Paraguay, difficile entrarci, impossibile uscirci
Fui svegliato di soprassalto da una selva di mani cariche di cibo che si protendevano verso i finestrini. Poi l’autobus superò la tranca e riprese a correre nella campagna avvolta dalle tenebre. Ormai mi ero talmente assuefatto agli scossoni e al rumore ripetuto e monotono, che quando ci fermammo mi svegliai. Con gli occhi impastati guardai fuori. C’era solo il buio. Nient’altro. Quando spuntò il sole saltai giù in silenzio per scoprire il motivo di quell’interminabile, inspiegabile sosta. Oltrepassata una lunga fila di mezzi incolonnati mi si parò davanti una scena apocalittica. Due TIR e un autobus erano piantati in mezzo ad un piccolo ruscello torbido che attraversava la strada. La strada non era altro che una semplice pista in mezzo alla boscaglia e in quel tratto si infossava per guadarlo. Da ambo le parti una fila clamorosa di veicoli si era allungata per tutta la notte. Centinaia di persone assistevano al penoso lavoro degli autisti e dei pochi volontari che spalavano il fango dalle ruote e vi sistemando sotto tronchi e rami per fare presa. Ma le ruote giravano a vuoto e i mezzi sbandavano inclinandosi paurosamente. Dopo inutili spinte collettive l’autobus venne trainato da un camion con un potente cavo d’acciaio. Due autobus riuscirono abilmente a passare dall’altra parte, aggirando i due TIR invischiati. Ma di nuovo un furgone rimase intrappolato nei profondi solchi tracciati dagli altri mezzi. Alle otto e mezza, finalmente, riuscimmo a passare anche noi, guardati con invidia dagli altri passeggeri. Un paio d’ore dopo fummo costretti a fermarci in uno sperduto villaggio per tamponare una crepa che si era aperta nel filtro dell’olio. Intanto che la colla asciugava, ne approfittammo per fare uno spuntino. Alle undici e mezza eravamo ancora fermi. La lunga colonna di mezzi non lasciava presagire nulla di buono. Andai in avanscoperta sul ciglio della strada, cercando di camminare sull’erba o sui bordi induriti dei vecchi solchi. La colonna di veicoli era serrata, ma in un punto era separata da un’enorme pozzanghera larga quanto la strada e lunga una trentina di metri. Quattro bambini si affacciarono dal finestrino di un autobus e mi chiesero con esuberanza infantile di fargli una foto. Si misero in posa sorridendo con le dentature da latte incomplete e scattai.
“E la foto?”
Non dimenticherò mai la loro delusione, quelle facce incredule quando non videro materializzarsi la fotografia, tipo Polaroid. Provai a spiegare che bisognava prima sviluppare il rullino. Ma non capirono nulla e ci restarono malissimo. Più avanti sprofondai nel fango fino alle ginocchia. Nel tentativo di estrarre i piedi dalla morsa melmosa le ciabatte si stracciarono e adesso si trovano ancora lì dove le ho lasciate, sotto quaranta centimetri di ‘strada’. Da quel momento girai scalzo, mentre il fango mi si induriva addosso. La strada, più simile a sabbie mobili, aveva inghiottito le ruote di diversi autobus e di un camion che trasportava banane.
“Beh, almeno di fame non moriamo” sentenziò uno dei tanti curiosi, seguito da una risata collettiva.
Non è che la situazione fosse poi così allegra, però. Si ripetevano le stesse scene di prima, ma questa volta la strada era in condizioni veramente disperate. In alcuni punti gli autisti, immersi nel fango fino alle ginocchia, cercavano di fare il possibile con pale e secchi. Quando ci avevano detto che nel Chaco pioveva, forse non mentivano. Se non altro in quel momento c’era un bel sole. Alla fine riuscimmo a saltare fuori anche da lì.
A pranzo finimmo le scorte di viveri che ci aveva fornito la flota. In teoria sarebbero dovute bastare per tutto il viaggio. I miei compagni di viaggio leggevano, ascoltavano musica, si facevano i fatti loro. L’autobus era mezzo vuoto, almeno si dormiva decentemente.
“E’ vero che ci sono molti italiani a Buenos Aires?” domandai a Ramiro.
“Altroché, metà degli abitanti è italiana o di origini italiane. Io mi chiamo Rodríguez, i miei antenati venivano dalla Spagna; ma la mia ragazza è italiana. E viviamo nel quartiere Palermo.”
“Ma tu di dove sei?” mi domandò Jorge.
“Italia.”
“Sì, ho capito. Ma di dove, di quale città?”
“Parma. La conos..?”
“Ah, Parma! Crespo, Sensini, Couto…”
“Asprilla” aggiunsero gli altri in coro. Ne sapevano più loro di me.
Prima che la squadra di calcio andasse in serie A e si affacciasse alle competizioni internazionali, nessuno all’estero conosceva la mia città, tanto che ero solito dire che abitavo vicino a Milano. Al limite qualcuno si accorgeva della somiglianza Parma-parmigiano. Mi ricordo di quella volta a Stoccolma quando ero andato a cambiare i soldi in uno sportello di cambio della stazione ferroviaria. L’addetto si era soffermato a guardare la mia maglietta con lo stemma dell’università e aveva esclamato: “Ah, Parma. Brolin!” In pratica la mia città era conosciuta a livello internazionale solo per il formaggio e per la squadra di calcio. Sono soddisfazioni di cui andare fieri, non c’è che dire.
Dopo diciotto ore di viaggio arrivammo a Camiri, la capitale petrolifera della Bolivia, distante appena trecento chilometri da Santa Cruz. Gli autisti ci lasciarono in un ristorante sulla strada e andarono in un’officina a poca distanza da lì per eseguire certe riparazioni. Quell’ennesima sosta forzata ci permise di conoscerci meglio. I passeggeri erano in prevalenza giovani, una compagnia molto eterogenea. Oltre a Ramiro, Manuel e Jorge, che avevo già conosciuto a Santa Cruz, c’erano tre giapponesi, un brasiliano mezzo giapponese con lontane parentele italiane, un peruviano, tre fratelli e una sorella ecuadoriani in abiti tradizionali e due ragazze irlandesi. I rimanenti erano peruviani e boliviani di mezz’età. Le irlandesi erano particolarmente carine. Non sapevano una parola di spagnolo, così mi sacrificai a fare da interprete. Al che si scoprì che tutti parlavano inglese alla perfezione. Manuel si spacciava addirittura per madrelingua. Saltavano fuori delle traduzioni così bislacche da scatenare ripetuti scrosci di risate. Le due povere ragazze si guardavano attonite, sorridendo senza capire. Il clima era piacevolmente disteso, favorito anche dalle barzellette di Jorge. E’ incredibile come fossero le stesse barzellette che circolavano in Italia. In quello sperduto locale di Camiri era rappresento mezzo Sudamerica. A volte riuscivo perfino a cogliere le differenze di pronuncia tra uno e l’altro. Ma intanto il tempo passava e dell’autobus nemmeno l’ombra, anche perché ormai era buio. Dopo un rapido consulto decidemmo di fare un salto nell’officina. Trovammo i due autisti e l’aiutante svaccati sopra dei vecchi pneumatici a tracannare birra.
“Qual è il problema?” chiese Ramiro a quello che sembrava più sano.
“Nada” rispose infastidito.
“Meno male. Siamo fermi solo da quattro ore, figuriamoci se era qualcosa di serio!”
“Si è rotta una sospensione, dobbiamo saldarla.” Considerò chiusa la discussione, si girò verso gli altri e ricominciò a bere.
Dei veri simpaticoni. Fino a quel momento non ci avevano dato la minima confidenza. Passavano il tempo alla guida bevendo e ruminando enormi quantità di coca. Tornammo al bar, mentre gli autobus incolonnati dietro di noi durante gli impantanamenti adesso ci sfrecciavano davanti sollevando dense nuvole di diesel e di polvere. Restammo bloccati lì per otto ore. Quando ripartimmo era già buio da un pezzo. A mezzanotte superammo Boyuibe e ci fermammo alla migración della postazione militare, un chilometro più avanti. Ci mettemmo in fila per ottenere, con molta calma, il timbro di uscita dalla Bolivia. Appena ripartimmo andò via la luce all’interno dell’autobus. Guardai fuori dal finestrino. La notte senza luna era illuminata da milioni di stelle.
Da Boyuibe in poi comincia il Gran Chaco, una sconfinata steppa pianeggiante coperta da un groviglio quasi impenetrabile di arbusti spinosi che si estende fino al Paraguay occidentale, lungo il confine con l’Argentina. La scarsa popolazione è composta da qualche allevatore che pascola le sue mandrie in vastissime estancias, da isolati gruppi di indios guaycurú, da famiglie di mennoniti olandesi e da pattuglie delle postazioni militari. E’ una regione inospitale e quasi del tutto disabitata. Eppure Bolivia e Paraguay se la contesero nel corso di una sanguinosa guerra scoppiata nel 1932 e conclusa tre anni più tardi. Come tutte le guerre che si rispettino anche questa fu determinata da solidi interessi economici. La Standard Oil, quella che oggi si chiama Exxon, sosteneva la Bolivia, la Royal Dutch Shell il Paraguay. Il vincitore si sarebbe aggiudicato il diritto di sfruttare i giacimenti petroliferi di cui si illudevano fosse ricco il sottosuolo. Nel 1862 l’Argentina aveva sottratto alla Bolivia il Chaco Central. Alla fine della Guerra del Chaco la Bolivia perse anche il Chaco Boreal, sessantacinquemila uomini e un’incerta via di comunicazione verso l’Atlantico lungo il Río Paraguay. Ma le favolose risorse di petrolio non furono mai scoperte. Pazienza. Le compagnie petrolifere avrebbero cercato da qualche altra parte.
La mattina del terzo giorno ci svegliò un magnifico sole. Ormai procedevamo su due solchi paralleli nella sabbia rossa. Sobbalzavamo di continuo. L’autista era costretto a difficili slalom per schivare le pozzanghere e ci piegavamo paurosamente quando ne prendeva una particolarmente profonda. Verso le otto del mattino arrivammo al Fortín General Eugenio Garay e capimmo di aver varcato l’invisibile frontiera tra i due Stati. Eravamo in Paraguay.
La mattina del terzo giorno ci svegliò un magnifico sole. Ormai procedevamo su due solchi paralleli nella sabbia rossa. Sobbalzavamo di continuo. L’autista era costretto a difficili slalom per schivare le pozzanghere e ci piegavamo paurosamente quando ne prendeva una particolarmente profonda. Verso le otto del mattino arrivammo al Fortín General Eugenio Garay e capimmo di aver varcato l’invisibile frontiera tra i due Stati. Eravamo in Paraguay. Mentre un autista si faceva timbrare la lista dei passeggeri con le fotocopie dei passaporti, l’altro scaricava una cassa di verdura “per snellire la burocrazia.” Era la prima di un’incredibile serie di postazioni militari. La storia era sempre la stessa: aumentavano i timbri sulla lista, si alleggeriva il bagagliaio. E noi morivamo di fame. “Non so cosa darei per un dulce de leche in questo momento” ripeteva continuamente Ramiro. Chi ha avuto la fortuna di assaggiare questo buonissimo budino argentino può comprendere la sua nostalgia. Mi venne in mente che anche René soffriva la mancanza del burro d’arachidi. Quando arrivammo a Mariscal Estigarribia, verso le tre, avevamo già passato cinque ispezioni e controlli. Ci fermammo in un ristorantino per risistemarci un attimo. Con la scusa che doveva fare rifornimento, un’autista si fece cambiare da Roberto, il brasiliano, una banconota da cinquanta dollari. Dopo una minuziosa analisi risultò falsa. Ci coalizzammo con lui e costringemmo l’autista a restituirgli i soldi. Il malfattore si difendeva dicendo che li aveva già spesi e che comunque non sapeva che fossero falsi. Eravamo ai ferri corti. Alla fine tornò coi soldi e si riprese la banconota fasulla.
“Sono un po’ preoccupato” mi confessò Roberto.
“E di che cosa? I soldi te li ha restituiti, no?”
“Sì, no, non è per quello.”
Si tirò su la maglia. Nella schiena, sotto la scapola destra, mi mostrò un piccolo rigonfiamento.
“Riesci a vedere quanto è grosso?” mi chiese.
“Più o meno così” gli mostrai tra indice e pollice.
