Viaggio on the Road da Chicago a Los Angeles nell’America vera
Siamo 10 e siamo carichi a buco, ci conosciamo poco, quasi niente, passiamo il volo intercontinentale ad annusarci, a cercare di capire se ce l’hanno tutti quell’odore lì, di ricerca di libertà e di silenzio ma anche di Eddie Vedder sparato a tutto volume dall’autoradio, che sono anni che cerchi un percorso che ha bisogno proprio di quella colonna sonora.
Arrivati a Chicago quasi a notte fonda, dopo una serie di scali che farebbero perdere la pazienza ad un monaco tibetano, inizia la spasmodica ricerca di cibo; ma perché alle 23 in una delle città più tentacolari degli USA, non si riesce a trovare un hamburger? Chiede uno stanco viaggiatore con un principio di idrofobia e gli occhi iniettati di sangue come il lupo alla ricerca del coniglio da squartare.
Si palesa sin dal principio all’allegro gruppetto, una delle realtà con cui dovranno fare i conti per tutto il resto del percorso: l’americano medio mangia come un bufalo, ma lo fa rigorosamente prima delle 21, perché la digestione richiede un numero di ore spropositato.
Riempita in qualche modo la pancia con le patatine fritte più unte della storia e dopo una notte passata a rotolarsi nel piumino nella speranza di far scendere i carboidrati almeno sotto il livello dello sterno – ma non così in basso da depositarsi direttamente sui fianchi – siamo pronti ad affrontare le 2 ore di mezzi di fortuna che separano il centro della città dal nostro motel, che solo in quell’istante scopriamo trovarsi in Canada, visto il tempo che ci vuole per trovare una parvenza di comunità abitata.
E allora dritti al Fagiolone, come immediatamente viene ribattezzato Cloud Gate, e lì iniziano le estenuanti sedute fotografiche che saranno un’imbarazzante costante del viaggio: foto del fagiolo di fronte, di fianco, dal basso, da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, sdraiati su un fianco, dal pertugio di un albero del parco, con i grattacieli, senza i grattacieli, fingendosi tristi, facendo il muso, col sorriso delle migliori occasioni, ammiccanti, burberi, con le scarpe, senza scarpe, dall’alto che smagrisce, con selfie tattici che nascondono l’occhiaia, per mano ad una guardia, spalmati sull’asfalto e santoddio se si continua così facciamo notte.
Rifocillati con l’hot dog più costoso e minuscolo che il genere umano abbia mai sperimentato ed assunta la consapevolezza che il poco tempo rimasto alla giornata non basterà neppure a capire che direzione prendere per visitare la città, la grande ideona: gita in barca sul fiume, che solo dopo mille elucubrazioni mentali, sortite furtive su wikipedia e almeno 10 molestie di abitanti, scopriamo chiamarsi Chicago, perché degli americani si può dire tutto, ma di sicuro sono originali.
Dopo avere imparato dalla arcigna guida microfonata e più monotona di un cucù i nomi di tutti i 4652 grattacieli lambiti durante il percorso, nomi dimenticati prima ancora dello sbarco, si parte alla ricerca del cartello Route 66 begin, che scopriamo piccolo piccolo, quasi nascosto in mezzo allo smog, un po’ sbrecciato nel suo anonimo bianco – beige annerito dagli scarichi ma ciò non ci impedisce di fotografarlo come fosse la Madonna appena scesa sulla terra a salvare tutti noi.
E allora si vada a ritirare le auto, perché quando si vede quel cartello lì, ti assale la sbrusia di guidare; le contrattazioni con l’autonoleggio e con un’impiegata gustosa come la puzza richiedono dalle 2 alle 4 ore intervallate da insulti in italiano, tentativi di seduzione, sorrisi ebeti, sventolamento di carte di credito rubate, capricci infantili, broncopolmoniti acute (gli uffici della Alamo hanno la temperatura costante di Capo Nord), minacce a mano armata e querele per truffa.
Tutto per avere auto con almeno 4 ruote e uno sconto di un dollaro e cinquanta, immediatamente spesi per l’acquisto della tachipirina per abbassare la febbre che la contrattazione sul pak del circolo polare artico ha provocato ad almeno 7 viaggiatori su 10.
