Puna Argentina, a due passi dal cielo
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Una grande festa, una sorta di celebrazione al solo “sposo”, con taglio della torta, regali, servizio fotografico e tanta commozione, segna la fine di oltre 42 anni di lavoro.
Si parte, dopo una settimana, per il “viaggio di nozze”. La meta, scelta dal festeggiato, è la Puna Argentina con sconfinamento a San Pedro de Atacama in Cile e un finale a Buenos Aires, città che già conosciamo, ma dove torniamo per setacciare mercati e botteghe antiquarie. L’interesse per la sconosciuta Puna Argentina è stuzzicato da una spettacolare foto di copertina pubblicata sulla rivista Dove. Letto il dettagliato servizio, ammirate le immagini a corredo ed è fatta: scatta quell’irresistibile attrazione che per la prima volta, dopo tanti anni, ci porta a “tradire” l’Africa, nostro Continente preferito.
Organizzare il viaggio è – come sempre – mio compito ed è piuttosto facile. La rivista riporta infatti utili indirizzi e contatti.
Non mi resta che concordare un itinerario e relativa quotazione. Cosa che, da Salta, grazie all’efficienza di Mariana, avviene senza intoppi.
Acquistati i voli, confermato il tour e prenotato un hotel a Buenos Aires, mi metto in “stand-by” fino alla partenza, ignorando, o quasi, gli episodi di ansia poiché non si possono prevedere le reazioni del fisico alle alte quote.
9 e 10 febbraio 2015
E’ una sensazione già provata, ma il compiacimento nel lasciare un clima nevoso e freddo per l’estate australe è innegabile.
Gli orari del bus Orio Shuttle, che collega gli aeroporti Orio e Malpensa e che effettua poche corse al giorno, coincidono con quelli del nostro volo. Transitando anche da Monza, per noi è perfetto. In un’ora raggiungiamo Malpensa.
Il viaggio è così articolato:
Volo TAM, primo di tre, per San Paolo (Brasile).
Sosta a San Paolo (fuso orario –3 ore) di circa 2,30 ore, cui seguono tre ore di volo per Buenos Aires (fuso orario -4 ore).
Ulteriore attesa di 7 ore in Aeroparque, decisamente lunga, ma se non altro – per l’ultimo volo con destinazione Salta – non siamo costretti a cambiare aeroporto
Parte del tempo passa tra un obbligato ritiro bagagli, i controlli doganali, la rispedizione degli stessi.
Liberi dal fardello, usciamo dall’aerostazione. Una panchina con vista Rio de la Plata è quel che fa per noi. Panino acquistato presso uno dei tanti chioschi e Settimana Enigmistica contribuiscono a riempire l’attesa.
E’ ormai quasi sera quando atterriamo a Salta. Ci accoglie Joaquin, un colosso d’uomo, ex giocatore di Rugby, con un pick up Volkswagen Amarok altrettanto imponente. La corporatura massiccia della nostra guida mette soggezione, ma il suo sguardo dolce e i modi gentili rassicurano. Solo 4 km separano l’aeroporto da Finca Valentina: bella casa di campagna con poche camere, arredata con gusto e con una cucina memorabile. Nell’immenso giardino, che si perde a vista d’occhio, trovano spazio una piscina, la casa dei proprietari, un cavallo, simpatiche grosse rane e tre cani dei quali si apprezza l’indole pacifica e indifferente. Congediamo Joaquin dandoci appuntamento per domani mattina per l’inizio del tour nel NOA (Nord Ovest Argentino). La cena, che consiste in risotto giallo, filettone di carne e dolce, è un piacere per gli occhi, ma soprattutto per il palato.
11 febbraio 2015
Non è da noi, ma – dopo la squisita colazione – ci dedichiamo al “far niente”, spostandoci dal sole all’ombra e viceversa, con un libro in mano. Scelta dettata dall’esigenza di non affaticarci ulteriormente dopo il lungo viaggio e per affrontare l’altura nelle migliori condizioni possibili. Tuttavia, da “animali” irrequieti, alle 12,30, abbandoniamo ozio e libro e con un taxi raggiungiamo Salta, distante circa una ventina di km. La cattedrale, dalla facciata rosa che si riflette nelle vetrate a specchio di un moderno edificio, domina una piazza rettangolare, ombreggiata da alberi tropicali, con al centro un monumento. La piazza è interamente circondata da portici. Numerosi i tavolini all’aperto di bar e ristoranti. Per il nostro pranzo scegliamo un locale a caso e non ci possiamo lamentare. Una folla di venditori ambulanti propone massaggi, souvenir, fiori e mercanzia di vario genere, mentre i lustrascarpe sono chini e affaccendati su consunti poggiapiedi. Visitiamo l’interessante Museo de Arqueologia de Alta Montaña (MAAM) che espone reperti del corredo funebre di tre niños, le cui mummie sono state di recente recuperate in cima al vulcano Llullaillaco, a oltre 6000 metri di altezza. A rotazione, ogni 4 mesi, in una sala appositamente raffreddata e scarsamente illuminata, se ne può ammirare uno dei tre. Impressionante il perfetto stato di conservazione dopo 500 anni e incomprensibile la tristissima storia dei bambini: vittime sacrificali di un rituale Incaico. Percorriamo alcune vie che si diramano dalla piazza increduli per l’attività di cambiavalute e venditori di foglie di coca che agiscono incuranti delle numerose guardie collocate su trespoli a vigilanza di banche e negozi. Risaliamo una via pedonale dove una sfilata di ambulanti espone le stesse merci colorate: calze, biancheria intima, asciugamani con impressi personaggi dei cartoni animati e innumerevoli altre “cianfrusaglie” posate ordinatamente a terra.
Accusiamo residui di stanchezza, siamo inoltre provati dal viaggio, torniamo quindi alla Finca, che letteralmente significa “estancia / fattoria”, luogo di produzione agricola. Tale era infatti, in passato, tutta la proprietà. Indugiamo all’ombra per qualche tempo. Ci trasferiamo poi in camera, svegliandoci da un sonno profondo, di soprassalto, alle 21 passate. Il nostro organismo fatica ad adattarsi al nuovo fuso orario. La cena si conferma ancora una volta ottima.
12 febbraio 2015
Nel grande soggiorno troviamo alcuni tavoli già apparecchiati per la colazione.
Veniamo indirizzati a un tavolone con 5 coperti: noi 2 a un’estremità e altri 3 a quella opposta, destinati a tre medici motociclisti, anch’essi ospiti della struttura, che però evitano di sedersi. Chiedono dapprima di poter cambiare posto e non ottenendo soddisfazione si attardano in giardino sino a quando liberiamo la bella sala da pranzo dalla nostra, evidentemente, sgradevole presenza.
Si commenta da sé l’inspiegabile comportamento e l’arroganza dei tre soggetti… sarà perché sono medici? o è il cavalcare una moto che danneggia il cervello? Lasciamo la Finca, ma non Salta. Ci fermiamo in ufficio per il ritiro di alcuni documenti e di un GPS. Ho così l’occasione di conoscere, ringraziare e salutare Mariana. Ora è tutto pronto e con Joaquin si parte, ha ufficialmente inizio una nuova grande avventura.
Lasciata la città, seguiamo una strada che sale e si fa sempre più tortuosa e stretta tra boschi. Superiamo due laghi artificiali che fungono da serbatoi d’acqua, modesti villaggi, allevamenti di bovini, montagne dai fianchi vellutati, letti di fiumi in secca. La vegetazione dirada sempre più, fino a ridursi in bassi cespugli, e il colore rosso della roccia affiora tra il verde. Vediamo i primi cactus (cardones) che hanno una crescita molto lenta (3-4 cm per anno) e, all’interno, un’anima legnosa. Il fondovalle è verdeggiante, sulle pendici delle montagne – sempre meno vegetate – si innalzano i cactus, spesso un solo tronco diritto, un unico e grande “dito” puntato verso il cielo. Le rocce hanno sprazzi di colori differenti.