“Mi hanno detto che è la larva di una mosca che cresce nutrendosi del ‘nido’. Sto tornando a casa mia a Florianópolis per farmela togliere. Questo ritardo mi fa impazzire.”
“Ma dove l’hai presa?”
“Secondo me nel Parco Amboró, vicino a Santa Cruz.”
“Beh, dai, non preoccuparti” cercai maldestramente di consolarlo, ma intanto mi frullavano per la testa terribili pensieri.
Dopo Mariscal ricomparve l’asfalto. In fondo valeva la pena di affrontare questo viaggio, perché si veniva ripagati dalla natura quasi incontaminata. Ai lati della strada crescevano cespugli fioriti, bizzarre varietà di cactus e splendidi alberi, tra cui il quebracho, l’albero spacca ascia. Il suo legno pregiato, troppo pesante per galleggiare, è un’insostituibile fonte di tannino naturale utilizzato per la lavorazione della pelle e costituisce una delle principali risorse del Chaco. Nella macchia erano sospese spaventose ragnatele, poco tessute ma con fili talmente spessi che si notavano anche da molto lontano. In cielo o posati sui pali della luce si potevano ammirare kara kara, aquile, falchi e avvoltoi. All’ennesimo posto di blocco vidi due ñandú, gli struzzi sudamericani, rinchiusi in un recinto. Purtroppo anche qui la fauna selvatica era in leggera ma costante diminuzione. Certo che se uno non è interessato al paesaggio farebbe meglio a prendere l’aereo. Molti passeggeri, però, dovevano affrontare tutti questi disagi perché l’autobus era la soluzione più economica. Per me quel viaggio era uno sfizio, un’avventura, per altri invece una necessità. E sicuramente non erano della spirito giusto per ammirare la natura. Carlos il peruviano era partito da Lima per cercare fortuna in Argentina; i quattro indigeni ecuadoriani stavano affrontando un’incredibile traversata via terra per raggiungere i genitori emigrati anni prima in Uruguay.
Verso sera il motore cominciò ad avere delle noie. Col mezzo in corsa gli altri autisti si calarono fino alla vita nella botola posta dietro la leva del cambio. Diagnosi rassicurante: perdevamo combustibile. Procedemmo così per ore, ma non riuscivano a tamponare la falla. A notte fonda tirarono giù dal letto un meccanico e riuscirono a riparare il guasto. Ma poco dopo rimanemmo piantati in mezzo alla pianura, senza più una goccia di gasolio. Un’alba superba colorava il cielo di sfumature rosse, facendoci dimenticare per un momento la tragica situazione in cui ci trovavamo. Dopo un’ora di silenzio avvistammo una macchina che marciava in senso contrario. Gli autisti chiesero a Jorge di parlare al connazionale. Gli disse che non poteva aiutarci, ma cinque o sei chilometri prima era passato davanti ad un distributore. Gli autisti non volevano saperne di andarci a piedi. Ramiro si fece dare una tanica e venti dollari e si incamminò insieme a Jorge. Dopo cinque minuti, boxer e anfibi, li raggiunsi di corsa per avvertirli di tornare indietro: si era fermato un TIR disposto a venderci del gasolio succhiandolo direttamente dal suo serbatoio. Terminato il travaso, e previo rifornimento al distributore, arrivammo a Benjamin Aceval, distante circa cinquanta chilometri da Asunción, dove ci apposero il timbro di ingresso sul passaporto. Il timbro di uscita boliviano portava la data di due giorni prima. Per due giorni eravamo stati nel nulla. Alle porte della capitale subimmo l’ultimo controllo, il nono. Finalmente, alle dieci del mattino del quarto giorno, arrivammo ad Asunción.
Nel corso delle lunghe, interminabili chiacchierate a bordo dell’autobus avevamo scoperto che, chi per una ragione chi per un’altra, eravamo tutti diretti nella stessa direzione. Cercammo pertanto di conciliare i nostri itinerari in modo da poter continuare il viaggio insieme. Jorge si offrì di ospitarci a casa sua a Ciudad del Este. Era rimasto completamente al verde e voleva ringraziarci per aver condiviso con lui le nostre scarse provviste di cibo. Ma non penso che il suo invito fosse un semplice modo per sdebitarsi. L’ospitalità è una tradizione ancora radicata da queste parti, e per noi accettare fu un vero onore. Purtroppo Manuel non poteva permettersi deviazioni. Ci salutò a malincuore e andò ad aspettare un autobus per Buenos Aires. Da lì avrebbe valicato le Ande e sarebbe tornato nella sua Valparaíso. Cambiammo qualche dollaro in guaraníes e salimmo su un autobus in partenza per Ciudad del Este. Era un nuovo modello con aria condizionata. Il viaggio si svolgeva senza particolari motivi di interesse nella monotona pianura paraguayana, intervallata qua e là da zone paludose e da qualche rancho. Molti si addormentarono. Arrivammo a metà pomeriggio. Siccome l’autobus passava nei pressi di casa sua, Jorge chiese all’autista di lasciarci sulla strada. Fu un momento triste, ma con sfumature di alta comicità. Quattordici amici si alzarono dai sedili e vorticarono tra i passeggeri salutandosi vicendevolmente. Il tutto era ulteriormente complicato dagli ingombranti zaini, che in qualche occasione rischiarono di tramortire qualcuno. Scendemmo in quattro: Jorge, Carlos, Ramiro e io. Gli altri continuavano fino al terminal. Roberto, i suoi tre compari giapponesi e le due irlandesi proseguivano fino a Curitiba, in Brasile; i quattro ecuadoriani raggiungevano l’Uruguay passando per il Brasile, un tragitto meno costoso rispetto all’Argentina, anche se meno diretto.
Jorge da tempo non aveva più dato notizie di sé e non aveva avvertito nessuno del suo ritorno. Immaginatevi quindi la sorpresa dei suoi genitori quando lo videro comparire. La casa ad un solo piano si articolava in modo asimmetrico su due lati di un cortile, coperto in parte da una tettoia di lamiera. Al posto del garage era stato ricavato il salotto. Volendo si poteva andare dalla poltrona alla strada passando per la saracinesca. Fummo accolti magnificamente e invitati a considerarci come a casa nostra. Non ci fu bisogno di ripeterlo. Finalmente, dopo tanti giorni, facemmo pace col sapone. Sembra incredibile come a volte sia sufficiente una doccia per sentirsi rinascere. In un angolo del cortile, vicino alla staccionata, c’era una vasca per il bucato. La utilizzammo a turno per lavare i vestiti, che ormai stavano in piedi da soli. Per Carlos quella era la prima sosta dopo sette giorni ininterrotti di viaggio. Per cena la madre di José, come lo chiamavano in famiglia, cucinò un delizioso risotto e un secondo di verdure accompagnato da mandioca, un tubero biancastro conosciuto anche come yuca, che bollito assolve la funzione del pane. Nel tavolo apparecchiato all’aperto ci sistemammo noi tre ospiti, Jorge, il fratello minore e il padre. La madre e la sorella mangiarono appartate in cucina. Credo di essere stato l’unico a stupirmene.
Dopo cena uscimmo a fare quattro passi, ma ritornammo indietro quasi subito, vinti dalla stanchezza. Sistemammo quattro materassi all’aperto, sotto la tettoia. Anche Jorge preferì dormire fuori, per godersi l’aria fresca della notte. Per concludere degnamente quella giornata, in mancanza di bottiglie o altro, proposi un mate de coca, che venne acclamato all’unanimità. Durante la preparazione col fornellino da campeggio, la madre chiese incuriosita che cosa stessimo facendo.
“Mate de coca” risposi io in assoluta buona fede.
La signora ebbe un sussulto e assunse un’espressione atterrita. Immediatamente capii di averne combinata un’altra delle mie. In Paraguay le foglie di coca sono illegali. Non lo sapevo. Ero talmente abituato, ormai, che non mi ero minimamente posto il problema. Da quando ero sceso nei bassipiani non l’avevo più toccata e quasi me n’ero dimenticato. Era saltata fuori frugando nello zaino e mi era sembrata una buona idea. A noi non disse nulla, eravamo ospiti. Jorge invece si sorbì una discreta romanzina. Ma riuscì a convincerla che non era altro che un semplice tè, così se ne andò a dormire un po’ risollevata. Mi sarebbe dispiaciuto se si fosse offesa. Per Carlos tutto questo clamore era ingiustificato.
Il giorno dopo ci preparammo per la visita alle cascate. Carlos e Ramiro portavano gli zaini con loro, perché dalle cascate avrebbero deviato direttamente verso Posadas, destinazione finale per Carlos e passaggio obbligato per Ramiro. Io invece nel pomeriggio sarei tornato ad Asunción, per cui sarei passato più tardi a riprendermelo. Il nonno di Jorge ci consigliò di andare a vedere anche la diga Itaipú, che si trova lì vicino sul Río Paraná. Si tratta del più grande progetto idroelettrico del mondo, capace di produrre qualcosa come novanta miliardi di chilowatt all’anno. Il nonno ne era fiero. Per lui che aveva sempre vissuto in campagna quell’opera ciclopica rappresentava il vanto del suo Paese, il progresso della nazione. La sua immagine compariva anche sul retro delle monetine da cinquanta guaraníes. La realtà era ben diversa. Il Brasile, dopo essersi accaparrato i territori statali del Paraguay a tutto vantaggio dei suoi latifondisti del caffè, il legname pregiato tagliato illegalmente ed il petrolio, sta sfruttando ora la maggiore fonte idroelettrica del Sudamerica, fra cui le Cascate Guayra, Sete Quedas in portoghese. Al loro confronto le Cascate di Iguazú impallidivano. Insieme producono una quantità di energia che riesce a soddisfare il 25% del fabbisogno energetico del gigante Brasile e il 78% di quello del Paraguay. La quantità di ferro e di acciaio utilizzata per costruirla sarebbe sufficiente per trecentottanta torri Eiffel, e la massa di cemento è pari a quindici volte il volume del tunnel sotto la Manica. Il bacino artificiale creato dalla diga, ampio 1350 chilometri quadrati e profondo 220 metri, oltre alla perdita di terreno forestale e all’estinzione di piante endemiche fra cui rare orchidee, ha portato alla ricomparsa della zanzara anofele, dopo che la malaria era stata quasi debellata. Sono occorsi sedici anni per costruirla, per un investimento complessivo di diciotto miliardi di dollari da parte di Stati Uniti, Italia e Argentina. Quest’ultima è direttamente responsabile anche della costruzione della diga Yacyretá, nel sud del Paraguay.
Jorge ci accompagnò fino alla fermata dell’autobus per il centro. Ci salutammo e salimmo sul vecchio catorcio. Il conducente ci fece scendere davanti alla fermata dell’autobus per Foz do Igaçú, in Brasile. Pagai il biglietto anche per gli altri, perché ormai erano agli sgoccioli. Dal Ponte da Amizade, che unisce le due rive del maestoso Río Paraná, ammirai la bellezza affascinante e selvaggia dell’immenso fiume arteriale. Le sue acque cupe si riflettevano nella vegetazione rigogliosa delle sponde e delle isole. Fui distratto però da un fenomeno piuttosto curioso, definito scherzosamente dalla gente del posto el comercio de las hormigas. Una lunga fila di persone, come formiche, percorreva a piedi il ponte trasportando sulla schiena quantità spropositate di pacchi imballati con corde. E da come camminavano dovevano essere pesantissimi. Questa gente comprava ogni tipo di merce in Paraguay, dove costava meno, e la portava in Brasile per rivenderla ad un prezzo più alto. Il fenomeno si era un po’ attenuato, mi dissero, da quando il real, la moneta brasiliana, si era svalutato della metà nei confronti del dollaro. Superato il ponte entrammo in Brasile, e si vedeva. La città aveva tutto un altro aspetto, era più pulita, più moderna. Tutto, fin nei particolari più trascurabili, indicava una maggior ricchezza e prosperità. Ovviamente anche i prezzi erano rapportati al diverso tenore di vita. Prendemmo un altro autobus e, superato il Río Iguazú, ci ritrovammo in Argentina. In meno di mezz’ora avevamo varcato due frontiere. Tra il Paraguay e l’Argentina, entrambe di lingua spagnola, esiste questo piccolo cuscinetto di lingua portoghese, con splendide mulatte che appaiono e scompaiono come in un miraggio. Alla frontiera fummo costretti a fermarci. I visitatori di giornata diretti alle cascate non necessitavano di visti o permessi, ma Carlos si tratteneva in Argentina e doveva regolarizzare la sua posizione. Proseguimmo quindi, con gli stessi biglietti, su un altro autobus della stessa compagnia diretto a Puerto de Iguazú. Ci fece scendere in corrispondenza dell’ultima fermata per le cascate, che si trovava sull’altro lato della strada. Sotto la pensilina un turista di Milano attendeva l’autobus per le cascate. Dopo averle visitate dal lato brasiliano, voleva completare l’escursione da quello argentino. Facemmo cenno ad un autobus di fermarsi. Il conducente esitò un attimo, poi si fermò e aprì la portiera. Era il servizio navetta per l’Hotel Cataratas, un luccicante mostro di cemento che si trova all’interno del Parque de las Cataratas. Non avevamo certo l’aspetto dei suoi facoltosi clienti, ma l’autobus era vuoto. “Siete fortunati” ci disse il conducente sorridendo, “in questo modo non pagate l’ingresso.” Infatti all’entrata diede un colpo di clacson, salutò i bigliettai che lo ricambiarono con un gesto quasi meccanico e passò senza nemmeno fermarsi. Girò intorno alla fontana prospiciente il campo di concentramento per turisti ricchi. Siccome non c’era nessuno ci portò fino al parcheggio più vicino alle cascate. Ripartì sbracciandosi per salutarci, contento per una volta di non aver scarrozzato coppie di vecchi americani obesi in camicie hawaiane.