Al mattino, caricati i bagagli, sistemati in abitacolo i bicchieroni di caffè con cannuccia rossa, consultate 16 carte stradali, frequentato un corso per corrispondenza sul corretto uso del navigatore, finalmente si parte.
La Route 66 dovrebbe essere proprio lì a due passi, ma per avere qualche indicazione utile è necessario percorrere una quantità industriale di nodi autostradali ed infilarsi, dopo essersi ovviamente persi in una foresta, nella casa di un boscaiolo che possiede 2 figli obesi che si strafogano sandwiches, un numero sconosciuto di cani feroci, teste di capriolo appese alle pareti e un tv al plasma grande come lo schermo di un multisala.
Non ci capiamo nulla, è ovvio, ma in modo del tutto casuale, vagando a casaccio sulle strade ci troviamo davanti una specie di astronauta in cartapesta verde alto sei metri e kitsch da paura: è ufficiale, siamo sulla Route 66; ed eccolo, poco avanti, il primo drugstore infestato da Harleysti, il Polk-a-Dot Drive in, strapieno di cimeli anni 60, juke box, Elvis e Marylin che ammiccano dalla parete del bagno, piastrelle bianco e turchese e finalmente hamburger e patatine, che ancora non lo sappiamo, ma di lì a poco diventeranno il nostro peggior incubo.
Con la consapevolezza di avere iniziato l’avventura, comincia davvero il nostro grande viaggio, con un sole splendente in un cielo pulitissimo, campi di grano a perdita d’occhio, i cartelli Route 66 Illinois che ci indicano il percorso da seguire e che quando li troviamo ci fanno urlare di gioia, l’autoradio che spara fuori solo musica anni 70 e 80, chissà perché, e allora ci possiamo rilassare, la tensione della grande auto sconosciuta, dello spaventoso cambio automatico e del “piede sinistro che te lo devi tagliare, c@@@o” lascia spazio a 20 occhi curiosi e affascinati, c’è tutto il tempo per conoscersi adesso, per raccontarci di quella volta che qualcuno ha perso l’aereo, dei viaggi che abbiamo fatto e di quelli che faremo e per raccontarci anche quello che stiamo facendo perché già ci sembra un mito che non dimenticheremo.
Ha qualcosa di magico questa strada, a volte stretta, tortuosa e piena di curve, a volte dritta per chilometri sul fianco dell’autostrada, tanto che sembriamo i viaggiatori poveri che non si possono permettere di pagare il pedaggio, altre volte sepolta da altre strade e inesistente, che accarezza colline e campagne, che attraversa piccoli paesini con distributori anni 50 coloratissimi e restaurati, ponti in ferro arrugginiti, auto d’epoca disseminate a caso qua e là ovunque lungo il percorso, gestori vecchissimi che ti raccontano la loro storia, la loro ricerca dei soldi per restaurare il motel e che dura ormai da più di 30 anni e che è davvero senza speranza ormai, piccoli musei strapieni di ricordi polverosi di un’epoca che ormai esiste solo per i turisti, tavole calde tutte arredate in rosa, con le cameriere che sembra di stare nei telefilm che vedevamo da piccoli e vuoi fermarti dappertutto, non vuoi perderne neanche uno di quei minuscoli drugstore e lo sai che se ti fermi ovunque poi il tempo non sarà mai abbastanza ma sai anche che saranno queste le immagini che conserverai al ritorno, e che durante l’inverno gelido e grigio, ancora ti strapperanno un sorriso e forse qualche lacrima di nostalgia.
A Saint Louis, Missouri, ci attende un cielo così sereno che il sole ci abbaglia e una città pulitissima, nonostante ci aspettassimo atmosfere blues, personaggi ai margini, quartieri off .. li cerchiamo, anche, ma dove sono finiti? Mistero scoperto, escono solo di sera, come i vampiri, e li trovi in piccoli club un po’ bui, ma da buon italiano medio convinto che a cena non ci si possa mai andare prima delle 22, quando arrivi loro hanno già smesso di suonare.