Saliamo al Pucarà di Tilcara: sito con i resti di alcune antiche abitazioni e, sulla sommità, un monumento dedicato agli archeologi Ambrosetti e Debenedetti. La vista spazia a 360° e ammiriamo la prima di tante panoramiche che ci fanno apprezzare la grandiosità del paesaggio. Spazi aperti e immensi cui non siamo abituati. Scesi al villaggio diamo un’occhiata distratta al mercato artigianale che occupa la piazza principale. Pranziamo a Humahuaca, centro abitato con bellissimi murales che adornano le case colorate. Il mercato è invece la solita esposizione delle solite merci per turisti. L’itinerario odierno termina a Purmamarca, famosa per essere adagiata ai piedi del Cerro de los siete colores.
E’ ormai tardi e quasi buio, rimandiamo a domani mattina lo scatto della classica foto alla roccia colorata. Il Carnevale è iniziato e i festeggiamenti, nei vari villaggi, si protraggono per qualche giorno. Assistiamo a diverse sfilate e cerimonie, qui la piazza è animata da bancarelle e musica dal vivo, ma il tutto si esaurisce con il calar del sole. Siamo alloggiati in una sorta di motel (La Comarca) molto carino, davanti ad ogni abitazione un piccolo giardino e un cactus che pare una scultura. Tralasciamo la comodità dei servizi offerti dall’hotel a favore di un ristorante più tipico (El Churqui de Altura) che si raggiunge percorrendo vie ormai buie e spopolate. Quota 2300 mslm e tutto va bene.
13 febbraio 2015
Il cielo nuvoloso non è la condizione ideale per la montagna colorata che, purtroppo, risulta “spenta”, ma – a ricordo – scattiamo ugualmente qualche foto. Ripreso il viaggio, attraversiamo un ambiente brullo e selvaggio. I fianchi delle montagne sono ricoperti di ciuffi d’erba, hanno macchie di diversi colori e vi proliferano i cactus. Le vallate sottostanti sono ampie. La strada corre diritta per parecchi chilometri su vasti altopiani. Ci appare quindi la meraviglia di Salinas Grandes, lo strato di sale è ricoperto da pochi centimetri d’acqua e ha un aspetto magico. Siamo di fronte a un immenso specchio dove si riflettono nuvole e ogni altro dettaglio e le persone sembrano prodigiosamente camminare sull’acqua. Quel che il clima uggioso ci ha tolto con la montagna dei 7 colori ci viene reso, e con gli interessi, qui alla salina. Anziché un’abbacinante distesa di sale, ci troviamo ad ammirare un fenomeno decisamente più fotogenico. Si direbbe irreale, ma ci stiamo camminando sopra. Fotografiamo i riflessi dei cumuli di sale, delle nuvole, degli squarci d’azzurro del cielo, ma soprattutto delle persone che come noi sono affascinate dall’atmosfera surreale di questo luogo che fatichiamo a lasciare. A Susques ammiriamo la graziosa chiesina con il tetto di paglia, gli stretti vicoli e le modeste case e, infine, pranziamo. Il ristorante è piuttosto kitsch con un display luminoso e multicolore affisso sopra il bancone del bar. La sala da pranzo, immensa, spoglia, scura, con tanti tavoli, ricorda una bettola per camionisti. Inoltre sulla lista sono stati cancellati diversi piatti, ordiniamo quindi quel poco che resta, ma la carne si rivela ottima. In conclusione un pasto più che dignitoso e nella mente riecheggia un monito: mai fermarsi alle apparenze! Senza renderci conto, saliamo – immersi in un paesaggio spettacolare dai colori delicati – fino ai 4170 metri del Passo de Jama che segna il confine tra Argentina e Cile. Dico senza esserne consapevoli perché per “passo di alta quota” ci si aspetta una montagna, una stretta strada a tornanti che ne solca il fianco e arranca fino a un passo, poi la discesa, con le stesse caratteristiche, oltre il valico. Niente di più sbagliato. Il paesaggio è aperto, la vista spazia molto lontano, si percorre un altopiano la cui pendenza è impercettibile, la strada corre diritta ed è fiancheggiata, solo in lontananza, da un cordone di montagne dall’aspetto di dune dai colori rosati, aranciati, gialli, etc. che ricordano un deserto. Alla dogana si fanno più code e sono interminabili, i moduli da compilare non finiscono mai. Proviamo un senso di spossatezza indescrivibile, si respira a fatica, subentra anche un fastidioso mal di testa. Che sia questo il tanto temuto mal di montagna? Le due ore di trafila burocratica davanti agli sportelli non fanno che peggiorare il tutto. Mi viene da piangere e non è solo per dire, ma fortunatamente mi riprendo un poco all’aria aperta mentre Joaquin sbriga le ultime formalità per l’espatrio del veicolo. Ripresa la strada, crediamo di scendere, invece corriamo diritti lungo l’altopiano per ancora molti chilometri e fino a quota 4800 metri. Io non peggioro, ma Sandro necessita di ossigeno per qualche minuto. Mentre respira attraverso la mascherina, mi guardo attorno; cercando di non impressionarmi per il fiato corto mi concentro sulla bellezza del paesaggio costituito da montagne che sembrano disegnate e colorate con i pastelli, da formazioni rocciose simili a sculture che affiorano dalla sabbia rosata. Il cono scuro dal cappuccio imbiancato del vulcano Licancabur è una visione incantevole. Ci coglie un temporale che cancella ogni colore, ma quando smette di piovere un arcobaleno sembra voglia chiederci scusa. La strada scende impercettibilmente, il respiro torna regolare ancor prima di raggiungere San Pedro de Atacama, dove ritroviamo il sole e un caldo tropicale nonostante i 2400 metri di altezza. Relax, cena in albergo (Altiplanico) e una riflessione proprio su questa struttura, nonché sull’intero Cile che avrebbe dovuto ospitarci nel 2010.
14 febbraio 2015
La sveglia suona alle 5,10, mezz’ora più tardi si parte per El Tatio. Ci fa compagnia una guida locale: una donna messicana trasferitasi in Cile da ormai molti anni. Sulla strada buia e sotto il cielo stellato, soccorriamo una vettura e i suoi 4 occupanti, usciti di strada. Una corda, un traino che sembra improbabile e invece la massiccia Toyota Hilux viene riportata sulla carreggiata. El Tatio è una vasta piana, a 4300 metri di altezza, costellata di geyser. I soffioni di acqua bollente, non veri e propri geyser come quelli islandesi, sono comunque uno spettacolo poiché grazie alla temperatura fredda delle prime ore del mattino producono alte colonne di vapore. Essendo molti, se ne contano un’ottantina, e trattandosi dell’area geotermale situata alla più elevata quota al mondo, il sito ha un fascino indiscutibile. Personalmente trovo molto attraenti anche le cime andine che circoscrivono la vallata fumante, che da questa altitudine non sembrano poi molto alte sebbene superino i 5000 metri slm. Per non parlare del carisma dei coni vulcanici, tra i quali l’ancora attivo ed “equivoco” vulcano Putana. Non credendo all’esistenza di quest’ultimo ho voluto leggerne il nome su un cartello segnaletico. Il vulcano Licancabur, con la sua cima innevata, e le pareti scoscese ricorda l’immagine simbolo della casa cinematografica Paramount.