Seguimmo un sentiero che si inoltrava nella foresta e finalmente ce le trovammo davanti. Le Cascate di Iguazú. In dialetto guaraní I significa acqua e guazú, guaçú e guassú grande, rispettivamente in Argentina, Brasile e Paraguay. Non è tanto l’altezza, senz’altro ragguardevole, che le rende uniche al mondo, ma l’ampio fronte di quasi tre chilometri. Tonnellate di acqua spumeggiante precipitavano giù da un baratro di settanta metri, circondate da una foresta lussureggiante che si imbeveva dei suoi vapori. La vegetazione era così fitta che non riuscivo a vedere il fiume. Sembrava quasi che l’acqua scaturisse direttamente dagli alberi. Nel cielo illuminato da arcobaleni rifulgenti centinaia di avvoltoi volteggiavano in ampie spirali. Seguimmo una passerella che scavalcava alcune cascatelle minori e che in alcuni punti offriva magnifiche vedute panoramiche. Prima di raggiungere le cascate il fiume si divideva in canali con scogli nascosti, rocce e isole che separavano diversi salti d’acqua. Ci fermammo diverse volte a contemplare questa straordinaria forza della natura. Nell’immobilità della foresta quel moto incessante aveva un che d’ipnotico.
Prima di arrivare a Puerto de Iguazú, Carlos e Ramiro si fecero lasciare all’incrocio per Posadas. Da lì avrebbero proseguito in dedo. Regalai a Ramiro i pesos argentini, visto che a me non sarebbero più serviti. Il milanese, invece, scese a Foz do Igaçú e andò ad aspettare una corriera per tornare a Curitiba, dove l’aspettava una ragazza. Mentre mi trovavo sull’autobus urbano diretto a casa di Jorge, si scatenò un temporale di inaudita violenza. La terra rossa ai bordi dell’asfalto, da cui un minuto prima si alzavano ventate di polvere, divenne fango appiccicoso. Non fu facile orientarsi tra le stradine tutte uguali del barrio Ciudad Nueva, terra rossa senza asfalto. Quando finalmente trovai la casa di Jorge ero completamente fradicio. I vestiti stesi ad asciugare avevano subìto un risciacquo supplementare. Il temporale, così come era scoppiato, si placò all’improvviso e il sole trasformò ben presto l’aria in una sauna soffocante. Jorge mi accompagnò sulla strada per Asunción. Non dovetti aspettare molto. Bastò un gesto e l’autobus si fermò.
“Adiós José, gracias de todo.”
“De nada, amigo. Adiós y suerte.”
Per tutto il viaggio sbandierai i vestiti fuori dal finestrino per farli asciugare.
“Quanto costa una camera singola?”
“Diecimila guaraníes con bagno in comune” rispose il vecchio seduto dietro una scrivania da cui spuntava solo la testa, nel sottoscala di una squallida pensione nella zona del terminal di Asunción.
“Mmm, potrei prima vederla?”
“No.”
“Beh, pretende che la prenda senza nemmeno vederla?” ribattei.
“Tradizione della casa, o così o niente. A questo prezzo non troverà altro nei dintorni.”
Uscii esterrefatto, augurandogli il fallimento. Piuttosto che dargliela vinta avrei pernottato all’Hilton. Ma all’ennesimo tentativo cominciavo a temere che il vecchio avesse detto il vero. Allontanandomi sempre di più vidi l’insegna luminosa di un alojamiento molto invitante, con un bel giardino sul davanti. Aveva un aspetto troppo sciccoso, ma provai ugualmente, rassegnato al peggio. La mia testardaggine era stata premiata. Per lo stesso prezzo un signore distinto e affabile mi offrì una camera con bagno privato, acqua calda e ventilatore. L’acqua calda era perfettamente inutile, il ventilatore, al contrario, di vitale importanza.
Per cena mangiai una doppia porzione di carne alla brace, che un cuoco baffuto cucinava in mezzo al marciapiede affumicando la strada con un invitante profumo. Complice forse qualche birra di troppo mi immersi tra i miei pensieri. Realizzai di essere ormai talmente abituato al Sudamerica che ragionavo con la mente di chi ha sempre vissuto qui, dimenticando di trovarmi, invece, in situazioni e posti davvero unici. Bisogna vincere la stanchezza e l’assuefazione e assaporare ogni momento del viaggio. Altrimenti solo al ritorno ci si renderà conto veramente di dove si era.
La città appariva strana, si percepiva un senso di tensione e di sospetto. La sera prima era stato assassinato il vicepresidente Luis Argaña del Partido Colorado. Il presidente Raúl Cubas era stato costretto a dimettersi e ad andarsene in esilio in Uruguay, mentre il generale Lino Oviedo, già condannato a dieci anni di carcere per aver tramato nel 1996 contro il presidente Juan Carlos Wasmosy, era dovuto scappare su un aeroplanino in Argentina perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Tutto questo, però, lo appresi più avanti dai telegiornali. Al momento non riuscivo a spiegarmi la massiccia presenza di militari che pattugliavano le strade. Trovai una banca, ma non cambiava i travellers’ cheques. Una guardia all’ingresso mi consigliò di prendere un autobus per il centro. Era già abbastanza tardi, ma decisi ugualmente di fare un tentativo. L’autobus attraversò la capitale e finì la sua corsa in un capolinea sperduto nella periferia. Per quanto mi fossi attorcigliato gli occhi per individuare una banca, non ne avevo vista neanche una. Imprecavo contro la lentezza del mezzo e le continue fermate. Ritornai al terminal cinque minuti prima della partenza, felice di avercela fatta, ma incavolato marcio per aver sorbito il solito bambino che urlava e piangeva senza aver raggiunto alcun risultato.
Sull’autobus appurai che quello che avevo considerato un semplice vezzo personale era in realtà un’istituzione. Il secondo autista continuava a far la spola tra la cabina e un frigo portatile sistemato nella scaletta centrale per riempire una brocca di ghiaccio. Serviva per il tereré, la versione fredda del più famoso mate argentino. Mate in lingua quechua significa zucca. In origine infatti si usava una zucca essiccata per preparare la bevanda lievemente eccitante ottenuta dall’infusione della pianta che ha finito per chiamarsi yerba mate, il tè del Paraguay. Le foglie e i rametti sottili vengono tostati in appositi forni a legna e sminuzzati. A volte viene aggiunta menta, cecropia, malva o qa’a-he’e, un’erba dolce della selva, ma più spesso si trova puro. Adesso le zucche, almeno in Paraguay, non sono più utilizzate come una volta. Preferiscono usare bicchieri di legno rivestiti da un foglio d’alluminio oppure corna di bue. Si beve per mezzo della bombilla, una cannuccia metallica che ha il fondo bucherellato per filtrare i frammenti di foglie che rimangono sul fondo. Siccome il mate non è molto capiente, viene continuamente riempito d’acqua e continuamente svuotato, secondo un collaudatissimo rituale che spesso coinvolge più persone che se lo fanno girare in cerchio. Non c’era ufficio, banca, posto di polizia che non avesse l’occorrente per prepararlo. Ne consumavano una quantità spropositata. Per il resto sembrava di essere su un normalissimo autobus boliviano, preso d’assalto dagli stessi venditori e con la stessa offerta di film spazzatura.
“La barca per Bahía Negra è partita stamattina. La prossima c’è venerdì alle undici.”
Erano le sei di pomeriggio di un martedì di fine febbraio. Ringraziai l’ufficiale della capitaneria di porto e mi sedetti sul molo con le gambe penzoloni a contemplare il Río Paraguay, che scorreva immenso e placido trasportando in sospensione numerosi giacinti d’acqua. Il suo nome in lingua guaraní significa Fiume che fluisce fuori dal grande lago. Il grande lago è il Pantanal, una pianura alluvionale di duecentomila chilometri quadrati che si trova in Brasile al confine con la Bolivia. Verso sud, in direzione della corrente, un ponte dall’ardita struttura avveniristica collegava le due sponde. Il paesaggio era di una piattezza padana. Una coppia di anziani con numerosi fagotti aspettava che il barcaiolo li trasportasse sull’altra riva con la sua barca a remi. Sulla banchina due operai impilavano dei mattoni, canticchiando e fumando sigarette dall’odore terribile. Più in là alcuni cani si inseguivano abbaiando rumorosamente. Il caldo era soffocante. Non avevo voglia di tornare ad Asunción, c’era troppa tensione. Mi rassegnai a passare altri due giorni a Concepción. Passeggiai per la zona che reputai fosse il centro. Era una città dannatamente morta. Pochi negozi, poca gente. Sapeva di stantio. Fuori dal centro le strade disposte a scacchiera non erano asfaltate e ai lati scorrevano dei canaletti che raccoglievano i reflui delle piccole casette di legno. In mezzo a queste vere e proprie fogne a cielo aperto sguazzavano galline e anatre. Nel complesso, comunque, era una città pulita, se paragonata alle altre. Tornai un po’ perplesso in albergo, di fronte alla stazione degli autobus, e cercai conforto in un lomito relleno, un arrosto ripieno che a dispetto del diminutivo era enorme. Non riuscii a finirlo, forse perché nell’attesa mi ero scolato un litro e mezzo d’aranciata. Le zanzare non mi davano tregua. Almeno, credo che fossero zanzare la causa di quei fastidiosi pruriti seguiti da improvvisi gonfiori sulla pelle. Di notte per fortuna mi lasciarono in pace. La temperatura della stanza, nonostante il ventilatore, era così elevata da scoraggiare anche le più affamate.
“Ma dove cavolo sono capitato?” pensai con un pizzico d’apprensione, dopo aver visto i dipendenti di una banca completamente disorientati davanti ad un travellers’ cheque. “Cheque de viajero, vedete: cento dollari americani, dinero, plata, moneda. ¿Cambio…?” Niente. Reagivano come se gli avessi mostrato un manoscritto in sanscrito. Avevo già trovato due banche chiuse e da quella non avrei ricavato nulla. Considerate le dimensioni della città cominciavo seriamente a valutare l’eventualità di rimanere a secco. Mi incamminai verso il porto. Se già il centro aveva un aspetto desolato la zona fluviale era addirittura spettrale. Su un edificio come tanti, con le finestre chiuse da pesanti inferriate, una targa d’ottone attirò la mia attenzione. C’era scritto Banco de la Nación Argentina. Entrai. Avete presente le banche che si vedono nei film western, un bancone di legno con tre sportelli protetti da sbarre di ferro e dietro i classici banchieri occhialuti con coprimaniche nere fino al gomito? In un angolo c’era perfino la cassaforte borchiata, di quelle che i banditi si divertivano a far saltare con la dinamite. Ad occhio e croce non sembrava che andassero oltre il deposito di pepite e polvere d’oro. Invece dopo controlli e passacarte, documenti e fotocopie, accettarono di cambiarmi quei misteriosi biglietti colorati, che non erano dollari anche se ne recavano la dicitura. Per sicurezza ne cambiai due, tre quarti in dollari e il resto in guaraníes. Una volta cambiati i soldi, l’elenco delle cose da fare era già bello che esaurito. Intanto che c’ero andai al porto. Lo trovai immerso nella consueta immobilità. Mi confermarono che la barca sarebbe partita venerdì. C’era qualcosa di strano nella parlata della gente. Come cadenza assomigliava al portoghese. Ma la cosa più buffa era l’accento. Sembrava di sentire un genovese parlare in spagnolo.
