Madagascar, viaggio nell’isola del passato
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Prima di entrare nei dettagli del viaggio, fornisco le notizie utili che, poi, sono quelle che interessano chi legge questi diari di viaggio:
– elettricità: le prese elettriche sono eguali a quelle italiane. In quasi tutti gli alberghi la corrente, fornita da generatori, viene tolta dalle ore 23 alle 6 del mattino;
– zanzare: a settembre non ce ne sono; nemmeno lungo il fiume Tsiribihina. Inutile, secondo il mio parere, la profilassi antimalarica;
– cambio: il migliore è all’aeroporto di Antananarivo. Gli euro sono accettati quasi ovunque. Abbiamo cambiato circa € 330 a persona per i pasti principali, le mance, qualche escursione e souvenir;
– pasti: calcolare € 5/9 per un pasto con bevande in un buon ristorante. Sulla costa, con questa somma, è possibile ordinare aragoste a volontà e pesci pregiati;
– abbigliamento: informale. Prevedere qualche felpa e/o k-way da usare la sera sugli altopiani;
– internet: wi-fi in quasi tutti gli alberghi. Funziona la posta elettronica in entrata, skype e whatsapp. Per motivi a me ignoti, non funziona la posta in uscita;
– telefonate: è possibile comprare una scheda. Ogni minuto di conversazione costa € 1;
– portare in dono: vestiti, anche usati. Per gli adulti, taglie S o M. In loco comprare, per regalare, candele, fiammiferi, sale, zucchero, caffè, giocattoli per i bambini (non ne hanno mai visti) e, al sud, bottiglie d’acqua, anche vuote;
– strade: accettabile la route 7. Molto disconnesse le piste.
Ed ora veniamo al viaggio.
Giorno 18.9
Antananarivo non ha nulla di una capitale. Poche strade larghe, marciapiedi minuscoli (qualora ci siano), nessun semaforo, calca di pedoni, frastuono, auto impazzite in mezzo alla folla. Buona parte della giornata la passiamo in aeroporto, per la denuncia del mancato arrivo dei bagagli, ed in un piccolo centro commerciale, per comprare l’indispensabile che i miei compagni di viaggio hanno dimenticato di riporre nel bagaglio a mano. Attenzione: le farmacie della capitale mancano persino delle pillole per regolare la pressione. Nel tardo pomeriggio, dopo un giro nel centro congestionato della capitale, saliamo sulla collina più alta, fermandoci ai piedi del palazzo fortificato della regina. Da questo punto si gode del più bel panorama della città. Bambini dappertutto, senza alcuna sorveglianza da parte degli adulti: sarà una costante per tutto il viaggio. I bambini più grandi sembrano avere un potere assoluto verso i più piccoli!
Giorno 19.9
Il pulmino che ci dovrà portare a Miandravizo è piccolo e mal messo. Protestiamo ma, in mancanza di alternativa, ci adattiamo ad un viaggio di nove ore. Pur trattandosi di un semplice trasferimento, cominciamo a percepire i colori e gli odori dell’Africa. Si snodano davanti ai nostri occhi immagini di donne che lavano la biancheria nei fiumi e la stendono al sole sopra gli argini, creando delle tavolozze colorate. Donne che cucinano e che vendono in strada pasti frugali, frutta e povere mercanzie. Carri trainati da zebù che trasportano improbabili merci. Frotte di bambini che sbucano dal nulla e che ci assalgono ad ogni nostra fermata. Odori tipici dei tropici costituiti da un miscuglio di polvere, di sudore e di spezie.