Il sole sorge e il suo calore fa, pian piano, svanire i vapori, El Tatio perde così tutta la sua fumosa magia. Scema anche l’afflusso di turisti mentre sorseggiamo una tazza di tè caldo, accompagnata da dolce e salato. Suggestiva colazione con vista. Il ritorno per la stessa strada percorsa al buio svela paesaggi emozionanti e diversi. Ora totalmente aridi, ora con rocce e bassi cespugli ingialliti, strati dai colori tenui, stretti canyon dal fondo verdeggiante, lagune disseminate di uccelli e fenicotteri, praterie popolate da timide vigogne e lama adornati con fiocchi colorati che contraddistinguono i diversi proprietari e allevatori. Torniamo a San Pedro per il pranzo e la siesta. Per la diligente pratica di quest’ultima “attività” scegliamo la piscina. Nel pomeriggio altro giro, altro regalo… escursione alla Valle della Luna. Sorpresa in tutti i sensi. Avendo letto di un luogo arido e inospitale, immaginavo una sterminata e infernale pietraia grigia. Si tratta invece di una valle il cui colore predominante è il rosso. Rossa la strada sterrata che la attraversa, rosse le rocce, rosata la sabbia. La fortuna, ancora una volta, ci regala una condizione assai particolare. La pioggia di ieri, qui molto rara, ha fatto affiorare un lieve strato di sale. Risultato: tutto è imbiancato. Sul rosso sembra sia stato versato dello zucchero a velo oppure si sia posata una leggera nevicata. C’è inoltre una luce particolarmente calda, condizione ottimale che fa risaltare le varie formazioni rocciose come il cosiddetto Anfiteatro o le 3 Marie e tutte quelle che non hanno un nome. Ogni roccia è spettacolare e si staglia contro il cielo “drammatico”. Non trovo definizione migliore per un cielo azzurro attraversato da nuvoloni scuri. E’ vero che il sole tramonta ogni giorno, ma un tramonto non è mai nulla di banale o scontato e assistere alla sua scomparsa oltre le montagne dall’alto di un mirador della Cordillera de la Sal, oltre a una profusione di colori rosati e aranciati, è un rito e anche un momento in cui meditare sulla bellezza e perfezione di questa nostra terra e dell’intero universo.
15 febbraio 2015
Partiamo da San Pedro in direzione sud, costeggiando il Salar de Atacama: smisurata distesa bianca che si vede in lontananza. Il territorio è arido e inospitale. Percorriamo diversi chilometri senza incontrare anima viva e senza veder altro che terra cosparsa di sassi. Unica nota che spezza la monotonia è un piccolo canyon con un rigagnolo d’acqua sul fondo e le pareti vegetate, quindi una linea verde che lascia intendere la presenza di un fiume e di un villaggio: Toconao. Superiamo il minuscolo centro abitato senza fermarci, la prima importante sosta è prevista per la visita alle lagune Miscanti e Miniques. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero e dopo circa una trentina di chilometri si rompe la cinghia della distribuzione, si interrompe così il nostro viaggio verso sud. Ci guardiamo attorno, la zona non potrebbe essere più desertica e spopolata. Fermiamo il primo mezzo che transita, si tratta di una vecchia Toyota Hilux con a bordo una coppia di anziani e un bambino, quasi certamente nonni e nipote. Sul cassone del pick up un carico di ortaggi. Chiediamo all’anziano conducente, senza neppure permettergli di scegliere se aiutarci o meno, di trainarci fino al villaggio di Toconao, dove cercheremo un meccanico, anche se oggi è domenica. La stessa corda utilizzata per il soccorso di ieri viene ora agganciata per trainare noi. La strada è assolutamente deserta, senza alcuna difficoltà, pian piano, si arriva alla meta. Giunti al villaggio, l’assenza di persone non è per nulla incoraggiante, inoltre inizia a fare veramente caldo. Joaquin, confidando in una proficua ricerca, si avvia verso una casa, poi un’altra, un’altra ancora, chiede a chiunque, sparisce dalla nostra vista. Passano diversi minuti nell’immobilità più assoluta, poi finalmente torna a bordo di un pick up rosso, guidato da un meccanico o presunto tale. Il giovane ragazzo vestito a festa, con moglie, figli e parenti altrettanto lindi e ben vestiti rinvia, senza drammi, la partecipazione ai festeggiamenti del carnevale che si stanno svolgendo in un altro villaggio. Sotto un sole cocente, meccanico e Joaquin armeggiano, faticando, sul motore. A turno li si vede sdraiati sotto il veicolo o completamente riversi nel vano motore. I famigliari del meccanico – con stoica pazienza – si riparano all’ombra della loro macchina, invece Sandro e io chiediamo al gestore di un piccolo emporio di poter sfruttare ombra e seggiole fuori dal negozio. Il tempo passa, i due intenti a cambiare la cinghia sono sempre più sudati, impolverati e scoraggiati. Sembra un’operazione difficile, a volte impossibile. Non si può dire che non ci abbiano provato in tutti i modi. Rinunciano e ritentano più volte fino a quando la costanza finalmente viene premiata. La cinghia è stata sostituita, non facciamo tuttavia in tempo a rallegrarci perché il motore, fuori fase, non risponde ai comandi. Occorre un intervento decisamente più complesso. Possiamo quindi proclamare il fine corsa definitivo, con conseguente perdita di tutto quanto era in programma per oggi. Ci sforziamo però di non aggravare la situazione tenendo per noi il malumore. E’ necessario un altro traino fino a San Pedro, poi si vedrà come risolvere il problema. Il giovane meccanico, consultata la famiglia, si offre per questo servizio. Ovviamente dietro compenso. Legata nuovamente la fune, procediamo al seguito del pick up rosso. Si tratta di un percorso di circa un centinaio di chilometri. Fortunatamente la strada è diritta e per nulla trafficata. Giunti a San Pedro veniamo sganciati nel parcheggio della piazza principale. Qui, mentre – a spinta – sistemiamo il veicolo, Joaquin vede un amico e collega che, terminato un giro turistico, sta tornando a Salta, senza passeggeri. Si direbbe un colpo di fortuna, ma ci sono da prendere una serie di accordi con l’ufficio di Salta, per stabilire un punto di incontro e relativo cambio di automezzo e quindi ridisegnare il nostro itinerario. Serve del tempo per i contatti via Internet, pertanto Joaquin ci “deposita” in un bel locale, dove pranziamo mentre lui e l’amico organizzano il ritorno in Argentina. Ci vengono proposte due opzioni:
– sostare ancora una notte a San Pedro, mentre Joaquin raggiunge, con l’amico, la frontiera, ritira il mezzo sostituivo, torna a San Pedro e domani, di corsa, superato il passo Sico, si concentra in una giornata il programma di due;
– partire immediatamente, trainati; ripassando dal passo de Jama si rientra in Argentina; si dorme a Susques, qui ci verrà recapitato un diverso fuoristrada e domani si recupera il programma originale. Si perderebbero le lagune Cilene e il passo Sico, in compenso si vedrebbero il Viaducto la Polvorilla e San Antonio de Los Cobres. A seguire ci troveremo sulla strada, come da programma, che conduce a Tolar Grande.