“Sapete dove posso trovare un computer?”
“Hai provato all’alcaldía?” mi suggerì un giornalista di un quotidiano locale.
Il municipio, certo, non ci avevo pensato. Dopo molti “Non so”, “Provi di qua” e “Provi di là” trovai un impiegato disponibile ad occuparsi del mio caso un po’ anomalo. Ma ormai era mezzogiorno. Mi consigliò di tornare nel pomeriggio, nel frattempo avrebbe chiesto a chi di competenza. Nei diversi Paesi del mondo usi e costumi possono essere i più disparati, ma una sola cosa li accomuna tutti: gli uffici pubblici. Di fianco all’alcaldía si trovava la prefettura. Provai a chiedere informazione sul timbro di uscita. Anche lì dovetti aspettare, ma l’ambiente era decisamente diverso. Pullulava di militari che sopportavano a malapena la presenza di un civile, figurarsi di uno straniero. Cercavo di stemperare la tensione dispensando sorrisi ebeti. Alla fine un militare graduato mi comunicò che in Paraguay esistevano solo due uffici della migración: uno ad Asunción e l’altro a Pedro Juan Caballero. “Comunque l’avverto che siamo in stato d’emergenza.” Cercai questa città sulla mappa. Si trova ad est di Concepción, sul confine col Brasile. Al di là della frontiera c’è Ponta Porã. Da lì si poteva raggiungere Campo Grande e quindi in autobus o in treno arrivare a Corumbá. Corumbá sorge sulla sponda destra del Río Paraguay, nello Stato del Mato Grosso do Sul, pertanto o via fiume o via terra ci sarei dovuto passare in ogni modo per tornare in Bolivia. Ma ormai mi ero intestardito ad andarci in barca. Il viaggio a terra era pieno di incognite, almeno la barca sarebbe partita venerdì, claro. Dopo un po’ d’anticamera fui ammesso al cospetto della mega segretaria generale galattica. Nell’ufficio l’aria condizionata era spinta a livelli tali, che appena varcata la soglia rischiai di stramazzare sul parquet colto da una sincope fulminante. La pesante porta rivestita di cuoio venne immediatamente chiusa, ma per un attimo mi sembrò di vedere un ciclone tropicale che si stava formando a causa dello sbalzo di temperatura. La segretaria generale era pomposamente seduta dietro una massiccia scrivania di legno scuro e stava colloquiando con due persone, probabilmente ingegneri a giudicare dal tenore degli argomenti trattati. In un angolo un tizio stava sbottonando la tastiera di un computer. Un altro non meglio qualificato non faceva altro che mescere del tereré e offrirlo ai presenti. Sprofondai in una comoda poltrona di pelle osservando compiaciuto quel quadretto. Sapevo di non avere molte chances, ma non ero preoccupato per quello. Superato lo shock iniziale, mi stavo abituato alla frescura condizionata. Fuori c’erano sicuramente quindici gradi in più. Speravo che le cose andassero per le lunghe. Purtroppo il tizio del computer riferì alla segretaria generale che non riusciva a connettersi con Asunción. Col tono di chi è abituato a dare notizie nefaste si scusò dell’inconveniente e mi congedò seduta stante. Mi alzai a malincuore e salutai tutti i presenti, ringraziando rispettosamente. Feci un ultimo, profondo respiro di aria fresca e uscii fuori nella calura dei non privilegiati.
Tornai al porto per cercare di risolvere la misteriosa questione del timbro. Un marinaio mi indirizzò alla farmacia Iberia, che svolgeva ufficiosamente le funzioni, non meglio specificate, di ‘consolato europeo’. Non avevo idea di che cosa significasse. E neppure il farmacista, che mi dirottò al consolato brasiliano, quello ufficiale stavolta. Un cartello avvertiva esplicitamente che gli uffici erano chiusi. Suonai. Niente. Risuonai. La porta si aprì e si affacciò una signora bionda, coi chiari sintomi e l’umore di chi era stato appena svegliato. Mi spiegò che il consolato si occupava principalmente dei rapporti commerciali tra i due Paesi e che in ogni caso il Brasile aveva chiuso le frontiere col Paraguay per via della crisi istituzionale di quei giorni. “Non so se te ne sei accorto, ma siamo in stato di emergenza.” Non sapeva assolutamente dove apponessero il timbro, ma sapeva esattamente dove potevo mettermelo. Splendido, mi trovavo in una città assurda del Paese più instabile del Sudamerica, in pieno colpo di Stato, mentre le nazioni vicine chiudevano i loro confini. Eppure la vita scorreva normalmente, per quanto potesse essere normale la vita lì. Il problema a questo punto non era tanto dove procurarsi il timbro di uscita, ma se riuscivo ad uscire.
Mi inventai qualunque cosa pur di far passare quell’interminabile giornata. Andai in centro in cerca dell’ufficio postale. Mi dissero che si trovava più o meno dov’ero prima. Cominciai a pensare che la zona del porto fosse in realtà il fulcro della città. Le due impiegate erano alquanto ciarliere e soffrivano terribilmente l’isolamento in quell’ufficio deserto e decentrato. Ero il primo straniero dopo mesi e mi attaccarono una pezza clamorosa. Mi raccontarono per filo e per segno la storia della città, senza tralasciare i pettegolezzi su gente mai vista né conosciuta. Uscii frastornato. Tornai in centro e gironzolai tra i banchi del mercato, il più misero e squallido fra tutti quelli che avevo visto in quei mesi. Comprai un paio di ciabatte infradito di plastica nere, molto in voga tra i locali. Non ne potevo più degli anfibi. In previsione delle lunghe giornate d’ozio che mi aspettavano sulla barca comprai anche due mate e due pacchetti di yerba. In albergo scrissi una lettera, succhiando un tereré via l’altro. Non ebbi neanche la soddisfazione di farmi una doccia fredda, perché c’era così caldo che l’acqua fredda in realtà era tiepida.
La mattina dopo presi un autobus diretto a Pedro Juan Caballero. La questione del timbro era passata in secondo piano. In realtà non avrei sopportato un’altra giornata nella sonnolenta Concepción, immersa senza prospettive in un caldo tropicale. L’aggettivo è appropriato: Concepción sorge esattamente sulla linea del tropico del Capricorno.
L’ufficio della migración era piuttosto lontano dalla stazione degli autobus e le ciabatte infradito mi martoriavano i piedi. Preferii camminare scalzo. Ci volle tutta la mia capacità per far capire all’impiegata che mi occorreva il timbro di uscita, ma che non sarei uscito da Pedro Juan Caballero, bensì da Bahía Negra. Quando ebbe chiara la situazione mi disse: “Sei fortunato, proprio oggi hanno riaperto le frontiere. Non so se te ne eri accorto, ma…”
“Eravamo in stato d’emergenza” aggiunsi io.
“Eh, già, capita. Ma adesso è stato revocato. Comunque il timbro, qui, non te lo posso fare. Ma non preoccuparti, lo faranno sicuramente a Bahía Negra o a Corumbá.”
Preoccupato io? Nooo. Stavo solo vivendo in diretta un banalissimo tentativo di golpe, le frontiere venivano chiuse e aperte a piacimento, nessuno sapeva mai niente, faceva un caldo maiale e le ciabatte mi tagliavano le dita. Chiedendo un po’ in giro venni a sapere che in città c’era un’emittente radio che disponeva di un computer collegato ad internet. Ci arrivai a tentoni, seguendo le indicazioni della gente.
“¿Computadora? No, non l’abbiamo mai avuta.”
“Grazie, scusi il disturbo.”
Non ero più abituato alla puntualità, sicché la partenza in perfetto orario dell’autobus della flota Rápido Caaguazú mi trovò impreparato. Dopo quattro ore di viaggio arrivai a Concepción. Trascorsi l’ultima, soffocante notte in preda a pessimistici pensieri.
Solamente due imbarcazioni collegavano con regolarità gli sperduti insediamenti a nord di Concepción risalendo il corso del Río Paraguay. Una di queste era la Carmen Leticia, una specie di chiatta dal fondo piatto lunga una quindicina di metri. La prua era adibita al carico delle merci. A circa un terzo della sua lunghezza due scalette esterne portavano al piano superiore, dove si trovavano la postazione di pilotaggio, sei cabine con quattro cuccette ciascuna, due per l’equipaggio e quattro per i passeggeri, e la sala di poppa. Al piano inferiore c’era un unico ambiente destinato a cambusa e a cucina. Quella mattina il porto era percorso da un’insolita agitazione. La partenza di una barca era un avvenimento che risvegliava la città dalla sua cronica sonnolenza e attirava frotte di curiosi che osservavano con fare esperto le operazioni preliminari. Decine di facchini caricavano a bordo le merci più disparate. Tra le bombole, le casse e i bidoni ammassati a prua riuscirono a sistemare anche una motocicletta e un trattore agricolo. Un marinaio mi indicò la biglietteria. Era uno stanzone ammuffito con una quantità spropositata di oggetti accatastati disordinatamente ovunque ci fosse un piano d’appoggio, non necessariamente orizzontale. Aveva più l’aspetto di un magazzino e forse lo era davvero. Ma era anche l’unico posto che si salvava dalla confusione che imperversava all’esterno. Non era il mio primo viaggio su una barca. Avevo già navigato nelle acque tranquille dello Ionio per raggiungere la Grecia, nel gelido Mar Baltico tra Stoccolma e Turku e nel burrascoso Atlantico tra Le Havre e Rosslare. Ma quelli erano traghetti mastodontici dotati di tutte le comodità e le traversate non duravano più di un giorno. Non avevo invece la minima esperienza di navigazione fluviale.
“Quando arriva a Bahía Negra?” domandai al giovane bigliettaio.
“Lunedì mattina.”
“Mmm, tre giorni e tre notti” pensai un po’ demoralizzato. “Quanto costa un letto in cabina?”
“Cinquantaduemila guaraníes.”
Più o meno trentamila lire. “Va bene allora, un letto in cabina.”
“¿Con comida?”
Prima di arrivare in porto mi ero fermato in una tienda a comprare qualcosa da mangiare. Pensavo che il viaggio durasse meno, ma me lo sarei fatto bastare. “No, senza.”
Salii la stretta e ripida scaletta di legno e lasciai lo zaino in cabina. Nella sala di poppa qualcuno aveva già sistemato delle amache. E il solito bambino, che non poteva mai mancare, si divertiva a dondolarcisi sopra. E figuriamoci se non strillava e non piangeva. Pian piano la barca si riempiva di merci e di passeggeri, col consueto seguito di sacchi, scatoloni e altri bambini. Arrivarono anche i miei due compagni di cabina. Vuota mi era sembrata piccola. In tre, più i bagagli, era proprio claustrofobica. Due oblò segati direttamente nella fiancata di legno facevano passare solo un filo di luce e di aria. Finalmente, con solo due ore e mezza di ritardo, la barca si staccò dal molo, fece un’ampia manovra e iniziò a risalire il fiume controcorrente. Il pilota di turno suonò la sirena per salutare quelli che erano rimasti a terra, che ricambiarono il saluto sbracciandosi. Il brutto della navigazione su fiume è che la barca deve seguirne le anse e quindi, anche se in teoria navigando di pomeriggio verso nord il lato destro doveva restare in ombra, il continuo cambio di direzione lo esponeva alternativamente al sole. Il caldo era insopportabile e ognuno faceva del suo meglio per non pensarci. Passai il pomeriggio di fianco alla cabina di pilotaggio. L’aria non circolava. Sembrava di essere fermi. Dopo un po’ smisi di guardare l’orologio, tanto le lancette non giravano, e cominciai a regolarmi seguendo la parabola del sole. Il borbottio del motore era disturbato dalla voce sommessa di qualcuno a poppa e dalla radiolina gracchiante del marinaio che, accasciato su una sedia, reggeva il timone con i piedi. Soffici nuvole bianche si specchiavano nell’acqua calma del fiume, dando l’illusione di galleggiare in cielo. Solo qualche timida collinetta si stagliava ogni tanto sul verde orizzonte piatto. Gli aironi volavano via infastiditi dal nostro passaggio. La giornata terminò con un tramonto indimenticabile. Nell’estremo azzurro del crepuscolo il cielo si infiammò di rosso e altrettanto rapidamente scomparve nell’orizzonte, portando i suoi colori accesi nel ventre tenebroso della giungla. Non pensai neanche per un attimo a dormire in cabina, sarebbe stata una cottura a fuoco lento. Presi il materassino e la salvietta da usare come cuscino e mi arrampicai sul tetto di lamiera. Era leggermente bombato verso i lati e privo di qualsiasi protezione. Mi avvertirono che c’era il rischio concreto di rotolare in acqua. Amen. Mi sdraiai assaporando l’aria profumata della notte. Una bandiera paraguayana un po’ sdrucita sventolava attaccata all’antenna della radio. Una miriade di luci sfavillavano nella volta celeste. Chissà quanti occhi affascinati stavano contemplando il cielo in quel preciso istante. Se il nirvana è fondersi nell’universo, unirsi in simbiosi con l’essenza più profonda della natura, quella notte ci andai molto vicino. Poi spuntò la luna, quasi piena, ad illuminare la scena. Udivo il grido cadenzato delle garzette, lo stridere delle cicale, il gemito timido di qualche animale, il sospiro dei canneti e la voce sempre più nitida del fiume. Ma soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla Terra stessa. La giornata dell’uomo era finita, ma cominciava la vita frenetica degli spiriti della foresta. Verso le dieci e mezza mi coprii con la salvietta. A mezzanotte sentivo decisamente freddo. Non era nemmeno immaginabile dopo il calore insopportabile del giorno. Andai in cabina a prendere il piumino. Alle cinque scesi giù definitivamente.