Giorno 20.9
Di prima mattina partiamo con un camion che, dopo circa un’ora di pista impraticabile, ci scarica al porto fluviale del Mamajilo, un affluente del Tsiribihina (sul quale navigheremo per tre giorni). Il molo sabbioso è pieno di vita: bambini dappertutto; donne che lavano nel fiume indumenti e stoviglie; carri, trainati da zebù, che trasportano bidoni pieni d’acqua da vendere alle popolazioni dell’entroterra; uomini intenti a pescare dalla riva o da imbarcazioni, ricavate incidendo un tronco. Un tripudio di colori, di odori, di grida. Ci imbarchiamo su una barca a motore coperta nella quale consumeremo anche i pasti, preparati da un’ottima cuoca. Il Tsiribihina non ha grandi attrattive naturalistiche o paesaggistiche ma fa capire come si muovevano i viaggiatori del passato, utilizzando le vie d’acqua come unico collegamento fra luoghi distanti. La discesa del fiume, inoltre, con i suoi ritmi rallentati, aiuta ad entrare nella mentalità degli africani per i quali il concetto del tempo è diverso dal nostro. Il tempo, per tutti gli africani, conta solo quando ci sono degli avvenimenti che, in Africa, si verificano raramente. Ogni volta che c’è da fare qualcosa, quindi, la gente si muove “mora-mora” (=piano-piano): appunto per dilatare il tempo! Il tempo degli avvenimenti è quello degli affanni della vita quotidiana: della pesca, del coltivare la terra, dell’approvvigionamento idrico. Il nostro tempo, sulla barca, scorre senza avvenimenti, mora-mora, allontanando gli affanni della vita moderna! La discesa dello Tsiribihina, oltre ad avere un effetto terapeutico sulla mente, rallentando il ritmo convulso dei pensieri, ci permette di osservare alcuni usi delle popolazioni di etnia merina, che abitano lungo le rive. Nel primo pomeriggio, ci fermiamo in una gola per un bagno sotto una cascata e, lungo la via, facciamo i primi incontri con lemuri e camaleonti. Dalla barca avvistiamo anche un piccolo coccodrillo e tanti uccelli. Ci fermiamo, per il bivacco in tenda, su un banco di sabbia bianca. Arrivano, subito, frotte di bambini felici di vedere i vasah (= bianchi) e più felici ancora nel ricevere i piccolo doni che abbiamo portato per loro. Ci colpisce la fratellanza che li accomuna in quanto dividono in parti eguali ciò che hanno ricevuto. La sera, alcuni ragazzi del vicino villaggio vengono a danzare per noi attorno al fuoco del bivacco. Nessuna zanzara!
Giorno 21.9
La mattina ci svegliamo, all’alba, al canto melodioso di donne ed uomini che risalgono in barca il fiume. Subito dopo la colazione visitiamo il vicino villaggio. Accompagnati da bambini, felici di stringere al mano a degli adulti, entriamo nel villaggio brulicante di vita. Sono tutti per strada perché le anguste capanne non permettono altro che dormire. La vita si svolge attorno al mercato. Si vende solo ciò che è necessario. Unica eccezione, una rivendita di cellulari. Tutti vogliono farsi fotografare. Gira anche qualche civile armato di kalashnikov. A malincuore, per via dei bambini rimasti delusi dalla nostra partenza, ci imbarchiamo. Dopo circa quattro ore ci fermiamo per un altro bivacco. Compriamo, per circa € 3, senza contrattare, circa 10 Kg di pesce da un pescatore di passaggio e ce lo facciamo cucinare dalla nostra brava cuoca. Ci rechiamo, subito dopo pranzo, al vicino villaggio a protezione del quale c’è un grande baobab considerato sacro. Ci riceve la capo-villaggio la quale subito ci chiede della legna e della cenere portata dall’estero: le servono per confezionare un intruglio che la liberi dagli spiriti degli antenati che la tormentano. Abbiamo solo dei fiammiferi di legno, per la cenere provvederà qualche altro viaggiatore. Calato il buio ed acceso il falò, i giovani del villaggio convergono al campo per danzare attorno al fuoco.