Non volendo perdere nulla della Puna argentina, scegliamo la seconda, anche se più rischiosa e faticosa. Il traino risulta più difficile, ci sono tratti di strada a tornanti, sia in salita che in discesa, per Joaquin la guida comporta una vigilanza serrata. Inoltre si tratta di percorrere altri 200 o più chilometri. Temiamo nuovi problemi di respirazione, ma ripassiamo alla quota di 4800 metri senza troppe complicazioni, solo un po’ di affanno. Per maggior sicurezza prendiamo posto sul veicolo trainante. La velocità ridotta ci permette di apprezzare il paesaggio; oltretutto la giornata soleggiata mette in risalto colori e particolari che all’andata, con nuvole e pioggia, non si potevano ammirare. Uno strattone ogni tanto, ma nel complesso va tutto bene. Scattiamo anche una serie di foto a lagune dal blu intenso e ai caldi colori delle montagne. Il paesaggio incantevole scaccia ogni residuo malumore, ce lo godiamo come fosse la prima volta, tanto ci pare diverso e ancora più bello. Passo de Jama, frontiera, sportelli, code e moduli… un déjà vu che richiede meno tempo rispetto al primo passaggio. Qualche complicazione per l’auto, comunque otteniamo l’OK. Si riparte, sempre al seguito, ma davanti alla sbarra i gendarmi ci bloccano… il traino non è consentito, non si può proseguire e mille altri divieti. Non ci possiamo credere… 200 metri oltre lo sbarramento si vede l’area di servizio, con il distributore di benzina, dove c’è l’accordo con la sede di Salta di lasciare il veicolo. Non è possibile, dopo aver percorso ormai 330 km, a una manciata di metri dall’ “arrivo” non ci è permesso di proseguire. Seguono controlli, consultazioni, discussioni, di nuovo “no, non si passa!”… forse si, ancora no e, infine, la sbarra si alza. Raggiunta l’area di servizio, abbandoniamo la bella ma inutile “vi dabliu Amarok”. Federico, il nostro angelo custode, ci da un ultimo passaggio fino a Susques (3600 mslm), dove arriviamo distrutti e al calar della sera. Joaquin è decisamente stanco ma ancora eroicamente attivo fino all’arrivo di Fabrizio (the Boss) e un secondo driver, con due macchine: una per noi, l’altra per recuperare l’Amarok e tornare poi a Salta. Epica impresa che richiederà tutta la notte e il giorno seguente. La “trattoria per camionisti” ha fortunatamente ancora qualche stanza libera. La nostra camera, con una grande vetrata angolare (non apribile) non sarebbe male, ma odora di chiuso. L’odore di muffa è forte e penetrante, ma ci diciamo che – in assenza di disponibilità di stanze – poteva andare peggio. Siamo così stanchi che benediciamo il materasso e il sonno in cui sprofondiamo. L’ultimo pensiero è rivolto al Cile: paese che ancora una volta ci respinge. Sto viaggio proprio non s’ha da fare. Non ci tenteremo probabilmente più.
16 febbraio 2015
Prima di riprendere l’itinerario originale, percorriamo un lungo tratto di strada non privo di attrazioni e bellezze paesaggistiche.
La “giocattoleria” merita una serie di soste. Si tratta di un luogo con formazioni rocciose “sbriciolate” in migliaia di massi che fanno appunto pensare ai mattoncini Lego ammucchiati e sparsi disordinatamente ovunque prima del loro utilizzo per fantasiose costruzioni. Non tutti i mali vengono per nuocere ed ecco già a distanza si vede il ponte ferroviario del Tren a las Nubes (quota 4200 mslm). Per l’assenza del quale nel nostro programma originale avevo provato grande rammarico. Ci avviciniamo, a piedi, alla costruzione in ferro, dalla linea delicata, quasi fragile. Sei altissimi piloni reggono lo stretto ponte, sospeso nel vuoto per una lunghezza di 224 metri, con i binari che disegnano una curva. Capolavoro ingegneristico di quasi un secolo fa che lascia a bocca aperta dalla meraviglia e che guardiamo con un certo orgoglio poiché la struttura è stata costruita nei cantieri di Monfalcone. Fotografiamo il Viaducto de la Polvorilla da lontano, da vicino, da sotto, attraverso il reticolo dei due pilastri centrali, insomma da ogni angolazione possibile. Ai margini della strada ritroviamo i leggendari personaggi già conosciuti nel precedente viaggio in Patagonia, ovvero la Defunta Correa e il Gauchito Gil. Grazie alle esaurienti spiegazioni di Joaquin sappiamo distinguere una cappelletta dedicata all’una o all’altro eroe popolare. Cumuli di bottiglie d’acqua per la defunta, nastri rossi per il Gauchito. Altarini e cappelle, adorni di croci e fiori, in memoria di coloro che sono defunti nel corso di gravi incidenti. Cumuli di pietre costituiscono invece un omaggio alla Pachamama: Madre Terra. Istanti di silenzio nei pressi di un isolato e suggestivo cimitero dove riposano i minatori che persero la vita, travolti da una inaspettata massa d’acqua, durante lo scavo di una nuova galleria della Mina Concordia. Superiamo i 4560 metri di Alto Chorrillo senza problemi, finalmente il nostro organismo si è acclimatato. In una verde oasi pascolano molti lama, ma uno di essi è troppo intraprendente e mette in fuga prima me. Mi rifugio in macchina, ma il lama che non rinuncia a fare la mia conoscenza tanto facilmente, introduce l’intero collo e la testa nell’abitacolo, poi chiusa la portiera si ripresenta attraverso il finestrino. Per Sandro, l’incontro con lo sfacciato lama è ancora più “intimo”; l’animale – per nulla intimorito dai tentativi di scacciarlo – si para davanti all’obiettivo della macchina fotografica, non gli permette di avvicinarsi all’auto, lo rincorre e non vuole farsi da parte. La nostra reputazione di osservatori di animali, costruita in anni di safari africani e il nostro “aplomb” in presenza dei più feroci predatori, si sgretola a causa di un invadente lama, animale erbivoro e senza cattiva fama, tranne quella di essere un grande sputatore. Soffochiamo l’umiliazione in una sonora risata, ma solamente dopo essere scappati in auto e dopo aver chiuso anche i finestrini. La straordinarietà del paesaggio va in crescendo, non ci sono parole per descrivere il Deserto del Labirinto. Pista rossa argillosa che corre e si incunea tra rocce rosse dalle forme morbide, arrotondate, bizzarre. Dopo uno, due, tre, quattro richieste di stop fotografici, decidiamo di non tormentare oltre Joaquin e procediamo a piedi. La temperatura è molto elevata, ma non ci badiamo, siamo troppo concentrati su quella formazione che assomiglia a un pandoro tagliato a strati e farcito oppure su alcuni mammelloni perfettamente tondi o sullo stretto passaggio a gomito, etc. etc. Ogni roccia è una scultura modellata dal tempo. Dall’alto di un balcone naturale, che si raggiunge dopo una serie di curve, con un solo sguardo non si riesce ad abbracciare l’intera vallata rossa che sfuma nel rosa di una distesa di sabbia. E’ uno di quei luoghi in cui lo sguardo si sposta frenetico in ogni direzione per timore di perdere qualche cosa di importante.
Dal rosso si passa al bianco e blu degli Ojos de mar: pozze circolari dove sono stati rinvenuti microrganismi ancora sorprendentemente vivi, mentre nella norma il loro ritrovamento avviene solo allo stato fossile. Da profana, non è tanto l’aspetto scientifico degli Ojos ad affascinarmi, bensì il contrasto turchese con una “pupilla” blu al centro di queste pozze che forano una distesa di sale compatto e bianco. Tolar Grande è un villaggio isolato, a 3600 metri di altezza slm, una strada sterrata larga con bassi edifici. Uno di quei luoghi che trasudano storie di fatica: la fatica di vivere in un posto così remoto. Purtroppo un malinteso converge la nostra attenzione altrove e non riusciamo a osservare altro. La nostra è una permanenza distratta e ne provo dispiacere. L’alloggio previsto, una casa privata, è già occupato da tre uomini. Unica donna, non me la sento di accettare tanta promiscuità. Joaquin, compreso il mio disagio, trova una soluzione alternativa. Non essendoci hotel ci dobbiamo accontentare di una stanzetta senza finestre e con un minuscolo bagno che però presenta un problema: il water non è fissato a terra. In sostanza acqua dello scarico, e non solo, inondano il pavimento. E’ soltano per una notte e, se non altro, siamo soli. Depositati i bagagli, “santo” Joaquin valuta che c’è ancora luce e tempo per salire alla stazione ferroviaria abbandonata di Caipe. Attraversiamo, in tutta la sua lunghezza (65 km) il Salar de Arizaro, quindi seguendo una strada a tornanti saliamo fino alla nostra meta. Caipe: un vagone arrugginito, uffici e edifici della stazione, in stato di abbandono, che contengono documenti consunti, due soli binari, una fila di pioppi. Il panorama sottostante è permeato dal silenzio dell’immenso bacino di sale che, al tramonto, si tinge di rosa. Il vento soffia forte, unico suono di questo “set da film” ormai in disuso. A Tolar la cena è rustica e l’Ospedaje San Cayetano – così si chiama il nostro alloggio – mette tristezza, ma mi addormento pensando al colore rosa tenue della distesa salata di Arizaro (superficie totale 1600 km quadrati).