Durante la notte molta gente era scesa e altra era salita. Per queste fermate intermedie ricorrevano ad una veloce lancia con motore fuoribordo. La barca proseguiva mentre la lancia portava i passeggeri a riva. Il tutto in movimento, senza fermarsi. I miei compagni di cabina mi invitarono a bere “un” tereré. Io ci misi la yerba, loro diverse brocche di acqua con ghiaccio. Agustín era il proprietario del trattore. Lo stava portando a Boquerón per consegnarlo ad un acquirente. L’altro si chiamava Felipe e andava a Bahía Negra per comprare due o tre quintali di pesce da rivendere al mercato di Concepción. Il viaggio trascorreva nella monotonia più totale. Incontrammo diversi villaggi: Puerto Pinasco, Puerto Casado, Puerto Valle Mí, Puerto Sastre. Ma del porto avevano ben poco. Sulla riva ricoperta di vegetazione si allungava un pontile, solitamente a due piani per le diverse dimensioni delle barche. Qualcuno in trepidante attesa prendeva in consegna le merci e, quando c’era, anche la posta. I villaggi però non si vedevano, perché sorgevano più all’interno. A fine giornata avevo bevuto quasi tre litri di tereré. Mi sentivo gonfio e leggermente agitato. In cambusa una signora che trasportava casse di frutta e verdura ammortizzava il costo del viaggio vendendo da mangiare. Comprai un panino al formaggio e quattro banane. Non ci fu verso di farmene dare una in più per lo stesso prezzo. Presi una grossa carota dalla cassa e le chiesi quanto costasse.
“Perché solo una?”
“Perché non ho soldi.”
“Mille guaraníes.” Come quattro banane. La mandai a quel paese.
Più tardi mi trovavo ancora lì, in attesa che si liberasse la doccia.
“L’hai messa giù?” mi domandò.
“Eh? Cosa?”
“La carota, l’hai messa giù?” mi chiese arcigna.
L’acqua fresca del fiume placò i miei bollenti spiriti. Presi il sacco a pelo e mi issai sul tetto a meditare su quanto odiassi il Paraguay.
“Dove sei diretto?” mi chiese un marinaio, che era venuto a fare due chiacchiere prima di cominciare il suo turno al timone.
“A Bahía Negra. Sai se poi c’è una barca per Corumbá?”
“Bah, credo di sì. Ma non ti preoccupare, quando arriviamo ti aiuto a cercarla.”
Il monotono rumore della barca zittiva al suo passaggio gli inquietanti richiami della giungla.
“Adesso vedrai perché si vive bene in Paraguay” mi disse improvvisamente, saltando giù tutto emozionato. Al tramonto due marinai armati di fucile erano partiti con la lancia verso il labirinto di isole e di canali coperti di canneti. Adesso stavano tornando. Al buio non riuscivo a vedere un granché, ma sentivo dei commenti soddisfatti. Poco dopo salì il marinaio. “Hanno preso un carpincho, domani ce lo mangiamo.”
Il carpincho, meglio conosciuto come capibara, è il più grosso roditore vivente e può raggiungere i cinquanta chili di peso. Sono sempre stato contrario alla caccia come passatempo, come puro gusto di impallinare, ma non quando si uccide per fame. Stranamente non vedevo nessuno che pescava. Credo proprio che non ne potessero più di pesce.
“Guarda” mi disse indicando la riva destra. Scrutai nell’oscurità. Non c’era neanche la luce di un rancho isolato, niente, solo alberi. Mi voltai interrogativo verso di lui. Il suo sguardo era perso nell’immensità della notte. “Brasile.” Rimanemmo a lungo in silenzio a guardare davanti a noi. Quella via d’acqua scorreva tranquilla tra due rive identiche. In realtà separava due Stati, con lingue e monete diverse. Mi sembrava tutto così assurdo.
Le notti su un fiume tropicale sono estremamente umide, oltre che fredde. Al crepuscolo una leggera nebbiolina sfumava il paesaggio. Balzai giù dal tetto con l’agilità di un gatto di piombo e stesi il sacco a pelo sulla balaustra di prua, per farlo asciugare all’aria già calda del mattino. La disposizione delle merci era cambiata nuovamente. Notai immediatamente la presenza di tre nuovi passeggeri. Non ci voleva molto: uno era alto più di due metri, l’altro almeno uno e novanta e la ragazza albina un buon uno e ottanta. Se ne stavano seduti sul trattore mezzi addormentati, scaldandosi le mani con una tazza di tè bollente. Erano saliti di notte a Porto Murtinho, sulla sponda brasiliana. Lo spilungone si chiamava Jürgen e veniva da Monaco di Baviera. Era appena diventato avvocato ed era partito per l’anno sabbatico prima di intraprendere la professione. “Beh, non è proprio un anno, ma solo sei mesi” precisò con tono sommesso. Ma non capivo se lo angustiava l’aver avuto solo sei mesi o l’imminente rientro in Germania. Era partito ad ottobre e ormai il suo viaggio volgeva al termine. Aveva trascorso due mesi a Quito in Ecuador per frequentare un corso di spagnolo. Poi era andato in autobus fino a Santiago del Cile e da lì era volato a Rio de Janeiro, dove aveva conosciuto i due connazionali. Hans, come aspetto, era il più mediterraneo dei tre, anche se viveva più a nord degli altri, ad Amburgo per la precisione. Era un viaggiatore instancabile e nel corso delle sue peregrinazioni aveva conosciuto l’Africa misteriosa e l’oriente mistico. Ma non aveva perso il tipico carattere chiuso ed introverso dei tedeschi. Aveva attraversato tutto il Centramerica, dal Guatemala a Panamá, poi era volato a Rio per incontrare Carola, la sua fidanzata. Si erano conosciuti l’anno prima a Berlino. All’epoca lei studiava pubbliche relazioni, mentre lui lavorava in uno dei numerosi cantieri della nuova capitale tedesca. Carola aveva appena terminato gli studi. Sapeva parlare perfettamente inglese e francese e aveva deciso di raggiungere Hans per imparare un po’ di portoghese e di spagnolo, ma con scarsi risultati. I buoni propositi della partenza erano andati a farsi friggere e ora pensava solo a riposarsi e a divertirsi. “Non dovrei prendere il sole, perché mi ustiono. Ma ho una buona scorta di crema protettiva, fattore di protezione tuta da sub… e poi chissenefrega, sono in vacanza.” Girava in costume da bagno e jeans tagliati, risvegliando l’attenzione di marinai e di passeggeri annoiati.
Nel primo pomeriggio arrivammo a Puerto Olimpo, il villaggio più importante a nord di Concepción. Ma come succede spesso, il fatto che una località sia segnata sulle mappe non significa necessariamente che si tratti di una città degna di questo nome. Puerto Olimpo era un ammasso di baracche di fango coi tetti di lamiera infestato dalle zanzare. Nel porticciolo c’era il solito viavai di persone che attendevano le preziose merci trasportate sulla barca. Non tutti abitavano nel villaggio. Dopo aver percorso disagevoli piste che si inoltravano nella boscaglia sarebbero tornati nei loro ranchos isolati. Le operazioni andavano per le lunghe. Dopo due giorni sull’acqua tornai a posare i piedi sulla terraferma.
“Ehi gringo, vieni a giocare con noi?” mi urlò un marinaio, che, pallone sottobraccio, si stava avviando coi colleghi verso uno spiazzo sabbioso. Ai lati due misere porte di tronchi di palma resistevano imperterrite ad ogni più logica previsione. Credo che nessuno li avesse avvisati che la temperatura era da infarto.
Mi costò fatica e sudore anche rispondergli: “No grazie, non voglio morire.”
“Eeeh, cosa vuoi che sia? E’ due giorni che stiamo chiusi in quella scatola di sardine.”
In pochi minuti, grazie all’apporto di elementi locali, venne raggiunto il numero di giocatori sufficiente per le dimensioni del campo. Le due squadre, una con maglietta e l’altra a torso nudo per riconoscersi in mezzo alla polvere, si scambiavano pallonate ed urla divertite. Carola non aveva capito una parola, ma aveva ben afferrato la situazione. Ci guardammo increduli e scoppiammo a ridere. Ci sedemmo all’ombra di un chioschetto che vendeva bibite fresche. In realtà era una casa privata. Il proprietario aveva affisso alle pareti di legno alcuni cartelli arrugginiti della Coca-Cola e di qualche marca di birra sconosciuta. L’orario di apertura al pubblico coincideva con l’arrivo e la partenza delle barche. Un veloce passaparola ci avvertì che stavamo per salpare. Raggiungemmo Hans e Jürgen, che erano rimasti sulla riva a fotografare le manovre di carico e scarico.
“Dove posso trovare del ghiaccio?” chiesi ad un marinaio.
“Vai lì, nella ghiacciaia che sta a prua.”
“Quant’è?”
Ci pensò su un attimo, poi rispose: “Niente, dai.”
Tirai su il coperchio e per poco non mi prese un colpo. Tra i blocchi di ghiaccio avevano messo il capibara già scuoiato e macellato. Staccai alcuni pezzi di ghiaccio dalla parte meno sanguinolenta e tornai dai miei compagni di cabina. A bordo erano finite le scorte d’acqua, così non ci restò altro da fare che usare quella del fiume, di un bel colore marroncino. Avevo troppa sete e non mi formalizzai più di tanto. Restammo seduti all’ombra del trattore a bere svariati litri di tereré, finché Agustín non scese a terra. Al suo posto rimase un insolito vuoto. E così si ridussero i già pochi posti dove poter sfuggire al sole implacabile. La cambusa era impraticabile. Salvo lo spazio adibito a cucina e quello occupato dalle amache penzolanti sopra una catasta di sacchi, di casse e di bidoni, non c’era un centimetro libero. C’erano solo due angusti passaggi laterali per andare in fondo, dove si trovavano il bagno, la sala macchine e la scala che portava alla sala di poppa. Quest’ultima era calda e affollata. Il mio posto preferito restava la panca situata a lato della cabina di pilotaggio. Purtroppo i posti in ombra erano già stati occupati da tre ragazze salite a Puerto Olimpo. Mi sedetti al sole, ma tutto sommato era il posto più esterno e beneficiava di una leggera brezza.
“Hola che, ¿de dónde eres?” mi domandò una delle tre.
Mi aveva chiamato che! E’ un’esclamazione di origine guaraní, molto ricorrente nei Paesi del bacino del Río de la Plata. Ernesto Guevara, che trascorse l’infanzia nella regione di Misiones, venne soprannominato Che proprio perché aveva l’abitudine di intercalarla di frequente nelle sue parole, suscitando la curiosità dei suoi compagni guatemaltechi prima e dei cubani poi. Mi sentii pervadere da un fremito. Per l’ennesima volta verificavo di persona situazioni che prima conoscevo solo attraverso i libri. Si chiamava María ed era veramente carina. Stava ritornando a Bahía Negra con le cugine, dopo aver trascorso il fine settimana a casa di un parente. Mi sommerse con una valanga di domande. Mentre mi ascoltava mi guardava con ingenua malizia femminile e mi sorrideva in una maniera così innocente che non lasciava scampo. L’intreccio di sguardi e sorrisi stava diventando pericoloso, così cercai un diversivo.