Giorno 22.9
Alle 9 del mattino leviamo le ancore per dirigerci al porto fluviale di Belo dove giungiamo dopo circa tre ore: in effetti la discesa del fiume si poteva effettuare in due giorni! L’attracco è su una melma sabbiosa, con tanti traghetti che arrivano e subito ripartono, riversando gente dagli abiti colorati e merci di tutti i tipi. Tipici carri trainati da zebù per il trasporto di frutta, di legna, di mobili, di verdure, di tubi etc. ingombrano il passaggio; ma le due 4X4 che dovevano attenderci all’arrivo non ci sono! Ci avviamo a piedi, quindi, verso il paese, per fare una visita al mercato. Dopo cinque ore di attesa arrivano le jeep ma una di esse, pochi Km dopo la partenza, comincia a fermarsi per poi ripartire. Alla quarta sosta non riparte più. Il carburatore è andato, i richiesti soccorsi non arrivano. La notte incombe e perciò decidiamo di proseguire, pigiandoci in nove, nella 4X4 ancora funzionante. Percorriamo Km 100 di pista. Una notte da dimenticare!
Giorno 23.9
E’ prevista l’escursione al parco dei grandi e piccoli Tsingy di Bemaraha, dichiarati dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”. Tsingy, in malgascio, significa “luogo dove non si può camminare a piedi nudi”. Si tratta, infatti, di migliaia di pinnacoli calcarei, residui di antichi banchi corallini, che si innalzano al cielo come spade acuminate. Tre su sette decidiamo di visitarlo. Con una guida del parco attraversiamo una foresta dove avvistiamo lemuri, camaleonti ed uccelli e, poi, dopo avere attraversato delle gole strettissime, ci accingiamo alla salita. Alla partenza ci erano state consegnate delle imbracature fornite di moschettoni: ma non ci era stato precisato che, una volta iniziata l’ascesa, non era possibile ritornare indietro a causa degli scalatori sopraggiunti. Per salire sulle punte acuminate, nella roccia sono stati ricavati piccoli appigli dove appoggiare parte del piede. Lungo il percorso, attaccati alle pareti, ci sono due cavi di acciaio, uno per agganciarsi con i moschettoni ed uno per tirarsi in alto; ad ogni giro di roccia bisogna sganciare e riagganciare i moschettoni. Le mani, nella salita, sono occupate: quindi non si possono fare foto. La salita è quasi tutta in verticale, per la gioia di chi soffre di vertigini. Giunti in vetta, dopo il belvedere, c’è un’altra sorpresa: un ponte tibetano oscillante sul vuoto. La discesa, vuoi perché siamo rassegnati, vuoi perché “a scendere tutti i santi aiutano”, la facciamo agevolmente con l’ausilio, anche, di scale di ferro installate in punti strategici. Nell’ultimo tratto siamo costretti a strisciare per una ventina di metri. La guida, giunti alla base dei pinnacoli, mi dice che sono la persona più anziana che ha accompagnato sul Tsingy ( ho 73 anni). Non so se lo dice per assicurarsi una mancia più consistente! Comunque, per lei, sono sicuramente un vegliardo, considerato che l’età media di sopravvivenza dei malgasci si attesta a 50 anni. Dopo una rapida visita ai piccoli Tsingy raggiungiamo, in albergo, gli amici.
Si consiglia di portare solo acqua e in abbondanza
Giorno 24.9
Partiamo, con due jeep, per Morondova attraversando un fiume, con un traghetto spinto a mano con lunghe pertiche. Ripercorriamo, di giorno, la pista rossa di sabbia che ci riporterà a Belo. Incontriamo e fotografiamo lemuri, camaleonti, serpenti, uccelli ed un insetto stecco. A Belo ci imbarchiamo su una chiatta spinta da una barca a motore legata ad uno dei suoi lati. Sulla chiatta, oltre alle auto, c’è un’umanità variopinta composta da uomini, donne e bambini che trasportano ogni genere di cose. Dopo avere risalito il fiume per circa un’ora, il traghetto attracca (si fa per dire) alla terraferma. Due assi di ferro strettissimi vengono allungati su un alto gradone di sabbia per fare scendere le persone e gli automezzi. Scendiamo a piedi evitando di guardare il vuoto sotto i piedi. Un percorso piacevolissimo ci attende subito dopo. Ci fermiamo ad ammirare i “baobab innamorati“ in quanto, intrecciati fra loro, sembrano abbracciati. Poco prima del tramonto giungiamo alla “Avenue des baobas” dove assistiamo al dorato tramonto del sole. All’albergo di Morondava troviamo ad attenderci un pulmino nuovo, con il quale effettueremo il resto del viaggio, ed i bagagli finalmente arrivati. Abbiamo la conferma che gli S.O.S., inviati all’agenzia del Genio del Bosco che ci ha organizzato il viaggio, sono arrivati.