E’ a questo punto che inizia la nostra corsa contro il tempo, il desiderio di vedere tutto il possibile, le innumerevoli pipì, le foto da scattare a qualunque cosa, continuano a combattere con le miglia, che sono tante, tantissime, con la stanchezza che spesso si fa sentire, con il desiderio di godersi i paesaggi ed il bisogno di respirare quell’aria lì, che ti sembra così buona.
Azzannati dalla fame a metà pomeriggio, ci capita spesso di trovare paesotti tirati su a forza di roulotte, con la stazione di Polizia che dall’insegna sembra un parrucchiere, e infilarci in buchi che si rivelano la vera America, come Uncle Ernies, in cui si gioca a biliardo a qualunque ora, si beve birra appoggiati al bancone e si mangia il pesce gatto fritto più buono e abbondante del mondo, che quello sì che ti si deposita direttamente sui fianchi.
Facciamo un’inutile quanto faticosissima deviazione verso Branson, a nord, che si rivelerà una bruttissima copia della peggior Las Vegas, semideserta e sovrastata da palazzi a forma di Titanic, di King Kong, di Monte Rushmore, teatri chiusi, strade desolate e luci sfavillanti ad illuminare il nulla assoluto.
Nel percorso che ci riporterà sulla ormai amatissima Route 66, da quel momento in poi sarà la musica di Into the Wild ad uscire prepotentemente dallo stereo delle nostre auto, e di lì alla fine del viaggio ci saremo procurati i testi e passeremo le giornate a cantarle noi quelle canzoni, a squarciagola, perché i viaggi in auto ti tolgono tanto sonno e tanta pace, ma ti danno tutto il tempo del mondo per imparare a fare cose che a casa non faresti mai.
Lasciamo definitivamente un altro stato ed eccoci in Kansas, verdissimo, con i campi di girasole e un grandissimo sole, e lì ci aspetta una delle più piacevoli soste del nostro viaggio, a Galena, con le auto di Cars che ammiccano in un campo di grano, un micione che se ne sta a sonnecchiare davanti ad un saloon ormai abbandonato e soprattutto lui, il nostro vecchietto preferito, ultranovantenne proprietario del Riverton Store che sembra venda fiori, ma anche souvenirs della Route 66, ma che è anche minimarket, dove troviamo il mitico tomato Campbell in barattolo ma anche dei meravigliosi sandwiches strapieni di roba preparati al momento e il refill di caffè gratis fino all’infinito.
Ci tocca lasciare questo piccolo paradiso di serenità e via a macinare kilometri, 1000 soste in altri 1000 piccoli drugstore verso Oklahoma City, la classica città americana un po’ anonima e piena di traffico, che lasciamo volentieri per continuare verso il west, perché quando il navigatore ti abbandona ci si chiede: “ma il sole dove tramonta?” “Ad ovest” “Vabbè, allora questa è la direzione giusta!”
Lunga sosta nel primo grande vero museo della Route 66, a Clinton, dove ci riempiamo gli zaini di tazze, t-shirts, magneti, polvere di un furgoncino giallo pieno di cimeli che sembra stare lì da un secolo e sembra di sentirci dentro l’odore di Jack Karouac e del suo whiskey a basso prezzo.
Poi improvvisamente il paesaggio cambia di nuovo, i campi verdi lasciano il posto all’arancione della terra bruciata, la temperatura sale ed ecco il Texas, finalmente, con le sue roulottes argento, i cartelli stradali martoriati dai proiettili (!) i cespugli rinsecchiti che corrono lungo la strada, le ghost town che sembrano ghost town tanto sono deserte e diroccate, e invece devi fare molta attenzione perché ci vuole un attimo a vedere uscire da una baracca macilenta una signora veramente incazzata come una biscia che se non scappi a gambe levate imbraccia un fucile e ti uccide.
Fuggiamo, letteralmente, sfidando i 110 Farenheit e correndo a fianco di harleysti con occhialoni, barbe bianche, sorrisi come se stessero andando verso il paradiso e giubbottoni di pelle a frange, che non riesci davvero a capire come facciano a non morire di caldo.