“Sapete se a Bahía Negra c’è una barca per Corumbá?”
“Sì, non c’è problema. Anche mio padre ne ha una. Se vuoi quando arriviamo provo a chiederglielo.”
Scesi giù dai tedeschi. “Sentite, abbiamo parlato di tutto, ma non vi ho chiesto un particolare fondamentale: dove siete diretti?”
“A Santa Cruz, in Bolivia” rispose Jürgen.
“Ottimo, anch’io vado lì. Possiamo affittare una barca insieme. Ho già chiesto in giro e non dovrebbero esserci problemi.”
“Così dividiamo le spese” intervenne Carola, visibilmente arrossata in viso, “speriamo solo di non dover aspettare troppo.”
“Speriamo.” Li lasciai sonnecchiare tra le casse accatastate a prua.
Dopo la doccia serale mangiai un’autentica cena con Felipe e coi soldi contati comprammo due birre a testa.
“Domani ritorna l’ora solare” mi disse svuotando la lattina e buttandola nel fiume, gesto ripetuto con noncuranza da tutti sulla barca, “ricordati di mettere l’orologio indietro di un’ora.”
Tanto, ora più ora meno, non faceva alcuna differenza.
“Sveglia, stiamo arrivando” mi disse un marinaio.
Mi guardai intorno in coma. Era buio. L’orologio segnava le quattro e mezza. Mi scocciò enormemente interrompere quel sonno saporito, nell’ora più fresca e propizia dell’intera giornata. Per lo meno grazie alla mia posizione elevata ero stato l’ultimo ad essere svegliato. Tutti erano già pronti in fila sulle scale coi loro bagagli, smaniosi di sbarcare. “Ma che fretta c’è a quest’ora?” pensai. I tedeschi mi guardavano dal ponte di prua efficienti come da tradizione. Non c’era nessun pontile. La Carmen Leticia accostò alla riva destra del río e venne assicurata con due robuste funi a terra. I marinai, indaffaratissimi, smontarono una parte di murata del ponte di prua e sistemarono una passerella. I passeggeri carichi di bagagli guadagnarono terra con qualche difficoltà. Sulla riva c’erano i soliti cumuli di merci che aspettavano di essere imbarcati, qualche passeggero e due militari della caserma che si trovava giusto di fronte, l’unico edificio intonacato ed illuminato del villaggio. Felipe mi salutò e si allontanò con alcuni pescatori. Gli altri passeggeri si sparpagliarono per le stradine buie.
Il marinero mantenne la sua promessa e ci fece parlare con un militare che conosceva. Poi ci salutò e tornò con gli altri a scaricare la barca. Il militare rispose alla nostra richiesta con un’espressione di meraviglia e di stupore. Si allontanò un attimo per parlare con un superiore. Reagì alla stessa maniera.
“Ragazzi, la vedo male” sospirai.
Il militare tornò da noi e con una delicatezza insospettabile ci informò che, per quanto ne sapesse lui, non c’erano imbarcazioni dirette a Corumbá. Maledizione. Perché tutti ci avevano assicurato che le barche c’erano, quando invece non era assolutamente vero? Considerata la situazione, ci permisero di sistemarci in un’ala abbandonata della caserma, dove un tempo erano alloggiate le docce, gli spogliatoi e l’infermeria.
Jürgen tornò fuori per chiedere informazioni alla gente del posto che ancora bazzicava attorno alla barca. Hans e Carola, invece, rimasero in caserma a “sistemare le cose”, il che equivaleva a dire che riprendevano a dormire. Allora non sembravano molto preoccupati. Quando cominciò ad albeggiare decisi di verificare di persona se veramente non c’era nemmeno un’imbarcazione in un villaggio collegato al resto del mondo solo via fiume. Vicino alla piazza vidi un paio di barchette ormeggiate alla riva. Una era sfondata e nuotava tristemente nell’acqua limacciosa. Le canne l’avevano quasi interamente ricoperta, creando una sorta di grosso vaso da fiori da cui spuntava un’astratta composizione palustre. L’altra era una lancha di circa cinque metri, la Paraguanita. Probabilmente l’avevano lasciata lì i primi gesuiti che esplorarono queste regioni tre secoli fa. In mezzo alla ruggine resisteva ancora qualche macchia di vernice, in cui si potevano riconoscere i diversi strati di colore accumulati negli anni. Era un miracolo che galleggiasse ancora. Sentii dei rumori provenire dall’interno.
“Hola, c’è nessuno?” gridai.
Dalla sala macchine spuntò un uomo in tuta da meccanico. Era ricoperto di grasso e di fuliggine dalla testa ai piedi. Salì le scalette, lasciò cadere rumorosamente alcuni attrezzi sul ponte di legno e si pulì le mani e il collo con una straccio lurido. Si chiamava Manolo, era il proprietario.
“Buon giorno, sto cercando una barca per andare a Corumbá. Siamo in quattro.”
“Puta, fino a Corumbá non ci arrivo… Ma vi posso portare a Morrinho. Sììì, poi basta salire sul ponte e aspettare un autobus. Questa barca è vecchiotta e controcorrente fa sette, al massimo otto chilometri all’ora. Per arrivare a Morrinho ci vorranno, vediamo… circa venti ore. Però adesso che ci penso non posso navigare col buio, perché si è rotto il faro. Be’, ci vorrà un po’ di più.”
“Nient’altro?” pensai. “E quanto costerebbe?”
“Duecento dollari.”
“Duecento dollari?!!” Mi cadde la mandibola.
“Beh, dovete pagarmi anche il ritorno ovviamente. Comunque adesso non va. Spero di riuscire a ripararla per domani.”
“Seeh, seeh, ho capito, grazie.”
“De nada” e si calò nuovamente.
“Trovato nulla?” mi chiese Jürgen.
“Ci sarebbe una barca che per duecento dollari ci porta a Morrinho.”
“E dove diavolo è?”
“Il barcaiolo mi ha detto che sta circa a metà strada tra qui e Corumbá. Da lì, poi, dovrebbe esserci un autobus.”
“Per duecento dollari gliela compro!”
“Se la vedessi gliene daresti sicuramente meno.”
“Io invece sono riuscito a convincere un campesino a portarmi nella missione dove lavora, su un affluente del fiume, più a valle. Mi ha detto che ci vive un americano che fa la guida e che possiede un motoscafo.”
“Speriamo bene, buona fortuna.”
La Carmen Leticia diede due colpi di sirena e salpò per far ritorno a Concepción. Andai a riva a salutare i marinai. Divenne sempre più piccina, finché non scomparve dietro un’ansa del fiume. La prossima barca sarebbe arrivata non prima di quattro giorni.
Nella stanza regnava già l’anarchia più assoluta. Hans e Carola ne avevano approfittato per svuotare gli zaini. C’era roba stesa ad asciugare, vestiti appesi ovunque, stuoie, materassini e sacchi a pelo sparsi per terra. Incrementai ulteriormente la confusione e mi dedicai a tutto ciò che normalmente non avevo tempo o voglia di fare. La barba, ad esempio. Impiegai una quantità di tempo spropositata, neanche mi fossi tagliato i peli uno ad uno. Adottammo i nostri ritmi all’immobilità del luogo. L’unica cosa che non mancava, lì, era il tempo.
“Volete un mate?” domandai agli altri, ancora sdraiati ma ben svegli.
“Ma sì, dai.” Non ne andavano matti, ma era pur sempre un diversivo.
Jürgen tornò con pessime notizie: “La guida non c’era. E secondo me non c’è mai stata.”
Bahía Negra era veramente un buco di posto, in più quel giorno era anche la festa per l’anniversario della Guerra della Triplice Alleanza. Che cosa c’era da festeggiare, poi, che quella guerra l’avevano persa? I paraguayani vivono ancora l’eredità di questa guerra di sterminio, determinata dalla furia di Argentina, Brasile e Uruguay che, per consolidare l’oligarchia imperante, vollero farla finita con quel Paese autarchico che rifiutava di inginocchiarsi davanti ai mercanti inglesi. Fino al 1865 il Paraguay era stata l’unica nazione dell’America Latina che il capitale straniero non fosse riuscito a conquistare, l’unica che monopolizzasse il commercio con l’estero e l’unica che non avesse alcun debito. I vincitori, rovinati dagli altissimi costi della guerra, accentuarono la loro dipendenza dall’Inghilterra. Il Paraguay, sconfitto, scivolò nel baratro della miseria e non si rialzò mai più.
Il sole ci martellava coi suoi raggi roventi. In giro non c’era nessuno. Dovevamo ricevere ragguagli dal comandante. Ma arrivò a bordo di un fuoristrada nero lucente coi vetri oscurati e se ne andò via subito.
“Secondo te quanti chilometri ha percorso, eh Jürgen?”
“Bah, dipende quanto dista da qui casa sua.”
Ad un tratto mi ricordai di María. Mi aveva detto che suo padre aveva una barca. Ottima scusa per rivederla. Non mi fu difficile scoprire dove abitava, lì tutti si conoscevano. La sua casa era una delle ultime del villaggio, dall’altra parte rispetto alla piazza. Era costruita interamente in legno, sopra una bassa impalcatura che la isolava da terra per proteggerla dalle alluvioni. All’interno dello steccato crescevano palme, banani e buganvillee. Mi accolse la madre, un donnone corpulento di quelle che sembrano nate col grembiule addosso. “Mio marito è fuori a pescare, ma rientra in serata. Quando lo vedo glielo dico, stai tranquillo.” María purtroppo non c’era, era andata dalla cugina.
Nessuno sapeva quanto distasse Morrinho, né quanto tempo ci volesse per arrivarci. Nessuno sapeva nulla di nulla. Il caporale non riusciva nemmeno a trovare una mappa della zona, in una caserma di frontiera! Andammo in una tienda vicino alla piazza. I nostri guaraníes cominciavano a scarseggiare. Facemmo una colletta e comprammo una gazzosa da due litri. La prosciugammo in tre secondi. Ormai tutti sapevano chi eravamo e non attiravamo più la curiosità che di solito viene riservata ai forestieri nei piccoli abitati, nonostante i crucchi avessero un aspetto, come dire, esotico. Il caldo era opprimente. In caserma mi preparai un mate de coca. Era una tecnica che avevo appreso nel deserto del Marocco: quando c’è caldo, non c’è niente di meglio di un tè bollente per abbassare la temperatura corporea. All’una sembrava di essere al cimitero. Il più sfigato era il piantone di turno, che doveva vigilare il cancello d’ingresso. Non si poteva mai sapere: qualche potenza straniera poteva invadere il Paraguay cominciando proprio da Bahía Negra. Divisa sbottonata, fucile modello Guerra del Chaco, tereré. Era molto giovane, una delle tante reclute svogliate ed annoiate costrette a sprecare un anno della propria vita in quel posto di frontiera da dove non passava nessuno. Pensai a Jorge e alla sua vita sotto le armi. Per molta gente l’esercito è l’unico modo per guadagnarsi da vivere. Ma se si annullassero tutte le spese militari non ci sarebbe più la fame nel mondo. Solo che le classi dirigenti perderebbero i loro troni dorati. ‘Chi desidera la pace prepari la guerra’ diceva il poeta latino Vegezio. Eh sì, la guerra è stata, è e sempre sarà un affare. Di pochi.
Hans e Carola si accasciarono nuovamente sul pavimento. Jürgen si sdraiò sul lettino dell’infermeria, con le gambe penzoloni. Io ero in fibrillazione. Gli effetti del mate nei bassipiani sono senza dubbio più elettrizzanti che in alta quota. In quel silenzio irreale pensavo di impazzire. Mi feci una doccia fredda, lavai i vestiti, li stesi sul filo che annodai al tubo di una grondaia e alle sbarre della finestra, srotolai la tenda e la ripiegai meglio, sistemai lo zaino e provai a leggere. Mi avventurai perfino dentro la caserma deserta, passando dalla porta interna, ma desistetti quasi subito per timore di chissà quali conseguenze.