Giorno 25.9
Puntiamo su Antsirabe, una cittadina termale per la quale eravamo già passati il 19 settembre. Antsirabe è la capitale dei pousse-pousse, carrettini adibiti a trasporto di persone e trainati da uomini-cavallo. Facciamo il giro della città a bordo di questi mezzi, rincorsi da ambulanti che cercano di venderci di tutto. Compriamo delle ciabatte di plastica per i conducenti dei carrettini che sono scalzi e visitiamo alcune botteghe artigianali dove si lavorano pietre preziose, corna di zebù e materiali riciclati per costruire giocattoli.
Giorno 26.9
Giornata di trasferimento verso il sud con destinazione Fianarantsoa. Attraversiamo verdi risaie terrazzate e bellissimi paesaggi. Incontriamo, lungo la strada, due ragazze cercatrici d’oro che ci mostrano due pagliuzze del prezioso metallo trovate setacciando, con semplici attrezzi, la sabbia di un torrente.
Giorno 27.9
Destinazione Ranohira. Lungo la strada visitiamo prima una fabbrica dove si produce a mano la carta antemoro, decorata con petali di fiori. Poi ci fermiamo alla riserva Anja. Per la prima volta osserviamo, a distanza ravvicinata, varie specie di lemuri, alcuni con i piccoli sopra le spalle. L’albergo dove pernottiamo, lo ” Isalo Rock lodge”, è veramente sontuoso. Forse il migliore degli alberghi dove sono stato. Ci riempiamo di orgoglio nell’apprendere dal direttore, un distinto signore di Mestre, che l’arredamento proviene dall’ Italia e che l’albergo appartiene a degli italiani.
Giorno 28.9
Giornata piuttosto impegnativa per visitare l’Isalo National Park. Il percorso, lungo 10 km, si snoda attraverso magnifici scenari naturali dove le cime rocciose che attraversiamo fanno da cornice a un deserto ove ondeggia la savana. Canyon profondi ed aridi, battuti dal vento, rivelano una vita inaspettata alla loro base per la presenza di una vegetazione lussureggiante, luogo di elezione per uccelli variopinti e lemuri. Di particolare interesse la fioritura settembrina del pachipodium. Fiumi canterini si insinuano fra le piante, formando cascatelle e piccoli laghi; in uno di questi laghetti prendiamo un po’ di refrigerio. La nostra visita prosegue fra pareti di roccia a strapiombo, piante endemiche dai colori accesi, tombe incassate nella roccia dove sono sepolti uomini appartenenti all’etnia sakalara. Ovviamente il percorso in un parco non è mai agevole: bisogna salire, scendere, camminare a lungo sotto il sole. L’intero percorso lo completiamo i soliti tre. Gli altri si arrendono dopo i primi 6 Km.