E corriamo, corriamo, corriamo veloci nel vento, fregandocene dei limiti di velocità, sorpassando motociclette truccate, case su ruote e auto sportive, lambendo il deserto e i cespugli bruciati, verso il tramonto e il sole che se ne va ad ovest a morire, con la musica a palla e le braccia fuori dai finestrini come fossero ali, e sembra quasi che si possa decollare andando così, perché abbiamo un obiettivo importantissimo da raggiungere prima di sera, ciò a cui tutti aspirano quando fanno un viaggio on the road negli States, il miraggio, il primo premio, il paradiso alla fine del purgatorio, ed eccolo lì, alle porte di Amarillo, il nostro bersaglio.
La bisteccona di tre chili del Big Texan Steak Ranch.
Che meriterebbe un racconto a parte, tanto è assurdo e gigantesco questo posto, così incredibilmente abitato da umanità che sembra uscita da un film di John Waine e che cucina così bene la carnazza più buona del mondo; sembra una città questa, non un ristorante, e nell’attesa del tavolo c’è chi va a farsi un giro a cavallo con un cowboy che passava di lì per caso, anziché fumarsi la solita banale sigaretta come farebbe normalmente.
Non capiremo mai perché sia così densamente infestato da italiani tutti rigorosamente vestiti da cowboy; chi non ha camicia a quadri, speroni e cappello in cuoio, ha i baffoni, il giubbotto di pelle e i bikers, cristo santo eravamo convinti di essere anche vestiti bene, siamo italiani del resto, leggins e t-shirts griffate, ginniche all’ultima moda, e invece lì dentro sembriamo tutti i figli della serva…
Appesantiti dalle proteine e dopo un sonno abitato da mucche assassine, ci rimettiamo in viaggio, prossima destinazione Santa Fe, si va in collina, ma non prima di esserci persi nella ricerca della Route 66, quella burlona, che improvvisamente è sparita in mezzo alle ghost town, vere questa volta e davvero disabitate, e che non ricompare mai più.
Sopravviviamo alla grandinata più violenta della storia, con chicchi grandi come palle da baseball ed eccoci arrivati in questo piccolo gioiellino tutto costruito in sasso arancione che ti fa capire davvero di essere arrivato in New Mexico, con il paesaggio che è cambiato completamente, di nuovo, è sempre più rosso e sempre più western, affiancati lungo tutto il percorso da treni con centinaia di vagoni con i quali facciamo a gara a chi va più veloce.
Possiamo rilassarci un pochino e sperimentare la serata tipica del New Mexico con cibo messicano, rovinosa partitella di biliardo e gruppetto a suonare dal vivo: non ci posso credere, esistono davvero le persone che si alzano da tavola e si mettono a ballare il country come se fosse la cosa più normale del mondo… ma ormai ci sentiamo anche noi parte di quella realtà, dalle nostre valigie iniziano ad uscire sempre più spesso jeans, salopette e stivaletti, i cappelli da cowboy no per fortuna, ne abbiamo tutti quanti almeno uno in casa appeso sopra il caminetto a prendere polvere, grazie al cielo ci eviteremo di salire in aereo conciati come dei deficienti.
E le nostre auto sono sempre più polverose e imbottite di briciole di patatine, biscotti, pezzi di quei sandwich giganteschi che compriamo per il pranzo ma che non riusciamo mai a finire; e non ce la facciamo proprio a non fare deviazioni anche solo per fotografare un cartello, e questo ci costerà 2 gomme e un mezzo pomeriggio bloccati ad inventarci incidenti mai avvenuti per convincere l’assicurazione a pagare un gommista che di sabato sera ci salvi il percorso verso l’Arizona.
Iniziano i parchi, a Holbrook, Canyon de Chelly, la Petrified Forest e il Painted Desert, che sembra dipinto davvero da un bambino grandissimo che disegna righe orizzontali rosa e arancioni sopra le montagne, ed iniziano anche i veri Motel, quelli con le stanzette un po’ squallide e roventi, con l’auto parcheggiata davanti come fossimo coppiette clandestine e le ottime colazioni con uova, bacon e salsicce e il refill continuo di caffè, che se non fosse così annacquato a quest’ora saremmo tutti ricoverati in psichiatria.