17 febbraio 2015
L’immensità del Salar de Arizaro, dopo la claustrofobica stanzetta, è una benefica “indigestione” di spazio e ossigeno. Lo percorriamo, questa volta, in tutta la sua larghezza. Il cono del vulcano Llullaillaco si erge oltre la Cordillera Andina che sfila alla nostra destra. Si fatica, vedendone solo la cima innevata, a credere che si tratti di una montagna che supera i 6700 metri di altezza. Nella parte finale dello smisurato e piatto Salar, solitario e misterioso si eleva il Cono di Arita. Opera umana di un remoto passato? O inspiegabile fenomeno naturale? Difficile a dirsi! Il fascino misterioso e inquietante di questa bruna “piramide” rocciosa aleggia nell’aria. Nei dintorni solo miniere fantasma. Totalmente dismesse o con un solo ufficio assurdamente presidiato al fine di non perdere la concessione. Ne visitiamo una che estraeva onice. Ancora oggi gli scarti del minerale si possono trovare in abbondanza, in cumuli e sparsi sul suolo. La strada, abbandonata l’arida desolazione del Salar, attraversa verdi oasi ricche di acqua, dove pascolano lama, asini, vigogne e suri, una sorta di struzzo alto poco più di un metro. Si sale e, oltre i 4000 metri, si incontrano ancora vigogne in branchi numerosi. Sono creature delicate, eleganti, timide come le gazzelle africane, fuggono allo stesso modo. Le ribattezziamo infatti “antilopi delle Ande”. Il terreno e le montagne sembrano completamente pennellati di giallo per l’alta concentrazione di ciuffi d’erba dal colore dorato. Profili morbidi, arrotondati, splendentemente dorati, come appunto le savane africane, cielo blu e nitidezza cristallina. La morfologia del territorio muta nuovamente, ora il suolo è sabbioso, in lontananza spicca una minuscola e verdeggiante oasi. Oltre, un bacino salato e, tutto attorno, montagne appena abbozzate, dai colori così tenui da sembrare dipinte ad acquarello. La pista sterrata scende ripidamente, attraversa l’oasi di Antofallita e divide le proprietà di due fratelli: Corinna e Roberto. I due vivono trincerati nelle rispettive fattorie, senza parlarsi e senza avere alcun tipo di rapporto. Abbiamo la fortuna di incontrare e salutare Corinna. Anziana donna. Il volto segnato da un reticolo di rughe che si apre in sorriso sincero e cordiale. Non ama farsi fotografare e rispettiamo la sua volontà. Nel corso di una lunga chiacchierata ci rivela che detesta il bancomat e qualsiasi altra “diavoleria” automatizzata. Ogni due mesi preferisce recarsi personalmente in banca, a Salta, per riscuotere la pensione. Trasferimento questo che richiede diversi giorni. Ci chiede il favore di recapitare un messaggio a chi dovessimo eventualmente incontrare, lungo la strada, che viaggi in direzione opposta alla nostra. Ci salutiamo e ci apprestiamo a riprendere il viaggio, in quanto notoriamente Roberto è difficilmente avvicinabile. Lo intravediamo, in lontananza, dietro una siepe, nell’atteggiamento di colui che osserva – senza essere visto – le mosse del “nemico”. Con il braccio fuori dal finestrino accenniamo un saluto che Roberto ricambia e, non solo, ci invita a fermarci. Occasione più unica che rara che cogliamo al volo. Anche Roberto ha una missiva da recapitare a uno dei 60 abitanti di Antofalla. Missione quest’ultima che sembra decisamente più facile che incontrare un veicolo di qualsiasi tipo. L’uomo, a differenza della sorella, non si dilunga in chiacchiere e ci congeda con un saluto sbrigativo. Lasciata la stramba coppia di fratelli, con mille domande… Perché non si parlano? Che sarà accaduto?… costeggiamo l’ennesimo salar ammirando ancora più da vicino le splendide montagne che lo delimitano. E’ un tripudio di grigi, rosa, porpora, bianco e mille altre sfumature delicate. Sembrano dipinte, la sensazione si riconferma. Sulla superficie del salar brillano cristalli di solfato di calcio. Siamo incantati dalla meraviglia del luogo, dei colori e, soprattutto, del magico luccichio. Ai margini della pista, la crosta di sale secca è spaccata in una sorta di squamatura. Ogni scaglia ha al centro un “occhio” bianco con la “pupilla” marrone. Anche qui, nonostante il caldo, preferiamo camminare lungo la pista per goderci ogni particolare e scattare foto da qualsiasi angolazione.
“Bienvenidos a Antofalla” recita la scritta bianca sul fianco della montagna scura. Una chiesina, per metà candida e per l’altra metà blu e di pietra grezza, è il biglietto da visita del piccolo villaggio, arroventato dal sole, con i vicoli deserti e indolenti cani randagi alla ricerca di ombra. Sentiamo voci lontane, ma non si vede un solo essere umano. Immaginiamo perciò che i pochi abitanti siano chiusi in casa o stiano beneficiando di un soffio di fresco nei giardini. Siamo ormai fuori tempo massimo per consumare il pasto presso una casa privata. Poco male. Improvvisiamo un pic-nic con pomodori, uova sode e una squisita tortilla de papas (frittata con patate) che il previdente Joaquin si è procurato questa mattina, prima di lasciare Tolar Grande. Condivido una fetta d’ombra con un randagio. Non sono molto rilassata in presenza di un cane, ma va detto che ciascuno bada ai fatti propri senza infastidire l’altro. Una deviazione ci porta agli incredibili Ojos de Campo: laghetti blu, contornati d’erba, nel bel mezzo di un territorio totalmente arido. Il piccolo lago con l’acqua rossa guadagna il maggior numero di esclamazioni e di scatti. Ricordando improvvisamente il compito affidatoci da Roberto, ripassiamo da Antofalla. Una volta intercettato un essere umano – una anziana donna per l’esattezza – non è difficile risalire al destinatario del messaggio. Missione compiuta! Purtroppo non riusciamo a soddisfare anche la richiesta di Corinna. E’ esattamente vero quel che si dice e si legge: “Puna Argentina, uno dei deserti più alti del Pianeta. Terra di bellezza ancestrale. Più che un luogo geografico, un’esperienza, con il privilegio della solitudine”. Risaliamo una pista ripida e a curve. Attraversiamo poi la Vega Colorada, stretta valle ricca di vegetazione e acqua. “Colorada” significa rossa. Rosse sono infatti le montagne che la racchiudono. Seguono altre montagne “gialle”, ovvero tappezzate dagli ormai noti ciuffi dorati e, ancora, la chilometrica Quebrada de Calalaste: autentico paradiso per lama, asini e vigogne. Con queste ultime abbiamo più soddisfazione, riuscendo finalmente ad avvicinarle abbastanza per notarne il bel muso e gli occhi dolci con le lunghe e folte ciglia arricciate all’insù.
Breve sosta ad Antofagasta de la Sierra e al cospetto dell’omonimo vulcano nero, come nera è tutta la zona circostante: uno smisurato campo di lava. Fiancheggiamo imponenti montagne, una serie vulcani e, infine, giungiamo all’oasi di el Peñon con un accogliente hotel (Osteria el Peñon). Nel cielo, che a 3400 mlsm sembra più vicino, milioni di stelle per un’altra ricca giornata che va a concludersi.
