso è chiusa e non posso entrare; la piccola muqarnas è scomparsa. Dietro, un altro mausoleo, un cilindro spoglio di mattoni, sembra piuttosto una torre. Attorno al complesso, i negozi di un piccolo centro commerciale riportano all’era moderna.

In fondo a un assolato giardinetto, Gonbad-e Sorkh ripete la struttura della prima torre: sopra la base in pietra si erge un mausoleo quadrato tutto di mattoni con due nicchie cieche per lato e colonne agli angoli, molto belle per gli schemi di mattoni. In alto questa volta sono sopravissuti il tamburo esagonale e la cupola, anche se tutto sembra un po’ rifatto. All’interno del basamento mi affaccio in un basso ambiente con pilastro centrale. Sul lato dell’ingresso il portale è racchiuso da un arco a punta. Una scaletta conduce alla porta; è aperta, posso entrare. Il bell’ambiente in mattoni è movimentato da alte nicchie cieche, complementari a quelle esterne; la luce filtra dalle finestrelle sotto i loro archi. Il tamburo presenta altre nicchie e pennacchi angolari; sopra a notevole altezza è collocata la cupola, con un piccolo oculo centrale dal quale il fascio di luce disegna un cerchio per terra nell’angolo a destra dell’ingresso (ma all’equinozio di primavera raggiunge proprio la porta). La sala è affascinante per sobrietà ed eleganza delle linee geometriche. Tornato all’esterno, mi soffermo a guardare la cupola che spunta appena dal tamburo con cupolette triangolari negli angoli. Nella mia mente cerco di collegare le varie architetture di mattoni ammirate in Persia e Asia Centrale: il mausoleo di Ismail Samani a Bukhara, costruito nel X secolo per il fondatore della dinastia Samanide, la moschea del venerdì di Isfahan, capolavoro dei turchi selgiuchidi, fino alle torri funerarie ilkhanidi di Maraqeh.

Tornati a Bonab, dove il kebab è particolarmente buono secondo il mio driver, ne approfittiamo per pranzare in un locale a una rotatoria, parcheggiando l’auto propria davanti al tavolino. All’estero Bonab è più nota per le ricerche nucleari, forse legate alle due grandi ciminiere che si vedono lungo la strada a nord della città. Proseguendo verso Tabriz, una ventina di chilometri prima, a Osku, deviamo a destra per raggiungere Kandovan. Dopo un lungo attraversamento di centri abitati, finalmente siamo in campagna. A sinistra si erge il monte Sahand, sul quale d’inverno si scia; nella valle si scorgono molti greggi al pascolo, una piccola diga sbarra il corso del fiume. Percorsi una decina di chilometri siamo a Kandovan.

Sul fianco di una vallata percorsa da un ruscello, la natura ha creato un’incredibile concentrazione di camini di pietra dalla colorazione marrone scuro, nei quali da tempo la gente ha ricavato abitazioni troglodite. Purtroppo la modernità ha prodotto i suoi effetti: arrivando, dalla strada fino al parcheggio una striscia di case nasconde parzialmente la vista dei camini. Mi inerpico tra di essi, per scalette e vicoli nei quali ritrovo la magia della Cappadocia: porte e finestre si aprono nei camini, i panni stesi formano macchie di colore. Mi siedo e il mondo moderno, appena dietro l’angolo, sembra lontano; alcune abitazioni sono antiche di ottocento anni. Dall’alto, dove ancora una volta nessun turista iraniano si avventura, la vista si divide tra la schiera dei camini, un villaggio di puffi, e i tetti di lamiera delle abitazioni moderne in basso. Le case troglodite sono ancora abitate: i pali della corrente vi portano la luce. Ogni tanto sbuca qualche donna che indossa vivaci vesti colorate. Siamo a quota 2100 metri. Molti vicoli in salita terminano in piazzette, sorta di spazi pubblici davanti a un circolo di case camino. Un signore barbuto mi apre una di esse, sollecitato da una mancia: l’unico ambiente è freschissimo. In fondo al paese i camini serrati sembrano un esercito in marcia, mentre sotto le case in pietra hanno lo stesso colore e tetti di lamiera.

Ritornato a Tabriz mi faccio lasciare all’hotel e saluto il mio driver di due giorni. Il volo per Istanbul partirà solo alle cinque e mezzo del mattino e mancano ancora dodici ore! Così, con un taxi scassone guidato da un simpatico vecchietto, raggiungo il Mausoleo dei Poeti. In Iran la passione per la poesia è molto diffusa e il monumento celebra oltre quattrocento personalità, le cui tombe sono andate perdute. Innumerevoli archi di cemento si intersecano in tutte le direzioni; nelle luce del pomeriggio l’effetto è suggestivo, anche se non ci si può avvicinare al monumento recintato perché ancora non è completato. Si può comunque accedere al grande ambiente sotto gli archi che ospita immagini e ricordi degli illustri personaggi, ma a me che non sono iraniano non dicono molto.

Il mio secondo viaggio in Iran volge al termine. Mi siedo nel giardino di fronte; dietro di me una compagnia di vecchietti chiacchiera allegramente, come la gente seduta sulle panchine. Mi guardo intorno: la “segregazione” dei sessi è impressionante. Sulle panchine, nei prati, tutte le comitive sono formate da persone dello stesso sesso; anche i giovani si accompagnano solo con amici del proprio sesso. In Iran l’amicizia uomo donna è un concetto inesistente; l’incontro tra i sessi avviene solo nell’ambito della famiglia.

Una lunga passeggiata, attraverso il bazar e la strada pedonale affollata di gente, mi porta fino alla via intitolata all’Imam Khomeini. L’Arg e la moschea in costruzione sono due giganti, uno a fianco all’altro; rappresentano il passato e il presente dell’Iran. La terza cena al Modern Restaurant è la meno soddisfacente.

Una corsa con un tassista indemoniato mi porta in aeroporto. La spesa è un terzo rispetto a quella dell’arrivo, grazie al fatto che mi sono fatto chiamare il taxi dall’albergo. Sono le undici di sera e il prossimo volo in partenza è proprio il mio per Istanbul della Turkish Airway, fissato per le cinque e mezzo. Sono l’unico passeggero in tutto l’aeroporto; non mi era mai capitato!



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