E iniziamo anche le nostre deviazioni di percorso, con guide notturne che ci stremano ma ripagati subito dopo da quelli che non sono altro che la materializzazione dei nostri sogni da bambini.
Arches N.P., Dead Horse Point e Canyonlands in particolare ci rapiscono, con le loro rocce scolpite dal vento e strapiombi che ti fanno quasi venire voglia di buttarti, solo per capire quanto ci vuole ad arrivare giù; e la fatica del trekking sotto il sole si aggiunge alla fatica della guida, e se solo ci metti un hamburger con patatine ti sembra di non poter camminare mai più.
E poi cambi stato continuamente, dall’Arizona allo Utah e poi ancora Arizona e poi di nuovo Utah e non ci capisci più niente con il fuso orario, i punti di riferimento sono tutti saltati, possiamo abbandonarci all’entropia, e quasi quasi era anche ora.
Il percorso di avvicinamento alla Monument Valley è il paesaggio più imponente ed incredibile che abbiamo mai visto, non possiamo fare a meno di fermarci continuamente a fotografare quei molossi di roccia rossa che cambiano colore man mano il sole si sposta o si nasconde dietro le nuvole.
E quando ci sei dentro, alla Monument, dopo avere bestemmiato per evitare buche grandi come voragini, vorresti che tutti andassero via perché dovresti starci da solo in quel film, senza auto, senza gente che parla, imprecando per non avere mai imparato ad andare a cavallo senza rischiare la frattura della spina dorsale, pentendoti di non avere ancora visto i western che hanno girato lì e che ti riprometti di guardare non appena tornato a casa.
Ma non ne abbiamo ancora abbastanza, e dopo uova e bacon eccoci al Bryce Canyon, dopo una notte quasi insonne passata in un gelido motel immerso nella nebbia, certi di essere squartati da un serial killer e gettati a pezzetti nel cassone di un pick-up..
Ci riesce così difficile comprendere come abbia fatto la natura a realizzare tanta bellezza arancione, patria di scoiattoli esuberanti e socievoli, pinnacoli giganti verso il cielo e per vederli tutti non esitiamo a scalare una montagna arrivando in cima con la convinzione di avere un infarto del miocardio in corso, ma vale la pena anche morire dopo avere visto uno spettacolo così.
Ormai distrutti dalla fatica ma con gli occhi pieni di meraviglia, riprendiamo il nostro viaggio alla ricerca della Route 66, per troppi giorni dimenticata, e ci ritroviamo a Williams, che sembra un nonnulla, ma che ricorderemo, dopo avere finalmente fatto le lavatrici dei nostri vestiti che già camminano da soli, per averci passato la serata più divertente di tutte.
Pizza al bancone di un locale animato da un barista di cui ci siamo innamorate perdutamente e poi nel locale a fianco a ballare con una signora un po’ attempata ma piena di una vita che speriamo di avere anche noi alla sua età e il suo giovane fidanzato cowboy, direttamente dall’Alabama; e ci offrono da bere una roba infuocata che ci distrugge le budella, e cantiamo al karaoke, Clash, Prince, gli U2, i Pearl Jam, Van Halen e non ci vergogniamo neppure un po’ e vorremmo che non finisse mai perché quando si trova il modo di stare così, diventa tutto possibile.
E’ il giorno del Grand Canyon, è il momento di sentirsi piccoli e di arrendersi ad una natura che ha vinto su tutto, ai millenni di vento e pioggia e Colorado River che ha scavato canaloni così profondi che non riesci a vedere la fine, lo sorvoliamo in elicottero e ci sentiamo impotenti davanti a tutta quella bellezza che niente e nessuno distruggerà mai; non vogliamo andarcene da lì, dopo il tramonto più bello della nostra vita, aspettiamo che faccia buio, non ce la facciamo proprio a rimetterci in auto, ci si è insinuata dentro una pace e una serenità che non se ne andrà facilmente.