18 febbraio 2015
In un crescendo di bellezze, il nuovo giorno inizia con il vulcano Carachi Pampa. “Collina” nera con attorno un anello di lava pietrificata che ricorda esattamente un vecchio cappello da prete. Il vulcano è adagiato nel bel mezzo di una sterminata distesa dove c’è di tutto: salar, montagne rosate e acquerellate, dune di sabbia candida e il Campo di Piedra Pomez. Risaliamo la Duna Blanca, tra diverse la più maestosa, camminando sulle sottili creste e su ripidi fianchi senza faticare più di tanto, nonostante l’alta quota. La sabbia compatta agevola la salita e una volta guadagnato il punto più alto, il panorama sottostante, così come i colori tenui, il contrasto del vulcano al centro, l’immensità degli spazi e la luce, sono indescrivibili. Neppure le foto possono rendere giustizia alla vastità nonché meraviglia forgiata dalla natura, e fortunatamente ancora intatta, milioni di anni orsono. Scendiamo di corsa, divertendoci come bimbi. E’ bello constatare che la brezza muove la sabbia e ha già cancellato le nostre impronte. Ci trasferiamo poi al Campo de Piedra Pomez: area di 45 kmq ricoperta da giganteschi massi di bianca pomice, sputati – in un’altra era – nel corso di una delle tante eruzioni. Dall’alto e da lontano, un “mare” ondoso pietrificato. Da vicino, un labirinto di “sculture” erose e modellate dal vento, che cambiano colore a seconda del punto di osservazione: bianche “meringhe” con una spruzzata di “cannella” (residui ferrosi) sulla sommità.
La giornata è perfetta. Il cielo terso e blu contrasta con il bianco delle pietre, alte anche diversi metri. Uno scatto tira l’altro e se non avessimo timore di perderci nel “labirinto bianco” non ne usciremmo più. Saliti sulle formazioni più imponenti, come dall’alto della duna, il panorama è di struggente bellezza. Nella mutevole Puna è rappresentata qualsiasi cosa: deserti di pietra, di sabbia, di sale, oasi, saline, vulcani, montagne di ogni colore e anche il suolo di diversi Pianeti o, almeno, è così che immaginiamo la superficie lunare o quella di Marte o Giove. Per pranzo e un po’ di siesta torniamo all’Osteria che, seppur molto bella e curata in ogni dettaglio, ci va stretta dopo gli spazi e la nitidezza dei luoghi visitati. Nel pomeriggio affrontiamo una pista terribile, molto accidentata, attraverso un paesaggio totalmente differente che ci lascia – ancora una volta – senza aggettivi… spettacolare, straordinario, meraviglioso, stupendo… sono solo parole, non sufficienti a rendere onore alle montagne di ogni colore: scure, verdi, pastello, con striature dorate e tinte che fanno pensare al banco di un mercante di spezie.
Dopo due ore circa di sobbalzi, il premio è davvero prezioso: Laguna Grande, silenzio irreale, fenicotteri rosa a migliaia che si alzano in volo per posarsi poco lontano, vigogne che in processione vanno a bere e, per la prima volta, il vento gelido dei 4300 metri slm. Indossiamo tutto quello che, sino ad ora, non abbiamo mai utilizzato: berretti, guanti, un pile sopra l’altro e resistiamo, ma solo perché lo spettacolo dei fenicotteri merita un sacrificio. Ci spostiamo in vari punti della laguna seguendo il movimento dei volatili che più di tanto non si lasciano avvicinare. Torniamo per la stessa e unica dissestata pista, con negli occhi l’incanto della laguna a chiazze rosate. La giornata termina con un cielo “drammatico” e una luce perfetta per fotografare un ultimo rilievo scuro con i due solchi color cipria lasciati dai pneumatici.
19 febbraio 2015
Come un bel sogno che svanisce al risveglio, anche il nostro viaggio sta volgendo al termine. Abbiamo ancora 3 giorni, ma già da oggi ci allontaneremo dalla Puna per tornare gradualmente a Salta, alla cività, e con i piedi per terra, perché fino ad ora ci è davvero parso di vivere in un sogno, in un mondo incantato e incontaminato, vicino al cielo. Una serie di “slide” del lungo trasferimento verso la cittadina di Cafayate… I fianchi e le cime arrotondate di montagne pennellate dall’oro della paja amarilla.
I 4000 metri con lagune, miniature di struzzi, vigogne, una stretta gola con una inspiegabile duna di sabbia bianca con la stessa pendenza di una pista da sci “nera”.
Scendendo di quota: il verde, i cactus, mucche e asini.
Montagne di roccia sedimentaria con le pendici a “colonne” e le creste “dentate”.
Ruscelli, corsi d’acqua, pioppi e salici. Il guado di un torrente che taglia la strada sterrata.
Gli abitanti della zona che lo attraversano a piedi nudi.
Verdi pascoli e greggi di pecore.
Ancora e sempre più vegetazione, alberi e cavalli.
Fiumi, letti di fiumi prosciugati, torrenti tortuosi e impetuosi.
Montagne “storte”, con creste merlate e “squame”, totalmente ricoperte di vegetazione.
La mitica Ruta 40, strada percorsa dal “Che” e l’amico Alberto Granado con la Poderosa. Un lungo “desvio” per lavori in corso (un nuovo ponte) e l’ennesimo guado.
Montagne rosse, vigneti. La leggendaria grigliata di Raoul.
Carne argentina che si scioglie in bocca, tanti discorsi seri e meno seri con un personaggio di spessore.
Una enorme raffigurazione della Pachamama e alcuni miei pensieri.
E, gran finale, la Quebrada de las Conchas. Percorso tra rocce di tutti i colori e le forme, il fiume che scorre e si dirama nella vallata. Cime di montagne che sembrano spezzate e gettate a caso sul terreno.
Ogni formazione, Garganta del Diablo, Castello, Anfiteatro, Finestra, etc., irrorata dalla luce calda del tramonto.
Il sipario si chiude a Cafayate, cittadina invasa da turisti, perlopiù argentini, qui radunati per un importante evento folkloristico musicale: “Serenata a Cafayate”.
Il Resort Viñas de Cafayate, luogo di pace, immerso tra i vigneti.
Dopo i silenzi e la solitudine della Puna non siamo ancora pronti per affrontare folla e caos. Scegliamo la quiete dei vigneti, tralasciando usi e costumi locali.
20 febbraio 2015
Lasciamo Cafayate dopo un siparietto che vede protagonisti un solerte agente di Polizia, intento alla stesura di verbale, con relativa ammenda, per un faro della nostra auto non funzionante, e Joaquin impegnato in una recita per convincere lo stesso a non multarci. Tutto inutile, il funzionario sembra anzi irritarsi sempre più.
Vince il poliziotto, Joaquin – deluso – firma la contestazione.
Non ci resta che aspettare la trasmissione del verbale e il calcolo dell’importo della multa.
Aspettiamo… aspettiamo… e aspettiamo, anche troppo secondo noi. Finalmente un secondo agente ci invita a ripartire dopo averci comunicato che, per un problema alla rete informatica, la contestazione non può essere inviata ed è quindi nulla. Ci consiglia, inoltre, di sostituire al più presto la lampadina fulminata, ci saluta augurandoci buon viaggio. Sorriso sul volto di Jaoquin. Incredulità e sollievo da parte nostra. La multa per il fanale spento era una nostra scherzosa “previsione” che, avveratasi, ci ha fatto sentire in imbarazzo. Lussureggianti vigneti fiancheggiano la strada e ci accompagnano a lungo. Il paesaggio cambia, si fa più arido. Imbocchiamo la Quebrada de las Flechas. Deserto pietroso disseminato di formazioni di quarzo aguzze che ricordano punte di frecce. Il luogo è molto suggestivo, così come suggestivi sono il piccolo cimitero con le variopinte ghirlande di fiori, gli stretti ponti che solcano alcuni fiumi, la polverosa Ruta 40 che si insinua tra le rocce appuntite. In una conca assolata, troviamo una vettura in difficoltà. Purtroppo il guasto è grave, non possiamo far altro che prendere nota di tutti i dati di veicolo, conducente e assicurazione per la chiamata di un carro attrezzi, non appena usciremo dall’isolamento di questa zona senza copertura telefonica. Chilometri più avanti, mentre Joaquin assolve l’incarico affidatogli, scendiamo a piedi in una valle verdeggiante, con ruscelli che scorrono lenti e le “frecce” che puntano verso il cielo le loro acuminate estremità. Joaquin preannuncia una deviazione, un fuori programma, che ci condurrà giusto per l’ora di pranzo in una azienda vinicola. Percorriamo i 35 chilometri peggiori di tutto il viaggio, attraverso uno scenario desolato. Null’altro che rocce, qualche cactus solitario e il continuo sobbalzare sulla difficile pista pietrosa che temiamo di dover affrontare anche in senso inverso. Nutro qualche perplessità, mi chiedo se il gioco valga la candela, ma evito di esprimere commenti e faccio bene a tenere ogni dubbio per me perché giunti a Colomè si ha l’impressione di aver trovato il paradiso dopo aver attraversato l’inferno, l’acqua nel deserto, ossigeno dopo una lunga apnea.