Giorno 29.9
Destinazione Tulear. Dopo circa 30 Km di paesaggio desertico arriviamo alla periferia di Jlakaka, un villaggio minerario. Una moltitudine di uomini, donne e bambini setacciano la sabbia di un fiume alla ricerca di zaffiri. Un’umanità colorata, vociante, per tutto il giorno accoccolata nell’acqua nella speranza di un colpo di fortuna. Sembra di essere tornati ai tempi del far west! La città, ci dice Rolf la guida, è poco sicura. Quindi decidiamo di affidarci, per una visita, ai servizi del proprietario di una miniera di zaffiri. Ci vengono chiesti € 4 a persona. La miniera sembra una raffigurazione dell’inferno dantesco: una piccola pozza a cono che si allarga verso l’alto formando delle terrazze (i gironi). Uno stuolo di dannati, sotto il sole infuocato, trasporta la sabbia dal gradone più basso verso quello più alto, allargando il cono. Lavorano 10,30 ore al giorno per l’equivalente di € 1,50, ovviamente senza contributi. Sono lavoratori saltuari, scelti all’alba dal proprietario della miniera. Faccio un rapido conto mentale e realizzo che con i nostri € 28 per la visita, il proprietario della miniera pagherà 21 di questi dannati su questa terra. Faccio anche un’altra considerazione: i malgasci ritengono che la vera vita è quella dopo la morte durante la quale lo spirito del defunto sta sempre con i discendenti. Le azioni cattive commesse in vita non vanno punite da chi le ha compiute ma dai loro discendenti (un po’ come il peccato originale). Mi chiedo: quante stragi di innocenti hanno compiuto gli antenati di questi disgraziati?!
Ritornando sulla nostra strada osserviamo varie tombe, dell’etnia mahafaly, riccamente addobbate con corna di zebù, disegni raffiguranti la vita del defunto e pale intarsiate di legno. Dopo la visita al giardino botanico di Antsokay, proseguiamo per Tulear e ci rechiamo al ristorante “Da Giancarlo” , di proprietà, ovviamente, di un italiano. Sempre per € 5, ordiniamo primi e secondi a base di pesce ed aragoste; il proprietario offre fette di pizze, limoncello e rhum.
Giorno 30 settembre
Ci imbarchiamo, alle ore 10, su di un motoscafo veloce che, in un’ora, ci porta ad Anakao: una mezza luna di sabbia bianca e deserta. L’Anakao Ocean Lodge, ove alloggiamo, di proprietà italiana, è perfetto. Siamo ospitati in grandi bungalows finemente arredati. Dopo il bagno ed il pranzo ci rechiamo al villaggio abitato da pescatori di etnia vezo. Al nostro arrivo si raccoglie tutto il villaggio. Distribuiti ed esauriti gli ultimi doni, ritorniamo al lodge accompagnati da bambini che ci tengono per mano.
Giorno 1 ottobre
Con una barca veloce ci rechiamo all’incantevole isola di Nosy Ve ove fotografiamo dei fetonti dalla coda bianca. Questi uccelli nidificano, nel Madagascar, solo su quest’isola. Dopo un bagno ristoratore altra corsa, con il motoscafo, diretti all’isola di Nosy Satrana. Contrattiamo, con un pescatore incontrato sull’isola, un pranzo a base di triglie da arrostire sulla spiaggia.
Giorno 2 ottobre
Rientriamo con il motoscafo a Tulear e, poco dopo, voliamo per Antananarivo. Ci imbarchiamo per Parigi ed arriviamo a Siracusa la sera del 3 ottobre, dopo un viaggio di ritorno durato quasi 36 ore.
Considerazioni finali
Questo viaggio non è per tutti. Non è per i pantofolai. Non è per chi vuole divertirsi. Non è per chi non sa emozionarsi di fronte ad un tramonto o ad un paesaggio. Non è per chi non sa fare a meno delle comodità e della certezza di trovare sempre acqua corrente in albergo. Non è per chi non sa accettare un guasto meccanico dei vecchi motori delle auto; per chi non comprende che l’ordinaria manutenzione dei “crateri” sulle piste, creati dalle intemperie, è resa impossibile dalla povertà delle risorse. Non è per chi non vuole vedere la misera vita della gente qualunque.
Questo è un percorso per viaggiatori e non per turisti! Questo viaggio è consigliato a chi ama l’avventura; a chi viaggia per scoprire nuove realtà; a chi è in grado di provare empatia per le popolazioni locali; a chi scopre – nel superare le difficoltà che si presentano – nuove e sconosciute energie che l’aiuteranno nella vita futura.