“Ma no, è impossibile. Il pescatore è andato a Concepción e stasera sicuramente non torna. L’ho visto partire due giorni fa e non credo proprio che farà ritorno prima di giovedì.” Il pescatore in questione era il padre di María. Credo che l’espressione dei nostri volti fu molto eloquente, perché il caporale si affrettò ad aggiungere: “Potete provare a chiedere a Guillermo, so che possiede una barca.”
“E dove sta?” gli domandammo quasi in coro.
“Dopo la piazza prendete la seconda a destra. La sua casa è quella bianca, l’ultima vicino al fiume.”
“Ragazzi, ormai per oggi non si parte” commentò Jürgen, dando voce ai nostri pensieri.
“Non so voi, ma io ha fame” intervenni io. “Ci sarà un posto che faccia da mangiare?”
Jürgen era d’accordo.
“Noi non abbiamo soldi. Se ci presti il fornellino e la gavetta ci cuciniamo qualcosa in stanza” mi chiese Hans.
Il caporale ci spiegò come raggiungere la casa di Mamá Rosa. Stava giusto vicino a quella di Guillermo.
“Va bene, facciamo così allora. Noi andiamo prima da Guillermo, poi ci fermiamo da Mamá Rosa. Quando torniamo vi raccontiamo cosa abbiamo scoperto.”
La casa di Guillermo si trovava dall’altra parte del villaggio. Ci arrivammo in cinque minuti. C’era tutta la famiglia fuori in giardino a godersi il tramonto, spaparanzati sulle amache e sulle sedie a dondolo di giunco. Guillermo era un vecchio molto minuto e rinsecchito. Per l’ennesima volta spiegammo la nostra situazione.
“Mi dispiace, ma ormai mi limito ad uscire qui attorno. Non ce la farei proprio ad arrivare fino a Morrinho” ci rispose. “E poi mi servirebbero i documenti della barca, e quelli non ce li ho mai avuti. Mi dispiace.” Si scusò tante di quelle volte, che quasi ci rincresceva di averglielo chiesto.
La casa di Mamá Rosa era tappezzata di immagini sacre. Gli interni in legno, spartani ma immacolati, ci misero subito a nostro agio. Ovunque si notava la mano protettiva e un po’ tradizionalista della madre di famiglia. Su un armadio, ben visibile da tutte le angolazioni, un piccolo televisore a colori era sintonizzato sulla milionesima puntata di una telenovela. Vicino all’ingresso c’era un tavolo piuttosto lungo ricoperto con una tovaglia di plastica a fiori, che poteva ospitare comodamente dodici commensali. Di fianco, accanto al frigorifero di casa, c’era uno di quei frigoriferi orizzontali che si vedono nei bar, con alcune scritte adesive oramai saltate via. Gli immancabili cartelli pubblicitari di bibite e di birre delimitavano l’area destinata ai clienti. Un vero e proprio localino nel salotto di casa.
“Abbiamo solo dollari.”
“No hay problema. Volete mangiare?”
“Sì” rispondemmo quasi supplicando.
“Accomodatevi. E da bere?”
“Birra?” mi domandò Jürgen. Annuii. “Birra.”
Mentre la figlia ci portava le birre, Mamá Rosa sparì dietro una tenda fatta di lunghe file di perline multicolori. Ricomparve più tardi con due piatti di riso con pollo e verdure, che sparirono in un attimo. Tornati ad una condizione di fame normale ordinammo un secondo giro di riso e di birra, che gustammo con più calma. Certo, il pollo non era all’altezza del Romaní di Marina de Pals in Catalogna, ma si faceva mangiare. Pagammo in dollari e ci diede il resto in guaraníes.
Eravamo di buon umore. Con la pancia piena e la luna sopra di noi per un momento ci dimenticammo di essere intrappolati in quel villaggio. Le nostre ciarle echeggiavano allegre tra le viuzze deserte. Hans e Carola ci aspettavano fuori dalla caserma.
“Ragazzi, non possiamo dormire qui.”
“Perché?”
“Leggi militari: siamo civili e anche stranieri. Non possiamo pernottare in una struttura militare.”
“Ah! Volevamo dirvi che Guillermo non ci può portare a Morrinho, ma a questo punto è un problema secondario.”
Raccogliemmo le nostre cose. Hans aveva già attaccato la zanzariera al soffitto. Si mise a smontarla imprecando in tedesco. Le parole non le capivo, ma il tono valeva più di una traduzione.
“Ah, a proposito” mi disse Carola, “è finita la bomboletta di gas.”
Fuori ci aspettava il comandante. Era ansioso di conoscerci. Non passavano molti turisti da quelle parti, avremmo fornito argomento di conversazione per settimane. Era un pezzo di marcantonio baffuto, con la divisa ineccepibile, il ventre prominente e un grosso pistolone che gli pendeva su un fianco. Aveva lo sguardo di chi si mangiava le reclute per colazione, ma a noi riservò un trattamento molto cordiale. Si scusò in maniera quasi ufficiale di non poterci ospitare, “sapete, il regolamento!” Poi iniziò a discorrere amabilmente del più e del meno, come se ci fossimo conosciuti per caso in un bar. Quando seppe che ero italiano esclamò: “Rayos, ma davvero? Mio nonno veniva da un paesino vicino a Firenze. Mi chiamo Mighelanhelo de la Lohia.”
“Michelangelo della Loggia” lo corressi io.
“Sì, è vero, mi ricordo ancora quando mi chiamava così.” Il comandante e tutti i suoi sottoposti provarono a ripetere quel nome dalla pronuncia così strana, quasi contenti per averne finalmente scoperto la giusta dizione. “Voi invece siete alemanes?” esclamò compiaciuto rivolgendosi agli altri. “Da giovane, quando ero marinaio, sono stato un mucchio di volte in Germania, la conosco bene. Mi è piaciuta molto Amburgo, specialmente San Pauli” e sottolineò il suo apprezzamento con una sonora risata, prontamente raccolta da Hans. Anni prima c’ero stato anch’io nel quartiere a luci rosse di San Pauli e capii subito a cosa alludesse il comandante. Gli altri militari, invece, ridevano per pura obbedienza gerarchica. “Ho girato i porti di mezza Europa: Portogallo, Spagna, Francia, Germania e Inghilterra; sono stato in Africa e in Asia. Poi mi sono sposato e sono rimasto in Paraguay. E adesso comando questo presidio militare fuori dal mondo. Ma non mi lamento. Diamine, siamo soldati! Mi è stato riferito che state cercando un’imbarcazione per raggiungere Corumbá. Non preoccupatevi, che prima o poi un mezzo salterà fuori. Purtroppo ora la situazione è questa. Ma trent’anni fa Bahía Negra aveva quindicimila abitanti e un fiorente commercio di tronco di palma. Esisteva un servizio permanente di traghetti da mille posti tra Asunción a Corumbá. Roba di classe, costruita in Europa, con gente elegante e feste a bordo. Poi nel 1974 un’alluvione ha spazzato via la strada che portava in Bolivia. E negli anni seguenti il commercio della palma è crollato. La gente ha cominciato ad emigrare e adesso ci sono solo milleseicento abitanti e questa caserma. Nessuno più taglia le palme. I campi che circondavano la città sono stati inghiottiti dalla foresta e gli animali selvatici si stanno avvicinando. Il mese scorso un tigre ha assalito un ragazzo di sedici anni. E’ pericoloso girare nella selva senza un’arma.”
Per una volta, almeno, assistevo ad un fenomeno in controtendenza. La natura si stava riprendendo dagli attacchi dell’uomo, che altrove aveva definitivamente annientato.
“Per stanotte vi posso indicare qualche famiglia che può ospitarvi.”
Avevamo deciso di dormire all’aperto. Lo ringraziammo, salutammo tutti e ci avviammo verso il fiume. Hans e Carola individuarono un albero a cui appendere la zanzariera. Io e Jürgen montammo la tenda, senza la copertura esterna. Faceva talmente caldo che avrei preferito dormire sotto le stelle, ma le zanzare mi avrebbero spolpato vivo. Col telo inutilizzato avvolgemmo gli zaini per preservarli dall’umidità della notte. Hans e Carola se ne servirono per tenere la zanzariera ben aderente al terreno ed impedire in questo modo ai fastidiosi insetti di intrufolarsi sotto. Io e Jürgen cercammo di stabilire il record mondiale di apertura, ingresso e chiusura della tenda. Alla luce della torcia eliminammo gli indesiderati ospiti che erano riusciti ad introdursi di soppiatto. Ormai sigillati, pensavamo di essere al sicuro. Invece fu una notte soffocante, senza un refolo d’aria, assediati da milioni di zanzare che ci pungevano dal di fuori ogni volta che tenevamo la pelle a contatto con la tela.
Dormii poco e male. Mi ero rigirato in continuazione, col terrore che quella notte non finisse mai. Quando l’alba cominciò ad arrossare il cielo dietro il placido fiume, scavalcai Jürgen ed uscii fuori. Erano le sei del mattino, il momento migliore di tutta la giornata. L’aria fresca portava il rumore dell’acqua e il respiro della foresta. Ero completamente rintronato dalla notte insonne. Mi guardai intorno. Era passato un giorno da quando eravamo sbarcati a Bahía Negra. Qualche passante mattutino ci osservava incuriosito proseguendo per la sua strada. Ai tropici l’alba e il tramonto durano pochissimo. Il sole non era ancora spuntato, che era già giorno fatto e la temperatura riprendeva inesorabilmente a salire. Anche gli altri uscirono dal loro bozzolo protettivo. Dalle loro facce intuii che non ero il solo ad aver dormito male. Ci aspettava un’altra giornata carica di speranze e di incognite.
“Buon giorno, dormito bene?” Era María, quasi irriconoscibile nella divisa della scuola. Venne verso di noi saltellando nell’erba alta. “Trovato nulla?”
“No” le risposi squinternato.
“Ieri mi sono sbagliata, vi ho detto che mio padre tornava in serata. Invece dovrebbe tornare questa stasera, perché è andato a Valle Mí. Mia mamma vi ha preparato la colazione, passate quando volete.”
L’ultima speranza di andarsene da lì, a questo punto, sembrava riposta nella Paraguanita di Manolo. Gli altri ancora non l’avevano vista. Lasciammo gli zaini in caserma e seguimmo la strada che costeggiava il fiume.
“E’ quasi pronta, ancora qualche sistematina qua e là e potrà salpare quando vorrete.”
Non so se li colpì di più la barca o il barcaiolo. Nel complesso, comunque, non furono ben impressionati. Ritornammo indietro sconsolati. Passammo davanti all’ufficio telefonico. Era già aperto.
“Faccio una chiamata, aspettatemi che poi andiamo insieme a casa di María.”
“Va bene, ma sbrigati che abbiamo fretta” rispose Jürgen strizzandomi l’occhio.
Dietro un massiccio bancone il centralinista armeggiava con gli spinotti per collegare le chiamate e dirottarle nelle due cabine situate in un angolo della sala. Su un tavolo di legno era appoggiato un telegrafo stile western. Ma non so se funzionasse o se stesse lì per bellezza.
“Buon giorno, quanto costa telefonare in Italia?”
Il centralinista consultò un pesante registro, facendo scorrere il dito sulle pagine ingiallite. “Cinquemila guaraníes al minuto.”
“Caspita!” pensai… “Va be’, posso telefonare?”
Mi consegnò un modulo da compilare coi miei dati e il numero da contattare. Glielo restituii e cominciò a comporre il numero. Dopo cinque minuti mi avvertì di entrare nella cabina numero uno. Sul display appariva la durata della conversazione. Uscii dalla cabina e mi avvicinai al bancone.
“Dunque, sono ventimila guaraníes.”
“Eeeeeh! Ma se mi ha appena detto che costa cinquemila al minuto. Io ho parlato solo un minuto!” risposi alterato.
“Sì, però ci sono le tasse.”
“Ah sì? Poteva dirmelo anche più tardi.”
“Non posso farci nulla, è così.” Silenzio. “Che fa, non paga?”
Ero inferocito. “No che non pago!”
“Senta, non ho voglia di discutere. Vorrà dire che ce li metterò io di tasca mia.”
E lo disse con un tono che mi fece uscire proprio dai gangheri. “Ma cosa vuol dire «ce li metterò io»? Avevamo concordato cinquemila guaraníes e adesso io pago cinquemila guaraníes, non uno di più e non uno di meno.”
“Va bene, va bene, allora siamo a posto così” e si riprese il modulo sul quale aveva segnato l’importo usuraio.