Colomè è una florida azienda vitivinicola – proprietario uno svizzero – immersa nel verde, con ordinati filari di vigne, alberi, cactus, un ristorante eccellente e ultramoderno. E’ incredibile, non ci capacitiamo, come in un’area estremamente brulla, possa trovar luogo una fiorente azienda, con tanto di lussuoso hotel per pochi fortunati e persino un museo di arte contemporanea allestito appositamente per ospitare le opere dell’artista statunitense James Turrell. Promuoviamo il ristorante a pieni voti, così pure l’arredamento delle sale interne e lo spazio con i tavoli all’aperto. Il vigneto, biologico, è uno spettacolo, lo stesso vale per la varietà di uve pregiate. La visita del museo è un’esperienza, nel mio caso scioccante. Ci si aspetta – come in qualsiasi altro museo – opere firmate dall’artista appese alle pareti, invece le creazioni di Turrell consistono in giochi, geometrie, illusioni creati esclusivamente con complicati studi e calcoli che prevedono l’utilizzo di luci artificiali o del buio totale in ambienti assolutamente vuoti e chiusi. La visita si svolge a piedi nudi, senza borse, telefoni e qualsiasi altro tipo di apparecchio elettronico. Si attraversano sale, corridoi e ambienti bui mentre colorate geometrie luminose creano illusioni: si scopre, per esempio, che un rettangolo non è soltanto un fascio di luce proiettato su una parete, ma che lo si può varcare, entrando – attraverso quello che crediamo un muro – in un secondo ambiente. Si possono, inoltre, provare vertigine, sensazioni inaspettate, anche di disagio e persino claustrofobia. L’esperimento, cioè quello che Turrell vuole trasmettere/provocare, con me ha avuto successo in quanto non sono riuscita a completare la visita. Dopo il corridoio a riquadri luminosi dai colori violenti nel quale si perde il senso dell’equilibrio e si ha la netta percezione di passare in uno stretto tunnel, non ho avuto la forza di entrare nella sala totalmente buia dentro la quale ci si doveva muovere solo dopo diversi minuti e non prima di aver perso il senso di smarrimento provocato dall’assenza di riferimenti. Pazzo? O genio? Non saprei dire! Di certo Turrell – una vita trascorsa a studiare la luce, la percezione umana in ambienti controllati, o in condizioni di alterazione percettiva – non lascia indifferenti.
Tornare all’aperto, tra i filari di vite e alla calda luce solare è un sollievo. Per raggiungere Molinos, nostra prossima tappa, non siamo costretti a ripetere i 35 terribili chilometri. Ne siamo ben contenti, la diversa strada è decisamente più agevole.
Hacienda de Molinos. Un primo cortile quadrato, un albero al centro con una chioma ampia tanto da ombreggiare l’intero spazio all’aperto. Un secondo patio circondato da un loggiato su cui si affacciano le stanze. Oltre, un grande prato, una piscina per un po’ di relax al sole prima del suo tramonto.
Cena eccellente e chiacchiere con un gruppo di ospiti argentini di origini italiane.
Finisce con questa ultima bella sistemazione la serie dei pernottamenti previsti nel programma “Puna Experience” cucito su misura per noi.
21 febbraio 2015
Le attrattive sono terminate o, forse, è più corretto dire che oggi – giornata di trasferimento – si viaggia esclusivamente per tornare a Salta. Poche le soste, la prima a Cachi. Gradevole villaggio, con le vie acciottolate e basse case in adobe, di colore bianco. Vi si trovano inoltre molti piccoli e graziosi locali, ristorantini, botteghe artigianali, l’immancabile chiesetta e una bella piazza squadrata. L’assenza di folla rende piacevole la passeggiata tra le viuzze e lungo il perimetro della piazza. Ripreso il viaggio, la strada attraversa il Parco Nazionale los Cardones dove ci concediamo l’ennesima interessante pausa. Fotografiamo i cactus più alti e ramificati, le basse nuvole che creano effetti speciali sull’intera vallata e alcune campanelle gialle cresciute a dispetto del suolo arido e delle sferzate di vento. Superiamo un ultimo passo montano che, ancora una volta, ci porta a toccare i 3500 metri di altitudine, con la carreggiata che si srotola in tornanti e curve e scende, molto ripidamente, sino ai 1300 metri di Salta. Sono passate da poco le 17, con buon anticipo rispetto all’orario del volo per Buenos Aires, quando raggiungiamo l’aeroporto.
A questo punto accade ciò che si vorrebbe non arrivasse mai. E’ tempo di congedarci da Joquin, dalla sua famiglia – composta dalla moglie, la figlioletta Candelaria e un secondo niño in arrivo – dal fratello, dai genitori, dai suoceri e da vari animali domestici. Una schiera di personaggi che abbiamo l’impressione di conoscere davvero, così come i suoi sogni, nonché i progetti di vita e di viaggio.
Nelle due settimane trascorse insieme si è parlato non solo di curiosità argentine, aspetti geologici, storici, geografici dei luoghi toccati, ma anche di vicende personali. Abbiamo dibattuto su svariati argomenti, esprimendo ciascuno il proprio punto di vista. In linea di massima ci siamo trovati in sintonia tranne che su Ernesto Guevara. Il “Che”, eroe per tutti gli argentini, tranne che per Joaquin. Comunque, a parte questo spinoso tema discordante, ti vogliamo bene lo stesso! Salutiamo il compagno di viaggio con emozione e ci sembra di scorgere nel suo sguardo dolce altrettanta commozione. Sentimenti che non hanno bisogno di parole per essere manifestati. Grazie, Joaquin! “Orfani” e mesti sbrighiamo le formalità di check in, liberandoci dei bagagli. L’assistente, da dietro il banco, conferma che il volo LAN per Buenos Aires è in ritardo di quasi due ore. Poco prima Joaquin, dopo verifica tramite Internet, ci aveva già informato di questa possibilità, ma – volutamente – non gli abbiamo dato ascolto. Per noi non sarebbe cambiato granché se si fosse trattenuto altro tempo. Per lui invece è importante riabbracciare al più presto i suoi cari, dopo la protratta assenza da casa. Vinciamo la noia di una lunga attesa in aeroporto, trasferendoci all’aperto fino a che c’è luce, poi ci aiutano la Settimana Enigmistica e i pochi, ma forniti, shop. Finalmente l’imbarco, alle 23 circa il decollo cui seguono un paio di ore di volo. Usciti dall’aerostazione, in fila ordinata, attendiamo il nostro turno per appropriarci di un taxi. Non so se considerarla una fortuna o meno; ci tocca un tassista “pazzo”. Urla esaltato brani di canzoni, poesie, spezzoni teatrali e altro ancora in italiano, voltandosi al nostro indirizzo mentre guida nel traffico che, seppur nel cuore della notte, è piuttosto intenso. Guida a velocità sostenuta. La cosa non ci fa piacere, dopo ben due incidenti stradali causati da altrettanti autisti “agitati”. In ogni caso, a tempo di record, varchiamo la soglia di Moreno Hotel stanchi, ma intatti.