Neppure Las Vegas, con le sue assurdità, con le sue birre a 10 $, i noiosissimi casinò in cui ci addormentiamo sulle roulette, il suo finto divertimento ed il kitsch portato all’ennesima potenza, il Riviera e la grandissima piscina calda, riusciranno a rapirci, scappiamo via al mattino sperando di non essere inseguiti dalle luci della strip, pronti a farci coccolare dalla magia e dal silenzio assoluto della Death Valley, e anche lì vorremmo essere soli a contemplare il deserto infuocato e i panorami mozzafiato e allora chiediamo ai turisti di stare zitti perché questo grande silenzio vale più di tutte le parole del mondo.
Sosta tecnica nella insignificante Visalia, che vale solo per la fantastica torta al cioccolato che ingolliamo a colazione, perché ci aspetta il Sequoia N.P. con i suoi enormi Generali, che se ti fotografi davanti a loro sembri piccolo così e nessuno riesce a riconoscerti; ormai i chilometri percorsi stanno lasciando il segno e c’è anche chi dorme in auto mentre un buffissimo cucciolo di orso decide di mostrarsi.
Sognando la California si finisce per arrivarci davvero e dopo avere macinato un altro numero spropositato di miglia nell’ennesima deviazione di percorso, eccola, San Francisco, il mare finalmente, la meta della Beat Generation e li possiamo davvero perderci camminando sul lungomare, mangiando gamberi e granchio, crepi l’avarizia santoddio, per una volta.
La percorriamo con tutti i mezzi possibili questa città straordinaria, in tram, taxi, a piedi e addirittura in bicicletta, pentendocene quasi subito perché con tutti questi saliscendi sembra di stare in Val Badia; ci facciamo conquistare dalla via dei murales, dal quartiere della Beat Generation, dalla libreria intitolata a Ginzberg e dalle sue frasi cristallizzate su muri e marciapiede, sbirciamo il quartiere hippy che di hippy ormai non ha quasi nulla, sopportiamo la delusione di non trovare alcuna manifestazione di protesta nel quartiere di Castro, ci buttiamo in un saloon fumoso e un po’ puzzolente in cui la sosia perfetta di Yoko Ono suona un ottimo blues e in cui troviamo l’umanità notturna di Frisco, “quelli strani davvero” e non sentiamo più la stanchezza ma soltanto la sorpresa.
La lasciamo a malincuore, ma la nostra tristezza è immediatamente spazzata via da Big Sur, 100 miglia di strada a strapiombo sul mare che odorano di sale, di vacanza e di libertà; ci fermiamo spesso e ci lasciamo conquistare dai burritos enormi di un incasinatissimo emporio lungo la strada, e dai leoni marini giganteschi che se ne stanno a decine spiaggiati e placidi a godersi il sole sempre più a sud.
Arriviamo a Los Angeles e la odiamo immediatamente, per i suoi nodi stradali a 12 corsie che non ci si capisce nulla, per il traffico allucinante e per quanto sia insulsa, senza vere attrattive che meritassero tante ora di auto in colonna.
La fine si avvicina, a Venice beach ognuno di noi decide da solo come passare le ultime ore, abbiamo bisogno di stare con noi stessi, chi sdraiato in spiaggia, chi a comprare t-shirt nelle bancarelle dell’usato, chi a contemplare il mare, alcuni a lasciarsi sferzare dalle onde o abbindolare da un venditore e ci diamo appuntamento al tramonto a Santa Monica, dove il cartello della fine della Route se ne sta quasi nascosto sul molo e fatichiamo a trovarlo in mezzo a giostre, ruote panoramiche e venditori con hot dog, o forse fingiamo di non trovarlo, perché ognuno di noi non vuole vedere la fine di quel viaggio bellissimo, che ci ha regalato la natura, la gente meravigliosa sempre pronta ad aiutarci in caso di difficoltà, un tuffo nel passato, la libertà assoluta, la possibilità di vivere un mito, il vero on the road, la musica, i parchi meravigliosi, le assurdità che abbiamo incontrato lungo il percorso, gli “strani veri” il grande west, i tramonti da mozzare il fiato e le migliaia di immagini bellissime che non ci lasceranno mai.
God bless America