Uscii infuriato e andai a raggiungere gli altri, col proposito di tornare più tardi per chiarire la questione. Tanto da lì non potevo scappare, e lui lo sapeva. La madre di María ci accolse calorosamente, ma si scusò per non aver potuto preparare niente: “Stamattina mi sono accorta che non avevo nulla in casa; poi è finita anche la bombola del gas. Adesso sto aspettando mia sorella, che è andata da un amico di suo marito per vedere se gliene può prestare una. Ormai dovrebbe essere qui. Io non posso proprio muovermi con questi niños” disse riferendosi ai due bambini nerissimi, sporchi e casinisti. Ci guardammo tra di noi. In quel maledetto villaggio uno diceva una cosa e un altro, prontamente, lo smentiva. Controllavamo che nei dintorni non ci fossero delle telecamere nascoste che ci filmassero a nostra insaputa. Una sorta di Candid Camera gigante ed elaborata. Purtroppo era tutto reale, succedeva davvero.
Andammo nella tienda vicino alla piazza. Quando passammo davanti all’ufficio telefonico accelerai il passo. Ci sedemmo ad un tavolino sotto il portico di legno ingrigito. Comprai un litro di succo d’arancia freddo di frigorifero e me lo scolai in due sorsate, rischiando d’affogare. Gli altri cercarono di tamponare la fame e la sete con latte e biscotti. Ma sììì, in fondo eravamo tutti sulla stessa barca… Mal comune mezzo gaudio… Ma chi diavolo li avrà inventati questi proverbi?
“A che cosa stai pensando?” mi chiese Carola.
“Ma davvero Nietzsche si pronuncia Nice?”
“Sì, ma… perché?”
“No, niente, è strano. Sai com’è, in italiano Nice si pronuncerebbe Nietzsche.”
Discutemmo di filosofia, anche se non era per niente facile in inglese. Ma in fondo che importava. Non era certo una disquisizione accademica.
“Scusate se vi interrompo” saltò su Jürgen esaltato, “ma la signora dice che oggi dovrebbe arrivare sua nipote a bordo di un aeroplanino. Chissà, forse riusciamo a rimediare un passaggio per qualche parte.”
Dunque Bahía Negra era raggiungibile anche dal cielo. Ovviamente, nessuno ce l’aveva detto. La nipote della signora della tienda era infermiera e spesso viaggiava a bordo di aerei privati per prestare le sue cure alle persone malate.
“Ogni volta che parte le commissiono qualche acquisto. Sapete, qui i rifornimenti sono scarsi e manca sempre qualcosa.”
Jürgen si fece spiegare dove fosse l’aeroporto e partì in avanscoperta. Tornò quasi subito. “L’aeroporto è proprio qui dietro. Completamente deserto. Ho chiesto ad un tipo che puliva se per oggi erano previsti degli atterraggi e mi ha risposto, testuali parole: «¿Quién sabe?» Ma non vuol dire niente, non disperiamo. Ah, a proposito” disse rivolgendosi a me, “sono passato davanti all’ufficio dei telefoni ed è uscito fuori un tale, incazzato nero perché non hai pagato la telefonata… non ho capito bene.”
Gli spiegai tutta la faccenda. Alla fine si offrì di farmi da mediatore. Non c’era fretta, ci sarei andato più tardi, con calma. Ma insisteva. La mentalità tedesca aveva preso il sopravvento e considerava il mio ritardo altamente disdicevole. Il tipico italiano… L’intervento di Jürgen fu prezioso, perché senza di lui sarebbe finita come prima. Pagai solo il costo effettivo della telefonata, intascai la ricevuta e ce ne andammo. Tornammo alla tienda e restammo con gli altri in trepidante attesa, cercando di ingannare il tempo raccontando aneddoti di viaggio e mostrando i passaporti, che scatenarono le solite, infantili risate per le facce sulle fotografie. Il passaporto di Hans non aveva più pagine libere e avevano dovuto utilizzare gli spazi rimasti. Lo sfogliai con una punta d’invidia, soffermandomi a fantasticare sui timbri di Paesi lontani. Ovviamente loro non capivano il motivo delle marche da bollo sul mio passaporto. A dir la verità non lo capivo nemmeno io. Mi scolai un altro litro di succo d’arancia freddo. Improvvisamente il tono delle nostre voci cominciò a calare. Sentivamo come un sibilo nell’aria, ma seguitavamo a parlare. Non volevamo abbandonarci a patetiche suggestioni. Però, inconsciamente, l’attenzione si era spostata dai nostri racconti a quel suono che si stava definendo, amplificato dalle nostre speranze.
“E’ l’aereo!” gridò Carola.
Non eravamo ancora sicuri. Come seguendo le regole di un gioco, restammo in silenzio con l’orecchio teso e lo sguardo perso dall’altra parte. Non c’erano più dubbi, era proprio il rombo di un aereo che si stava avvicinando. Scatenammo tutto il nostro entusiasmo in un urlo liberatorio. Jürgen si precipitò all’aeroporto. Non ne potevamo più, ci sembrava di essere bloccati lì da un’eternità. Ma tornò poco dopo facendoci tornare bruscamente alla realtà. “Dunque, ci sono giusto quattro posti, ma forse sono occupati. Ce lo sapranno dire fra un’oretta se sono disponibili o meno. Prima devono chiedere ad alcuni conoscenti. Comunque sono duecento dollari fino a Miranda, in Brasile. Poi da lì si può prendere un autobus o il treno per Corumbá.”
Già, il treno. Lo stesso che potevo prendere da Pedro Juan Caballero cambiando a Campo Grande… Tornammo in caserma a prendere gli zaini e li portammo alla tienda, che avevamo eletto a sala d’aspetto. Se ci fosse andata male avremmo ripiegato sulla Paraguanita. I minuti passavano come ore. Ormai conoscevo a memoria le marche di tutte le scatole e dei barattoli allineati con cura sugli scaffali. La signora, dopo essersi segnata per l’arrivo incolume della nipote, ci raccontò di quella volta che era dovuta andare al funerale di un parente, morto incornato da un toro. Era la prima volta in vita sua che prendeva un aereo. “E sarà anche l’ultima” disse segnandosi nuovamente, non so se in memoria del parente morto o per lo scampato pericolo.
“Beh, noi andiamo in aeroporto” disse Jürgen, seguito da un Hans alquanto rivitalizzato.
“Mi raccomando, solo roba di classe o niente” gli urlai mentre si allontanavano. “Carola, hanno alzato il dito medio, cosa vorrà dire?”
Non mi sentiva nemmeno. Rimase un bel pezzo a fissare il fiume, senza dire una parola. I due si presentarono dopo un po’ con le facce che toccavano terra. “Non c’è l’aereo.” Carola scoppiò a piangere dalla disperazione. Io scossi la testa, sempre più convinto di odiare il Paraguay. “Scherzone! L’aereo parte a mezzogiorno e ci sono quattro posti tutti per noi!!” Per un attimo fu il finimondo. Ci abbracciammo, urlando come matti, col risultato che mi buscai una spallata di Jürgen in pieno zigomo. Maledetto spilungone. Felici e commossi, io nel senso della commozione maxillo-facciale, andammo a salutare Manolo, che stava ancora trafficando nelle interiora della sua barca.
“Addio Manolo, prendiamo l’aereo.”
“Ah, ¡qué lindo! La barca non va. Non riesco proprio a capire che cos’abbia, l’ho già ricontrollata due volte eppure mi sembra che sia tutto in ordine. Sarà quel maledetto magnete. Ma non c’è problema, domani partirà, claaro. Adiós y suerte.”
Per un istante ci venne l’istinto di lapidarlo. Salutammo anche la signora della tienda, ci caricammo gli zaini in spalla e andammo all’aeroporto. Si trovava in fondo ad una viuzza affiancata da casette di legno. L’ingresso un po’ pretenzioso era formato da due muri di autentici mattoni, sormontati da un architrave di cemento dipinto di bianco su cui era scritto Aeropuerto. Varcato un cancello girevole, senza il cancello, ci trovammo di fronte ad un lungo prato, transennato per impedire alle mucche di banchettare con l’invitante erbetta. Un palo da cui pendeva una manica a vento floscia, una piccola costruzione bianca e un’autobotte di benzina completavano il tutto. Sull’architrave, dal lato interno, spiccava la scritta Bahía Negra Bienvenidos. Non c’era nessuno. Appoggiammo gli zaini sotto un albero e aspettammo. Arrivò un tizio giovanile vestito in modo elegante, con un’espressione perennemente contenta. Era lui che aveva affittato l’aereo. E’ vero, l’aereo. Dove diavolo era ‘sto benedetto aereo? La pista era desolatamente vuota. Ci spiegò che un paio di persone, come noi, avevano colto l’occasione per farsi portare lì vicino. “Non capita tutti i giorni di avere un aereo a disposizione. Speravo proprio in qualche passaggio extra per diminuire il costo del noleggio, altrimenti non ce l’avrei fatta. Purtroppo l’aereo mi serviva assolutamente.” Non finì di parlare che lo sentimmo avvicinarsi. Pochi minuti dopo assistemmo all’atterraggio di un Piper. Quando lo vidi mi venne male. Non avevo dimenticato il volo di Nasca. Andò incontro al pilota, confabularono tra di loro e si allontanarono.
“Partiamo a mezzogiorno, ok?” ci disse, enfatizzando la frase col pollice alzato, gesto che in Paraguay impazzava.
“Non si preoccupi, noi da qui non ci muoviamo” gli risposi, ricambiando il gesto.
Fissai sconcertato quella specie di automobile con le ali. “Ragazzi, io su quel coso sto male.”
“Ma dai, non ne hai mai preso uno?” obiettò Hans.
“E’ proprio perché ci sono già salito che ve lo sto dicendo. Pazienza, io qui non ci resto. Sicuro.”
Riuscimmo ad incastrare gli zaini nel retro, ma incombevano pesantemente sull’ultima fila, dove eravamo seduti io e Carola. Nel mezzo stavano Jürgen e Hans. Davanti il pilota e il tipo sorridente. Eravamo stracarichi. Feci presente la mia non proprio spiccata propensione per il volo. Il pilota cercò dentro il cassettino e tirò fuori una busta di plastica che avrebbe potuto contenere al massimo due pacchetti di sigarette. Lo fecero passare dietro. Nessuno commentò, ma tutti speravano che non la dovessi usare. Il Piper rullò sulla pista e, vibrando e sobbalzando freneticamente, si staccò da terra. Non riuscirò mai ad abituarmi a questi trabiccoli volanti, sembra che debbano precipitare da un momento all’altro. Il fatto è che vanno dannatamente piano e prendono dei continui vuoti d’aria. Sotto di noi il Pantanal si estendeva all’infinito, sconfinato tappeto verde punteggiato di stagni che riflettevano le nuvole del cielo. Numerosi canali dal percorso tortuoso disegnavano strane figure arzigogolate. Era uno spettacolo da lasciare senza fiato. Ma anche l’aereo non scherzava, ogni sbalzo di quota mi aumentava la nausea. Mal di testa, sudori freddi, respiro affannoso. Chiusi gli occhi e sperai di atterrare il più presto possibile. Andammo avanti così per quarantacinque, interminabili minuti.
Atterrammo su una striscia di terra larga quanto le ali. Appena misi giù i piedi inondai la pista di Miranda di succo d’arancia. Non avevo nemmeno la forza di pensare al disastro che avrei combinato se fosse successo solo un minuto prima. Il tipo elegante si sbellicava dalle risate, il pilota un po’ meno. A pochi passi dalla pista c’era una macchina che lo aspettava, con tutta la famiglia a bordo. Fu lieto di darci un passaggio fino alla stazione degli autobus. Jürgen mi vide in evidente difficoltà motoria e portò anche il mio zaino fino alla macchina: una Fiat Uno, molto comune in Brasile e in Paraguay. Riuscimmo ad entrare tutti: marito, moglie, tre bambini, io e i tre nibelunghi, oltre ai nostri zaini. La moglie conversava tranquillamente, come se viaggiare in quelle condizioni fosse una cosa di tutti i giorni. I bambini, nelle loro postazioni elevate, trasformarono quella situazione in un nuovo e divertente gioco. Arrivammo alla fermata degli autobus piuttosto rattrappiti. Il tipo ci cambiò i guaraníes avanzati e qualche dollaro, un’altra delle sue tante occupazioni. Ci salutò con l’immancabile sorriso, salì in macchina e ripartì.
Il viaggio proseguí per un altro mese tra Bolivia, Cile e Perú. Ma questa è un’altra storia.