Abbiamo scelto questo hotel, già utilizzato in precedenza, poiché si trova in posizione centrale e strategica (San Telmo) per gli “affari” che intendiamo concludere nei nostri prossimi e ultimi giorni di vacanza. L’hotel ha, inoltre, stanze enormi, ben arredate e confortevoli.
22, 23, 24 e 25 febbraio 2015
A Buenos Aires trascorriamo 4 giorni che, però, ci sembrano molti di più, tanto sono intense e piene le giornate. Il clima caldo umido estivo ci stronca. In compenso quota “zero” sul livello del mare ci restituisce lunghi sonni ininterrotti. Per prima cosa facciamo un “tour” del mercato che si tiene ogni domenica in Piazza Dorrego (San Telmo) ispezionando i banchi antiquari, ripassandoli anche più di una volta.
Il cambio ufficiale Euro / Peso Argentino – al contrario delle volte precedenti – non favorisce gli acquisti, ma scopriamo anche che con quello “parallelo” (nero) tutto muta a nostro vantaggio. Purtroppo non abbiamo mazzette di Euro e il beneficio termina quando esauriamo le nostre banconote.
Approfittando dei saldi di fine estate, non disdegniamo anche lo shopping tradizionale.
Con la comoda metropolitana raggiungiamo il Barrio Palermo e il suo famoso mercato delle pulci al coperto, ma gli stand della maggioranza degli espositori sono chiusi e tali resteranno per diversi giorni. Camminiamo in lungo e in largo, quadra dopo quadra, ripassando per luoghi già noti e scoprendone di nuovi. Assistiamo alle esibizioni di ballerini di tango che quale “teatro” scelgono piazze ombreggiate. Attraversiamo parchi e luoghi ombrosi sostando sulle panchine per ritemprarci con un poco di frescura.
Consumiamo i nostri pasti in piccoli e grandi ristoranti, locali e “pub” tipicamente argentini, non ci facciamo mancare una spettacolare grigliata di pesce servita al tavolo di un elegante ristorante, uno dei tanti della sfilata di locali di Puerto Madero, mentre uomini d’affari argentini stringono patti con uomini d’affari di evidente aspetto orientale, probabilmente cinesi.
Puerto Madero è anche la meta prediletta per le nostre passeggiate serali. Beneficiamo del fresco sino a tardi, camminiamo lungo i moli ammirando, come fosse la prima volta, l’architettura slanciata del Puente de la Mujer “firmato” Calatrava e lo skyline che in pochi anni si è arricchito di nuovi grattacieli.
Non manchiamo la tradizionale visita alle Galerias Pacifico, il più noto centro commerciale di Buenos Aires. Così come non ignoriamo le attrattive di Patio Bullrich “santuario” dello shopping, meno centrale, ma non meno importante e ricco dei più famosi brand argentini e internazionali.
Attraversiamo, senza particolare interesse, un nuovo villaggio Outlet con le caratteristiche costruzioni colorate disposte lungo pseudo viali e piazze.
Assistiamo, per caso, all’ammaina bandiera operato da un drappello di guardie, con pennacchio in testa e fucile in spalla, che si ritira marciando dopo aver presidiato per l’intero giorno un monumento dedicato ai morti delle Malvinas.
San Telmo, Centro, Retiro, la Recoleta, Palermo, Palermo Chico, Puerto Madero… barrio dopo barrio, quadra dopo quadra, chilometri a piedi. Il fiume di auto di cui almeno il 50% è costituito da taxi neri e gialli. Le piazze, i giardini pubblici, gli argentini, popolo cordiale, amichevole, moltissimi dei quali vantano un parente vicino o lontano di origine italiana.
Storie di vita, di passato e anche di presente.
La sera entrano in scena nuovi personaggi: i cartoneros. Un “lavoro”, il loro, come altri, ben organizzato e forse pagato quel tanto che basta a sfamare una folla di persone che, con meticolosità quasi maniacale, separa carta, cartone, giornali.
I marciapiedi ingombri di rifiuti scartati, la sera, dall’ “esercito” di raccoglitori di carta che la mattina tornano puliti grazie a una schiera di netturbini. Un “rito” che si ripete giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità.
Costanera Sur, parco e riserva ecologica, sentieri ombreggiati, bacini lacustri, il canto degli uccelli, piante e fiori e qualche zanzara assatanata a rompere l’incantesimo.
Le numerose Banche che occupano interi moderni edifici oppure splendidi antichi palazzi.
I cambiavalute abusivi, uomini o donne, non fa differenza, che offrono un servizio ben tollerato, tanto che negozianti e albergatori – per il cambio – ti indirizzano esattamente in Avenida Florida, loro quartier generale e non importa se gridano “cambio, cambio…” anche davanti all’ingresso di una Banca.
Il tango, le sue note, tradizionale o elettronico, nelle strade, nei negozi, ovunque.
Gli antiquari di Calle Defensa, con gli stand a decine, stretti in piccoli spazi al coperto di capannoni e vecchi mercati, talvolta insieme a banchi alimentari.
Oggetti di ogni tipo, impolverati e stipati fino all’inverosimile. Trattative cortesi e strette di mano per suggellare un accordo che contenta sia chi acquista sia chi vende.
Buon cibo, ottima la carne, ma anche pesce e pasta – ravioloni o cannelloni farciti di verdure – soddisfano il palato.
Plaza de Mayo con i giardini, le fontane, luogo di ritrovo delle Abuelas – mamme e nonne dei desaparecidos – contrassegnato da bianchi fazzoletti dipinti, ma anche passaggio obbligato, più volte al giorno, per noi che alloggiamo nei pressi. La Casa Rosada e il suo colore che, al tramonto, si fa più intenso.
Avenida 9 de Julio, con le larghe corsie e i semafori, che non riusciamo mai ad attraversare in un’unica volta, con un solo “bianco” (il nostro verde). L’omino bianco che lampeggia e, sul display, lo scandire dei secondi che mancano prima dello scattare del rosso e dello stop.
Un parco, il “torso masculino desnudo”, gigantesca scultura in bronzo di Botero e una altrettanto smisurata panchina che fa sentire piccoli come bimbi di pochi anni coloro che ci si “arrampicano” sopra.
Buquebus, la moderna stazione marittima di Puerto Madero, affollata ad ogni ora, che con il servizio traghetti unisce Buenos Aires alle città uruguaiane di Colonia, Montevideo e Punta del Este.
Questo e molto altro è la “nostra” Buenos Aires.
26 e 27 febbraio 2015
Ultime ore, ancora un’incursione in Calle Defensa, non sia mai che ci sia scappato un affare, un’ultima interessante anticaglia nascosta. Non si usa più, ma a noi piace ancora inviare cartoline che imbuchiamo in un negozio di souvenir di Plaza de Mayo. Spendiamo gli ultimi Peso da un panettiere, ci procuriamo così anche il “pranzo” (pane e focaccia) da consumare in aeroporto. Pantaloni lunghi, calze e scarpe sono una tortura, ma l’abbigliamento pesante è inevitabile, stiamo tornando all’inverno milanese. Siamo pronti, il taxi prenotato dall’hotel arriva puntuale. Lasciamo il centro della città con un personaggio esattamente all’opposto del pazzo che ci ha condotto qui. Il tassista somiglia fisicamente al Principe Carlo d’Inghilterra, è simile anche nel portamento distinto e persino il suo look ricorda quello classico del nobile inglese. Si destreggia con scioltezza nel traffico cittadino, senza però commettere imprudenze.
Aeroporto internazionale, voli Tam per San Paolo e quindi per Malpensa. Treno. Monza e finalmente casa. C’è un pallido sole e non c’è più traccia di neve, non male per essere febbraio.
Anche questa avventura si è conclusa, lasciandoci indelebili ricordi.
Ripensando alla Puna, ai suoi silenzi, colori e spazi, ci sentiamo indubbiamente più “ricchi”.